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    Mario Pollo

    (NPG 1982-02-19)


    La maledizione del «lavoro sterile»

    Alcuni mesi orsono per impegni di lavoro mi sono recato a visitare una cooperativa agricola giovanile nell'agro romano. Nel corso della visita ho apprezzato il buon livello di efficienza raggiunto da quei giovani agricoltori, il loro impegno e anche il loro spirito di sacrificio. Tuttavia sono rimasto lievemente turbato da due fatti, che mi hanno fatto intuire che quei giovani non avevano ancora stabilito un legame profondo con la terra e la cultura contadina. Ho constatato infatti che nonostante il cascinale in cui vivevano fosse in una zona quasi priva di alberi quei giovani non avevano sentito il bisogno di piantare alcun albero intorno alla casa o sugli argini dei campi. Un mio amico, poeta dialettale, mi ha subito fatto capire che questo fatto significava la mancanza di un rapporto di fecondità tra uomo e terra, e quindi tutto sommato la presenza in quella campagna di un «lavoro sterile». Il secondo fatto che ha rinforzato questa convinzione è stato l'averci servito il cibo ed il vino in piatti e bicchieri di plastica del tipo «usa e getta D. Nessun contadino, con radici profonde nel mondo contadino, userebbe né per sé né per gli altri simili stoviglie.
    Questo episodio, al di là del significare la mancata assimilazione della cultura della civiltà rurale e la riproduzione in campagna di modelli tipici di una società industriale consumista, riconferma la mancanza da parte di quei giovani di un rapporto vitale, e quindi di fecondità, con la natura come è tipico di chi stabilisce con essa un rapporto permanente e mutualistico.
    Sviluppando queste impressioni mi è parso di capire che anche per quei giovani che apparentemente avevano fatto una scelta di vita alternativa, valeva la maledizione del lavoro sterile, ossia il lavoro come momento di separazione dalla vita vera, come pausa e sospensione necessaria per la sopravvivenza della vita intesa come pura espressione del desiderio. La vera vita, quella che dà soddisfazione, piacere, felicità, interesse è tutta fuori dal lavoro che non ha nulla di significativo da dire alla vita umana. Questa maledizione tipica dei giovani operai delle anonime fabbriche si era trasferita tra i giovani agricoltori che fuggendo dalla città verso la campagna, non erano tuttavia riusciti a liberarsi dalle condizioni negative della civiltà industriale.
    Ho voluto iniziare la mia riflessione da questo brevissimo racconto di una esperienza vissuta con la semplicità e la profondità del poeta che ha profonde radici con la terra perché, anche se non immediatamente e facilmente, essa offre notevoli spunti al discorso del rapporto tra professionalità e volontariato.

