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    Nichilismo, domanda di senso, risposte ecclesiali



    Intervista a Giancarlo Milanesi a cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 1982-5-4)


    Fuga, aggressività, autoemarginazione: le coordinate del nichilismo giovanile

    C'è oggi una duplice lettura della realtà giovanile: da una parte si parla di giovani della vita quotidiana, per indicare al positivo un modo di vivere che si colloca dentro l'orizzonte di quello che succede ogni giorno, dei rapporti interpersonali, delle piccole idee e progetti; dall'altra si parla di presenza di una cultura di morte, di pensiero negativo, di nichilismo, che non si esprime solo nella riflessione dei filosofi o nei fenomeni (forse marginali ma che fanno clamore) di distruzione, ma che penetra anche nella stessa vita quotidiana, e che si esprime nel vivere per vivere, nell'apatia, nell'indifferenza verso le grandi questioni e progetti.
    Lasciando da parte interpretazioni filosofiche, lei come sociologo crede che si possa effettivamente parlare di nichilismo per definire oggi la condizione giovanile, o almeno parte di essa?

    C'è certamente una componente di irrazionalità in alcuni comportamenti giovanili: questo vuol dire che esistono delle condizioni di vita che non permettono di dare un adeguato senso razionale ai problemi. Alcuni giovani cioè leggono la realtà nella quale vivono in termini di impotenza, o di delusione, o di esclusione, e leggono questi segni come irreversibili: non hanno così spazi di adattamento a questa situazione se non attraverso meccanismi di tipo irrazionale, come la fuga, l'aggressività verso se stessi e verso gli altri, l'autoemarginazione. Questi nel loro insieme possono essere considerati segni di irrazionalità, e in qualche misura (non tutti) di nichilismo.
    Le cause sono da ricercarsi remotamente nella situazione di stallo in cui si trova la società in questo momento: contraddizioni non facilmente superabili, un equilibrio estremamente precario tra le forze culturali e politiche, la sensazione da parte dei giovani di non avere un minimo spazio di inserimento in questa dialettica: così una parte dei giovani può essere portata a cercare una soluzione di tipo nichilista.
    D'altra parte a me sembra che le componenti nichiliste sono anche però talora accompagnate o precedute da altre forme di comportamento vicine all'irrazionalismo: il vitalismo, che assume anche una componente di carattere ludico (il vivere per il vivere, il vivere la festa, il vivere nella spensieratezza, lo stare bene insieme), e lo spontaneismo, il rifiuto della dimensione istituzionale, la ricerca continua di equilibrio, di assetti nuovi al di fuori di ogni regola della cristallizzazione dell'esperienza. C'è stata, nell'epoca del massimo sviluppo dell'autonomia organizzata, tale componente vitalistica, anarchica, spontaneista, che era la forma forse anche più festosa e meno tragica dell'irrazionalità che stava risorgendo. La forma invece più tragica è l'irrazionalismo di tipo distruttivo o di tipo evasivo, dove l'irrazionalità si manifesta come rifiuto del realismo, rifiuto di fare i conti con una situazione dura, cioè rifiuto anche della responsabilità e della partecipazione.

    Nichilismo e irrazionalismo: per quanto riguarda i giovani, sono la stessa cosa?

    Bisognerebbe interrogare i giovani per saperlo.
    Stando dal di fuori sembra di no. Nichilismo è la forma più negativa dell'irrazionalismo, più distruttiva per sé e per gli altri, priva di progetto.
    Invece in alcune forme di irrazionalismo si può forse ritrovare la voglia di demistificare, di protestare là dove non c'è più spazio per le voci dissenzienti, di risvegliare l'apatia generale: una reazione che in qualche misura potrebbe essere considerata benefica almeno per la coscienza del soggetto. Anche se irrazionali, sono delle forme non del tutto prive di senso.

