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    Giovani e lotta per l'identità: un nuovo movimento?



    Intervista a Alberto Melucci a cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 1985-9-12) 


    I GIOVANI: UNA REALTÀ SOCIALE DIFFERENZIATA

    Domanda. Le categorie con cui si descrive e si interpreta la condizione giovanile tendono a dare un'immagine dei giovani come distinti dal resto della società, con problemi e soluzioni specifiche, con bisogni loro propri e differenziati, che non permettono di lasciarsi assorbire da quelli della società nel suo insieme.
    Ma c'è davvero tra i giovani volontà di differenziazione da una società di massa? e perciò di riappropriazione della definizione del «bisogno» e del tentativo di rispondere ai bisogni?

    Risposta. Bisogna intendersi sul significato dei concetti che usiamo. Quando si parla di società di massa, si richiama generalmente un'immagine di omogeneizzazione e di conformità, che certamente corrisponde a dati reali.
    Ma nello stesso tempo si dimentica un altro aspetto: cioè che la società di massa è anche la società in cui cresce la diffusione di risorse, di possibilità messe a disposizione degli individui e in particolare anche dei giovani.
    Basta pensare al fenomeno della scolarizzazione di massa. Essa significa, certamente, che le culture locali, le culture particolari, molto più che in passato, entrano nel circuito generale, ma significa anche che ci sono nuove e molteplici risorse e possibilità messe a disposizione dei singoli. Da questo punto di vista c'è una possibilità di definire i bisogni e le esigenze personali più precisamente che in passato. Definire, per esempio, il bisogno di realizzazione, di scelte e di decisione autonoma rispetto alla propria vita. Questo sicuramente è un aspetto legato alla crescita delle società complesse.
    Un altro aspetto, strettamente connesso, è il fatto che oggi una certa fascia di età, quella giovanile, diventa più specificamente visibile, più autonoma, rispetto al sistema sociale nel suo insieme. Ciò è legato a diversi fattori: al processo di trasformazione della famiglia patriarcale e alla crescita di autonomia dei figli, al processo di scolarizzazione a cui accennavo; e all'estendersi del mercato, quindi all'estendersi delle possibilità di consumo.
    Si costituisce quindi nelle società più avanzate, soprattutto negli ambiti urbani e metropolitani, una categoria sociale vera e propria che possiamo chiamare «i giovani», come una fascia di età definita da caratteristiche proprie, da culture proprie, da bisogni ed esigenze specifiche, che possono essere identificati e differenziati dal resto della società.
    È quindi facilmente individuabile, certamente più che nel passato, un'area di soggetti, di attori sociali, come distinti rispetto ad altri attori sociali, i cui «bisogni» sono da una parte più ricchi e più vari, e dall'altra più differenziati e specifici.

    La scelta «culturale» di essere giovani

    D. Tale differenziazione è anche cosciente e riflessa? Il discorso si sposta sulla «cultura» giovanile in senso proprio.

    R. La presenza di culture giovanili (e il fatto che siano riconosciute e se ne parli) indica, in qualche modo, una consapevolezza più o meno esplicita di una condizione particolare e di esigenze e bisogni specifici. Naturalmente la scoperta dell'esistenza di questa fascia potenziale di consumatori distinti dal resto della società, ha anche prodotto un intervento crescente del mercato con l'offerta e l'incentivazione di consumi particolari e specializzati per i giovani stessi. Ma la possibilità di sperimentare propri stili di vita ha prodotto in essi maggiore consapevolezza della loro condizione.
    Ma vi sono altri due elementi che ritengo importanti.
    Anzitutto il gruppo giovanile (o comunque il gruppo dei pari) diventa un punto di riferimento importante rispetto ad altre agenzie che tradizionalmente influenzavano la socializzazione: la famiglia, la scuola o la chiesa. Il fatto che questo spazio di cultura giovanile si rende autonomo, significa anche che i riferimenti, i valori, le scelte, i criteri di decisione si formano molto più «all'interno» (con riferimento al gruppo dei pari, alla cultura giovanile in senso proprio, o alle diverse culture giovanili) che non invece in riferimento alla cultura adulta e «esterna».
    L'altro elemento è che, parlando di giovani, diventa sempre più difficile circoscrivere tale condizione riferendosi semplicemente a determinanti biologiche. La difficoltà di stabilire, nelle ricerche, la fascia di età entro cui delimitare la condizione giovanile, nasconde un problema sociologico importante, il fatto cioè che la condizione giovanile diventa sempre meno una condizione «biologica», e sempre più una condizione «simbolica»: è legata cioè a valori, scelte, modi di vita, simboli che caratterizzano la condizione giovanile.
    Da questo punto di vista si potrebbe quasi dire che si è sempre più giovani «per scelta», anziché per dato biologico; per scelta culturale, per scelta del modo di vita, legato alla variabilità, alla provvisorietà, a certi modi di vestire, di consumare e di comportarsi.