    II volontariato e la frattura tra desiderio, autorealizzazione, lavoro

    La prima riflessione muove dalla constatazione che nella nostra attuale società, in modo particolare a livello giovanile, esiste una profonda e non facilmente riducibile separazione tra vita, espressione del desiderio e lavoro. Questo sia perché in troppi casi ai giovani è inibito l'accesso al lavoro e sia perché quando esso si verifica, specialmente in attività di tipo manuale, ha il carattere di un sogno sgradevole che la veglia rapidamente rimuove verso le frontiere del non ricordo.
    Il lavoro non è il luogo di alcuna realizzazione che perciò è sempre collocata in altre dimensioni della propria vita individuale e sociale. Il lavoro è il luogo in cui Sisifo ripete monotonamente e senza alcun senso gesti la cui patria è l'indefinito e l'illimitato. Per fortuna il lavoro occupa un frammento sempre più ridotto (ah le conquiste sindacali!) della propria vita. Fuori dal lavoro (e lo studio in molti casi può essere assimilato al lavoro) c'è lo spazio- tempo vero della vita, dove il desiderio e l'illusione della felicità possono dire compiutamente se stessi.
    Il volontariato, pur nel suo carattere di risposta gratuita e non violenta ai problemi sociali, in alcuni casi si colloca, e questo specialmente nel mondo cattolico, come altro-dal-lavoro, come luogo in cui il giovane può con pienezza vivere se stesso e realizzare con più fedeltà il proprio sistema etico. Quanti animatori di gruppi giovanili vivono l'esperienza del lavoro come parentesi in attesa di poter fare in libertà e gratuità quello che considerano il loro impegno di vita più vero!
    La domanda che io mi pongo è questa: come può un uomo che vive la sterilità del lavoro realizzare compiutamente se stesso nell'attività del volontariato, che rischia a questo punto di divenire un ulteriore momento delle separazioni dell'individuo dalla verità della vita, e quindi dalla felicità e dal dolore che la filigranano?
    Perché il volontariato non sia alienazione deve essere a mio avviso lavoro, un suo modo particolare di declinarsi: indubbiamente più libero e gratuito, ma comunque connotato dal non essere altro dallo stesso lavoro.
    Il problema drammatico che l'uomo vive oggi è dovuto al fatto che il lavoro, che pur essendo una condanna è però anche il luogo della emancipazione e della realizzazione di una maggior completezza e forma umana, si è separato dal suo fine, per divenire il luogo in cui il desiderio vestito di potere tesse la nullificazione dell'essere. La dimensione regressiva è costituita dal fatto che il lavoro è ormai soggetto ad una mercificazione che allontana, chi lo promuove e chi lo esegue, dal suo vero scopo. Troppo spesso esso è orientato non alla costruzione di un mondo che offra all'uomo una qualità di vita e quindi occasioni di realizzazione superiori, ma al soddisfacimento di una massa indifferenziata di desideri e di bisogni in cui convivono l'utile con l'inutile, il distruttivo con il regressivo.
    Il lavoro è maledetto perché è allontanato in molte occasioni, attraverso la logica mercificante del profitto e del consumismo, dal suo compito primo, che è quello di realizzare attraverso la fatica ed il dolore un mondo in cui, con maggiore coerenza, possa dirsi l'identità più profonda dell'uomo e quindi la stessa felicità che del dolore è il complemento necessario.
    Il volontariato, se non vuole essere condotto a giocare se stesso nella terra del desiderio che, in quanto non veicolato dall'utilità del lavoro, è l'origine dell'indeterminato-illimitato in cui l'uomo perde la verità di se stesso, deve saldarsi profondamente con il lavoro.
    Quando utilizzo il termine lavoro intendo non solo l'atto lavorativo, ma il patrimonio di competenze, conoscenze, abilità, emancipazioni e conquiste che ne intessono profondamente la storia. Il lavoro quindi come patrimonio, come cultura che supera le barriere del tempo e tramanda le conquiste, che sono sofferenze che non si debbono più pagare, perché chi è venuto prima di noi non solo le ha già pagate ma ha inventato degli strumenti utili per alleviarle e ha lottato perché i rapporti sociali consentissero una maggiore libertà e felicità per tutti. Il lavoro come asse evolutivo lungo cui si dice la storia umana e la sua sapienza, ecco esattamente cosa intendo parlando di lavoro.

