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    Nichilismo e educazione



    Carlo Nanni

    (NPG 1982-05-22)


    Un pensiero entro la crisi

    Quasi sicuramente gli anni '70 passeranno alla storia come gli anni della grande crisi che ha investito l'assetto sociale uscito dalla seconda guerra mondiale.
    A sua volta, questi inizi degli anni '80 sembrano caratterizzarsi piuttosto come gli anni in cui si cerca di uscire dai labirinti e dai tunnels oscuri della crisi o per lo meno come gli anni in cui si viene a patti concreti con essa.
    Sembra infatti legittimo pensare che ad un movimento iniziale, in cui prevale una sorta di scuotimento e di disintegrazione delle strutture societarie vigenti, debbano succedere la ricerca di assetti nuovi o per lo meno i tentativi di muoversi entro i processi critici.
    Questa ricerca e questi tentativi non riguardano solo le strutture della vita sociale ma anche quelle della vita intellettuale e culturale. La crisi infatti intacca l'intero edificio societario nella sua globalità vitale.
    In questo orizzonte, mi sembra che vada inquadrato anche il movimento di pensiero cosiddetto nichilista.
    Come altre espressioni culturali di avanguardia, esso viene considerato ben poco più di una moda, quanto si voglia élitaria e sofisticata.
    Ma, forse, è degno della massima attenzione proprio per il suo porsi come pensiero entro la crisi, come ricerca di nuove forme di razionalità che vadano oltre le ideologie «forti» degli anni trascorsi: l'ideologia del progresso e l'ideologia del cambio, dimostratesi incapaci di reggere alla complessità della vicenda storica e alla vastità della crisi che l'ha avvolta. Esso è stato indicato come la forma più cospicua di quel «pensiero negativo», che intende esercitare fino in fondo l'«arte del sospetto» (Nietzsche) e che urge fino al limite le contraddizioni del reale e del pensiero.
    Gli si è fatto carico dell'eversione totale delle idee e dei valori tradizionali e della negazione di ogni legge universale o di qualsiasi affermazione assoluta.
    Ma forse questa è solo una faccia del nichilismo contemporaneo: quella che in termini filosofici si potrebbe chiamare la pars destruens, il mettere il dito sulla piaga, la distruzione delle certezze fallaci del passato, degli eroi di cartapesta che andavano per la maggiore sulla scena che «faceva cultura».
    Se è vero che Nietzsche è il nuovo profeta, non lo è solo per la sua proclamazione della morte di Dio (intesa non tanto come negazione ateistica, quanto come fine di ogni certezza fondata su qualcosa di stabile, perenne, assoluto), ma anche per la lucidità intellettuale di chi non si nasconde i buchi neri di una esistenza non garantita, ma si pone alla ricerca di una ri-creazione dei valori, pur nell'«azzeramento» delle sicurezze tradizionali e nella certezza di non poterne avere più altre: perché cosciente della vanità e dell'«eterno ritorno del tutto».
    In modo analogo il nichilismo contemporaneo assume senza infingimenti la crisi; la «caduta degli dei» politici e rivoluzionari e l'intolleranza della loro fatua assolutezza ideologica; la frammentazione dell'esistenza; la fragilità dei sistemi di significato tradizionali e quelli che vorrebbero andare per la maggiore; la solidità e la potenza dei meccanismi anonimi di produzione, che gettano pesanti ombre su ogni affermazione troppo facile riguardante la libera e creativa soggettività storica dell'uomo individuale e collettivo.

