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    Giovani in prima pagina: per una rilettura critica


    Giancarlo Milanesi

    (NPG 1986-02-29)


    LO SFONDO ISTITUZIONALE E STRUTTURALE

    Quasi tutti gli approcci dei ricercatori sembrano partire da un'ipotesi interpretativa generale, secondo cui la condizione giovanile è variabile in una certa misura dipendente, rispetto ad un consistente pacchetto di referenti storici, economici, politici, culturali ecc., che vengono a loro volta identificati come variabile indipendente. Questa prospettiva non è per altro esclusiva; anche l'ipotesi complementare, quella cioè che assegna ai giovani una funzione relativamente autonoma di variabile indipendente rispetto al sistema sociale, è presente in più autori. Sembra dunque correttamente intuita e tentata la strada di una lettura integrata della condizione giovanile, che tenga conto dell'interazione dinamica da istituire tra una prospettiva che privilegia il «punto di vista della società» sui giovani ed un'altra prospettiva che valorizza invece «il punto di vista dei giovani» sulla società; in altre parole, un approccio complessivo che non assegna meccanicisticamente ai processi sociali in atto un peso esclusivo nello spiegare perché i giovani sono quello che sono, né fa leva unicamente sulla «cultura giovanile» per comprendere il loro comportamento sociale, ma che suppone una serie di impatti e di retroazioni reciproche tra le due serie di variabili, in un intreccio pressoché inseparabile di cause ed effetti mai a senso unico.
    Resta peraltro decisivo, come punto di partenza e come condizionamento di base di tutto il costrutto interpretativo, il riferimento al quadro strutturale (con particolare attenzione alla dimensione istituzionale) entro cui va riportato il discorso della condizione giovanile. I due elementi essenziali del quadro sono la categoria di «complessità sociale» e il richiamo alla «transizione verso una società postindustriale». Ambedue gli elementi offrono spunti di riflessione critica.

    Ambiguità e contraddizioni della società complessa

    Per un verso la concettualizzazione di società complessa sottolinea i processi di differenziazione, pluralizzazione, frammentazione del tessuto strutturale e culturale, accompagnati da una parallela e progressiva perdita di legittimazione del centro (o dei centri) simbolico che nella precedente formazione sociale assicurava al sistema un minimo di funzionalità e di integrazione.

    Una lettura al positivo e al negativo

    Sotto questo profilo dire «complessità» equivale ad affermare la tendenza all'allentamento delle maglie sociali entro cui si muove il vissuto individuale e collettivo, in una sorta di progressiva e al limite radicale relativizzazione delle appartenenze, delle identità, degli orientamenti di valore per l'azione. Tutto ciò può costituire, almeno inizialmente, un vantaggio considerevole in relazione all'esigenza di raggiungere la maturità, la realizzazione personale, il soddisfacimento dei bisogni significativi, in quanto la liberalizzazione dei percorsi da battere sembra innescare una più ampia opportunità di accedere alle risorse culturali ed una gamma più flessibile di atteggiamenti individuali e collettivi nei confronti della società.
    Nella complessità il reticolo strutturale e le articolazioni culturali sembrano offrire le condizioni ideali per l'esercizio di una più consapevole e riflessiva libertà di scelta, per una interiorizzazione più pacata e critica dei messaggi culturali e anche per una progressiva sdrammatizzazione della conflittualità sociale .
    Per altro verso la complessità offre, proprio in forza del moto centrifugo e della tendenza alla relativizzazione che le sono propri, la sensazione di una incoercibile ingovernabilità, aggravata dal fatto che l'assenza o l'eccesso di punti di accumulo della legittimazione sociale favorisce una frammentazione patologica dell'esperienza individuale e collettiva.
    Sotto questo profilo la complessità si rivela controproducente nei riguardi dei processi di socializzazione che oscillano necessariamente tra il modello della neutralità valoriale (conseguenza logica nel caso in cui prevalga l'appiattimento e l'omologazione culturale) e il modello della competitività conflittuale (conseguenza logica nel caso in cui al di dentro del pluralismo di fatto e di diritto rinasca la corsa verso l'ottenimento ad ogni costo del consenso).

    Gli esiti possibili

    Si contrappongono dunque due ipotesi diametralmente polarizzate rispetto alla possibile collocazione dei giovani nella società complessa: da una parte si preconizza una nuova capacità di gestione protagonista dei processi di auto-socializzazione «dentro» e non «contro» la complessità, dall'altra si avverte il rischio della dissociazione e si sottolinea la difficoltà a «ridurre» la complessità a nuova integrazione significativa.
    Sotto il primo profilo sembra ragionevolmente ipotizzabile l'affermazione di una centralità giovanile nel processo stesso di complessificazione ulteriore del sistema, e si afferma la crescente capacità dei giovani di gestire quel tanto di precario e di contraddittorio che la complessità implica quasi necessariamente.
    Sotto l'altro profilo la complessità si configura come possibile radice (o una delle probabili radici) del disagio giovanile, come fattore di diffusione capillare della marginalità (sia pure di una marginalità meno acuta), come moltiplicatore della crisi di identità.
    Vorrei sottolineare che l'utilizzazione dei risvolti positivi della complessità, cioè delle reali opportunità di centralità-protagonismo-libertà da parte dei giovani, come pure la neutralizzazione delle valenze negative, cioè dei rischi di dissociazione, non possono essere immaginate come accadimenti automatici; esse suppongono invece un intenzionale intervento formativo, tra socializzazione critica ed educazione liberatrice, capace di abilitare realmente i giovani a muoversi in modo creativo entro la complessità.
    La creazione di nuove condizioni di flessibilità del sistema non offre se non la possibilità teorica di altrettanta flessibilità di azione degli attori sociali (soprattutto se giovani); la funzione reale delle opportunità è condizionata invece alla non gratuita acquisizione di abilità ed atteggiamenti per nulla spontanei.

    La transizione verso una società post-industriale

    Il rinvio a quest'altra categoria privilegia, ordinariamente, il ricompattarsi dei valori attorno ad un nuovo asse che non è più quello degli interessi, bisogni e orientamenti di tipo economico (specifico della logica di sviluppo industriale), ma quello della qualità della vita (relazione, partecipazione, significato, ecc.).

