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    «Dimensioni». Vent'anni con i giovani



    Intervista a Carlo Fiore

    (NPG 1982-05-39)


    «Dimensioni dell'uomo completo»

    D. Vedo che Lei ha sul tavolo il primo numero della rivista, uscito appunto nell'aprile 1962, vent'anni fa. Che impressione le fa sfogliarlo oggi?

    R. Che il tempo sia passato così rapidamente da non intaccare sostanzialmente la validità e l'attualità, direi, dei problemi affrontati.
    Il titolo era semplicemente Dimensioni e cosa intendevo con tale termine lo spiegavo con alcune espressioni tratte da un editoriale di una rivista francese L'effort camerounais che seguivo in quel tempo per rendermi conto del cammino di liberazione della nuova Africa dai vecchi colonialismi. Diceva quell'editoriale che io ho riportato appunto sul primo numero di Dimensioni sotto il titolo «Dimensioni dell'uomo completo»:
    «Qualcuno ha detto che siamo partigiani: ebbene, sì. noi intendiamo essere partigiani dell'uomo. Dell'uomo completo.
    Non dell'uomo amputato nella sua dimensione religiosa, come nell'ideologia laicista.
    Non dell'uomo amputato nel suo valore di persona a profitto presunto della massa, come nell'ideologia marxista.
    Non dell'uomo ridotto allo stato di consumatore o di produttore, come nell'ipotesi capitalista.
    Non dell'uomo avvolto, blindato, corazzato nella sua razza, nella sua casta, nella sua classe, nella sua civiltà, nelle sue frontiere o nella sua cultura.
    Ma dell'uomo completo: corpo e anima, uscito dalle mani di Dio e destinato a farvi ritorno con i suoi fratelli».
    Questo era il senso della rivista. E mi sembra non manchi di attualità oggi, anche se di cammino in questa direzione se n'è fatto.
    Del resto già dal primo numero si intravvedono temi che sarebbero stati portanti e che tuttora sono in discussione.
    Io affrontavo, in un primo articolo, il discorso della Chiesa, così com'era vista dai giovani. «Dispotismo, autorità, antilibertà, irrigidimento sterile, mercato, funzione storica e morale superata» erano le obiezioni dei giovani di vent'anni fa. Leggendo le obiezioni messe in rilievo della ricerca Milanesi oggi, non siamo lontani, i problemi restano ancora.
    Giuseppe Mattai affrontava il problema del laicismo in una rubrica che avrebbe tenuto poi per vari numeri di seguito. Ed il tema del laicismo è tuttora vivissimo nella nostra società, sempre più secolarizzata e laica.
    Infine avevo affidato a Guido Bodrato, oggi ministro dell'Istruzione pubblica, il discorso più delicato dal punto di vista politico: l'apertura della DC alla politica del centro-sinistra. Univo allo scopo un profilo di Aldo Moro. Fu, ricordo bene, l'articolo che ci scatenò contro le ire di una ampia fascia del mondo cattolico: il centro-sinistra appariva chiaramente, a questa fascia, un cedimento al marxismo e al comunismo.
    Aprire una rivista nuova giovanile e cattolica con una presa di posizione in favore del centro-sinistra ci è valso la messa al bando per anni da vari gruppi e Istituti e l'insinuazione che, in fondo, eravamo anche noi dei «comunisti».

    Una rivista di «voci scomode»

    D. Ma perché la fondazione di una nuova rivista giovanile, dal momento che la stampa cattolica per i giovani, anche vent'anni fa, non mancava di essere presente?