    Tra le pieghe dell'esistente: il pesce e la rete

    Come diceva Musil, l'uomo contemporaneo è «fuori della totalità» o come diceva già Nietzsche «rotola via dal centro verso la X».
    Ma all'interno di questo mondo è possibile, almeno secondo alcuni, muoversi come un pesce entro la rete, senza vanamente e ossessivamente sognare di voler uscire dallo specchio d'acqua e andare oltre la rete stessa. Fuori di metafora: la tecnica contemporanea è la condizione concreta in cui ha da muoversi l'uomo «post-moderno» (quello che riconosce di non poter essere l'uomo dell'età moderna, l'uomo «copernicano», che si credeva centro dell'universo e libero costruttore del suo destino). All'interno degli scuotimenti, della manipolazione universale, delle provocazioni massificanti e omogeneizzanti della tecnica deve realizzarsi l'esistenza storica dell'uomo contemporaneo, senza remissione. Se a quest'uomo è dato in sorte di non poter più contare sull'assolutezza della propria libertà o su quella di Dio (comunque lo si voglia denominare), è dato di muoversi «tra le pieghe dell'esistente ricreando caso per caso, momento per momento, in modo debole e non violento, il proprio essere nella sua singolarità, diversità, alterità, ma insieme nel collegamento con tutta la rete di messaggi che gli vengono dall'umanità storica e da quella con cui si trova a compartecipare lo stesso destino.
    La coscienza di essere costretti a vivere senza «fondamento», potrà in genere far essere meno sicuri e garantiti ma anche più autonomi e insieme più tolleranti e non violenti.
    Al limite l'asserzione stessa che l'esistenza individuale e collettiva è percorsa e segnata radicalmente dal nulla e dalla morte, rende possibile una responsabilità maggiore verso se stessi e verso persone o cose che si incontrano lungo l'arco temporale della vita, che è l'unica «chance» possibile che ci è data veramente.

    L'allergia all'educazione

    A questo modo di vedere le cose, mi sembra ricollegabile almeno in partenza un fenomeno che in questi ultimi anni ha assunto una certa generalizzazione presso giovani e adulti: l'allergia all'educazione. Forse la si può avvicinare all'altro fenomeno non meno inquietante del nostro tempo: la disaffezione al lavoro e alla sua pesantezza, fatica, oppressione, assurdità.
    La contestazione alla educazione tradizionale e alle idee pedagogiche, non è questione solo di oggi: per quel che ci tocca, il '68 è ancora nella mente e nella bocca di tutti, in bene o in male.
    Ma qui c'è qualcosa di più che le accuse sessantottesche al sistema educativo e scolastico di essere macchina di riproduzione culturale, fabbrica del consenso, apparato ideologico di stato o del potere economico dominante (che per molti è la stessa cosa); oppure, a livello psicologico, di essere un'inconscia forma dell'autoritarismo nevrotico e compulsivo del mondo adulto. Qui è l'idea stessa di educazione come formazione che è posta in questione, perché si nega un sistema di valori assoluti, un ideale d'uomo stabilito e assoluto, un fine che regoli il «portare alla forma» l'umanità di ognuno attraverso l'educazione. Tutto ciò è semplicemente negato, perché frutto fallace di un pensiero assoluto, metafisico o, peggio, pezza d'appoggio di potere violento e dominativo.
    In questa linea ogni azione educativa è considerata ideologica nel senso peggiore della parola: cioè non solo difesa di interessi economici o politici di parte, ma falsa affermazione assolutizzante e intollerante che passa sopra e nega (o non vede) la concretezza delle persone, la storicità delle situazioni, la individualità delle esigenze e dei bisogni, non mai omogeneizzabili e standardizzabili.
    D'altra parte già Nietzsche si sforzò soprattutto negli ultimi anni della sua tragica esistenza di delineare le caratteristiche umane di chi intraprendeva il lungo cammino di vivere «senza dei», con la volontà di vincere le intolleranze e le assolutezze senza caderne pari pari in altre e d'altra parte di vivere intensamente il qui-ora, pur nella coscienza di essere librato sul nulla.

    La via dell'autoeducazione?

