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    Ma i giovani sperimentano vie di senso?


    Incontro con una seconda liceo

    (NPG 1986-05-11)


    Una seconda di un grande liceo classico romano. Una di quelle classi di cui i professori dicono: bravi ragazzi, abbastanza impegnati, certo non brillano, ma matureranno. E si ha alle volte la sensazione che non cresceranno» più, che quel non brillare sia la loro identità vera; come se la loro misura fosse proprio quella «sufficienza» che tanto amano e inseguono.

    UNA CLASSE «NORMALE»

    Sono la loro insegnante di religione da tre anni e con loro ho discusso il tema della «crisi del senso» o forse meglio del «senso e della sua crisi» volendo verificare nel concreto le discussioni fatte in redazione NPG, mettere a confronto le linee di pensiero emerse con il sentire di un gruppo di giovani come ce ne sono tanti: ragazzi che studiano, che fanno un po' di sport, che vanno al cinema il sabato pomeriggio; vestiti come le finanze dei genitori permettono, senza tentazioni di Timberland o di stranezze varie. Ragazzi di famiglia, che aiutano un po' in casa, bisticciano con i fratelli, vorrebbero magari poter tornare a casa più tardi la sera, ma non si sentono anormali» se stanno a casa per l'ora di cena. Sembrano appartenere ad un mondo normale, intessuto di quotidiano, in cui accade tutto quello che la vita comporta senza particolari drammi o esaltazioni. Ho scelto proprio questa classe per la sua normalità»: forse il dialogo sarebbe sta to più originale con qualche punk, qualche metallaro, qualche serissimo giovane politicamente impegnato o qualcuno di quelli che, magari perché nati in ambienti ricchi culturalmente, a sedici anni hanno già letto un buon numero di classici e fanno dotte citazioni durante il collettivo di classe.
    Forse la mia seconda liceo di «normali» poteva dirmi qualcosa sui «tutti», su quei giovani che, sfuggendo alle classificazioni più eclatanti, sembra che non esistano mai. Per cinque lezioni siamo andati avanti a discutere il tema. La prima difficoltà è stata spiegare loro il tema stesso, e questo è già un dato significativo: il tema del senso così come è stato pensato dalla redazione era assolutamente lontano dalla loro riflessione abituale. Per loro il tema rappresentava, soprattutto per la sua determinazione univoca e astratta, una categoria nuova, tutta da imparare.
    Una volta scomposto il tema del senso in sotto-temi più comprensibili (valori, direzione, progetto), la riflessione è diventata più disinvolta; i ragazzi hanno potuto capirsi di più rispetto al tema, sono riusciti a collocare meglio i loro pensieri in queste categorie più semplici o semplificate.
    Solo in un secondo momento, quindi, dopo averne ricostruito il significato, siamo riusciti a parlare del censo e della sua crisi. Abbiamo scritto sulla lavagna parole o Crasi con cui ciascuno potesse esprimere con immediatezza che cosa intendeva per «senso». Sono risultate queste interpretazioni: uno scopo per la vita e un mezzo per raggiungerlo; le gioie e i dolori della vita quotidiana; mettere in pratica ideali sociali; essere coerenti con se stessi; qualcosa di piccolo che ci faccia sentire importanti; coraggio di vivere; continuare a vivere nonostante tutto; essere contenti di quello che si fa; ideali etico-politici; realizzare uno dopo l'altro i progetti della vita; farsi coinvolgere dai grandi eventi della società; impegnarsi nella vita personale e quotidiana.
    Il denominatore comune sembra essere una certa tensione etica, mai disgiunta dalla propria personalità o dal proprio piccolo progetto. Questa tensione etica, tuttavia, sembra essere nutrita più di «buon senso» che non di scelte o di ideali; quasi un generico voler essere buoni, con la riserva mentale che il mondo non lo permetterà. Nel complesso, poi, manca sostanzialmente la dimensione del desiderio, del sogno, di una progettazione alternativa di sé e della realtà. Tutto quello che hanno espresso può essere pensato e realizzato con gli elementi che oggi hanno a disposizione, e non sembrano desiderare di andare oltre. Incredibilmente equilibrati e lontani da sentimenti di crisi esistenziale.
    Ognuno ha avuto poi la possibilità di cancellare quelle espressioni nelle quali non si ritrovava affatto e che riteneva inconsistenti o inadeguate. Solo una ragazza, la più tormentata e riflessiva della classe, ha voluto cancellare qualcosa, e ha cancellato tutte le espressioni che si rifacevano al quotidiano e al personale come orizzonte unico ed esaustivo. «Così morirei d'asfissia!», ha poi giustificato il suo intervento. Gli altri, dopo aver pensato un po' ed essersi scambiata qualche spiegazione, non hanno trovato nulla da cancellare: tutti si ritrovavano più o meno nelle affermazioni dei compagni. Effettivamente, le loro espressioni sono state tanto generiche, in fondo, che sarebbe stato ben difficile distinguerle in qualche modo. Specificare oltre è stato impossibile.