    Bisogni materiali e post-materiali

    Ciò che sembra sollevare qualche problema in questa impostazione del tema è senza dubbio la caratterizzazione dei nuovi bisogni/valori in termini di post-materialistici. Intanto va detto che il «post» non può supporre una generale e definitiva situazione di superamento radicale dei bisogni materiali (o materialistici?) da parte di tutti i giovani, anche solo nel contesto italiano. A parte gli allarmi sollevati dalla segnalazione di nuove insorgenti povertà anche nel nostro paese, non è possibile avallare globalmente, come già avvenuta, la liberazione dai bisogni primari senza precisarne il contenuto che, al contrario, sembra oscillare tra necessità che mirano semplicemente alla sopravvivenza e necessità che già rientrano nella sfera di una «sicurezza» evoluta e diffusa.
    Esistono sacche di reale marginalità (talora addirittura di tipo residuale) che ancora non conoscono il soddisfacimento di bisogni materiali secondo lo standard medio del contesto in cui si vive; la percezione soggettiva di soddisfazione/insoddisfazione di tali bisogni non coincide sempre con le valutazioni che pretendono di essere «obiettive». Non pochi giovani si percepiscono in situazione di disagio perché si ritengono insoddisfatti rispetto a bisogni che «essi» valutano come fondamentali ed essenziali ad una «sopravvivenza adeguata» nella società industriale. In altre parole, la distinzione tra bisogno materiale e bisogno post-materiale rivela piuttosto l'esistenza di un «continuum» tra l'uno e l'altro che rende difficile la contrapposizione ed ipotetica la transizione tra l'uno e l'altro. Può essere esemplificativo il problema del bisogno/diritto che investe il lavoro giovanile. E' un bisogno di tipo primario la cui soddisfazione dovrebbe essere assicurata dalla società industriale? In caso di risposta affermativa, occorre concludere che in pratica la transizione verso la società post-industriale ha lasciato indietro un certo numero di bisogni primari/materiali insoddisfatti, almeno per una certa parte della popolazione giovanile. L'inoccupazione, la disoccupazione, l'occupazione illegale ne sono un segno evidente.
    E' forse più corretto ipotizzare che il passaggio verso la società postindustriale cumula insoddisfazione di certi bisogni materiali (in una parte della popolazione giovanile) con l'insoddisfazione generalizzata dei nuovi bisogni (in tutta la popolazione giovanile).

    La società dell'informazione

    Ma vi è un'altra fattispecie in base a cui è possibile considerare la transizione verso la società postindustriale; è caratterizzata come società dell'informazione, che sviluppa un tipico mercato di beni simbolici dalle caratteristiche spazio-temporali inedite. Ciò che è nuovo in questa ipotesi non è certo l'idea dello scambio simbolico, che è presente in ogni società; è semmai l'intensità e la complessità dello scambio stesso e dei beni scambiati, la possibilità di puntualizzare (cioè di concentrare in un punto spazio-temporale) e di rendere attuale/totale lo scambio, il prevalere di questo tipo di scambio su quello di beni-merci materiali. Da quest'ultimo punto di vista la società dell'informazione (derivata dalla complessità) coincide con la società dei bisogni post-materialistici (che è quella postindustriale), imponendosi con i suoi problemi all'attenzione dei giovani.
    Resta peraltro da verificare, anche sulla base di evidenze empiriche, in quale misura e perché i giovani di questa generazione sono in grado di farsi portatori più degli adulti delle esigenze del «post-industriale» e del simbolico; l'ipotesi che assegna loro una maggiore «sensibilità» per tali valori poggia sulla premessa che i giovani hanno già percorso ed esaurito gli itinerari che attraverso l'esperienza della marginalità e della frammentarietà portano alla coscienza dell'insufficienza della logica del mercato e dei bisogni materiali.
    Ma si può veramente dire che tali percorsi sono stati battuti da tutti i giovani? E se la condizione per arrivarvi è l'esperienza della marginalità, occorre avallare l'idea che tutti i giovani in qualche modo sono o sono stati dei marginali, per convincerci dell'avvenuta interiorizzazione della coscienza post-materialistica? Si può ancora scommettere sulla marginalità come fattore d'innesco del cambio, se non proprio della rivoluzione?
    A queste e ad altre domande occorre rispondere con ricerche sul campo, sensibili alle avvenute trasformazioni della società italiana e critiche verso il concetto elastico di «post-industriale».

    Il fattore «I»

    Sullo sfondo delle trasformazioni verso complessità e post-industrializzazione si materializza con crescente problematicità l'interrogativo sul fattore «istituzione».
    Vi è una certa convergenza di opinioni tra molti autori nell'affermare la crisi delle istituzioni in generale nel nostro paese, anche se, comprensibilmente, le cause della crisi non sono oggetto precipuo di analisi.

    Il quadro della crisi delle istituzioni

    Il quadro della crisi è, peraltro, descritto con termini che rievocano il modello durkheimiano: lo sfondo è quello dell'anomia, oggettivamente definita come scollamento tra sistema normativo e sistema strutturale per effetto di diverse velocità di cambio e per fatti traumatici storicamente ben accertabili; soggettivamente equiparata a stati d'animo variabili tra il disagio, l'angoscia, la sfiducia nei riguardi di un sistema normativo che non è più in grado di governare il rapporto tra individuo e società, perché obsoleto, delegittimato, contraddittorio.
    La crisi delle istituzioni dunque come crisi di mediazione dei bisogni, che rimangono privi di canalizzazioni socialmente accettabili, ma anche come crisi di regolazione generale del comportamento sociale e quindi come frustrazione della domanda di cambiamento, partecipazione e responsabilità.
    Il quadro descritto sembra riversare nell'istituzione, rimasta spiazzata rispetto ai ritmi di sviluppo complessivi del sistema, la colpa delle incongruenze del comportamento giovanile, che invece è percepito come sostanzialmente «pulito». E tuttavia, entro questo orizzonte, l'atteggiamento dei giovani verso l'istituzione in generale sembra essere molto meno negativo di quanto fosse anche solo dieci anni fa. E' certamente un atteggiamento complesso e per certi versi non del tutto omogeneo. I termini usati per definirlo oscillano tra tolleranza, relativizzazione, attenzione strumentale, selettività, riscoperta, ritorno. Per quanto sembrino superati l'estraneità e la critica o il rifiuto generalizzato, restano sempre alcuni atteggiamenti che documentano la persistente difficoltà di rapporto tra giovani ed istituzioni; intanto vi è una certa percezione (da parte dei giovani stessi) della sostanziale inadeguatezza delle istituzioni di fronte ai bisogni emergenti, vi è anche l'esperienza diretta di qualche tentativo (fallito) di riallacciare rapporti significativi; in più sembra esservi un senso diffuso di autosufficienza, ben radicato in quello che gli autori chiamano di volta in volta «personalizzazione», «soggettivizzazione», «centralizzazione soggettiva dei problemi giovanili» o «individualismo socialmente orientato e consapevole», che impedisce di giocare tutte le proprie carte sulla istituzione.
    In definitiva sembra essersi stabilizzato un rapporto di odio (moderato) e amore (non entusiasta) che si viene precisando come limitata e condizionata apertura di credito verso le istituzioni e con una certa dose di tendenza alla strumentalizzazione nei loro riguardi. Tutto questo può essere attribuito alla soggettiva percezione della limitata affidabilità (attuale) delle istituzioni e della loro relativa irrilevanza rispetto alle istanze di autorealizzazione di questa generazione.

    Le istituzioni in crisi

    Da questo punto in poi il discorso dovrebbe farsi analitico e riferirsi più specificamente alle diverse istituzioni, soprattutto a quelle che i giovani gratificano con silenzi significativi, da quelle politiche, alle altre quali la chiesa, la scuola, l'esercito, ecc. Si tratta in genere di canali di comunicazione verticale che restano ancora ostruiti e che perciò rendono precari la continuità culturale il senso della tradizione, e in ultima analisi, la progettazione del futuro.
    Un discorso a parte meriterebbe la famiglia. In proposito la letteratura recente offre dati contraddittori. Da una parte arrivano segnali che sembrerebbero giustificare un moderato ottimismo nei riguardi della «tenuta» sostanziale della famiglia italiana, della sua recuperata capacità di esercitare le essenziali forme di controllo primario, della sua credibilità come esperienza e vissuto (se non proprio come istituzione). Dall'altra persiste una diffusa critica del modello esistente di famiglia (quella di origine), e si proietta nel futuro un modello alternativo la cui peculiarità decisiva è quella di essere una famiglia non-istituzione, cioè un intreccio di relazioni poco strutturate, sempre meno legittimate sul piano giuridico-legale, costituito sull'intenzionalità (e sulla necessaria precarietà che vi è connessa). Di qui un'evidente frattura tra il modello che dovrebbe rappresentare a tutt'oggi un canale istituzionalizzato di soddisfazione di certi bisogni soggettivi e il modello del domani che mira alla stessa soddisfazione, ma ormai fuori di una prospettiva o attesa istituzionalizzata. In tempi brevi, se non intervengono sostanziali mutamenti, la famiglia dovrebbe uscire dalla sfera istituzionale o per lo meno perdere molte delle sue funzioni istituzionali. Il che confermerebbe la situazione di sostanziale interlocutorietà del rapporto giovani/istituzione.