    Volere o no, si indicavano le vie per l'«allevamento programmato del superuomo».
    Per quanto inattuali (cioè fuori delle prospettive dei contemporanei) si cercava «come diventare ciò che si è» (come dice il sottotitolo di Ecce Homo di Nietzsche, riecheggiando Pindaro).
    Indubbiamente sembra un «magistero» che si affida direttamente al suo interlocutore senza mediazioni, senza interposta persona: un'anti-educazione senza educatori.
    È forse anche questo il motivo del successo di Nietzsche presso i giovani d'oggi, come il «giovane Marx» ai tempi del '68? A parte l'esito finale della vita di Nietzsche (che certamente induce forti tassi di sospetto e di problematicità su certo «titanismo super-ominista», anche non violento e tollerante) c'è da interrogarsi seriamente sui vantaggi (indubbi) e i limiti (non meno indubbi) di una assoluta auto- direzione. Ho detto autodirezione perché dire autoeducazione già sarebbe troppo per quel tanto di disciplina e di mèta prefissata che sembra restare anche nel concetto di autoeducazione.
    Infatti non si cresce fuori della storia e dell'influsso del proprio ambiente. La crescita personale è sempre insieme sviluppo e apprendimento. La genesi e lo spessore della personalità necessita obbligatoriamente di collegarsi alla produzione culturale. E in questo senso avrà concretamente bisogno di maestri, di guide, di agenzie di socializzazione e di inculturazione. Indubbiamente la inconsistenza e la ambiguità delle figure educative concrete possono costituire un motivo per rigettare in anticipo ogni tipo e forma di guida, per incamminarsi sulla strada della esistenza gestita in prima persona non appena se ne diano le condizioni di possibilità psicologiche e materiali.
    Ma ciò è reso possibile effettivamente (e non solo teoricamente) soltanto in base a una solida formazione precedente, in vario modo e grado, sorretta e guidata.
    Solo così certe affermazioni non rischiano di essere una reazione pirotecnica al mondo adolescenziale che comincia ad essere ormai dietro le spalle o un modo di aprirsi la strada a forza o dichiarare «a chi di dovere» che si sta entrando nel mondo della giovinezza e in quello dell'età adulta.
    In ogni caso si dovrà prendere posizione di fronte a se stessi e la propria crescita, e cioè porsi nella prospettiva della autoeducazione o dell'autodirezione. Ma decidersi per qualcosa bisognerà pur farlo, perché il tempo scorre e la realtà urge da ogni parte.

    Indicazioni educative «inattuali»

    Certamente in questa linea il pensiero nichilista offre credibili indicazioni di senso. Per alcuni è infatti possibile superare il momento del disincantamento o quello della «fuga dal mondo», e lavorare a favore di una convivenza e di una società non violente, dalle istituzioni e rituali non fideistici, capace di adattarsi e di lasciare spazio alla «differenza» e alla molteplicità delle posizioni personali e di gruppo. Si intravvede così un'autoeducazione politica che cerca di non lasciarsi incastrare tra la forza violenta del potere e la massificazione ottundente, attraverso l'uso di forme non violente.
    Allo stesso modo la libertà di fronte alle cose, che sorge dalla verità di essere-perla-morte (Heidegger), invece che al capriccio di chi non si crede costretto da nessuna regola o norma, e invece che alla volontà di potenza di chi si sente superiore al gregge, può indirizzare alla pietà, cioè al rispetto reverenziale per una vita-che-èniente (e proprio perciò tanto preziosa nel suo apparire all'essere). Può portare alla gentilezza del donare e alla disponibilità al richiamo del lontano, del diverso, dell'altro.
    L'apprendimento può essere indirizzato al consolidamento di una intelligenza non arroccata nella sua potenza culturale, ma aperta alla totalità delle possibilità storiche sempre cangianti oppure all'imprevedibile che proviene da cose, avvenimenti, persone: fino alla sperimentazione di forme di vita inedite e inconsuete. La fantasia creatrice è chiamata a inventare e provare impensate vie e forme culturali. Questo «ri-creare valori» si può specificare ulteriormente (e spesso in alternativa a prospettive pedagogiche attuali) ad esempio nel recupero del gioco, come simbolo di attività che contrastano alla retorica del lavoro assillante e alienante e come forma ironica e «lieve» di fronte alla pesantezza e alla seriosità dei modelli comportamentali ufficialmente approvati.
    Più in particolare la negazione di una progettualità a un fine prefissato e il rifiuto di un futuro a scatola chiusa, può condurre a valorizzare fino in fondo il quotidiano, l'esistenza corporea, lo stare insieme, la comunicazione interpersonale nelle loro potenzialità emotive, nella loro vastità espressiva, nella loro trasparenza empatica. E parallelamente può indirizzare al rifiuto del ripetuto, del monotono, dell'abitudinario e a prospettarsi una lieta e «soffice» tensione al lontano, al ciò che viene, senza ossessione, ansia o paura.
    In questa luce di attenzione alle possibilità del vitale, la stessa sofferenza può essere assunta e disalienata. O per altro verso possono essere evitati l'eccesso e la disgregazione della passionalità attraverso il controllo limpido e lucido di uno spirito libero.