    LA CRISI

    La riflessione sulla crisi, sulla sua constatazione e sulla sua natura, era stato il motivo dominante della redazione. Ci si era chiesto se l'analisi avrebbe interpretato in modo adeguato la situazione della condizione giovanile.
    Nel dialogo con i ragazzi certo non è emersa la categoria della «crisi», o almeno non era dominante. I ragazzi erano refrattari ad una lettura univoca della situazione e soprattutto ad una lettura complessivamente negativa. Non che descrivessero un vissuto particolarmente positivo o carico di speranze, tutt'altro: la difficoltà di vivere in una società violenta e competitiva, lo spettro della disoccupazione... «se non si conosce qualcuno», i rapporti affettivi che non si sa come vanno a finire. l'università che può essere interessante, ma anche l'impressione di una laurea che serve a poco. Emergevano quindi elementi che si potevano interpretare attraverso la categoria della crisi; ma non è, almeno non prevalentemente, propria di questi ragazzi.
    Tutti ugualmente attenti non tanto al quotidiano, ma alla realtà, alla vita così com'è; assolutamente disincantati e pronti ad affrontare «la battaglia» dura e difficile, senza fare appello alcuno alle ottiche generali di cui diffidano. Forse amerebbero una utopia, un desiderio per sé e per il mondo, un'ottica globale con cui poter leggere il tutto; ma queste «visioni» vengono avvertite come belle e inutili: la realtà non è lì, e da lì non la si può raggiungere. Realisti e disincantati. Il loro parlare della vita è sembrato una grande narrazione della conclamata «crisi di senso», nei termini realistici della «vita che è così».
    La differenza non sta soltanto nel linguaggio, nel salto di generazione, o in una loro eventuale mancanza di interiorità.
    Nei loro racconti, a tratti, si intravvedevano quadri familiari, ritratti di padri e di madri. Quei pochi che sono stati educati in famiglie cristiane, guardano con gratitudine al tentativo che i genitori hanno fatto di trasmettere loro la fede cristiana, quasi come ad un ultimo sforzo per attrezzarli per la vita: ma in questa eredità, che pure non si sentono di abbandonare del tutto, non trovano certamente quel «senso» che generalmente essa comportava né, tantomeno, sembrano stupiti. Non avevano aspettative in proposito. Una ragazza che partecipa da sempre alla vita parrocchiale e dice di essere e voler essere cristiana, quando si è trattato di dire la sua espressione sul senso, ha detto: «essere coerenti con se stessi», riducendo il suo ideale a termini analoghi a quelli usati dai suoi compagni.
    Un altro dato è importante sottolineare: l'attenzione massima a rilevare la diversità di ognuno, il diritto fondamentale ad essere come si è, quasi a spegnere ogni conflitto possibile nella accettazione delle diversità personali. Anche quella ragazza che, unica, si contrapponeva sui contenuti, ha sempre detto: «Per me è così, però non so...». Tolleranza? Parlando con loro, ascoltandoli, torna in mente l'arcipelago della condizione giovanile, un arcipelago di isole autarchiche, non interessate a giocarsi a fondo nella comunicazione.
    Il «culto» del personale, almeno a 17 anni, nasconde forse una gran paura dei conflitti e una certa povertà di energie vitali da giocarsi insieme ad altri. Paradossalmente, mentre non si ritrovavano nell'unica immagine della crisi di senso, l'hanno raccontata.