    La spinta omogeneizzante e il ricupero delle differenze

    D. Eppure si fa strada anche la tendenza opposta a quella della differenziazione: cioè come una specie di omogeneizzazione che tende a far scivolare i problemi dei giovani dentro il calderone dei problemi di tutti. In fondo si dice che i giovani non sono altro che lo specchio della società, e che all'interno della crisi della società ogni altra crisi particolare (anche quella dei giovani) tende a scomparire e perde di rilevanza.

    R. Ci sono entrambe le tendenze.
    Ci sono esigenze di sistema che spingono verso la standardizzazione dei comportamenti, verso l'introduzione di modelli regolati, «normali» di comportamento, di consumo e così via.
    Però nei confronti della cultura giovanile, soprattutto negli ultimi vent'anni, la tendenza è stata piuttosto di utilizzare questa spinta alla differenziazione. Quindi, paradossalmente, si potrebbe dire che la omologazione o la standardizzazione avviene attraverso il ricupero di queste differenze e il loro inserimento nel mercato.
    Ad esempio, gli stili di vita, i modi di consumo e le mode giovanili sono stati rapidamente e con una sequenza impressionante integrati nel mercato. Basta pensare al fenomeno del rock prima e al fenomeno punk più recente: tutte le simbologie del rock e del punk sono oggi diffuse nella società più vasta; e tutti in qualche modo consumiamo beni connessi con questi stili di vita e con questi simboli culturali, nati specificamente come simboli di differenziazione all'interno del mondo giovanile.
    C'è sicuramente un effetto di standardizzazione, ma piuttosto attraverso il ricupero delle differenze.
    Ciò che ha caratterizzato il mondo giovanile, invece, è stato proprio l'accentuazione delle differenze, l'accentuazione dei dettagli dello stile; e le culture giovanili degli ultimi vent'anni sono state marcate principalmente da questo aspetto: stili di consumo, stili di abbigliamento, gusti musicali...

    D. Ma di quali giovani in realtà parliamo? In una parola: una o molteplici condizioni giovanili?

    R. Molto spesso si parla dei «giovani», dimenticando che le condizioni giovanili sono molte.
    I riferimenti che richiamavo riguardano principalmente i giovani urbani, metropolitani... non direi però «borghesi», perché condizioni sociali diverse (proletari, ad esempio) sono state coinvolte da stili e culture di questo genere, a cominciare dal mondo anglosassone.
    Resta certo il problema della diversità delle condizioni sociali che non bisogna affatto dimenticare quando si parla dei giovani: giovani che vivono in piccoli centri rurali, giovani urbani, giovani metropolitani, condizioni e classi sociali diverse...
    Però non bisogna sottovalutare il fatto che l'intervento del mercato e dei massmedia, e soprattutto l'intervento dei consumi culturali e degli stili di vita, provocano una generalizzazione di certi modelli, anche attraversando condizioni sociali e situazioni geografiche diverse.
    Soprattutto nel nostro paese, poi, queste generalizzazioni dei consumi e degli stili di vita, incrementati o stimolati dal mercato, s'innestano su culture tradizionali, su situazioni locali differenziate, e producono un mix del tutto particolare.
    Ad esempio, è impressionante vedere l'innesto della cultura metropolitana o dei modelli di vita recenti di importazione americana, in una cultura meridionale da poco uscita dal familismo o dalla struttura tradizionale dei valori rurali. Questo mix è talvolta esplosivo: l'innesto rapido e generalizzato di modelli di vita e di consumo su strutture tradizionali che non sono pronte a questo passaggio, produce disgregazione e, probabilmente, apre la strada al fenomeno della droga. Ma questo è un discorso che ci porta troppo lontano.

    UNA CHIAVE Dl COMPRENSIONE PER IL MONDO GIOVANILE

    D. Uno dei temi che lei ritiene centrale nella mutata situazione della società postindustriale o complessa è quello dell'identità, come «una chiave decisiva per la comprensione dei fenomeni collettivi emergenti nelle società contemporanee».
    Prima di vedere quanto il discorso dell'identità può valere in riferimento alla condizione giovanile, può precisare meglio il senso di questa affermazione?