    CATEGORIE VECCHIE E NUOVE

    Lo sfondo strutturale costituito dai processi di transizione verso la società complessa e post-industriale e la correlativa crisi istituzionale comportano quasi necessariamente la revisione di certe categorie interpretative della condizione giovanile e l'elaborazione di nuove. I risultati presi in esame offrono interessanti elementi di giudizio su questo punto.

    Marginalità e centralità ipotetiche

    Alcuni studiosi avanzano molti dubbi sull'opportunità di continuare ad usare la categoria della marginalità a proposito dei giovani contestualizzati nella società complessa e post-industriale.
    Le ragioni sono di diversa natura, ma nella sostanza tendono a negare l'utilità ermeneutica di questa categoria in una struttura sociale largamente a-centrata e alla fine di un lungo processo storico che ha portato i giovani a riemergere come protagonisti della domanda sociale, come portatori di nuovi bisogni.

    Abolizione dell'adolescenza/giovinezza?

    Forse è necessario ridefinire il concetto stesso di marginalità in rapporto alla condizione giovanile, sottraendolo all'ipoteca dei significati originali che il termine ha mutuato da certe sociologie politiche e da certe sociologie dello sviluppo già ormai datate, e restituendogli un contenuto operativo limitato e storicamente credibile.
    La marginalità come condizione di espropriazione del diritto di decisione, partecipazione, protagonismo, accesso alle risorse promesse dal sistema, ecc. e perciò come forzata consegna ad un destino di dipendenza, subalternità e irrilevanza sociale, non può essere più assunta come categoria che definisce in modo esauriente, definitivo ed universale tutta la condizione giovanile. Forse è ancora configurabile come «rischio» distribuito in modo ineguale tra i giovani, nella base di innumerevoli variabili di status, ed è ipotizzabile come «realtà» effettiva per frange minoritarie di giovani, per i quali la marginalità può diventare una pericolosa minaccia anche per la fase che segue la giovinezza e trasformarsi in «cultura» interiorizzata e in destino irreversibile.
    Cadono a questo punto certe definizioni di sapore sessantottesco che tendevano un po' sommariamente a gettare sulla società (capitalista, in genere) la colpa dell'emarginazione giovanile (di tutti i giovani) e che proponevano, capovolgendo i termini della questione, di abolire la adolescenza e/o la giovinezza, cioè la loro condizione di marginalità, abolendo quel certo tipo di società che la produce. In realtà la società resiste all'abolizione (quasi dappertutto) e non resta che tentare di abolire la giovinezza attraverso un suo più rapido passaggio verso l'età adulta. In definitiva abolire l'adolescenza e la giovinezza (per abolire lo status di marginalità) significa diminuire un periodo di dipendenza ritenuto eccessivo e controproducente. Si tratta però di vedere se ciò è realisticamente possibile e se è a sua volta produttivo: il passaggio precoce alla responsabilità suppone infatti un minimo di competenza che la società complessa tende ad elevare, rendendo difficile all'adolescente e al giovane un inserimento a pieno merito. Né si può essere soddisfatti di certi inserimenti precoci che si traducono di fatto in forme più o meno larvate di manipolazione e violenza; penso a certe politiche di militarizzazione o di ruralizzazione della gioventù attuate da non pochi regimi «forti» del passato e del presente, e non mi posso dichiarare convinto che questo sia il metodo migliore per eliminare l'adolescenza e la giovinezza.
    Resta dunque la marginalità come forma di dipendenza transitoria (ma non necessariamente grave e indifferenziata) per tutti i giovani; si deve lavorare a livello politico ed educativo per contenerla o per ridurre gli effetti perversi, quali il sentimento dell'inutilità, la sensazione dell'impotenza, l'abbassamento dell'autostima, ma certamente la sua abolizione radicale può apparire solo come utopia nell'attuale momento di transizione.
    Del resto sembra appropriata l'osservazione di alcuni a proposito della maggior «compatibilità» della marginalità rispetto alla società complessa, in cui per definizione è difficile identificare il «centro» e la «periferia»; ma anche in questo caso è importante non confondere compatibilità e funzionalità della marginalità giovanile, giustificando una palese utilità sociale della marginalità giovanile in base alla sua minor «pericolosità» per l'individuo e per la società.

    Marginalità e centralità

    In definitiva si può ritenere che in questo periodo di transizione la marginalità come categoria interpretativa specifica della condizione giovanile abbia perso molto del peso che aveva precedentemente, non potendosene dimostrare la validità universale, e divenendo essa stessa categoria applicabile a diversi strati di popolazione non giovanile; né si può arguire, a partire da una condizione di marginalità, l'esistenza di una zona di «rischio» sociale esplosivo, proprio perché storicamente la connessione marginalità-rivoluzione ha più spesso lasciato il posto all'altra: marginalità-ghettizzazione o marginalità-disperazione.
    La minor visibilità e maggior diffusione di una marginalità relativa può infine dare origine a due esiti non contraddittori: in soggetti poco stimolati vi può essere l'accettazione passiva della condizione di marginalità, in soggetti più sensibili si può manifestare un bisogno di partecipare nelle forme compatibili con la stessa marginalità, che nella fattispecie non può che essere parziale e non irreversibile.
    La «centralità» (sia pure potenziale) dei giovani può essere considerata analogamente come categoria utile in particolari momenti della transizione.
    Per manifestarsi essa ha bisogno di condizioni favorevoli, soprattutto nel versante istituzionale, cioè di una politica che renda effettiva la soddisfazione dei bisogni e la realizzazione dei progetti di cui i giovani sono portatori e anticipatori. Si tratterà, in progressione di tempo, di una centralità comunque «relativa», se si guarda soprattutto all'attuale trend di sviluppo demografico del paese e alla difficoltà che incontrano in una società complessa le pretese di egemonia.
    In conclusione, la categoria margimalità/centralità, ricondotta a dimensioni più storicamente comprensibili, conserva un suo valore ermeneutico, soprattutto in rapporto alle minoranze di giovani che ne impersonano con maggiore identificazione le polarità estreme. Ovviamente non è pensabile di potersene avvalere in modo esclusivo, perché non sembra capace di esaurire da sola la complessità del vissuto giovanile; ma fornisce una chiave fondamentale di lettura che altre categorie interpretative potranno completare ma non capovolgere.