    Professionalità del volontariato e complementarietà con il lavoro

    Dicendo che il volontariato, per non essere separazione dalla verità della vita, deve saldarsi con il lavoro intendo affermare fondamentalmente due cose.
    Ogni azione anche se gratuita, deve anzitutto essere svolta tenendo conto non solo dell'amore sentimentale verso il prossimo, ma dell'amore più concreto che è dato dallo svolgerla tenendo conto della sapienza e della cultura che la storia del lavoro umano ha cumulato intorno ad essa. In altre parole, nel volontariato come nel lavoro, l'amore deve esprimersi attraverso la professionalità, la competenza quindi e la socialità conquistate dall'uomo intorno alla azione che viene compiuta come gesto di gratuità volontaria.
    Il volontariato deve in secondo luogo rappresentare il punto più alto del lavoro di un individuo e non la fuga da esso. Deve esistere cioè una continuità, una complementarietà tra volontariato e lavoro, e non una mutua opposizione. Infatti il lavoro sterile produce sterilità in ogni parte della vita umana, distrugge e dissolve ogni suo aspetto se non viene superato o il suo superamento perlomeno assunto come obiettivo della propria emancipazione sociale ed individuale.
    Vivere passivamente e acriticamente la sterilità del lavoro, o anche un modo sterile di essere assenti dal lavoro cioè disoccupati, comporta necessariamente che la propria azione di servizio non sia dono ma regressione verso l'infelicità e la povertà dell'altro. L'esempio della cooperativa agricola portato all'inizio si chiarisce e diventa perciò, da un punto di vista narrativo, esplicativo dello Scilla e Cariddi su cui può naufragare la progettualità, l'eticità ed il desiderio del giovane che ad essa si accosta.

    Il ruolo del volontariato nel processo di liberazione personale e sociale

    Se il volontariato viene vissuto come esperienza liberante del lavoro (e cioè come contributo sociale alla emancipazione dai vincoli della mercificazione assoluta ed al riancoramento al suo fine più proprio e più vero: la ricerca della felicità e della verità umana attraverso il dolore), allora svolge la massima potenza di trasformazione sociale e di formazione, per chi lo esercita oltre che per chi ne è beneficiato. Questo tipo di volontariato consente poi di non ridurlo al dilettantismo, ed alle nefaste conseguenze che spesso questi provoca, il generoso impulso che spinge il giovane a farsi carico attivamente della solidarietà umana e sociale traducendola nel gesto di volontariato gratuito e non violento.
    Consente poi a molti di trasformare progressivamente una azione svolta solo nel tempo libero in una azione a tempo pieno, professionale. Si può infatti, e la società attuale offre molti spazi in questo senso, fare in modo che il proprio lavoro volontario, qualora sia fondato su una solida base professionale, magari acquisita svolgendo lo stesso volontariato, diventi il luogo del proprio pieno impegno professionale. Infatti un volontariato efficace e maturo richiede per realizzarsi non solo strutture di tempo libero, ma vere e proprie organizzazioni professionali. Non significa assolutamente sminuire la propria azione e la sua eticità, se il volontariato consente anche di realizzare l'obiettivo fondamentale della sopravvivenza. Le grandi azioni di volontariato che hanno in qualche modo trasformato la società si sono sempre fondate su un impegno a tempo pieno dei loro promotori e sul fatto che sono divenute organizzazioni permanenti. Con questo non voglio sminuire il significato del volontariato minore, svolto gratuitamente nel tempo libero, ma solo sottolineare che la professionalità come amore concreto è alla base del successo di ogni azione che ambisca ad essere volontariato, sia essa grande o piccola, effimera o stabile.
    Con l'uso del termine professionalità non intendo dire che il volontariato debba essere organizzato secondo i parametri che regolano le corporazioni professionali, ma solo che esso deve essere svolto con competenza e quindi assumendo su di sé le conquiste, i risultati, le liberazioni, e l'esperienza che intorno ad una data azione è cumulata nella cultura sociale.
    Un operaio nella propria azione volontaria può fare benissimo il logopedista, purché si qualifichi seriamente in quel campo, e non si limiti perciò a ripetere in modo ossessivo alcune formulette pratiche. Il volontariato per rispondere ai requisiti della professionalità deve essere il luogo di una formazione professionale permanente per chi lo svolge.
    La riflessione che ho svolto qui risente della superficialità di chi conosce poco il volontariato ed in più vive l'impegno politico e sociale in modo professionale. Spero che questo punto di vista molto parziale stimoli gli esperti del volontariato ad approfondire comunque i temi che ho qui sommariamente abbozzato.


    T e r z a
    p a g i n A


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