    R. Devo partire da lontano, e mi riferisco a quanto ho già scritto in altri libri, soprattutto L'invenzione del presente e Altri codici (editi da Il Mulino).

    Trasformazioni delle società complesse: informazione e individuazione

    Il punto di partenza è l'analisi delle trasformazioni generali delle società complesse.
    In esse si stanno compiendo mutamenti senza precedenti: si può dire che esse hanno percorso l'intero ciclo dell'utilizzazione delle risorse che alimentano i sistemi viventi, da quelle materiali a quelle energetiche a quelle dell'informazione. Oggi i sistemi affidano all'informazione la loro sopravvivenza, il controllo dell'ambiente, l'espansione verso lo spazio e il delicato equilibrio che li preserva dalla minaccia della guerra totale.
    Produrre non significa oggi semplicemente trasformare le risorse naturali e umane in merci per lo scambio, organizzando le forme della produzione dividendo il lavoro e integrandolo nel complesso tecnico-umano della fabbrica. Significa invece sempre più controllare sistemi complessi di informazioni, di simboli, di relazioni sociali.
    Anche il mercato non funziona semplicemente come luogo di circolazione delle merci, ma sempre più come sistema in cui si scambiano simboli.
    Non per niente uno dei termini più in voga per definire le società di oggi è «società dell'informazione».
    Ma una società dell'informazione accentua caratteristiche particolari della vita sociale: e soprattutto il suo carattere riflessivo, artificiale, costruito. L'azione sociale, anche le più banali azioni della vita quotidiana, sono come avvolte in una spirale che aumenta a dismisura il contatto e la dipendenza dall'informazione stessa.
    L'informazione è una risorsa di natura simbolica, cioè riflessiva, è un bene che per essere prodotto e scambiato esige capacità di simbolizzazione e decodificazione: che non solo danno per scontata l'acquisizione di una base materiale, ma anche la capacità di costruire universi simbolici dotati di autonomia, e quindi richiamano l'esigenza di strutture biologiche e motivazioni umane adeguate.
    Abbiamo quindi da una parte il fatto che le società producono e distribuiscono risorse crescenti di individuazione: risorse che aumentano la capacità degli individui di produrre e di riconoscere la propria azione come campo di identificazione: le risorse di autonomia individuale, di autorealizzazione, di differenziazione personale sono infatti le condizioni assolutamente indispensabili perché i sistemi complessi ad alta densità di informazione possano funzionare attraverso un'estensione della capacità simbolica e della capacità riflessiva.
    Ma d'altra parte i medesimi sistemi devono assicurare la loro integrazione estendendo il controllo sulle medesime risorse. Essi spostano cioè la regolazione verso la capacità individuale di produrre senso, verso le strutture biologiche e motivazionali dell'agire umano.
    I grandi apparati di decisione economica e politica non possono più limitarsi soltanto al controllo della produzione delle sole risorse economiche o della forza-lavoro: se la produzione oggi investe rapporti sociali, simboli, identità e bisogni individuali, allora appare chiaro il controllo e l'intervento crescente sui processi relazionali e sui sistemi simbolici.
    Una società di apparati impone identità, definendo il senso e gli orientamenti dell'azione individuale attraverso processi capillari, differenziati, puntuali di diffusione di modelli simbolici. Importa infatti ottenere identificazione, plasmare identità funzionali, adattabili, fungibili.
    Ancora, una società fondata sull'informazione ridimensiona anche lo spazio e il tempo. Lo spazio sembra perdere i suoi connotati fisici, dal momento che può essere esteso o contratto in misura sorprendente, mentre lo spazio simbolico si allarga al mondo intero. Anche la concezione del tempo muta, se si considera la velocità a cui l'informazione può essere prodotta e trasportata e il divario sempre minore esistente tra la produzione e l'analisi delle informazioni; ma cresce il divario con altri tempi dell'esperienza quotidiana: con i tempi interni, quelli degli affetti e delle emozioni, quelli degli interrogativi senza risposta, quelli necessari a produrre una qualche integrazione dei percorsi individuali, a ricomporre le facce diverse della nostra identità.