    Frammentazione o totalizzazione

    Attorno alla categoria «frammentazione» si è costruito molto negli ultimi dieci anni. Storicamente il costrutto concettuale si è venuto arricchendo di elementi forniti da situazioni nuove, verificatesi nel periodo post-sessantottesco. In particolare la frammentazione si è venuta definendo in rapporto alla fine di un'epoca: al venir meno delle mobilitazioni di grandi numeri (quelle di massa forse appartengono solo alla mitologia del '68), al dissolversi del tentativo di dar vita ad una cultura ed a un progetto sociale e politico unitario dei giovani, al riemergere di nuove identità parcellizzate sulla base di bisogni individuali e/o privati a lungo sommersi. In questo contesto la frammentazione funziona sia come categoria post-sessantottesca sia come categoria legittimata dal nuovo processo di complessificazione della società degli anni settanta e ottanta. Il rimescolarsi delle carte nei rapporti sociali ha favorito indubbiamente una maggior difficoltà al ricomporsi di vaste aree di consenso e convergenza tra i giovani: la frammentazione si è così confermata come sintomo della impossibilità pratica oltre che teorica di utilizzare, nel parlare di giovani, categorie quali «classe» e «quasi classe», o di far riferimento ad una sempre più ipotetica e sfuggente «cultura giovanile». Ciò significa anche che il peso storico da attribuire ai giovani nell'insieme dei soggetti collettivi che partecipano alla determinazione del cambiamento sociale è tutto da definire e da riconsiderare. Anche in rapporto a quanto si è detto a proposito di marginalità/centralità, la categoria della frammentazione sembra suggerire una risposta quanto meno interlocutoria e condizionata. E' vero, da una parte, che la condizione di frammentazione può essere premessa di una più ricca ed articolata produzione culturale di idee, progetti e proposte; è altrettanto probabile però che essa si tramuti a lungo andare o in un fattore di incremento del processo di omologazione culturale di massa, o in una progressiva vanificazione del potere di proposta culturale dei giovani.
    In sostanza, la frammentazione deve essere gestita, altrimenti produce un disordinato camminare di tutti verso tutte le direzioni, che favorisce solo la marginalità (e dunque l'irrilevanza politica, sociale, culturale) dei giovani.

    I livelli della frammentazione

    A complicare la situazione si aggiunge un altro fatto largamente analizzato oggi; ed è che per molti versi la frammentazione sembra attraversare lo stesso vissuto individuale dei giovani, a diversi livelli.
    Anche solo esemplificando sommariamente, la frammentazione è ravvisabile: nell'ambito dei processi di socializzazione, cioè a livello di identità, come effetto logico di un'azione competitivo/conflittuale di manipolazione culturale; nell'uso del linguaggio corrente, spesso caratterizzato dalla separatezza esistente sia verso la realtà, sia verso il concetto; nell'elaborazione del concetto di tempo, in cui emerge la difficoltà a viverlo per sequenze coordinate e aventi senso compiuto; nel passaggio da un vissuto all'altro della quotidianità (lavoro, scuola, tempo libero, politica, famiglia, amicizia, ecc.), in cui prevalgono sistemi separati di significato nel pluralismo delle appartenenze, talora anche contraddittorie.
    La valenza ambivalente di questo secondo livello di frammentazione sembra fuori dubbio. In molti studi si considera questa generalizzata destrutturazione del vissuto individuale come condizione ottimale di indefinita plasticità dei processi formativi: si parla di flessibilità elevata che porta a identità aperte e a strutturazioni provvisorie della personalità, che in fondo permettono di gestire la complessità. In altri si sottolinea invece che la frammentazione è causa di fragilità, dispersione, disorientamento e che, se esasperata, contiene le premesse della dissociazione mentale e comportamentale.

    Frammentazione: valore o residuo?

    Il dilemma presentato da alcuni ricercatori (frammentazione come valore o come residuo?) mantiene integralmente la sua attualità; si sarebbe tentati di propendere decisamente per la seconda ipotesi, guardando a certi fatti che si ripetono nel sociale e che hanno il potere di approfondire la frammentazione invece che di riportarla a livelli accettabili di differenziazione: l'insufficienza di mediazioni istituzionali del bisogno individuale, il risorgere di spinte particolaristiche non efficacemente contenute da un coerente e adeguato quadro politico, il venir meno del consenso su molti valori della tradizione culturale, ecc.
    La stessa rivalutazione della quotidianità, pur carica di valenze positive, può scadere a moltiplicatore della frammentazione se impedisce il superamento dei limiti angusti del «qui-oggi» e non apre una progettualità di più largo respiro, in cui il «presentismo» sia coniugato possibilmente con il gusto dell'utopia. Ci si interroga dunque sulle alternative della frammentazione; e spesso si conclude, forse affrettatamente, che il bisogno di totalizzazione, emergente come comportamento reattivo al rischio della dissociazione, non può che portare all'integrismo, cioè ad un atteggiamento potenzialmente conflittuale e, dunque, pericoloso per una società che in definitiva, scegliendo il modello della complessità, accetta il pluralismo ai più bassi livelli di competitività.

    Esiti della frammentazione

    L'integrismo può certo essere annoverato tra gli esiti possibili della frammentazione; di fatto esiste come rischio e come fatto reale anche tra i giovani di questa generazione, e non può non preoccupare chi guarda al mondo giovanile, proprio perché il fenomeno ha sottili e profonde connessioni con la violenza, il fanatismo, il terrorismo. Ma l'integrismo non è l'unico effetto possibile della frammentazione e del bisogno reattivo di totalizzazione: è, caso mai, l'esito di una ricerca equivoca di totalizzazione, che ragiona ancora in termini particolaristici, secondo la logica, appunto, della frammentazione, esasperata e condotta alle ultime conseguenze anche nel momento in cui se ne tenta inutilmente il superamento.
    Resta un bisogno di totalizzazione che non sbocca necessariamente nell'integrismo, ma tende invece all'integrazione del vissuto personale entro il quadro di condizionamenti sociali. Il contenuto di questa ricerca è variabile: può riferirsi a specifici valori religiosi, può rievocare un quadro di valori laici socialmente o politicamente orientati, può tendere semplicemente a un tipo di identità ben centrata su pochi valori «personalizzati» e «condivisi» con altri giovani.
    Si tratta di un tentativo che per altro ha bisogno di una serie di fattori facilitanti: in certa misura l'integrazione della personalità al riparo dell'integrismo è già qualcosa di più di un semplice «progetto di basso profilo», e non può essere raggiunta senza un impegno continuo e una chiara visione di sé entro un contesto ricco di proposte educative.

    L'identità: lotta e dislocazione

    Il raggiungimento di una propria identità attraverso un lungo processo di maturazione è compito di tutto l'arco dell'età evolutiva; e come tale è un problema non nuovo, non tipico di questa generazione. E' in atto un ampio dibattito per definire in che modo e in che misura il problema dell'identità fonda una categoria interpretativa della condizione giovanile. Pochi ritengono secondario il discorso sull'identità: in generale si tende a metterlo al centro di più ampi e controversi processi.