    Una strada senza uscita

    Forse si potrebbe dire che il nichilismo nella sua forma più distruttiva e l'irrazionalismo, per i giovani, non sono un rifiuto della vita, ma di un certo modo di vivere.
    Se questo fosse vero, non vedo come si possa evitare una grossa contraddizione, perché la volontà di vivere e di vivere diversamente non può manifestarsi solamente nella negazione di un modo di vivere, ma deve almeno contenerne implicitamente uno alternativo. Bisognerebbe allora vedere se nelle varie forme di nichilismo, qualora fossero state identificate, è presente un progetto alternativo, cioè la domanda di una diversa qualità di vita.
    Io non oso dire che ci sia questa domanda, perché è troppo meccanico il modello che dice: nella protesta è implicita anche l'alternativa. Molte volte non è implicito niente, c'è l'assenza di idealità e di progetto, c'è solo l'angoscia dell'incapacità di vivere in un certo modo, ma non c'è una proposta.
    Faccio il caso della tossicomania: la tossicomania nelle forme più gravi è certamente una forma di protesta contro un certo ordine sociale, contro certe carenze fondamentali della vita, ai livelli della famiglia, della scuola, della società: però di per sé non contiene implicito un modello alternativo di vita: è più una forma di stanchezza mortale che spinge la persona a cercare le soluzioni in modo meccanico, cioè a ricercare le proprie gratificazioni immediate in maniera non costruttiva.

    Secondo lei, nelle forme di «fuga ad Oriente» e di rifiuto di ciò che è tipicamente occidentale, è presente una forma di nichilismo?

    Non so se le forme di contemplazione o di negazione del ritmo di vita occidentale si possono considerare nichiliste. Penso che nella ricerca di forme profonde di esperienza o di coscienza ispirate a tipi di spiritualità orientale, difficilmente si rintracciano le forme del nichilismo, nel senso che noi intendiamo nella nostra cultura occidentale. Qualche grossa corrente di pensiero adesso è tornata abbastanza in circolazione, ed è un supporto culturale a quelle cause strutturali accennate: penso a Nietzsche, ai grandi autori dell'anarchismo internazionale, alle componenti dell'irrazionalismo tedesco da Schopenhauer in poi. Sono correnti che ritornano di moda e vengono presentate come soluzioni volontaristiche, capaci di dare una definizione al mondo che è nella contraddizione, nel disordine.
    Però esse sono molto differenti dai movimenti di pensiero e di coscienza che sottostanno alla ricerca di una diversa consapevolezza tipica delle forme religiose o pseudoreligiose che vengono dall'Oriente. Tra l'altro, almeno da quanto mi risulta, queste forme sono assolutamente minoritarie, non toccano l'uno per cento della popolazione giovanile, anche se sono significative come qualità.

    La cultura giovanile è un cocktail di culture

    Quindi non si può interpretare globalmente la condizione giovanile sotto le categorie del nichilismo o irrazionalismo?

    No di certo. È probabile che ci sia anche una cultura dell'irrazionale o del nichilismo ad oltranza, ma non è certamente maggioritaria né come quantità di consenso né come diffusione. Ci sono invece altre culture che prevalgono in questo momento: la cultura del privato, la cultura del consumo, la cultura della nuova razionalità come ricerca realistica, se si vuole dal fiato corto, ma che parte da una coscienza più esplicita delle difficoltà obiettive che attraversiamo, la ricerca di un significato al di dentro e non al di fuori, non nella linea delle grandi utopie millenaristiche di 10/15 anni fa. È questo insieme di cose che si riscontra nella coscienza giovanile oggi in misura e modo diverso. Una cultura giovanile difatti non esiste come fatto originale e autonomo, almeno in Italia in questo momento: essa è un cocktail di culture, è una realtà stratificata nella quale si sovrappongono in maniera non prevedibile e difficilmente quantificabile diverse culture, che sono accentuate per strati di popolazione giovanile, per gruppi, per tipo di militanze, per tipo di esperienze. Non sono incline a generalizzazioni che denotino un po' affrettatamente e giornalisticamente i giovani d'oggi in base a una sola componente culturale.

    Quale senso viene cercato, e dove

    Possiamo allargare il discorso a problemi più generali circa i giovani. Si parla sovente di «ricerca di senso» da parte dei giovani stessi, magari di un senso non troppo grosso, non troppo allargato, o di un senso diverso. Quando si dice questo, a che cosa ci si riferisce, e dove viene generalmente trovato il senso che si ricerca?