    La ricerca di identità personale

    Da qui l'incertezza sempre maggiore nella capacità di cogliere il senso dell'esperienza individuale, di integrare cioè la quantità crescente di informazioni all'interno di un qualche principio di unità interiore, e la spaccatura quasi insanabile tra il regno della conoscenza strumentale e la ricerca della saggezza, di un'integrazione del senso nell'esperienza personale.
    Da qui la ricerca di identità, la ricerca di un incontro con se stessi che va verso le basi profonde dell'agire individuale, e la riscoperta di un'alterità insanabile, di uno spazio di silenzio che si sottrae al flusso incessante di comunicazioni codificate, che cerca nella chiusura e nel vuoto di ricomporre i frammenti dispersi dell'esperienza umana.
    Questo è il nuovo campo della contrattazione e perciò dei conflitti. I conflitti sociali si spostano dal sistema economico-industriale verso terreni culturali, riguardano l'identità personale, il tempo e lo spazio di vita, le motivazioni e il senso dell'agire quotidiano. Essi intervengono su questo terreno e mettono a nudo la logica di funzionamento delle nostre società.
    I movimenti degli anni Ottanta si fanno carico di questi conflitti.

    Identità e mondo giovanile

    D. Individuata l'area di azione, il campo dei conflitti, è possibile anche rintracciare quelli che lei definisce «i nuovi movimenti», i movimenti della società dell'informazione, così diversi dai movimenti classici: forse non più di reticoli sommersi di gruppi e di esperienza, che pure portano i germi di molti sviluppi e annunciano un cambiamento di qualità nelle caratteristiche dell'azione collettiva.
    Lei parla dei giovani, delle donne, del movimento ecologico, della «nuova coscienza».
    In quale senso anche a proposito dei giovani si può parlare di ciò che è tipico di questi movimenti, cioè di ricerca e «lotta per l'identità»?

    R. Certamente la ricerca di identità (o la definizione di identità) è un problema tradizionale dei giovani: esso ha sempre riguardato i giovani che entrano in un sistema sociale di cui debbono in qualche modo apprendere le regole, è il tradizionale problema di generazione. Quindi non è da questo punto di vista che esso si presenta come un problema nuovo.
    Quello che è nuovo riguarda invece la situazione in cui ci veniamo a trovare, quella della società complessa a cui ho appena fatto riferimento.
    Vorrei riprendere questo discorso e applicarlo in maniera specifica alla situazione giovanile nella sua ricerca di identità.
    Si è detto che essendo aumentate nel sistema le risorse disponibili e il grado di autonomia (possibilità e ampiezza delle scelte), si accresce anche l'esigenza e la possibilità di una definizione autonoma-personalizzata-individuale dell'identità.
    Preciso meglio.
    Se prendiamo come riferimento il sistema tradizionale, l'identità è principalmente l'apprendimento delle norme, dei valori del sistema sociale a cui si tratta di aderire; quindi i processi di socializzazione riguardano principalmente la trasmissione dei valori
    Ma per sistemi che mutano rapidamente e che allargano il campo delle possibilità disponibili agli individui (come avviene nelle odierne società complesse), la definizione di identità è invece un processo fatto di scelte e di costruzioni in qualche modo autonome da produrre, da inventare, piuttosto che da ricevere per trasmissione.
    Da questo punto di vista, la definizione di identità diventa una elemento cruciale centrale nella condizione giovanile, con la differenza, rispetto al passato, della necessità di costruire un'identità più che di riceverla e riconoscervisi.
    C'è un aspetto anche di lotta o di conflitto dentro questa ricerca. Infatti il campo delle possibilità che si offre è contemporaneamente limitato da vincoli che il sistema impone a diversi livelli. Mentre da una parte si presenta ai giovani una promessa di possibilità senza limiti: di autonomia, di autodefinizione, di autorealizzazione; nei fatti questa possibilità si scontra con vincoli molto precisi: il mercato del lavoro, la struttura delle professioni, la ristrettezza dei gradi di libertà offerti dalla partecipazione pubblica e politica. I giovani sperimentano costantemente questa contraddizione: una specie di eccesso di risorse e di possibilità, promesse di autorealizzazione, di definizione dell'identità, che risultano però eccedenti il campo delle opportunità offerte dal sistema.
    Ciò significa allora che l'identità diventa non soltanto una possibilità, ma anche in qualche modo una posta in gioco, qualcosa per cui è necessario lottare.

    Giovani e conflitti sociali: un nuovo «movimento»?