    Socializzazione e identità

    Il punto di partenza è offerto dalle dinamiche innescate dalla società complessa, in particolare dal fatto che i processi di socializzazione, che un tempo utilizzavano percorsi precostituiti e relativamente rigidi, ora tendono a trasformarsi in processi di autosocializzazione che hanno a disposizione opportunità ben più articolate e numerose. Questa almeno è l'ipotesi ripresa in più occasioni. L'idea è ricca di risvolti e merita attenzione particolare.
    In prima istanza bisogna avvertire che l'eccedenza di opportunità o di risorse di cui si parla non è illimitata; è anzi necessariamente relativa rispetto ad un passato ormai lontano. L'articolazione dei percorsi è maggiore, ma non indefinita; anche nella società complessa esistono itinerari pressoché obbligatori, soprattutto quando le mete che si vogliono raggiungere sono elevate. Esemplificando: si può scegliere tra molti curriculi scolastici, ma non sempre si può passare agevolmente dall'uno all'altro, né si può pretendere di restare a lungo in un percorso generico, rifiutando la specializzazione che è obbligatoriamente univoca. La complessità esige una competenza specifica.
    Va anche notato che la maggior articolazione dei percorsi verso l'identità non crea automaticamente una maggiore capacità di tipo simbolico e riflessivo, che è la premessa per arrivare ad un'identità flessibile, personalizzata, aperta; tale articolazione crea soltanto una opportunità puramente potenziale di differenziazione, che del resto è spesse volte solo teorica. La capacità individuale di produrre senso non nasce meccanicamente dalla sola pluralità di messaggi culturali presenti sul mercato dei sistemi di significato, ma presuppone una tale padronanza dei processi di decodificazione, di scomposizione e ricomposizione dei prodotti simbolici, che solo un lungo tirocinio di apprendimento può dare. Di fatto la pretesa di «costruire» e non solo di «ricevere» un'identità, o di «scegliere» valori invece di interiorizzarli per «trasmissione» da una generazione all'altra, deve fare i conti con una serie di difficoltà esterne ed interne al giovane.

    Identità: un percorso di guerra

    Si è già accennato alle carenze di mediazioni istituzionali; qui si deve aggiungere che non poche grandi organizzazioni, specialmente dove il «Welfare State» ha preso i connotati di un sistema onnipervasivo, pretendono a loro volta di condizionare l'identità individuale e collettiva, imponendo una definizione del bisogno e prescrivendo gli itinerari della loro soddisfazione mediante l'offerta di beni e servizi. E' ormai evidente che questo tentativo di etichettare l'identità dei singoli ottiene successo soprattutto tra i soggetti più deboli o più plastici; tra essi i giovani che spesso non hanno ancora, per motivi di età, un'identità più ben definita. Il consumismo, per i suoi indiscussi risvolti di omologazione culturale di massa, è uno dei segni inconfutabili dell'avvenuta espropriazione del diritto di definire autonomamente i bisogni e di controllare i percorsi che portano alla loro soddisfazione.
    Al di là della teorica possibilità di gestire personalmente i processi di identificazione, per molti giovani il cammino verso l'identità è un «percorso di guerra»; troppe esigenze che sono rese possibili da alcuni aspetti della società complessa sono di fatto negate o svuotate da altri aspetti non meno centrali di tale società. In realtà la «deregulation» parziale offerta dalla complessità non riguarda che il «metodo» da seguire nel cammino verso l'identità; le mete ed anche, in parte, i mezzi istituzionalizzati e legittimati rimangono sempre gli stessi. Certe pretese giovanili quali il bisogno di posponimento indefinito delle scelte vincolanti per la vita, il diritto alla reversibilità illimitata delle decisioni, l'appello al presentismo e alla quotidianità come dimensioni essenziali dell'impegno personale, il richiamo al policentrismo delle biografie individuali e le identità collettive, cozzano evidentemente contro le esigenze di un sistema che non ha affatto rinunciato alla standardizzazione e formalizzazione dei comportamenti collettivi, che ha bisogno di prevedere il più possibile proprio perché è sempre più ingovernabile, che mira a ridurre l'incertezza e l'improvvisazione. Un'esemplificazione del conflitto insanabile esistente tra queste esigenze è offerto dall'esperienza comunicativa: da una parte sta una società che esige livelli sempre più alti e frequenti di comunicazione senza però riuscire a produrre comunicazione profonda (anzi, al contrario, capace di allargare il gap tra parola e realtà), dall'altra un'esigenza tipicamente giovanile (o almeno di una parte dei giovani) di comunicazione compiutamente significativa.

    Istituzioni e silenzio dei giovani

    L'esito di tale conflitto è indicato nel silenzio dei giovani, che vuol dire denuncia della impossibilità di comunicare adeguatamente. Aggiungerei che un altro esito prevedibile è il progressivo adattamento alle regole del comunicare adulto; cioè il progressivo svuotamento di una specificità contenutistica e formale del linguaggio giovanile, la sua banalizzazione secondo i canoni del consumismo. In fondo il silenzio non può essere che il modello di comportamento dei più consapevoli; ed è già una bandiera del dissenso.
    Infine il processo verso la maturazione sembra caratterizzarsi in questa generazione per il fatto che si sta orientando verso nuovi «luoghi» di identificazione. Qualcuno fa notare che la dimensione spaziale entro cui si cerca identità è sempre più di tipo interiore: non è un luogo fisico, ma si chiama, ad esempio, «solidarietà», «individualità», «quotidianità».

    I nuovi luoghi dell'identità

    Credo che si debbano aggiungere ulteriori considerazioni su questo punto. Vi sono indubbiamente sintomi di una diversa dislocazione delle risorse personali rispetto ai «luoghi» dell'identità. Il più evidente sembra essere quello che riguarda il rapporto lavoro-tempo libero. Le esperienze «forti» di un tempo (appunto il lavoro, e lo studio subordinatamente; e in certi momenti la politica) sono guardate con un'attenzione sempre più strumentale; non vi è forse disaffezione radicale verso di esse, ma certamente non vi sono più soggettivamente forti ragioni per investirvi il proprio potenziale umano e trarne in cambio identità, soddisfazione profonda, sentimenti di solidarietà, ecc.; vi è invece la tendenza a considerarle quasi unicamente sotto il profilo dell'utilità personale e subordinatamente ad altri tipi di interesse ed esperienza. L'identità la si cerca nell'ambito dell'opzionale, nei vissuti fin qui considerati «deboli» e tuttora in larga parte compromessi da una diffusa mancanza di significato. L'ambiguità di questa tentata dislocazione dell'identità nasce evidentemente dal fatto che il tempo libero è troppo spesso «non ancora liberato» e separato dai tempi «forti»; e dunque non può offrire che surrogati illusori dell'identità, quali appunto risultano dal prevalente modello consumistico.
    Ricerche interessanti hanno offerto in questi ultimi anni un supporto empirico e teorico sostanzialmente credibile a quanto stiamo dicendo, suggerendo in più che l'esposizione al rischio di vanificazione dell'identità è differenziale, perché tocca in modo specifico i giovani che sono meno attrezzati culturalmente a recuperare il significato del tempo libero.
    Queste ed altre considerazioni sul «luogo» dell'identità giovanile vanno comunque integrate al discorso sulla dimensione temporale.

