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    L'obiettivo della pastorale giovanile in un tempo di nichilismo: dire la fede nella passione per la vita



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1982-5-28)


    COSA C'ENTRA LA CULTURA NELLA DEFINIZIONE DELL'OBIETTIVO DELLA PASTORALE GIOVANILE?

    Nella comunità, ecclesiale italiana, in questi ultimi anni, si è molto parlato di «integrazione fede-vita».
    Facendo eco a «Il rinnovamento della catechesi»,[1] diversi autori di teologia pastorale hanno visto in questa formula una sintesi felice per esprimere l'obiettivo concreto della pastorale in generale e della pastorale giovanile in particolare.[2]
    La comunità ecclesiale, stretta dalla montante secolarizzazione, ricomprende la propria fede e avverte, come ricorda appunto «Il rinnovamento della catechesi», che «la Parola di Dio deve apparire ad ogni uomo come un'apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni».[3]
    Per questo, essa cerca una collocazione della fede nel quadro dei significati dell'esistenza, capace di renderla «motivo e criterio per tutte le valutazioni e le scelte della vita».[4]
    Questa operazione è stata però condotta spesso con approcci prevalentemente teologici e in una prospettiva ancora molto ecclesiocentrica. La preoccupazione fondamentale è la rivisitazione dei contenuti e dei metodi, a partire dall'aggiornamento della propria identità, in uno sguardo, quindi, posato su di sé.
    La comunità ecclesiale ha una lunga esperienza sull'uomo. Non ha perciò molto bisogno di ascoltare i suggerimenti fenomenologici che, qualche volta, sembrano mettere sotto discussione proprio questa immagine conosciuta di uomo. Quando uno dei due termini del confronto (l'uomo, appunto) è dato per conosciuto, l'aggiornamento può essere condotto rivisitando unicamente l'altro.
    I problemi e i contributi posti dal contesto sociale e culturale sono considerati importanti solo sul piano metodologico, come sollecitazione ad elaborare metodi capaci di assumerli e risolverli.
    Problemi e contributi non servono invece a ritagliare meglio l'obiettivo della esperienza di fede. Esso è definito, in termini conclusivi, nell'autocomprensione teologica della comunità ecclesiale.
    «Il rinnovamento della catechesi» rappresenta però un passo avanti notevole rispetto all'epistemologia classica della teologia pastorale.[5]
    Esso sollecita la comunità ecclesiale a lavorare in termini nuovi. E così il confronto con l'uomo è diventato presto il riconoscimento che l'uomo-in-situazione è la fondamentale via della Chiesa. E questo ha spalancato una prospettiva molto diversa, molto più decentrata: la comunità ecclesiale riconosce oggi di autocomprendersi nella misura in cui riesce a farsi «relativa» all'uomo. Essa esiste per diventare un servizio salvifico a questo uomo concreto.
    Questa maturazione ci permette oggi di considerare in modo nuovo il problema dell'obiettivo della pastorale giovanile.
    La ricomprensione dei compiti relativi alla educazione alla fede in termini anche educativi[6] ha portato molti a confrontarsi più seriamente con le scienze dell'educazione. E così colui che cerca di progettare obiettivi e metodi per l'educazione alla fede è sollecitato a fare i conti anche con la didattica, quella scienza che studia i modelli di programmazione educativa.[7] Questo, come è evidente, influenza il modo di definire tutti gli elementi della programmazione; e, quindi anche l'obiettivo. Non basta più quindi ripetere una formula, teologicamente precisa ma ancora troppo generica sul piano operativo. Ci si deve ormai chiedere: quali competenze possono caratterizzare l'integrazione fede-vita, per poter parlare di una sua iniziale corretta operazionalizzazione?.[8]
    Nello stesso tempo, l'acquisita sensibilità meneutica spinge gli studiosi e gli operatori pastorali più attenti ad evitare una definizione di obiettivi, stabilizzati al di fuori della mischia problematica dell'attuale situazione culturale e giovanile.
    Ci si rende conto che, facendo così, si corre il grave rischio di attribuire lo stesso indice di normatività alla fede e alla cultura umana in cui essa si esprime.[9]
    Dall'altra parte, decantati i toni polemici del «dissenso», è facile costatare che non è neppure corretto affidare alle istanze culturali, interpretate magari in modo rassegnato o ideologico, la decisione ultima in ordine all'educazione alla fede. Verrebbe infatti vanificata la funzione oggettiva e normativa che compete alla fede, svuotando alla radice l'integrazione fede-vita. Da molte parti si sta cercando un'alternativa praticabile, che permetta di uscire dai limiti dei due modelli descritti. La soluzione sembra quella suggerita dalla logica dei processi ermeneutici, così come sono stati formulati anche dalla quarta assemblea del Sinodo dei Vescovi, a proposito del problema della inculturazione della fede.[10]
    In questo modello, gli obiettivi sono definiti in un confronto ermeneutico, realmente fatto di «dare» e «ricevere», come chiede il Sinodo, tra condizione giovanile e autocoscienza ecclesiale, per dire la fede in modo che essa risulti «come buona novella nel significato salvifico che ha per la vita quotidiana».[11]
    Dobbiamo perciò rivisitare l'integrazione fede-vita nel confronto con i bisogni e le attuali domande giovanili, e definire le condizioni da assicurare per rendere questo progetto praticabile in situazione.
    A questo livello si colloca il problema che intendiamo qui affrontare: è possibile riformulare l'obiettivo della pastorale giovanile all'interno delle istanze più mature della «cultura nichilista»? Lungo le pagine del dossier abbiamo analizzato l'interrogativo dal punto di vista teorico. Ora cerchiamo di assumerlo e di risolverlo in termini pastorali: di progettazione per la prassi.
    L'intreccio morte-vita, la coscienza di relatività e provvisorietà, il desiderio di autonomia e di creatività, in cui si autocomprende l'uomo nichilista, connotano, in questo contesto, la preoccupazione di ridire l'obiettivo della pastorale giovanile in una sofferta e maturante passione per la vita. Dobbiamo verificare se il processo è corretto e praticabile; e, per coerenza con le esigenze di una seria programmazione, dobbiamo dire l'obiettivo in modo operazionalizzato.
    Operazionalizzazione e praticabilità non rappresentano due preoccupazioni distinte o successive; si tratta invece di un unico globale ripensamento, destinato ad assicurare una esigenza all'interno dell'altra. Tutta l'operazione va evidentemente condotta rispettando pienamente le dimensioni costitutive e irrinunciabili dell'integrazione fede-vita, altrimenti la nostra sarebbe fatica pastoralmente sprecata. L'obiettivo potrà risultare così critico e promozionale nei confronti della cultura nichilista.