    D. Vi sono alcuni particolari elementi della condizione e cultura giovanile suscettibili di attivare conflitti legati al problema dell'identità, in qualche modo indicatori di questa «lotta per l'identità»?

    R. La cultura giovanile degli anni '80 sembra aver reso espliciti alcuni temi che definiscono il campo dei conflitti postindustriali, e proprio per questi caratteri la gioventù si presenta come uno specchio dell'intera società, una sorta di paradigma dei problemi cruciali dei sistemi complessi. Ma vorrei fin dall'inizio evitare di fare del messianismo giovanilistico, quasi che i tratti di cultura emergenti fossero profetici allo stato puro, indicatori di un chiaro conflitto con i segni unicamente del positivo, del distinto: essi sono piuttosto segnati dall'ambivalenza. Forse assai più che in passato i giovani degli anni '80 parlano in nome del possibile, un possibile che è già presente. Ma con i segni dell'ambivalenza, perché l'emergere del nuovo ha prevalentemente i segni del negativo, del silenzio, del rifiuto.
    Sottolineo alcuni di questi caratteri, rifacendomi a quanto ho già scritto in L'invenzione del presente.
    Il silenzio, anzitutto, o il rifiuto della parola. Sembra che dopo gli anni delle parole scandite, gridate, ripetute, si installi l'impossibilità del discorso compiuto, la frammentarietà di un parlare che procede a spezzoni incoerenti.
    Eppure in questa parola che non è parola, c'è qualcosa di più dell'assenza. C'è l'affermazione di una parola che non intende più essere separata dalle emozioni, c'è un dire che vuole radicarsi nell'essere più che nel fare e torna perciò alla povertà essenziale, alle cesure e ai vuoti dell'esperienza profonda di ciascuno; c'è una radicale contestazione della parola formalizzata dei sistemi governati dalla razionalità strumentale che non concede spazio all'esperienza emozionale affettiva, corporea.
    Contro questa separazione forzata dell'esperienza mi sembra si levi l'assenza o povertà di parola del mondo giovanile: è un appello alla ricomposizione dell'esperienza umana, una ricerca diversa di voce e di linguaggio.
    Un secondo carattere può dare immediatamente l'idea di una certa contraddittorietà nei comportamenti giovanili: si tratta della presenza, contemporaneamente, di una certa tendenza all'integrazione e di separatezza. La cultura giovanile, in una parola, afferma sia l'esigenza della comunicazione, il bisogno di comunicare, sia il diritto a decidere quando e con chi comuni
    Nelle società complesse la comunicazione diventa una regola imposta da sistemi che devono moltiplicare le interazioni e lo scambio di informazioni, per mantenersi. A questo «dovere di comunicazione» la cultura giovanile oppone il diritto al silenzio, all'isolamento, alla separatezza. Ma, parallelamente, l'azione del sistema si manifesta anche attraverso l'atomizzazione delle relazioni personali, la standardizzazione dei messaggi, la negazione di una comunicazione culturalmente e affettivamente ricca. Rispetto a questo versante dell'azione di sistema, la cultura giovanile rivendica allora il diritto alla comunicazione aperta, afferma la volontà di utilizzare tutte le reti di socialità che la rendono possibile, di sperimentare tutti i canali espressivi e comunicativi che la società mette a disposizione. Apertura e chiusura, integrazione e separatezza si rivelano così, attraverso lo specchio dell'esperienza giovanile, bisogni profondi dell'esperienza individuale e collettiva nelle società complesse e contemporaneamente potenziali terreni di conflitto.
    Un altro tratto facilmente rilevabile è la mancanza di progetto, la provvisorietà degli interessi, delle aggregazioni, delle scelte. Noi proveniamo da una cultura per la quale la storia si presenta come un disegno avviato verso un fine e il presente ha solo il valore di un punto strumentale di passaggio. Ma nelle società postindustriali in cui il cambiamento diventa condizione quotidiana di esistenza, il presente assume paradossalmente un valore inestimabile. La storia, dunque la possibilità di cambiamento, non è orientata da fini ultimi; ciò che conta è l'oggi.
    La cultura giovanile richiama allora la società al valore del presente come unica misura del mutamento, chiede che ciò che vale si affermi nel qui ed ora, rivendica il diritto alla provvisorietà, alla reversibilità delle scelte, alla pluralità e al policentrismo delle biografie individuali e degli orientamenti collettivi. È per questo non può non scontrarsi con le esigenze di sistema che impongono prevedibilità, riduzione dell'incertezza, standardizzazione.
    Sottolineo comunque ancora una volta, per non essere frainteso, il carattere fortemente ambivalente di tali tratti di cultura giovanile: essi possono giocare come potenziali di conflitto, ma anche come fattori di integrazione della cultura giovanile nel vasto mercato della cultura di massa, oppure come segni distintivi di una marginalità istituzionalizzata.