    Il tempo: presentismo e implosione

    La categoria «tempo» appare sempre più decisiva nella comprensione dei comportamenti giovanili. Si è già accennato al tempo «forte» e al tempo «debole» e alla frammentazione del tempo psichico, che rappresenta un elemento originale del vissuto quotidiano di questa generazione di giovani. Si è scritto molto sulla difficoltà, tipica di un'epoca di caduta delle certezze originali, di collegare in un unico significato complessivo il passato, il presente e il futuro. Del passato si è sottolineata la tendenza a rimuoverlo, come eredità non integrabile nella biografia personale e comunque come vissuto non sempre categorizzabile secondo modelli giovanili. La tradizione degli adulti, ma anche la storia recente della generazione appena passata, sembrano appartenere ad altri mondi di cui non si conoscono i codici espressivi. Secondo alcuni ciò è da imputarsi all'incapacità degli adulti di «narrare» la propria esperienza in modo credibile; si ha per altro l'impressione che i giovani ancor più radicalmente ritengano che gli adulti non abbiano nulla da raccontare. E' cioè una questione di contenuti più che di metodo o di modalità. Il vuoto culturale alle spalle è forse uno degli aspetti problematici che vivono i giovani quando si pongono di fronte al loro futuro. Qualcuno ha detto che non può progettare il futuro chi non ha un proprio significativo passato; in realtà il futuro di molti giovani è «corto», perché esistono difficoltà obiettive (soprattutto istituzionali) che rendono problematica la pianificazione. Ne risulta un «presentismo» che non è privo di contraddizioni.

    Sindrome di destrutturazione temporale

    La «sindrome di destrutturazione temporale» da un lato sembra favorire un controllo diretto dei giovani, cioè una gestione finalizzata del proprio tempo, ormai sottratto in gran parte ai ritmi imposti dalle istituzioni. Ciò corrisponde all'esigenza di limitare l'angoscia proveniente dall'esigenza di progettare su tempi lunghi, ma non risponde alla necessità che, d'altro lato, viene imposta dall'urgenza dell'autorealizzazione. Il tempo «breve» (o una somma di tempi brevi) appare infatti insufficiente a contenere la concentrazione relativamente alta di bisogni che la società complessa riesce a produrre, anche e soprattutto perché è in grado di offrire stimoli «in eccedenza» in una sequela temporale molto limitata.
    La progettualità «di basso profilo», apparentemente resa praticabile dalla possibilità di gestire, spezzettandolo, il proprio tempo, si tramuta in esperienza dissociativa; si presenta cioè l'ipotesi di un'autorealizzazione senza storia, di un'identità «per accumulazione» di spezzoni d'esperienza senza durata e senza collaudo, di un'appartenenza senza radici. Il presentismo rischia la schizofrenia: e ciò vale soprattutto se si attuerà quella cortocircuitazione del tempo e dello spazio prodotta dall'applicazione dell'informatica alla vita quotidiana.

    Tempo sociale e tempo individuale

    Il problema infatti non sarà solo quello di «digerire» in tempi brevi o brevissimi un alto potenziale di informazioni, ma quello di salvaguardare la propria autonomia spazio-temporale, i propri ritmi personali di adattamento significativo al tempo «sociale», la propria capacità di elaborare un tempo interiore. Senza di ciò il presente, cioè il tempo destrutturato dall'assidua frequentazione dei computer che sanno o sappiano rendere presente «qui e ad ogni momento» tutto il mondo, diventerà un problema di difficilissima gestione. Questo tipo di «implosione» rischia di ingolfare la macchina del tempo, così come viene descritta da alcune ricerche recenti sull'uso del tempo da parte dei giovani. Non è più possibile un'adeguata distinzione tra tempo sociale e tempo individuale, né tra tempo occupato e tempo libero. I confini tra l'uno e l'altro vengono azzerati dall'onnipresenza del mezzo informativo che su tutti impone la propria legge, cioè la logica omologante di un'informazione che prescrive per tutti i problemi e le contingenze dell'esistenza il suo ritmo e il suo messaggio. Rimane auspicabile una vigorosa ripresa di orientamenti del tipo «autostrutturazione» (cioè capacità di gestire il tempo), ma incombe la minaccia di «eterostrutturazione» (adattamento al ritmo securizzante del tempo imposto dall'esterno). E' su questi tempi che va commisurata la capacità dei giovani di tradurre le proprie esigenze e bisogni in progetti che si possano realisticamente immaginare realizzati in un tempo a portata di mano e non condannati nel limbo delle utopie.

    IPOTESI Dl SCENARIO

    Quali sono i punti caldi che richiedono attenzione culturale e politica?
    Non si tratta solo di denunciare sterilmente i ritardi e le incongruenze, ma anche e soprattutto di segnalare i sintomi di novità e di cambiamento che interessano ad un tempo i giovani e l'intero sistema sociale italiano.

    L'ipotesi dell'esplosione del disagio giovanile

    Indubbiamente l'opinione pubblica italiana si è fatta più sensibile, negli ultimi anni, a certi sintomi che denotano ormai il superamento del vero o presunto momento di eclissi della condizione giovanile dallo scenario sociale, e lasciano ampio spazio a ipotesi inquietanti sulle nuove forme di protagonismo giovanile che sembrano emergere da recenti fenomeni di mobilitazione degli studenti. Non è solo il Movimento '85 che preoccupa; in realtà ci si è già premurati di anticiparne e neutralizzarne le mosse attribuendogli tutte le identità atte a svuotarlo di senso e di mordente. E' piuttosto l'interrogativo sullo sbocco che potrà prendere in un futuro più o meno immediato il profondo e diffuso «disagio» giovanile.
    La parola racchiude un contenuto variegato: ha indubbiamente una sua base obiettiva, che coincide con la somma di inadempienze ritardi, tradimenti di cui i giovani sono stati l'oggetto privilegiato negli ultimi anni, ed ha anche un vissuto soggettivo ad ampio spettro fenomenologico.

    Il volto concreto del disagio

    Senza voler generalizzare ad ogni costo e senza cadere nel moralismo, non è difficile elencare una serie di percezioni, emozioni e sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che nascono da una sofferenza spesso sommersa, ma non per questo meno autentica e sincera. Più frequentemente si fa riferimento alle frustrazioni che nascono dalla precaria situazione occupazionale e dalla incertezza degli sbocchi d'inserimento; è forse l'aspetto più appariscente, ma non l'unico o il più importante, del disagio giovanile. Più globalmente, le radici della sofferenza vanno cercate nell'inadeguatezza degli atteggiamenti con cui gli adulti si relazionano alle domande problematiche dei giovani: non è raro registrare risposte che vanno dalla incompetenza alla strumentalizzazione, dalla sfiducia all'inerzia, dal cinismo alla stigmatizzazione. Il problema essenziale del disagio giovanile va dunque ravvisato in una generalizzata incapacità del mondo adulto a riconoscere le esigenze della realizzazione, così come si presentano nell'attuale momento di transizione. Le espressioni di questa inadeguatezza si distribuiscono lungo l'asse privato-pubblico, con specifiche accentuazioni tematiche: l'abbandono familiare, l'incomunicabilità, l'inutilizzazione, il mantenimento in una dipendenza forzata, la mediocrità della risposta, il giovanilismo ad oltranza, la deresponsabilizzazione, il calcolo e il non riconoscimento, la dispersione delle risorse, ecc. Vi è una gamma di non-risposte di cui la crisi delle istituzioni preposte alla socializzazione e alla valorizzazione delle nuove generazioni rappresenta il compendio più sintomatico.

    Dal disagio alla irrazionalità?