    LE DIMENSIONI TEOLOGICHE DELL'INTEGRAZIONE FEDE-VITA E LE DIFFICOLTÀ ATTUALI

    Ricordiamo brevemente queste esigenze fondamentali per comprendere meglio le difficoltà oggi emergenti.[12]
    L'aspetto caratterizzante dell'integrazione fede-vita consiste nell'affermazione che la fede possiede una funzione di risignificazione globale e di progettazione normativa rispetto all'autonoma elaborazione della propria struttura di personalità.
    La riflessione teologica[13] sottolinea che la fede, per assolvere questi compiti, deve possedere una dimensione personale (intesa come fiducia e abbandono di tutto se stessi a Dio che salva in Gesù Cristo, per cui ci si appoggia a lui come a roccia stabile e sicura), una dimensione contenutistica (come accettazione di ciò che Dio in Gesù Cristo dice, di quanto ha fatto per noi, di quanto esige da noi come risposta al suo progetto salvifico) e una dimensione ecclesiale (perché la fede di un cristiano è sempre un creder-assieme, nella comunità dei credenti, come luogo in cui si incontra l'evento della fede e in cui si costatano le ragioni per credere). La dimensione contenutistica comporta il «che cosa» dell'esperienza cristiana e il «come» della esistenza nuova del credente.
    Tutto questo significa che si può parlare di integrazione fede-vita solo quando la fede assicura un orientamento permanente nel processo di consolidamento della struttura di personalità, che funziona come un quadro di significati costante e coerente per dirigere e selezionare l'attenzione e la percezione del soggetto e per interpretare le situazioni di vita; e questo orientamento soggettivo è realizzato nel rispetto del carattere veritativo e normativo della fede stessa, come conseguenza del carattere oggettivo dell'intervento salvifico di Dio in Gesù Cristo, che costituisce la radice dell'integrazione fede-vita.
    Se confrontiamo le dimensioni costitutive dell'integrazione fede-vita con quello che conosciamo dell'attuale condizione giovanile, ci accorgiamo subito di tre gravi difficoltà.[14]
    Rappresentano la sedimentazione pratica e diffusa, a livello di struttura di personalità, di alcune esigenze culturali che abbiamo visto tipiche dell'«uomo nichilista».[15]
    Le elenchiamo a veloci battute.
    L'integrazione fede-vita esige la risignificazione in chiave di fede dell'unitario progetto di sé. Richiede, perciò, quasi come condizione di possibilità una struttura di personalità sufficientemente unificata, capace di armonizzare i contenuti delle personali conoscenze e gli orientamenti operativi attorno ad un nucleo unitario, originale e portante. Ma proprio qui sta il problema. La fede dialoga oggi con personalità frammentate e disarticolate, i cui principi conoscitivi risentono della relatività e della problematicità riconosciuta oggi alle informazioni scientifiche, e i cui progetti operativi si ritrovano nel fuoco di un diffuso pluralismo ideologico che produce larga conflittualità interiore.
    La seconda difficoltà riprende lo stesso dato culturale da un'altra angolatura: viviamo in un tempo di immediatezza e di presentismo che spinge a mettere in crisi ogni pretesa di definitività. Anche il giudizio di fede risente della provvisorietà e della parzialità dei giudizi storici.
    La terza difficoltà investe, ancora più direttamente, la condizione giovanile. L'integrazione fede-vita richiede il rispetto della funzione normativa della fede, per cui sollecita ad oggettivare la propria decisione di vita sui contenuti fondamentali dell'esistenza cristiana, così come sono testimoniati nella comunità ecclesiale.
    I giovani, invece, «sembrano dare molta importanza al proprio specifico e diretto riferimento di fede a Dio. Più che praticare una religione, più che vivere con intensità le dimensioni della religiosità istituzionale, i giovani vivono in modo immediato ed essenziale il proprio riferimento di fede.
    Attraverso il concetto di immediatezza si vuole descrivere l'esigenza da parte del giovane di vivere in prima persona il rapporto con l'essere trascendente, al di là di intermediari e di mediazioni, in un'assunzione di iniziativa e di responsabilità che poggia sul proprio senso di autonomia.
    Il concetto di essenzialità invece esprime l'orientamento dei giovani a riconoscersi più che in un modello religioso tradizionale consolidato nelle norme e nei riti, in una concezione di fede quale nucleo di valori assunti come punto di riferimento ultimo dell'esistenza. (...) Nella possibilità di autodeterminare i contenuti delle credenze e delle scelte pratiche, i giovani orientati religiosamente denotano rispetto alla religione organizzata un atteggiamento di indifferenza e di scarso coinvolgimento, fatto questo che può sfociare anche in una perdita di appartenenza ecclesiale e nella caduta della partecipazione religiosa tradizionale».[16]
    L'aspetto nuovo e, per molti aspetti, più problematico è determinato dalla consapevolezza diffusa nell'uomo di oggi che questi modelli culturali non rappresentano un dato negativo, ma un indice di affrancamento e di responsabilità. Gli atteggiamenti problematizzanti e la coscienza della provvisorietà e della relatività non sono infatti più considerati un limite da soffrire e da superare, ma una conquista e un segno indiscusso di maturità personale e culturale.
    Misurandoci con queste «difficoltà», si può ancora parlare di integrazione fede-vita?