    R. Quale stampa era presente? C'era una stampa per i giovani appartenenti a gruppi, movimenti, partiti politici: l'Azione cattolica aveva i suoi organi, l'AGESCI pure, i movimenti giovanili dei partiti erano forniti di fogli per i giovani iscritti. Rocca si rivolgeva al mondo che gravitava attorno alla Cittadella di Don Rossi ad Assisi, ecc.
    Mancava una stampa che, pur partendo da una dichiarata ispirazione cattolica, si rivolgesse al giovane «non targato», ai «cani sciolti», a quei giovani cioè che non gravitavano attorno a gruppi, associazioni, movimenti. E che, ovviamente, erano la maggioranza, come lo sono tuttora.
    È a questi giovani che ci siamo rivolti, fin dal primo numero. Ricordo che uno appunto di questi giovani, in un intervento tra il serio e il faceto, qualificava così il lettore di Dimensioni: «Giovani che ruminano lupini "conformisti" o che sgranocchiano "progressisti pop-corn "; posati o di indole boccaccesca; che leggono "Cuore" o che divorano gli scritti di Moravia; che si estasiano davanti a Fidia o davanti a Matisse e a Sironi; che si fanno paladini "dell'apertura a sinistra" o che nostalgicamente ripetono i versi di "Faccetta nera"... Questo è il mondo di Dimensioni».
    Ci aveva azzeccato.
    Volevamo inoltre offrire ai giovani, con la rivista, uno spazio nel quale confrontarsi. Normalmente la stampa di associazione o di partito, non raccoglie e pubblica che gli interventi dei lettori che rientrano nei rispettivi programmi. Le voci scomode, in genere, vengono emarginate.
    Noi volevamo invece offrirci ai giovani dicendo: «Queste pagine sono per voi, questo spazio è aperto a tutti voi, quali che siano i vostri orientamenti ideologici o il vostro credo o non credo religioso. Dibattiamo insieme i problemi dei giovani, i problemi di questa nostra società in cui tutti dobbiamo vivere e che non vogliamo resti così com'è».
    E la cosa, mi sembra ha funzionato. In un sondaggio fatto alcuni anni or sono, abbiamo trovato tra i nostri lettori, una gamma amplissima di giovani, appartenenti a tutte le formazioni politiche e sindacali, che si ritrovavano a discutere i loro problemi sulle colonne della rivista. E con molta libertà. Al punto che si levarono parecchie voci preoccupate del fatto che «lasciavamo parlare i giovani ma non correggevamo i loro errori». Secondo questi nostri amici, a ogni intervento giovanile avremmo dovuto far seguire «la» risposta cattolica che raddrizzasse le idee storte. Immagini con quali risultati di dialogo... Noi invece abbiamo sempre preferito che fossero i giovani stessi a dialogare tra loro.
    Per questo la rubrica delle lettere giovanili o posta dei lettori, in Dimensioni, ha sempre avuto una ampiezza sconosciuta in altre riviste e una importanza tutt'altro che periferica. Era ed è una delle rubriche più seguite e più dinamiche. Lo scorso anno abbiamo chiesto ai nostri lettori se era il caso di limitarla nello spazio. L'87% rispose di no, proprio perché riconosceva in tale rubrica uno spazio di notevole interesse.

    Gli anni del dialogo cristiani-marxisti e della nonviolenza

    D. Nel giro di vent'anni, quali sono stati i temi più originali e caratterizzanti della rivista, che hanno maggiormente attirato l'attenzione dei giovani?