    COMPORTAMENTI E CULTURA GlOVANlLE

    D. Vi sono stati, nella ricerca sociologica, molti tentativi di individuare una categoria che da sola interpretasse il mondo variegato dei giovani, quasi per riportare a unità i molteplici comportamenti e vissuti.
    Lei crede che la categoria «lotta per l'identità» possa risultare un riuscito tentativo? In altre parole, che possa spiegare tutto il comportamento dei giovani, e il comportamento dei soli giovani?

    L'esperienza del tempo: un futuro reversibile

    R. È una categoria che serve temporaneamente per definire un problema nuovo che è emerso, ma è ancora una categoria molto vaga e troppo comprensiva.
    Infatti non riguarda soltanto i giovani, perché il fatto di sperimentare molteplici possibilità e di scontrarsi con vincoli riguarda oggi molte categorie sociali in termini diversi.
    Certamente i giovani più specificamente, perché per loro è la prima volta che questa esperienza, questo scontro con limiti posti alla loro autorealizzazione, si realizza nella loro esistenza.
    Per i giovani l'identità ha a che fare principalmente con la possibilità di definire il campo delle scelte, delle decisioni e di mantenerlo aperto. Questo è infatti credo, lo specifico della condizione giovanile: la possibilità di fare scelte reversibili di tornare indietro, di cambiare strada, di scegliere tra alternative.
    Da questo punto di vista ho l'impressione che la connessione vada colta con l'esperienza del tempo.
    Il tema che la condizione giovanile contemporanea porta alla luce, direi con una funzione profetica per tutta la società, è che il tempo non è più una necessità, o è sempre meno una necessità segnata da un corso fatale, o da una linearità tesa ad un fine. È sempre più invece legato alla scelta, e quindi al rischio di scegliere tra alternative. Ciò significa, per esempio, che le scelte di vita, le scelte professionali, le scelte affettive, si presentano sempre più come legate al presente, ai bisogni e alle esigenze che l'individuo è in grado di sperimentare oggi, e non invece come scelte irreversibili e definitive.
    Un campo in cui questo fenomeno è già visibile è il campo del lavoro, dove appunto la variabilità, la provvisorietà degli impegni e delle scelte professionali è ormai un segno tangibile di un cambiamento nella cultura giovanile. L'impegno verso una carriera che dura una vita, rispetto a cui si costruiscono gradualmente i singoli passaggi, è un modello che sta tramontando.
    Invece, le scelte e gli impegni professionali diventano «a termine», reversibili. Ma questo si può applicare ad un campo anche più vasto di scelte e di opzioni.
    Questa possibilità di reversibilità delle scelte non è certamente soltanto un problema dei giovani, ma della società nel suo insieme; ma è come se i giovani incarnassero e testimoniassero questa possibilità per il sistema nel suo insieme proprio per la loro condizione, per il fatto che sono strutturalmente provvisori e reversibili.

    D. Però la reversibilità delle scelte si scontra, almeno per quanto riguarda il mercato del lavoro, con la crisi dell'occupazione, soprattutto giovanile, e il ritorno dei giovani alla «ricerca del posto» sicuro.

    R. In un certo senso c'è qui un paradosso: nel nostro paese, e nei paesi che sono stati più toccati dalla crisi degli anni '70, che è la crisi del passaggio al postindustriale, a livello di sistema
    complessivo, noi sommiamo gli elementi nuovi (un nuovo modello di società e di organizzazione produttiva) con residui ed eredità di una situazione tradizionale.
    Il problema dell'occupazione, ad esempio, risente di questo paradosso. Bisogna essere attenti nel leggere questo intreccio del nuovo e del vecchio: e credo che nei confronti del fenomeno dell'occupazione o disoccupazione giovanile ci sono state molte semplificazioni.
    Per conto mio, ritengo che da parte dei giovani ci sia un interesse sempre più diffuso a non entrare stabilmente nel mercato del lavoro. Quindi il fenomeno «disoccupazione» non va letto soltanto in termini di crisi, ma anche come possibilità di scelta variabile, di impegno a termine, almeno per una fase della vita.
    Poi certamente c'è una soglia oltre la quale il lavoro sicuro (o l'impegno familiare) diventa una scelta definitiva. Però è ormai un fatto consolidato l'emergere di scelte come il lavoro a termine, la possibilità di alternare periodi di lavoro con periodi di non lavoro, coi viaggi, o semplicemente con l'occuparsi dei propri interessi, delle proprie esigenze espressive.
    Di questo sicuramente l'organizzazione del mercato del lavoro dovrà tener conto, come avviene già ora negli Stati Uniti in cui si sta diffondendo l'introduzione di modelli flessibili di organizzazione del lavoro e del tempo di lavoro; e sono soprattutto i giovani e le donne ad utilizzarli.