    IL «SÌ ALLA VITA» COME INIZIALE RIFERIMENTO OGGETTIVO

    Per vivere nell'integrazione fede-vita si richiede l'accoglienza nella propria struttura di personalità di un «nucleo» ben articolato di riferimenti oggettivi, che funzioni come criterio normativo per le personali valutazioni e operazioni trasformative. Questo «progetto» è, come abbiamo detto, Gesù Cristo: la sua persona e il suo messaggio.
    Non basta però concludere con questa affermazione. Le difficoltà riscontrate investono proprio questa esigenza: sembra che la inquinino alla radice. Certamente non possiamo assumere le difficoltà in modo rassegnato, fino a costringerci a ridimensionare l'obiettivo. Ma non possiamo neppure affermare l'obiettivo come se non esistessero questi problemi.
    Dobbiamo chiederci: in che modo Gesù Cristo è questo progetto normativo delle personali valutazioni e operazioni? Con quale indice di consapevolezza e decisionalità?
    Se l'integrazione fede-vita fosse pensata come un sistema perfettamente organico e unitario, contrassegnato dalla accoglienza esplicita, integrale e definitiva della persona di Gesù Cristo e del suo messaggio, come sono sedimentati nei documenti della fede, si richiederebbe troppo a giovani che vivono nella frammentarietà e nella soggettivizzazione. L'integrazione fede-vita (e di conseguenza l'esistenza cristiana) sarebbe una meta praticabile solo nella maturità di quell'adulto che guarda lo scorrere impetuoso della vita dal tranquillo possesso del suo vissuto ormai conquistato. Soprattutto sembra difficile prerichiedere l'adesione globale alla fede della Chiesa come al garante decisivo di questo progetto.
    È facile costatare che la Chiesa, per molti uomini d'oggi, è diventata un contenuto problematico di questo progetto e non il garante della sua autenticità.[17]
    D'altra parte, non si può svuotare il carattere di decisione definitiva che connota l'integrazione fede-vita; né trascinare questa decisione nelle secche della soggettivizzazione, allontanandola dalla normatività salvifica che compete alla persona di Gesù Cristo.
    Siamo in una alternativa senza sbocco, costretti a scegliere tra un riferimento veritativo a Gesù Cristo che sembra di difficile praticabilità e la più facile (ma inutile) accondiscendenza al presentismo e alla immediatezza dei giovani?
    Si può elaborare una via di uscita solo se possiamo individuare un progetto, cui aderire personalmente, che abbia tutta la carica di decisionalità oggettiva espressa nella formula integrazione fede-vita e che, nello stesso tempo, possieda la dinamicità, la progressività, la forza soggettiva, che oggi sono avvertite come esigenze irrinunciabili di ogni decisione pienamente umana.
    Crediamo, nella fede in Gesù Cristo, che questo «contenuto» globale e definitivo possa essere rappresentato dalla «vita»: la capacità di pronunciare un sì, complessivo e articolato, alla propria vita, accogliendola come un dono impegnativo e interpellante.
    Queste affermazioni teologiche non sono nuove. Esse sono state alla radice delle riflessioni che hanno portato alla definizione di integrazione fede-vita.[18]
    In questo contesto, però, le riprendiamo e le approfondiamo dalla prospettiva nuova dell'operazionalizzazione dell'obiettivo, stretti cioè dalla preoccupazione pastorale di dire l'obiettivo in modo verificabile e praticabile.
    Le pagine che seguono hanno quindi una doppia funzione.
    Prima di tutto cerchiamo di definire un quadro di competenze da far acquisire (competenze fatte di conoscenze e di atteggiamenti come si richiede ad una corretta operazionalizzazione dell'obiettivo), su cui verificare l'avvenuta integrazione fede-vita.
    Non vogliamo però condurre questa ricerca in astratto, quasi prescindendo dai contributi (positivi e negativi) che ci provengono dall'attuale cultura.
    Al contrario, per coerenza con l'opzione ermeneutica, intendiamo definire queste competenze in un dialogo serrato con le attese e i problemi dei giovani, per fare concretamente dei destinatari un reale luogo teologico.
    Per questo riflettiamo all'interno di un'ampia attenzione per le dimensioni educative della vita quotidiana. Ci sembra infatti che stia qui il punto caldo delle attuali difficoltà e delle speranze giovanili.[19]
    La fatica pastorale di dire l'obiettivo in modo verificabile ci può così portare a motivare in termini più approfonditi la nostra scelta di fondo. Ecco la seconda funzione di queste pagine: vogliamo verificare con approcci teologici, nell'operazionalizzazione stessa dell'obiettivo, se è corretto affermare, come abbiamo fatto, che si vive già nell'integrazione fede-vita quando si accoglie la propria vita come un evento impegnativo.
    Queste due funzioni si richiamano reciprocamente: una più accurata ricomprensione delle competenze da far acquisire ci porta a formulare un modello di integrazione fede-vita dinamico e progressivo e quindi praticabile e promozionale.
    Come si vede, continuiamo ad operare in una precisa circolarità ermeneutica. Non solo confrontiamo obiettivo e destinatari; ma anche ricomprendiamo l'orizzonte dell'obiettivo all'interno della sua operazionalizzazione e troviamo in essa le ragioni teologiche per definire l'obiettivo stesso.