    R. Non è facile fare un elenco, perché abbiamo sempre seguito lo svolgersi delle tematiche più vive nel momento culturale, senza temere di comprometterci e senza troppe remore prudenzialistiche.
    Due temi che, specialmente nel primo decennio, abbiamo sviluppato e seguito con una certa attenzione sono stati, ad esempio, il dialogo cristiani-marxisti e tutta la problematica della nonviolenza, della obiezione di coscienza, dell'antimilitarismo.
    Dialogo cristiani-marxisti. Il Concilio aveva aperto le strade di tale dialogo. E noi ce ne siamo fatti portavoce nei momenti in cui più vivo era il problema. Il che ci procurò parecchie noie da parte di coloro che vedevano tale dialogo come un tradimento del messaggio cristiano. L'amicizia mia, anche personale, con Garaudy e con gli esponenti di tale dialogo, sia cattolici che marxisti, mi facilitò il compito. Credo che ci siamo sempre comportati con estrema onestà e grande coerenza, cercando veramente il dialogo e non annacquamenti della fede.
    Problemi della nonviolenza, dell'obiezione di coscienza, dell'antimilitarismo. Prendemmo posizione decisamente in favore di questo giro di idee. E anche questo non fu indolore, si trattava di un discorso di avanguardia, almeno per molti settori del mondo cattolico.
    Coinvolgemmo nel discorso della nonviolenza personalità di primissimo piano a livello internazionale. Ricordo che una mia lunga intervista a Jean-Marie Muller, uno dei massimi esponenti della nonviolenza, fu ripreso da numerose riviste del movimento nonviolento. Mi diceva un giorno Beppe Marasso, un esponente italiano della nonviolenza: «Hai fatto più tu con Dimensioni in questo campo, che le nostre riviste messe insieme». Si trattava infatti più che di riviste, di fogli di collegamento e di dibattito di idee.
    Alla nonviolenza collegammo il discorso dell'obiezione di coscienza. Oggi tale discorso è accolto anche in ambiente cattolico: basti pensare alla Caritas italiana, al cui servizio sono oggi più di 300 giovani obiettori. Nelle stesse opere salesiane sono presenti obiettori di coscienza che lavorano, spesso, in modo eccellente. Ne parlavamo ancora recentemente con D. Sergio Pighi in un servizio sui centri antidroga della Comunità giovanile di Verona. Ma quando iniziammo il discorso dell'obiezione di coscienza, ci trovammo di fronte a un muro di ostilità, soprattutto nell'ambiente cattolico. Ricordo anzi che rischiai un processo di diffamazione delle Forze Armate. Avevo pubblicato una lettera di un militare che denunciava la situazione della sua caserma. La lettera finì agli Alti Comandi e seppi, tramite amici, che avevo rischiato l'incriminazione e il tribunale militare.
    Il tema dell'antimilitarismo era conseguente alla logica di queste scelte. Raccolsi in un volumetto della collana Parametri tutta una serie di articoli su questi problemi e lo pubblicai con il titolo «Perdona a noi i nostri eserciti». Oggi un discorso del genere, vista la corsa agli armamenti e il rifiuto che la coscienza collettiva oppone alla logica delle armi, corre liscio. Allora, - il volumetto uscì una decina di anni fa - non fu accolto benevolmente, in molti ambienti.
    Ho accennato a due temi - dialogo cristiani-marxisti e nonviolenza - che hanno avuto maggior risonanza polemica. Ma la rivista non si limitava certo a questo: il discorso della Chiesa post-conciliare, la tematica della affettività e della sessualità, i problemi della fede e della sua maturazione, il discorso sulla emarginazione in tutte le sue forme, la tematica della droga ecc. sono sempre state seguite molto da vicino. Oltre, ovviamente, al discorso sulla politica italiana e internazionale.

    Gli anni del '68

    D. In questo ventennio della rivista si colloca la contestazione giovanile, il '68, la fase successiva al '68. Quali sono state le vostre posizioni di fronte a questi avvenimenti?

    R. Siccome difficilmente uno è giudice in causa propria, vorrei rispondere non direttamente, ma con le valutazioni tratte da una tesi di laurea su Dimensioni, presentata lo scorso anno alla Facoltà di Magistero dell'Università Cattolica di Milano da Flavia Agnesi. Una prima tesi di laurea sulla rivista era stata presentata all'Università di Torino una decina di anni fa, ma persi di vista l'autore.
    In questa seconda e recente tesi l'Autrice analizza e valuta le varie tematiche che la rivista affronta. Tra cui, naturalmente la contestazione e il '68.
    «Non appena si verificano nel mondo occidentale le prime manifestazioni della ribellione - scrive Flavia Agnesi - DN affronta la questione muovendosi sostanzialmente su due linee.
    Prima di tutto si tenta di cogliere e presentare ai lettori, che del resto vi sono coinvolti direttamente, gli avvenimenti più importanti e le caratteristiche dell'agitazione studentesca e giovanile. È quindi il livello della cronaca... I servizi guardano con interesse a queste manifestazioni di rifiuto dei canali istituzionali, di denuncia delle false libertà, dell'autoritarismo, del consumismo perché, anche se rischiano di generare confusione, hanno certamente in sé una tensione di ricerca che va messa in rilievo.
    Ma soprattutto, ed è questa la seconda linea su cui DN si muove, si cerca sin dall'inizio di andare a fondo e di cogliere le motivazioni, le cause dell'insoddisfazione dei giovani, e gli obiettivi della loro volontà di cambiamento... Il fatto che la rivolta nasca in determinate società indica che è nell'impostazione che sta al loro fondamento che vanno ricercati i sintomi del loro malessere. Si ritiene quindi indispensabile che il mondo degli adulti tenti di capire i motivi per cui, a vent'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, i giovani sono inquieti e scontenti, insofferenti di una situazione da cui si sentono esclusi... L'importanza - prosegue Flavia Agnesi - che DN aveva riconosciuto sin dall'inizio alle istanze della contestazione giovanile non viene poi rinnegata; anzi il fenomeno viene sempre tenuto presente, cercando di coglierne gli aspetti salienti, sia per quanto in esso c'è di evoluzione in positivo che per gli esiti negativi e deludenti e per le involuzioni... Da ultimo si tenta di capire che cosa ne è stato di quelle persone e ideali, constatando che, per molti aspetti, il '68 è stato eluso nelle sue richieste». Il solco si è ulteriormente scavato tra minoranze giovanili, fra subculture giovanili e forze sociali, politiche, culturali che non hanno saputo rispondere a quella pressione. Ed è da questo aggravamento che finisce per nascere il Movimento del '77 che degenera rapidamente in atteggiamenti di angoscia e di autodistruzione. «Dall'utopia alla disperazione» è il titolo significativo di un articolo di A. Turchini, docente alla Cattolica di Milano, che appare appunto nel 1978.