    La ricerca di senso è un comportamento tipico di tutti gli uomini quando attraversano momenti particolarmente densi di difficoltà. Quanto ai giovani d'oggi è difficile dire quando e come e quanti si pongono queste domande sul senso della vita. Comunque coloro che se la pongono, se la pongono in rapporto generalmente a tematiche che riguardano l'autorealizzazione, l'autoassicurazione (e cioè la capacità di darsi autonomia e sicurezza da soli), l'identità individuale, le proprie esperienze strettamente personali, emotive ed affettive, i rapporti interpersonali immediati. Sono queste le esperienze da cui nasce una domanda di senso oggi, esperienze largamente filtrate dalla ripresa dell'interesse per i temi del privato, e meno dalla ripresa o dalla sensibilità per problemi che riguardano la sfera pubblica. La domanda di senso nasce là dove questi bisogni della sfera del privato risultano fortemente minacciati dalle incongruenze del pubblico; e perciò nascono come prevalente domanda di liberazione personale, da cui dovrebbe poter dipendere il progetto di liberazione collettiva (e non viceversa).

    Senso e domanda religiosa

    La domanda religiosa per i giovani oggi passa unicamente attraverso questa domanda di senso?

    Non solo oggi, ma sempre.
    Si tratta solo di chiedersi quanta domanda di senso viene canalizzata verso una risposta religiosa, e qual è la qualità della domanda di senso che, se canalizzata verso una risposta religiosa, modifica a sua volta questa proposta.
    È la proposta infatti che a sua volta deve interpretare la domanda: in questo senso è possibile vedere oggi come molta domanda di senso non si incontra con la proposta religiosa, non perché la proposta non sia in circolazione, ma o perché la proposta non è in grado di interpretare la domanda, o perché la domanda non è ancora arrivata a un tale livello di consapevolezza da porsi un interrogativo anche esplicitamente religioso, oppure perché ci sono delle condizioni obiettive che non permettono l'incontro, come la mancanza di un contesto che favorisce la riflessione, la pausa che permette di ricuperare il senso.

    Ottimismo? Pessimismo? Una previsione condizionata

    Lei è ottimista sulla possibilità che si possano incontrare domanda religiosa e richiesta di senso?

    Si può essere ottimisti in linea generale, nel senso che non c'è nulla che lascia presumere che questa domanda di senso non si incontri con la domanda religiosa.
    Di fatto penso che non si possano fare delle previsioni né in senso ottimista né pessimista, ma bisogna fare una previsione condizionata: cioè se si presentano certe condizioni educative, in senso lato politiche, la domanda di senso può anche trovarsi in rapporto ad una domanda di religione e perciò anche a una proposta di religione.
    Io ritengo che la prima condizione perché ciò avvenga è che ci sia una proposta religiosa in grado di interpretare la domanda, e di porsi nei riguardi della domanda come un'interlocutrice significativa.

    Quando l'esperienza cristiana si tinge di nichilismo

    Vi sono tanti modelli di vita cristiana oggi disponibili ai giovani, soprattutto attraverso la mediazione di gruppi e movimenti all'interno della chiesa.
    Non crede che a taluni di essi sia sottesa una certa forma di nichilismo?

    Non credo che si possano fare delle affermazioni in maniera netta.
    C'è però qualche modo di intendere il cristianesimo che pretende che esso sia fondamentalmente una lettura negativa della realtà (e che perciò si presenti come il suo corrispettivo positivo): una lettura apocalittica, nella convinzione che il mondo è perennemente allo sfascio e che perciò in esso non ci sono assolutamente segni di speranza. È una linea presente nella storia del cristianesimo, forse la linea di un cristianesimo non antimondano ma certamente extramondano, che aspetta la fine di questo mondo quanto prima possibile, e che perciò non ha fiducia radicale che all'interno di questa realtà complessa e anche negativa possano nascere delle speranze e ci siano delle cose redimibili.
    Oggi c'è anche tra i giovani che vivono un'esperienza religiosa il pericolo che abbiano della realtà presente una concezione negativistica e apocalittica, e che perciò consumino il cristianesimo in termini di risposta che quasi magicamente ha il potere di risolvere la negatività.
    Ciò è anche connesso al problema della sicurezza, un problema generalizzato tra coloro che hanno un'esperienza religiosa: la sicurezza esige che la risposta sia facilmente consumabile, e non sia tale da riproporre nuove domande, ma da otturare la domanda stessa con una risposta definitiva.
    Formule che probabilmente implicano una lettura negativistica della realtà.


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