    IL SENSO

    Circa il problema del senso (una questione per loro strettamente personale) emergeva una sorta di ricerca, di desiderio, seppure confuso e approssimato.
    Tuttavia, la ricerca delle ragioni del proprio vivere, la ricerca di una mappa su cui orientarsi per cercare una rotta nella vita, esiste e provoca dolore e sgomento. Esiste la consapevolezza, magari non tematizzata o forse presa in prestito dagli adulti, che le ragioni della vita non sono più, e tantomeno tutte insieme, nelle loro «sedi storiche»: la Fede, la Cultura, la Politica, la Morale.
    Queste non vengono svalutate di per sé, ma certamente sono inattingibili per la fondazione della propria esistenza personale. Quasi a motivare questa situazione, parlano degli adulti così come li «sentono» loro, che raccontano di sensi non trovati, di disillusioni, di ripiegamenti, di serenità trovata, e non in molti casi, nei ritagli della vita affettiva e familiare, in piccoli spazi di vita. Questi ragazzi sono nati tra il 1968 e il 1969: forse questo non è un dato trascurabile. Nei loro discorsi (sono poi i loro pensieri?) utopia viene associata spesso a P38 e droga. Erano bambini durante gli anni di piombo. Le manifestazioni, l'impegno politico, il terrorismo, l'eroina, la polizia, tutto questo nella loro testa è mescolato, non distinto né storicamente né su piano dei valori. Quelli del '68 sono «quelli che volevano cambiare il mondo». E sembra proprio che loro il mondo non lo vogliano cambiare affatto; sarebbero più soddisfatti se il «loro» mondo funzionasse un po' meglio. Nella buona volontà di essere artigiani della propria vita c'è, però, in qualche modo il grande vuoto delle indicazioni di fondo. Il «senso» è quasi una speranza nascosta, di cui hanno un po' paura, un po' pudore, un po' vergogna; un orizzonte vago e lontano che vorrebbero mantenere. Esso, però, non lega in nessun modo i loro pensieri, i loro desideri alla prassi e neanche alla progettazione della vita. Decidono, scelgono, di volta in volta, senza per questo sentirsi sradicati e disorientati.
    Per quelli che in qualche modo si ritrovano a dirsi credenti, l'esperienza di senso è senz'altro associata a quella religiosa, ma sullo sfondo, come orizzonte ultimo; il quotidiano non ha se non deboli e rari legami con la fede e le sue conseguenze; per non parlare poi della appartenenza ecclesiale che sembrerebbe non avere peso alcuno sulla costruzione della loro vita.
    Dunque, se pure «il», «un» senso esiste, esso è l'ultimo ad affiorare e non aiuta i progetti, i cammini, gli itinerari.
    Posti brutalmente di fronte alla domanda: «Ma dove lo cercate questo senso?», hanno cominciato a guardarsi gli uni gli altri con facce serie e spaesate. La ragazza ritenuta dai compagni più problematica ha detto: «Questo è il problema ed è angoscioso». I compagni l'hanno guardata con dolcezza e uno le ha risposto che parlare d'angoscia per un problema così gli sembrava un po' esagerato.
    Un'altra, molto brava a scuola, critica forse più per dovere culturale che per convinzione, ha detto: «Lo cerchiamo un po' dappertutto; se lo troviamo ci fermiamo».


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