    Se il disagio con tutte le sue articolazioni fenomenologiche appare indiscutibile, più difficile risulta la connessione tra esso ed i suoi sbocchi ipotetici. Fino ad ora il disagio si è irrobustito a livello di «sommerso», non trovando fattori d'innesco sufficienti a farlo esplodere in comportamenti devianti, carichi di significato eversivo o, comunque, di conflittualità sociale. La tossicodipendenza, specialmente nel suo massimo sviluppo quantitativo, ha provocato soprattutto una preoccupazione centrata sul destino individuale e sul deterioramento delle relazioni microsociali dei giovani coinvolti; solamente in alcuni brevi momenti il comportamento «tossico» ha potuto assumere il ruolo di veicolo simbolico di una generalizzata contestazione del sistema, riducendosi in genere a solo meccanismo di fuga da una realtà non più sopportabile. La valenza potenzialmente esplosiva della droga è stata abilmente neutralizzata mediante una sua radicale privatizzazione, che di fatto non ha provocato altro che un'ulteriore emarginazione dei tossicodipendenti. Ora però riemergono forme vecchie e nuove di devianza giovanile legate alla criminalità organizzata; si agita nuovamente lo spauracchio di un terrorismo a radici internazionali; si registra una preoccupante «escalation» della violenza negli stadi; gli studenti scendono in piazza con rivendicazioni urgenti; si verificano spesso episodi di vandalismo su cose e di crudeltà su persone ed animali.
    Siamo arrivati forse ai livelli di guardia, cioè ai valori di soglia del disagio giovanile, oltre cui non c'è se non l'irrazionalità collettiva?

    Disagio e stuttura di personalità

    La risposta a questi interrogativi non può essere che articolata e ipotetica. Non mi sento di avallare una lettura dei fenomeni sociali in analisi, che utilizzi solo una sequenza meccanicistica del tipo disagio-deprivazione-reazione violenta o criminale. Ritengo più adeguata all'andamento fortemente selettivo dei comportamenti devianti una spiegazione che assegna un ruolo determinante, nell'eziologia delle risposte adattive o alternative, alla funzione di «significazione personale» delle variabili in gioco, che è legata evidentemente alla struttura di personalità e alle qualità soggettive dell'esperiente.
    Tale funzione è come un filtro che analizza le diverse variabili che costituiscono la premessa del comportamento deviante, e che interiorizza a suo modo le sanzioni provenienti dal controllo sociale, traendone un orientamento per l'azione personale in termini di «convenienza», «utilità», «desiderabilità» soggettiva del modello deviante. Se non tutti i giovani «a rischio» diventano di fatto devianti, è forse perché i fattori che dovrebbero spingere verso la devianza non agiscono automaticamente, ma all'interno di un processo di «conferimento di senso» ai fattori stessi, su cui si fonda tra l'altro la responsabilità dell'azione e la sua imputabilità sociale. Con questo non si vuol dire che i fattori a monte (il disagio, cioè, la deprivazione, la marginalità, ecc.) non siano importanti e decisivi; resta infatti alta la probabilità che la loro minacciosa presenza incida (sia pure non meccanicisticamente) sui processi di elaborazione collettivi e individuali dei «sistemi di significato», inquinando il filtro soggettivo. E ciò legittima l'urgenza di risposte culturali e politiche al «disagio» giovanile, e allo stesso tempo rivaluta la funzione educativa come mediazione essenziale dei processi percettivo-cognitivi e valutativo-decisionali che sono implicati nel percorso ipotetico verso la devianza: senza educazione, nel senso pregnante del termine, che include una vigorosa abilitazione del giovane a leggere criticamente la propria esistenza e a progettarla nella prospettiva del valore, il disagio è destinato a sboccare nell'irrazionalità. Le premesse obiettive perché ciò avvenga sono ormai consistenti.

    Il ripiegamento adattivo e il rischio della mediocrità

    Se il «disagio» giovanile chiama in causa le contraddizioni e le strozzature che caratterizzano il modello di sviluppo del sistema sociale, altri aspetti odierni della questione giovanile sembrano mettere sotto accusa i giovani stessi, l'inadeguatezza della loro stessa risposta adattiva o alternativa ai problemi che li riguardano.
    Sarebbe fuori posto, in questo contesto, una generica colpevolizzazione dei giovani che non tenga conto delle radici obiettive della loro eventuale inadeguatezza; e, d'altra parte, vanno ormai respinte come pericolosamente irresponsabili tutte le forme di complicità e di vezzeggiamento che tentano di legittimare tutto ciò che è espressione giovanile, senza criterio e discernimento. Giustamente è stato osservato che i giovani stessi non hanno paura della verità che li riguarda, e che preferiscono la «critica impietosa dei profeti» alla menzogna ambigua degli adulti insicuri.
    Già nelle pagine precedenti non si è omesso di sottolineare certe ambivalenze insite in alcuni meccanismi di difesa e di adattamento adottati dai giovani di fronte alla complessità sociale; come pure certi rischi connessi ad una interpretazione unilateralmente pragmatica della propria condizione esistenziale. Sono ambivalenze e rischi non estranee neppure al mondo adulto, ma che in un giovane si è portati, forse per inconscia deformazione professionale, a considerare quanto meno controproducenti.
    Senza timore di scadere in un «j'accuse» indiscriminato, credo siano da segnalare comportamenti che risultano certamente disfunzionali al superamento delle diverse forme di «disagio» e di «estraniazione» di cui soffrono i giovani.

    La generazione dell'abbastanza

    Sono modelli che non sono generalmente condivisi dalla maggioranza e che trovano spesso una smentita clamorosa in modelli diametralmente opposti, che dimostrano la possibilità concreta (anche se difficile) di comportamenti alternativi. Realmente vi sono alcuni modi di pensare, valutare ed agire che denotano l'accettazione fatalistica delle condizioni di marginalità, frammentazione, perdita di identità, ecc. e che tendono a considerare queste condizioni come alibi che giustifica la mediocrità. Il consumismo sfacciato dei figli di papà, la rinuncia consapevole alla progettualità, una certa allergia nei riguardi di ciò che è arduo e impegnativo, l'inerzia che accompagna la lunga stagione della dipendenza: queste ed altre sono le modalità di un vissuto che è effetto e causa del disagio giovanile.
    Chi ha definito questa generazione come «generazione dell'abbastanza» ha forse creato null'altro che uno slogan riduttivo; ha però centrato con esattezza l'aspetto problematico di una generazione che, pur avendo ricevuto più di ogni altra le risposte essenziali ai bisogni primari, è tentata di adagiarsi sui risultati ottenuti, mortificando il gusto di scoprire e soddisfare nuovi bisogni e valori.
    Vi è inoltre una curiosa tendenza alla spettacolarizzazione della vita, che si nutre talora di ciò che è effimero e superficiale, che premia l'apparenza e il successo gratuito, che gioca con il linguaggio senza significarlo. Indubbiamente ciò è perfettamente consono ad una certa tendenza generale alla spettacolarizzazione che ha investito diversi settori della vita sociale, dalla politica alla religione, dallo sport alla cultura, e trova rigoroso impulso nel contenuto prevalente dei networks radiofonici e televisivi.
    Un altro risvolto problematico è forse rappresentato dalla progressiva banalizzazione del linguaggio; non siamo più ai «cioè» e ai «non so» post-sessantotteschi, ma si verifica largamente un imbarbarimento delle espressioni orali e scritte. La volgarità e l'equivoco hanno preso il posto all'ironia e dell'invettiva che in altra epoca nobilitavano per certi aspetti il graffito politico o lo slogan dei cortei; il nuovo linguaggio giovanile sembra oscillare tra disinvolto nominalismo e greve pragmatismo.