    QUALI «COMPETENZE»? INTEGRAZIONE FEDE-VITA COME «ABILITAZIONE A VIVERE DI FEDE, SPERANZA, CARITÀ»

    In un articolo molto denso, «Il rinnovamento della catechesi» propone così l'obiettivo della catechesi: «La catechesi è esplicitamente sempre più sistematica della prima evangelizzazione, educazione di coloro che si dispongono a ricevere il Battesimo e a ratificarne gli impegni, iniziazione alla vita della Chiesa e alla concreta testimonianza di carità. Essa intende portare alla maturità di fede attraverso la presentazione sempre più completa di ciò che Cristo ha detto, ha fatto e ha comandato di fare. Abilita l'uomo alla vita teologale, vale a dire all'esercizio della fede, della speranza, della carità nelle quotidiane situazioni concrete: dà luce e forza alla fede, nutre la vita secondo lo spirito di Cristo, porta a partecipare in maniera consapevole e attiva al mistero liturgico ed è stimolo all'azione apostolica».[20]
    L'abilitazione a vivere di fede, speranza e carità nelle concrete situazioni di vita rappresenta la competenza finale da acquisire, per raggiungere l'integrazione fede-vita. Questa competenza suggerisce quali sono le conoscenze e gli atteggiamenti indispensabili da acquisire. Ma esprime le une e gli altri in modo complessivo e unitario, aiutandoci così a identificare lo stile che essi debbono possedere.[21]
    Non ricerchiamo quindi una conoscenza di tipo nozionistico, ma una conoscenza esistenziale, che abbraccia e coinvolge tutta l'esistenza: una conoscenza che permetta di valutare e di intervenire nelle concrete situazioni di vita, con costanza e coerenza. Ricerchiamo inoltre una «abilità»: una capacità operativa che armonizzi le doti personali in una disponibilità, agile e pronta, ad intervenire quando è il momento, sapendosi richiamare a motivazioni di riferimento. Si tratta, in una parola, di uno stile globale di vita, che tende a tradursi in comportamenti concreti, anche se essi non sono mai sufficientemente espressivi dell'impegnatività riconosciuta ed accettata, perché limitati nella loro capacità di storicizzare la scelta di vita e perché minacciati dalla forza negativa del peccato. Abilitare significa creare atteggiamenti.
    In questa «competenza» a vivere di fede, speranza, carità in situazione, si coniugano in modo armonico i contenuti dell'esistenza cristiana e lo stile di vita che traduce in prassi questi contenuti. Essa è contemporaneamente aperta alla prassi (è abilità ad agire in situazione) e orientata da contenuti normativi (è abilità ad esprimere nelle situazioni di vita la propria decisione per Gesù Cristo, nella fede, speranza, carità).
    Tutto questo, però, in termini di crescita educativa, perché si tratta di una abilitazione da acquisire attraverso processi progressivi di maturazione.[22]
    L'abilitazione a vivere di fede, speranza, carità rappresenta un insieme organico di competenze in cui si coniugano già atteggiamenti e conoscenze. O, in altre parole, è un quadro di atteggiamenti, normati e oggettivati linguisticamente da conoscenze precise e irrinunciabili.
    Fede, speranza, carità sono infatti le strutture fondamentali dell'esistenza cristiana. Hanno quindi una loro consistenza contenutistica, raccolta attorno alla confessione di Gesù il Signore e alla accoglienza del suo messaggio. Solo quando si è fedeli a queste «conoscenze», così come sono documentate nell'autocoscienza ecclesiale, si può veramente vivere di fede, speranza, carità.
    L'accento posto sull'«abilitazione» (e cioè sul processo graduale) indica però che l'interiorizzazione di queste conoscenze può essere anche parziale, lenta, progressiva.
    L'accoglienza della vita, di quella vita che è già «contenuto» teologico,[23] quando è realizzata nella direzione degli atteggiamenti educativi corrispondenti, esprime il livello minimale di acquisizione di conoscenze teologiche, tanto da poter parlare di iniziale avvenuta integrazione fede-vita. L'accoglienza della vita è atteggiamento, esperienza di vita: atteggiamento che si fa progressivamente consapevole e motivato, quindi riempito di conoscenze, fino alle tematizzazioni dei contenuti ecclesiali della fede, speranza, carità. Per questa ragione, abbiamo preferito definire le competenze con una attenzione prevalente agli atteggiamenti.
    Le conoscenze che sono richieste per raggiungere l'integrazione fede-vita sono, come dicevamo, conoscenze esistenziali; e perciò conoscenze misurate sugli atteggiamenti.