    Problemi umani e «questione morale»

    Tuttavia con ciò i problemi non scompaiono. In primo luogo quelli umani.
    Le indicazioni sopraccennate appaiono veramente in gran parte un «lusso» per una élite di giovani e invece impraticabili ai più.
    Per molti infatti l'allergia all'educazione è più che altro la dichiarazione cocente e sofferta per lo scotto dovuto pagare come pegno d'ingresso al mondo adulto. Un posto guadagnato solo dopo l'abdicazione morale; l'esperienza di una impossibile felicità; di un amore o di una spontaneità mortificata da una realtà «troppo umana», che sembra negare sistematicamente il principio insopprimibile del piacere e la forza del desiderio anche di media portata; la dura esperienza di una solitudine immensa nel chiasso della folla e nello stordimento dei mass-media, della fetta, del ballo, della chiacchierata; l'angoscia profonda dopo il «consumo» dei soldi, del sesso, del lavoro, del gruppo, della religione, dello studio...; tutte cose che possono ingenerare il sospetto e la repulsione verso ogni severa disciplina educativa; verso l'apprendimento di contenuti, atteggiamenti, comportamenti, che non trovano reale applicabilità; oppure verso la richiesta «ascetica» di innalzarsi ad un ideale puro di umanità che sembra tanto fallace quanto irreale, perché puntualmente smentito, contraffatto, o addirittura inesistente nella viva prassi.
    Altri giovani non arrivano neppure ai livelli espliciti o di coscienza: il non senso dei «materiali» provenienti dall'educazione familiare, ecclesiale, scolastica è semplicemente vissuto. In questi casi si tratta di lavorare, per così dire, ai gradi previ, dell'umano: perché alla fin fine si tratta di «rifare l'uomo», di ritessere la trama della personalità e dell'esistenza. L'attività di promozione e di animazione, a tutti i livelli (interpersonale, di gruppo, sociale, culturale, politica, ecclesiale, ecc.), trova qui il proprio banco di prova. L'educazione contemporanea vi riscontra una «sfida», fredda e cocente. La società intera ne viene ad essere messa in questione.
    In una società che a parole si proclama «educante» per sua natura, tutti siamo interrogati a vedere di ridurre per quanto è umanamente possibile lo scarto - spesso abissale - tra le intenzioni educative e la pratica educativa, tra la volontà politica e la pratica politica, per non illudere e deludere tragicamente chi ci ha preso - a torto o a ragione - come testimoni o modelli concreti di vita, oppure ha dato credito al carattere «civile» della vita sociale. Le nostre pretese educative dovranno commisurarsi con l'impegno e con le possibilità concrete di sviluppo.
    Non sarà questo un aspetto di quella «questione morale» di cui si è tanto (e forse retoricamente) parlato in questi ultimi tempi a livello di società civile?