    Una profonda crisi morale

    Infine va forse segnalata una crisi morale più profonda di quanto non appaia dai comportamenti visibili. La delegittimazione in atto di molti modelli di comportamento, fino ad ora sostenuti da un generale consenso sociale, ha spinto molti (giovani e no) a forme diverse di autolegittimazione che spesso non corrispondono affatto allo sforzo di inventare una morale autonoma alternativa, ma scadono inevitabilmente nella giustificazione di comodo della scelta contingente. Al di là di questa radicale relativizzazione non resta che il gregarismo opportunista, il cinismo, l'invidualismo. Spesso non si nota la ricerca faticosa di nuovi equilibri (vedi l'equivoco annaspare che ha seguito la liberalizzazione dei comportamenti sessuali), ma solo una progressiva deriva verso la sterilità morale.
    Questo discorso critico sui giovani non è nuovo al discorso sociologico; e risente necessariamente delle scelte valoriali, delle identità e delle appartenenze dei singoli osservatori sociali. Se ne trova un'eco, anche recentemente, in certe rammaricate constatazioni circa l'allontanamento dei giovani dalla politica o dalla religione, il presunto «riflusso» privatistico, o la negazione edonistico-narcisistica, la scelta della violenza terrorista, la «fuga» nella droga, ecc. E' un discorso che rischia di diventare moralistico e paternalistico se pretende di proiettare sui soli giovani le contraddizioni che sono di tutti e che in ogni caso non è giusto se applicato indiscriminatamente; ma può anche essere ripreso entro una più articolata e realistica valutazione dei modelli di comportamento giovanile che anticipano in positivo una migliore qualità della vita e già realizzano forme creative e innovative. E' anche da questi chiaroscuri che prende senso il complesso «puzzle» giovanile.

    I giovani come risorsa

    Forse va dato per scontato che i giovani rappresentano una «risorsa» sociale solo a certe condizioni. Non è il loro numero che conta, né il clamore che circonda certe iniziative o manifestazioni di cui i giovani sono protagonisti. E' invece la qualità della proposta che emerge dagli stessi problemi e dalle domande più o meno inespresse che contraddistinguono i comportamenti giovanili. A ben guardare, i problemi e le domande non sono sempre originali ed inedite, ma trovano accenti di autenticità proprio in rapporto alla capacità di incidere nel processo di cambiamento sociale in termini concreti e costruttivi.
    La «risorsa» si specifica come anticipazione di valori, modelli, stili di vita realistici e allo stesso tempo utopici.

    Dalla marginalità alla partecipazione

    Dalla marginalità, o meglio dalla presa di coscienza della propria possibile o reale condizione di marginalità, può nascere una domanda di partecipazione-appartenenza-responsabilità che diventa proposta concreta di protagonismo serio, costante, vigoroso. Già sono all'opera e si diffondono iniziative che ne documentano la ricchezza progettuale e la creatività metodologica: in prima linea il movimento cooperativistico e le diverse forme di impegno per la creazione di nuovi posti di lavoro, poi anche le articolate forme di volontariato giovanile (dall'educativo al culturale, dal sociale al ricreativo, ecc.), infine il risorgente impegno nelle più svariate realtà associative (dal politico all'ecclesiale, dallo sportivo al sindacale, ecc.).
    Vi sono sintomi non trascurabili di un ritrovato gusto per impegni che abbiano una chiara finalità di utilità sociale; e non raramente si trovano giovani che identificano il percorso della propria realizzazione personale con quello della solidarietà universalistica. La qualità della vita, centrata attorno a valori che più o meno correttamente sono stati definiti post-materialistici, si precisa ormai in rapporto ad un bisogno di relazione non solo funzionale alla securizzazione o espansione personale, ma sensibile ad esigenze «di sistema».

    Dalla frammentazione alla personalizzazione

    Dalla frammentazione, se colta consapevolmente nella sua valenza positiva, può nascere una forte domanda di riflessività, interiorità, personalizzazione che viene investita prioritariamente sulla variegata e ricca produzione soggettiva di senso. Sembra esserci in alcuni giovani il bisogno di ridurre a unità l'esperienza senza mortificarne la complessità, e il bisogno di ricomporre in totalità il vissuto senza operare tagli ingiustificati. Sintomi di una ritrovata capacità di superare la frammentazione (o almeno di convivere decentemente con essa) si ritrovano in certi vissuti comunitari, in certe relazioni di coppia, in certe sperimentazioni di comunicazione aperta e profonda: vi è un mondo giovanile da riscoprire nella sua differenziata capacità di riflessione non evasiva, che include credenti e non credenti, tossicodipendenti in via di autoriscatto e artisti, ex-sessantottini neo-contemplativi e nuove leve di impegnati politicamente.

    Dalla difficile identità ai nuovi bisogni

    Dall'esposizione dell'identità, cioè dall'impoverimento progressivo di valori e dall'incertezza dei percorsi verso l'autorealizzazione, può nascere una domanda urgente di soddisfazione di nuovi bisogni, espressa come riappropriazione del diritto a darsi un'identità fortemente personalizzata e fortemente storicizzata. Questa tensione si muove, sul versante critico, tra rifiuto dell'ideologia e sfiducia verso l'utopia gratuita; e sul versante propositivo si nutre in prima istanza del ricupero di alcuni valori che la società postindustriale rende praticabili: la corporeità, la relazione, l'etica, l'amicizia, la dignità personale, la realizzazione di sé, l'impegno sociale. Recedono alcuni bisogni di tipo acquisitivo (ma non del tutto e forse non per sempre) ed emergono, come essenziali all'identità, nuove ed antiche esigenze espressive. I sintomi di tutto ciò sono sparsi in misura non esigua in tutta la produzione culturale giovanile.

    Dal presentismo alla cultura del tempo

    Dall'estraniazione prodotta da un tempo scandito secondo ritmi non ancora consueti, può nascere una nuova consapevolezza del valore del tempo individuale e sociale. Vi sono i segni di una diversa «cultura del tempo»; non solo e non più l'esperienza della noia e dello spreco dentro un tempo senza significato, né l'urgenza di un presentismo che brucia ogni possibilità ad ogni istante, ma la consapevolezza della importanza e della irripetibilità delle opportunità offerte ad ogni stagione della vita. Si può leggere tutto ciò nella domanda di un tempo più pieno e più vivo per il momento formativo (vedi proteste per le inadempienze della scuola), nell'urgenza di vivere diversamente la transizione verso il lavoro, nell'esigenza di anticipare la stagione dell'impegno sociale e dell'attività produttiva, e più in generale nella domanda di ritmi di vita più «a misura d'uomo».

    Queste ed altre domande, variamente combinate in ogni giovane e in ogni strato, aggregazione, gruppo giovanile, in modo da comporre un cocktail imprevedibile di intenzioni progettuali, convivono e interagiscono con le contraddizioni ed ambivalenze altrettanto variegate che accompagnano il vissuto giovanile. Ne risulta una geografia estremamente complessa, il cui senso globale può facilmente sfuggire, ma la cui ricchezza problematica continuerà a sollecitare la ricerca scientifica e l'interesse degli operatori.


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