    IL CARATTERE PROGRESSIVO E DINAMICO DELL'INTEGRAZIONE FEDE-VITA

    Se il riferimento a Gesù Cristo e al suo messaggio (e cioè la lettura e la elaborazione in chiave di fede, speranza e carità di ogni situazione quotidiana) non elimina l'autonoma ricerca di significati personali; se, anzi, l'abilitazione agli atteggiamenti umani corrispondenti è esigenza irrinunciabile per poter vivere veramente di fede, speranza, carità, davvero il processo che porta all'integrazione fede-vita va giocato attorno alla vita quotidiana, accettando il carattere progressivo e soggettivo che la caratterizza.
    Educare alla fede significa abilitare i giovani ad accogliere la propria vita nella sua misteriosa complessità e provocante impegnatività, fino ad accogliere, in una confessione gioiosa ed ecclesiale, il Signore di questa vita.
    Gli atteggiamenti fondamentali della vita cristiana sono infatti la dimensione più profonda e la radicalizzazione definitiva degli atteggiamenti umani corrispondenti, perché l'uomo, costruito capace di attuare la propria salvezza dall'autocomunicazione di Dio, quando cresce in umanità nella direzione degli atteggiamenti corrispondenti, esprime la sua decisione, almeno implicita, per Gesù Cristo.
    Il rapporto tra atteggiamenti fondamentali e atteggiamenti acquisiti rimanda perciò al mistero di Dio e dell'uomo: un uomo che può trovare se stesso solo se, credendo-sperando-amando, si abbandona a quel Dio che gli è presente così radicalmente da essere il principio costitutivo del suo crescere in umanità.[24]
    La decisione di fede, proprio nella sua irrinunciabile definitività, può essere vissuta dentro la frammentarietà e la provvisorietà di ogni fatto umano, quando esso manifesta una tensione crescente di umanizzazione, quando è espressione incondizionata della vita nella sua serietà. Infatti dove un uomo nella sua libera e assoluta autocomprensione non si chiude per paura colpevole nella sua propria finitudine, ma si affida fiduciosamente alla trascendentalità del suo spirito verso l'incomprensibilità di Dio, egli accoglie se stesso, anche se in maniera irriflessa, nella trascendentalità radicalizzata della grazia verso l'immediatezza di Dio: egli crede e per di più con un assenso assoluto».[25] In un tempo di pluralismo culturale sono diversissimi i modelli di accoglienza della vita. L'affermazione, lasciata a questo livello, può quindi suonare troppo generica, incapace di assicurare l'integrazione fede-vita.
    Pronunciare un sì alla vita significa, per noi, riempire progressivamente l'esistenza quotidiana degli atteggiamenti corrispondenti alla fede, speranza, carità.[26]
    Con questo compito, largamente educativo ma costitutivo nell'orizzonte normativo della fede, si intende reagire ai limiti antropologici diffusi nell'attuale cultura, concentrando però l'attenzione della fede sull'uomo e sulla sua umanizzazione. Il riferimento a Gesù Cristo ha la funzione di aiutare l'uomo a comprendersi e a realizzarsi nella verità costitutiva della sua umanità, come emerge dall'umanità definitiva dell'Uomo Gesù.
    Distinguendo, come è necessario per un corretto rapporto tra fede e cultura, tra le dimensioni fondamentali dell'umanità dell'uomo e le loro concretizzazioni culturali, mettiamo la fede al servizio della piena e sempre relativa umanizzazione di ogni uomo, perché sollecitiamo ciascuno ad «inventarsi» soggettivamente secondo quel progetto definitivo che ci precede.
    Il sì pronunciato a questa tensione, sofferta e progressiva, alla propria umanizzazione è già un decisivo e definitivo (anche se iniziale e frammentato) sì pronunciato al progetto normativo di ogni umanità, il Signore Gesù; è già quindi integrazione fede-vita, secondo l'autocomprensione teologica che abbiamo formulato.
    All'interno di questa decisione esistenziale e come ulteriore livello operativo, trova posto l'incontro esplicito con Gesù Cristo, vissuto come rivelazione della verità definitiva della propria esistenza, il progressivo allargamento e consolidamento del proprio assenso di vita nella direzione della sua sequela e l'esperienza della comunità ecclesiale come «grembo materno» in cui crescere liberamente e responsabilmente come figlio di Dio.
    Questa esigenza ci porta a reagire alla soggettivizzazione, senza però fare di questo stimolo un criterio di discriminazione, ma proponendolo come un ulteriore punto di tensione: una presa di coscienza verso cui procedere con il passo incerto di ogni maturazione umana.
    Tutto questo va vissuto in dimensione dinamica, con uno slancio che vada dall'implicito all'esplicito (progredendo esistenzialmente dagli atteggiamenti corrispondenti a quelli fondamentali) e dalla fede, speranza, carità all'impegno di una qualità di vita ricostruita profeticamente attorno al progetto definitivo di uomo che è il Signore Gesù.
    In questo movimento, fede e vita dialogano in un modello responsoriale e interpellante nello stesso tempo: la fede risponde alle domande della vita mentre le provoca, perché sollecita ad un modo di essere uomo che nasce non dalla sapienza umana ma dalla follia della croce.