    Oltre la rete: progettualità e invocazione

    Ma insieme a questi gravi problemi ci sono anche problemi di ordine teorico che spesso condizionano o interferiscono in quelli pratici.
    Al nichilismo, oltre che l'accusa di «giustificare» la «fatale» necessità della civiltà tecnologica (e quindi di fare il gioco del potere economico-industriale, nazionale e multinazionale), si fa l'addebito di gettare le esistenze in un «presentiamo» senza sbocchi e quindi ultimamente disumano e invivibile. Ogni progettualità, ogni identità, ogni strutturazione e forse anche ogni memoria di una qualche continuità, coerenza, durata e senso risultano gravemente minacciate.
    È vero che il nichilismo parla spesso di «indicazioni prospettiche», di «direzioni»: ma non è possibile qualcosa di più? È solo ingannevole il movimento del pesce di uscire fuori dalla rete o della mosca di uscire dalla bottiglia (Wittgenstein)?
    Quel che sembra sempre più chiaro è che il nichilismo risponde a «dati» indubbi della realtà e in questo senso spiega la realtà. Ma forse non spiega tutto il reale. E certamente non spiega o tiene poco conto delle possibilità che il reale (anche quello altamente critico, come il nostro) invece dispiega.
    In questo senso il nichilismo contemporaneo è forse fin troppo debole, troppo povero. Sembra tarpare le ali ai bisogni radicali, alle spinte del desiderio, alle intenzionalità di futuro, alle possibilità della libertà e della vita che sono al fondo di ogni uomo e concretamente al fondo degli uomini del nostro tempo: e tra essi quei «piccoli uomini» e quelle «piccole donne» che sono in condizione giovanile. A forza di volersi muovere tra le pieghe dell'esistente, per non soccombere alle ideologie «forti» e alla pre-potenza del reale, si dimentica il movimento oltre l'esistente, che pure si trova nel reale, almeno a livello esigenziale, a livello di domanda, di invocazione: quella che faceva gridare a S. Paolo «chi mi libererà da questa condizione di morte?».
    È su queste basi antropologiche che si muovono i processi storici di pianificazione e progettazione, di educazione, di ideologizzazione.
    Oggi, grazie alla crisi, e anche grazie allo sforzo teorico del nichilismo, noi prendiamo coscienza che sono finiti «i giorni dell'onnipotenza», che gli uomini fanno la storia non con potenza illimitata.
    Ma con ciò non si toglie la capacità radicale e la possibilità concreta di fare storia. L'uomo non muore tutto e forse neppure quel «di più» che egli invoca, domandando il dono dei cieli nuovi e la terra nuova in cui abita la giustizia e la verità, che egli in modo «debole» e «povero» prospetta e anticipa, operando, provando, progettando, rischiando e quasi scommettendo su se stesso, sugli altri, sulle possibilità del reale, e sulla volontà creatrice e redentrice di Dio, se si è credenti.
    Lo sforzo di emancipazione dei popoli sottosviluppati, le lotte di liberazione dei popoli oppressi sono da questo punto di vista un guanto di sfida alla mentalità «tardo-occidentale» della vecchia europea.