    Il tempo della quotidianità

    D. Oltre al tema della ricerca di identità, attraverso cui i giovani manifestano il senso e il problema della loro esistenza, vi sono altri modi, altri temi in cui essi esprimono culturalmente i loro bisogni?

    R. Ci sono certamente: questa tendenza infatti si declina in diversi ambiti. Abbiamo parlato del lavoro, ma abbiamo lasciato fuori diversi altri aspetti: la partecipazione pubblica, o politica in senso molto lato, e il funzionamento delle culture giovanili come ambiti di socializzazione. Si potrebbe parlare anche della scuola, ma io ritengo che la scuola sia sempre più un contenitore, che offre una possibilità e uno spazio di aggregazione, in cui le culture si formano e si mantengono; ma sempre meno uno spazio propositivo.
    Per quanto riguarda la partecipazione pubblica, vi è stata una disaffezione crescente verso le forme tradizionali della politica, mentre stiamo assistendo ad una diffusione molto estesa di reticoli di solidarietà, di aggregazione, intrecciati con la vita quotidiana su basi diverse, di impegno sociale, talvolta di impegno religioso o comunque di tipo culturale.
    La base per tali aggregazioni diventa il piccolo gruppo di solidarietà diretta, in cui gli individui sperimentano in modo personale un impegno e una forma di comunicazione con gli altri: un impegno non centrato principalmente su un obiettivo esterno, ma innanzitutto su di sé e sulla qualità della relazione all'interno del gruppo; e questo sia che il gruppo si ritrovi su attività di tipo espressivo, comunicativo, o su attività sociali o anche religiose.
    Questa è una trasformazione dei modelli associativi che emerge dalle ricerche, anche nel mondo religioso: un associazionismo disperso e reticolare, magari ai margini, che non sempre si riconosce in strutture istituzionali.
    Tutto ciò sottolinea che il bisogno di autorealizzazione, della solidarietà dei pari, è centrale, e che l'impegno verso l'esterno (e quindi anche l'impegno pubblico) si manifesta su problemi specifici. Ad esempio le mobilitazioni per la pace o le manifestazioni degli studenti sui problemi dell'ambiente, ecc.
    La mobilitazione si manifesta su campi specifici e per un tempo limitato, ma non cessa invece questa rete sotterranea e permanente di gruppi e di esperienze.
    Un altro elemento che considero caratteristico del mondo giovanile penso possa essere così definito: la personalizzazione del cambiamento, e cioè il fatto che non c'è niente che avvenga all'esterno se non passa anche attraverso il cambiamento personale, il coinvolgimento di sé.
    La necessità di vivere personalmente, direttamente ciò che si intende realizzare o testimoniare all'esterno, è sicuramente uno degli elementi importanti del cambiamento nella cultura giovanile, se confrontata con la cultura del cambiamento politico in cui l'aspetto strumentale, l'insistenza sui mezzi per un fine che deve venire, è stato forte in passato.
    Ancora, l'accento viene messo sulla dimensione presente di questo cambiamento: ciò che si vuole vivere e testimoniare si può vivere fin d'ora, è già per l'oggi, non per un futuro a venire.

    D. Allora si può ben affermare che i tempi e i luoghi della vita del giovane, della costruzione della sua identità sono molto diversi che nel passato.

    R. Si potrebbe dire che il tempo è la quotidianità e gli spazi sono diversi, molto variabili. Nelle città vi sono certamente luoghi che sono punti di incontro: sono luoghi aperti, le piazze, talvolta i bar, forse anche gli oratori o i centri sociali. Ma l'accento è comunque sulla solidarietà del gruppo di questi luoghi, che sono contenitori, «spazi» appunto. Il termine «spazio» è tipico di questa cultura, uno spazio che è una dimensione fisica, ma anche una dimensione interiore.
    È lo spazio della solidarietà che via via si ricrea e si realizza dove ci sono le condizioni, quello che gli individui e le loro relazioni definiscono: è un modo di essere; se si vuole, un certo modo di occuparlo.