    LA SEQUENZA DEGLI OBIETTIVI INTERMEDI

    Come si nota, abbiamo riorganizzato l'abilitazione a vivere di fede, speranza, carità nelle situazioni di vita in una sequenza progressiva e graduale: si va da un livello minimo, praticabile anche dai giovani di oggi, in cui si realizza una iniziale integrazione fede-vita, alla confessione del Signore della vita nella comunità ecclesiale, che rappresenta quasi la stabilizzazione totale dell'obiettivo.
    Facendo così, abbiamo riformulato la logica interna dell'obiettivo, perché non siamo partiti da un progetto tutto definito, ma da quell'evento in continua soggettiva crescita che è la propria esistenza; e abbiamo riscoperto una dimensione nuova e significativa (troppo spesso dimenticata) di quell'accoglienza di Gesù Cristo che costituisce da sempre l'obiettivo di ogni iniziazione cristiana: la passione per la vita.
    A conclusione della nostra ricerca possiamo tentare di coniugare i molti suggerimenti disseminati lungo le pagine precedenti, con lo scopo di ritagliare un modello concreto.
    Nella sequenza che presentiamo, il sì alla vita diventa progressivamente un sì pieno, esplicito e profetico al Signore della vita, nella comunità dei credenti in lui.
    La progressività è affidata al passaggio dall'implicito all'esplicito e alla graduale assunzione delle dimensioni tematiche di un progetto di vita costruito su Gesù Cristo (esattamente le due esigenze ricordate poco sopra). Questa sequenza suggerisce, in una sintesi molto schematica, una rassegna concreta di obiettivi intermedi, raggiungendo i quali, tappa dopo tappa, viene ricostruita, anche nella personalità frammentata di un giovane di oggi, una intensa e attiva integrazione fede-vita.[27]
    Ecco questi obiettivi intermedi e progressivi, in una sintesi fatta solo di veloci accenni, puramente evocativi:
    - Accogliere la vita come fatto complesso, articolato e misterioso, comporta prima di tutto la capacità di pronunciare un sì a se stessi, alla propria quotidiana esistenza e al contesto sociale e culturale in cui essa si svolge. Si richiede però una decisione attenta e critica, attiva e liberante, espressa in modo distaccato, consapevoli cioè del limite e della provvisorietà della propria vita.
    L'iniziale, spontaneo e difficile, sì alla vita si consolida in un gesto responsabile e motivato.
    - La vita, pur essendo l'espressione più soggettiva, è un fatto «oggettivo», che ci misura, che è nostro ma non ci appartiene e non possiamo manipolare a piacimento. Il secondo momento dell'accettazione della vita consiste nell'accoglienza di questa sua oggettività, riscoprendo la funzione interpellante dei tanti momenti di vita in cui sembra di essere consegnati all'assurdo.
    - All'interno di questa consapevolezza, nasce la coscienza della vita come a dono», da assumere in termini di «responsabilità» La vita è dono che responsabilizza, perché è dono «grande» e consistente. Di questo dono dobbiamo abilitarci a rispondere a noi stessi e agli altri.
    - Il sì alla vita come dono comporta, in una progressione di responsabilità, la capacità di pronunciare il personale sì a Colui che sta all'origine di questo dono: Dio, datore di ogni vita. Egli è la ragione ultima e costitutiva del dono. Dalla vita si risale quindi ad una vita credente, creaturale.
    - Il dono della vita da parte di Dio prende il volto concreto di Gesù di Nazaret. Sì alla vita significa sì al Signore della vita, il segno della passione di Dio per la vita, come testimoniano i Vangeli e la fede della prima comunità apostolica.
    Siamo così giunti, per tappe progressive, alla tematizzazione dell'esperienza cristiana: il sì alla vita ha prodotto la confessione esplicita di Gesù il Cristo.
    - Chi pronuncia sì alla vita nel Signore della vita, scopre di trovarsi all'interno di un movimento di credenti: in tanti stiamo pronunciando la nostra fede in Gesù Cristo. Il sì alla vita porta alla scoperta gioiosa della Chiesa, per celebrare in essa la vita che in Gesù si fa quotidianamente nuova.
    - Sì alla vita: ma come? Esistono diversi progetti di vita. Gesù Cristo, nella Chiesa, ci propone il suo progetto di vita, da accogliere nella libertà e nella responsabilità creativa. Il sì alla vita diventa «obbedienza», accoglienza del progetto normativo di uomo che è Gesù Cristo, e «conversione», ritorno continuo e rinnovato a questo progetto normativo.
    - Come Gesù e in Gesù, chi pronuncia un sì alla vita, scopre che la sua vita si fa vocazione e servizio, perché tutti abbiano la vita, lottando contro i diffusi segni di morte.
    - E, infine, chi pronuncia il proprio sì alla vita in Gesù, il Signore della vita, è sollecitato a costatare quotidianamente che la vita nasce dalla morte. Il dolore, la sofferenza, la morte ingiusta, la morte personale attraversano il nostro quotidiano e lo segnano di assurdo. Accogliendo la vita in Gesù anche questi segni di morte risultano segni produttori di vita, per sé e per gli altri. Il sì alla vita ha toccato così la soglia più intensa e misteriosa, dove ci si abbandona fiduciosi nelle braccia del Padre.
    Non ci si deve meravigliare se ci sono dei salti di qualità», delle «rotture» tra un obiettivo e l'altro. Così è infatti l'esperienza cristiana rispetto all'esistenza umana; o, per dirla con le parole di prima, così sono fede, speranza, carità rispetto agli atteggiamenti umani corrispondenti. La continuità è sempre segnata dalla novità profetica del dono dello Spirito, che scompagina con la follia della croce la sapienza umana.
    L'integrazione fede-vita è così il significato sempre nuovo, che dà senso ai significati di umanizzazione che il giovane costruisce nel suo farsi quotidiano ed è la ragione decisiva del personale movimento verso la fatica di essere uomo nuovo.
    «La decisione della fede comporta in se stessa il conflitto interiore di una pienezza sempre cercata e mai definitivamente raggiunta. È una decisione irrevocabile, ma non una posizione conquistata una volta per tutte. Il credente vive la parola di Dio come una chiamata alla conversione permanente: ad un approfondimento personale crescente dell'opzione di fede. Egli vive di fede, in marcia verso la fede».[28]