    Educare in tempo di crisi

    Sarebbe stolto d'altra parte sorvolare la nostra situazione concreta e rifugiarsi in alibi o in fughe per la tangente. Ma - come si è detto - è qui che sono i «semi» della speranza. Dal `punto di vista educativo non è difficile mostrare come nella presente condizione giovanile si diano nuove tendenze e spinte di personalizzazione, che sottendono una chiara domanda educativa: certo da esplicitare, da darle voce, da promuovere, da portare e maturazione, da corroborare, ma, pure certamente, innegabile.
    Si tratta di andare al fondo del vissuto e del quotidiano giovanile, nei suoi luoghi concreti: l'amicizia, l'amore, l'incontro, il gruppo, il lavoro, lo studio, la capacità, ma anche il privato, il soggettivo, l'intimo con tutte le sue speranze, desideri, angosce, solitudine; con tutta la sua frammentazione, incoerenza, fragilità, limitatezza. È lì che è possibile recuperare i grandi temi umani, che ogni educazione tenta di portare a livello di maturità responsabile vincendone i limiti o i contrari: la vita, la liberazione, la personalità, la storia, la comunità, l'impegno, la parola, il lavoro, il posto nel mondo, la trascendenza, ecc... Ma ne vengono anche utili indicazioni per proposte e figure educative autorevoli e non autoritarie, non necessariamente coibenti la libertà personale o asservite a sistemi sociali di dominazione.
    E ben chiaro che ciò sarà possibile se l'azione e le proposte saranno articolate e calibrate sulle persone concrete e le situazioni reali e non su schemi astratti o modelli prefissati. Così pure sarà da trovare o perlomeno ricercare quel raro equilibrio, che è tipico del Signore nel Vangelo, tra proposte radicali di senso (che addirittura rompono i confini «troppo umani» dell'esperienza soggettiva e socio-culturale) e rispetto della dinamica personale e collettiva pe raggiungerli.
    In questo senso si tratterà di dare spazio alla rara arte della flessibilità e della intercambiabilità dei progetti o delle ipotesi o strategie educative individuali o collettive; di mirare a soluzioni intermedie piuttosto che ad un «ottimo» che sarebbe «nemico del bene» (Don Bosco); di valorizzare l'incoraggiamento, la fiducia, il senso della vicinanza e della simpatia nella sofferenza, nella solitudine personale, nel «sonoro deserto» dei momenti di massa, nei tempi dell'impegno.
    Ma d'altra parte bisognerà avere il coraggio di «nominare i valori» (i fili conduttori, i grandi assi portanti, i poli d'attrazione), per aver chiari il senso dell'agire, la rotta da percorrere, il quadro di riferimento realistico, su cui si consente di «giocare» la propria vita e il proprio impegno. In ciò, credo, acquisti nuovo senso il trinomio pedagogico di Don Bosco: «ragione, religione, amorevolezza».
    Allo stesso tempo bisognerà assumere, più che la responsabilità della guida, la responsabilità della «compagnia» educativa, senza schivarla o essere assenti nei momenti impegnativi, in cui - come tocca sempre più ai giovani d'oggi - si prendono o ci si prepara a decisioni impegnative, non scontate, non sempre comprensibili; quando si cerca di leggere, interpretare una difficile realtà; quando c'è da fare i conti «duri» con essa: una compagnia «povera», al limite del silenzio, ma chiara nella solidarietà, nella testimonianza, nella fedeltà.
    Questo è del resto la sorte debole e poi povera di ogni educazione: tentativo. rischio. scommessa, relazione d'aiuto, sempre e ir. ogni età, ma soprattutto nell'età giovanile, quando si inizia ad avere la capacità di mature abilità e competenze di libertà responsabile; e soprattutto in un tempo, in cui i miti fino a ieri celebrati, i modelli di comportamento ideali sembrano essere miseramente caduti, e le strade nuove di ricerca sembrano continuamente trovarsi di fronte «sentieri interrotti», come dice il titolo di un libro dell'ultimo Heidegger uno dei padri del nichilismo contemporaneo.


    Nota bibliografica

    1. Per quanto mi consta, non esistono trattazioni riguardanti gli esiti educativi del nichilismo. È tuttavia interessante il testo di G.M. Bertin, Nietzsche. L'inattuale, idea pedagogica, La Nuova Italia, Firenze 1977.
    2. Le Opere di F. Nietzsche sono tradotte dall'editrice Adelphi di Milano a cura di G. Colli e M. Montinari.
    3. Sul nichilismo si invita a leggere almeno Vattimo G., Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1979; Vattimo G., Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano 1981; E. Severino, Gli abitatori del tempo, Armando, Roma 1978; e l'antologia introdotta da un saggio di Penzo G., Il nichilismo da Nietzsche a Sartre, Città Nuova, Roma 1976, che può utilmente introdurre alle matrice filosofiche principali del nichilismo contemporaneo. Ma soprattutto utile è il testo curato da Magris C. - W. Kaempfer, Problemi del nichilismo, Shakespeare & Company, Milano 1981, che riporta gli atti del convegno internazionale tenuto a Trieste dal 17 al 19 ottobre 1980.
    4. Sul pensiero negativo si può leggere Mancini I., Come continuare a credere, Rusconi, Milano 1980 (ripreso in: Cultura giovanile: dalla crisi dell'epoca nuova al pensiero negativo. Il Regno-attualità, 1981, n. 14, pp. 323-334).


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