    D. Le analisi sui giovani negli anni passati hanno sovente utilizzato la polarità privato/ pubblico.

    R. C'è una certa equivocità nei termini che utilizziamo: perché la ricerca di identità è individuale sì, ma non privata, se per privata si intende isolata, separata dai processi sociali e collettivi.
    Il paradosso di oggi è che questa ricerca individuale ha un significato pubblico, collettivo; non è un fenomeno atomizzato e indistinto, ma investe il sistema nel suo insieme.

    Agevolazioni «o ostacoli» da parte delle società?

    D. La società si preoccupa in qualche modo dei giovani? Facilita o meno la loro ricerca dell'identità?

    R. Sicuramente non ci sono molte agevolazioni; su tutto prevalgono gli ostacoli.
    Quello che ho avvertito come problema centrale negli ultimi anni, è l'assenza di spazi di autonomia: spazi fisici e anche spazi sociali, cioè luoghi ma anche possibilità e risorse.
    La scuola è uno dei pochi spazi di aggregazione esistenti.
    Per fare un esempio banale: i gruppi musicali si sono moltiplicati negli ultimi anni anche per il piacere e il gusto di suonare insieme e di vivere la musica; ma hanno grandi difficoltà a trovare spazi fisici che però sono anche spazi di aggregazione, perché i gruppi musicali sono il perno di circuiti di relazione anche per chi li va ad ascoltare.
    E così per tante altre espressioni o attività giovanili, la mancanza di uno spazio fisico, di uno spazio di attenzione sociale certamente è uno degli ostacoli principali.

    Alcune possibilità educative

    D. In che modo può il fatto educativo tener conto di questi nuovi dati, o da che prospettiva dovrebbe collocarsi per venire incontro alle richieste dei giovani?

    R. Importante è riconoscere tali cambiamenti e favorire lo sviluppo di queste possibilità: la personalizzazione, ad esempio. Ciò significa in definitiva l'uscita da una cultura che ha fortemente separato i mezzi dai fini, e il passaggio a una capacità di presenza e di realizzazione nel presente di ciò che si intende perseguire.
    È un cambiamento importante anche sul piano educativo: passare dalle mete lontane che esigono un faticoso cammino di avvicinamento a obiettivi come la felicità, il progresso o la libertà, a mete vicine, a una felicità, un progresso, una libertà che si costruiscono già oggi attraverso i gesti quotidiani, i cambiamenti nei modi di essere, nelle relazioni, nei modi di aggregarsi.
    Finora difatti la cultura e l'educazione puntavano tutto sul futuro, e ciò che stava nel mezzo era soltanto uno strumento per arrivarci. Da qui l'accentuazione degli aspetti volontaristici e finalistici, trascurando il fatto che ciò che si fa oggi non è soltanto «strumentale per», ma ha il suo valore, il suo significato.

    D. Che ne pensa delle ricerche condotte sui giovani in questi ultimi tempi? Sembra che ci sia davvero un gran proliferare.

    R. Ci hanno dato informazioni utili sul cambiamento degli atteggiamenti, degli orientamenti. Però sono ancora troppo spesso fatte soltanto sulle opinioni (si tratta in gran parte di inchieste, surveys), e quindi ci danno un'immagine degli orientamenti e molto meno dell'azione e dei comportamenti, delle reti di aggregazione. Per questo non basta fare interviste, bisogna usare altri strumenti, di tipo più antropologico, o più legati all'analisi dei sistemi d'azione.
    Da noi questo manca completamente, mentre altrove è stato fatto. Nelle mie ricerche ho applicato un metodo originale, centrato sull'azione dei gruppi, proprio nel tentativo di far emergere «sistemi di azione» collettiva.

    D. Lei crede, in conclusione, che «l'anno dei giovani» che l'ONU ha proclamato possa servire?

    R. Se non altro richiama all'attenzione il fatto che i problemi dei giovani ci sono e sono importanti, e bisogna rendersene conto. Potrebbe anche essere un'occasione per lasciare ai giovani la possibilità di parlare e di dirsi, per quello che sono e per quello che vogliono, e per offrire agli adulti, alla società l'occasione di ascoltarli.


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