    NOTE

    [1] Conferenza Episcopale Italiana, Il rinnovamenlo della catechesi (Edizioni pastorali italiane, Roma 1970).
    [2] Si veda, per esempio, U. Gianetto, Natura e compiti della catechesi (cap. III del Rdc), in Il rinnovamento della catechesi in Italia. Commento al «documento di base» per il nuovo catechismo italiano, a cura dell'Istituto di Catechetica della Facoltà di Scienze dell'Educazione (Università Salesiana - Roma) (LAS, Roma 1970, 41-54; G.C. Negri, Catechesi e mentalità di fede. Metodologia catechistica fondamentale (LDC, Leumann 1976), 37-38; R. Tonelli, Pastorale giovanile oggi. Ricerca teologica e orientamenti metodologici (LAS, Roma 1979), 198-224.
    [3] RdC 52.
    [4] RdC 52.
    [5] Si pensi al modello di dialogo interdisciplinare utilizzato nella teologia pastorale di G. Ceriani (si veda R. Tonelli, Pastorale, 29-31), a confronto con la proposta fatta da G. Groppo, Lo statuto epistemologico della catechetica, in Gruppo Italiano Catecheti, La catechetica identità e compiti (S. e., Udine 1977), 62-106, e da R. Tonelli, Pastorale cit., 237-249 (contiene bibliografia).
    [6] Per la problematica e le ragioni di questa importante opzione, si veda R. Tonelli, Pastorale cit., 147-154. Un contributo decisivo è offerto anche da C. Bissoli, Bibbia e educazione. Contributo storico-critico ad una teologia dell'educazione (LAS, Roma 1981 ).
    [7] M. Pellerey, Progettazione didattica. Metodologia della programmazione educativa scolastica (SEI, Torino 1979).
    [8] Il concetto di «operazionalizzazione» non è utilizzato in didattica in modo sempre omogeneo. Non c'è accordo circa la opportunità di raggiungere un livello comportamentale di operazionalizzazione, soprattutto in ordine ai processi pastorali. In questo contesto utilizziamo la voce «operazionalizzazione» per indicare la necessità di esprimere gli obiettivi in modo che sia facile assicurarne l'immediata verificabilità.
    Per i problemi che sottostanno a queste indicazioni, si veda G. Stachel, Teoria curriculare e insegnamento della religione in Germania, in «Orientamenti pedagogici», 21 (1974), 1156-1169; M. Pellerey, Progettazione, cit., 119-121.
    [9] Per una informazione sulle problematiche relative all'inculturazione della fede, soprattutto in ordine alla pastorale giovanile, si veda R. Tonelli, Un itinerario per educare alla fede i giovani di oggi, in «Note di pastorale giovanile», 15 (1981), n. 2, 11-16 (contiene bibliografia).
    [10] Messaggio del Sinodo al popolo di Dio, 5.
    [11] RdC 52.
    [12] F. Ardusso, Fede (l'atto di), in Dizionario teologico interdisciplinare, vol. 2 (Marietti, Torino 1977), 176-192.
    [13] Parliamo di difficoltà in termini costativi, a prescindere cioè da un giudizio di valore. La cultura attuale propone un progetto d'uomo che è segnato da tratti precisi. La formulazione tradizionale di integrazione fede-vita ne presuppone invece uno differente. Da qui la «difficoltà».
    [14] G.C. Milanesi e collaboratori, Oggi credono così. Indagine multidisciplinare sulla domanda di religione dei giovani italiani (LDC, Leumann 1981): vol. I: I risultati; vol. II: Approfondimenti tematici e commenti interdisciplinari.
    [15] Per l'analisi dell'attuale cultura in ordine all'esperienza di fede, si veda K. Rahner, Osservazioni sulla situazione della fede oggi, in R. Latourelle - O'Collins G. (Edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale (Queriniana, Brescia 1980), 339-368.
    [16] F. Garelli, Giovani e fenomeno religioso in una società complessa, in «Aggiornamenti sociali», 31 (1980), n. 1, 14.
    [17] K. Rahner, Osservazioni, cit., 348-351.
    [18] R. Tonelli, Pastorale, cit., 205-214.
    [19] Così almeno, abbiamo interpretato in chiave pastorale, i dati globali emersi dalla ricerca cit. in nota 14. Si veda R. Tonelli, I giovani italiani hanno «domande religiose»?, in «Note di pastorale giovanile», 15 (1981), n. 8, 43-54.
    [20] RdC 30. La sottolineatura è nostra.
    [21] Siamo ormai consapevoli che non basta concentrare l'obiettivo della pastorale giovanile nella conoscenza dei contenuti della fede né nell'agire etico.
    I comportamenti quotidiani non possono fornire un criterio adeguato per valutare l'avvenuta integrazione fede-vita. Essi rientrano tra gli obiettivi della pastorale giovanile più sulla linea di una conversione permanente che su quella dell'adempimento legale e costatabile.
    Dalle conoscenze e dai comportamenti bisogna risalire agli orientamenti esistenziali.
    [22] Non ripetiamo qui la riflessione teologico-pastorale che abbiamo già operato in altri contesti per definire in che senso si possa parlare di «abilitazione» a vivere di fede, speranza, carità. Si veda, per esempio, R. Tonelli, Pastorale, 225-236.
    [23] R. Tonelli, Pastorale cit., riprende, sviluppa e motiva questa scelta di fondo.
    [24] K. Rahner, Teologia dall'esperienza dello Spirito. Nuovi saggi VI (Paoline, Roma 1978), 473-495.
    [25] K. Rahner, Osservazioni, cit., 354.
    [26] Abbiamo fatto esempi concreti di questi atteggiamenti in R. Tonelli, Un itinerario, cit. 44-45.
    [27] La scelta di concentrare le esigenze dell'integrazione fede-vita attorno alla capacità di pronunciare un sì alla propria vita, ci propone un altro problema pratico .
    La dinamicità dell'integrazione fede-vita può essere anche, in qualche modo, codificata e prevista in una sequenza di modalità diverse e progressive, caratterizzate dalle costanti antropologiche delle diverse età?
    La stessa «passione per la vita», al cui interno si tematizza la decisione esplicita per Gesù Cristo, viene espressa di fatto in toni e modi diversificati nei successivi stadi dell'esistenza di un uomo. Facendo dialogare, in un ideale circolo ermeneutico, l'antropologia teologica e filosofica con le scienze psicologiche e sociologiche si può quindi avanzare qualche timida ipotesi anche in ordine all'obiettivo della pastorale giovanile.
    Pur restando molto attenti a non progettare questa modalità in termini troppo rigidi, per non imbrigliare in schematismi l'irruenza dell'essere e dello Spirito, arriveremo così ad operazionalizzare l'integrazione fede-vita.
    Purtroppo, questo lavoro è quasi tutto da fare. G. Groppo, Educazione cristiana e catechesi (LDC, Leumann 1972) analizza la maturità umana e cristiana in reciproco rapporto (il testo contiene anche bibliografia). La proposta più articolata e completa è offerta da J. Colomb, Le devenir de la foi (Le Centurion, Paris 1974), 17-42; e Id., Al servizio della fede. Manuale di catechetica, vol. 2 (LDC, Leumann 1970), 233-443.
    Un'interessante proposta concreta è contenuta in Proyecto de Pastoral Juvenil en linea catecumenal, in Misión Joven», dic. 1980, 5-31.
    [28] J. Alfaro, Cristologia, cit., 372-373.


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