    La generazione della «vita quotidiana»

    D. Attraverso le pagine della rivista sono passate due generazioni di giovani almeno. Se dovesse dare una valutazione globale dell'universo giovanile di questi ultimi 20 anni, come lo configurerebbe?

    R. Due generazioni o, forse, anche tre. Oggi i salti generazionali sono così ravvicinati...
    I sociologi ci hanno già tracciato la mappa di questa topografia giovanile e non posso che confermarla.
    Sono cadute le grandi utopie sociali e individuali, è caduta la tentazione del «tutto è politico» che ha caratterizzato gli slanci e le ingenuità degli anni '60. Su questo non c'è dubbio. Ricordo che, in quegli anni, la posta dei lettori su problemi sociali e politici era abbondantissima, tutti i giorni erano plichi di lettere, tanto che era per me davvero difficile fare una cernita tra tutti gli interventi arrivati in redazione. Chi sfoglia le «Lettere al Direttore» di quegli anni se ne accorge facilmente. Il dibattito era accesissimo tra i giovani dei vari schieramenti politici e ideologici.
    Oggi si è fatta avanti la generazione, dicono, dei «nuovi indifferenti», del «disincanto», del «disimpegno». Il politico ha ceduto il passo al «privato». E si affaccia la generazione del «tempo delle mele», la generazione del ritorno al romanticismo dell'amore, o meglio di uno pseudoromanticismo sospetto.
    Ho sempre diffidato e diffido tuttora delle semplificazioni e delle etichette. La situazione giovanile è molto più complessa di quanto possa sembrare. È troppo comodo e semplificante dire che alla generazione dell'impegno è succeduta la generazione del disimpegno, che al flusso è subentrato il riflusso.
    Posso dire che la definizione più vicina alla realtà, così come la conosco attraverso la rivista, è che oggi ci troviamo di fronte alla generazione «della vita quotidiana». Il giovane d'oggi non sembra più mirare a grandi obiettivi, non crede più alla Grande Svolta della Storia e alla Rivoluzione dietro l'angolo. Gli obiettivi che si propone sono molto vicini alla sua vita concreta e quotidiana. Anche la politica ha assunto il quotidiano come termine di riferimento. Si privilegia la quotidianità della vita a scapito delle eccezionalità della esistenza e della storia. La storia ce la costruiamo noi non con tavolozze dai colori smaglianti ma con i colori abbastanza smorzati della vita quotidiana.
    Allora siamo al fallimento, al crollo degli ideali, all'appiattimento generale, alla caduta della speranza
    Ritengo di no: generalizzare è falso.
    Vi sono certamente fasce giovanili che hanno ripiegato su tutto il fronte e vivono il loro modesto cabotaggio quotidiano smorto e senza senso. E quando non ci sono state fasce giovanili di questo tipo?
    Ma vi sono giovani, più di quanto si creda, che vivono ben diversamente il loro quotidiano. Il loro modo di concepire il «personale» deve essere letto molto più con le categorie di Mounier e del suo «personalismo comunitario» che con le categorie del «privato» di tipo consumistico borghese. Questi giovani tengono a vivificare in modo costante la vita quotidiana, a privilegiare una continuità di esperienze e di significato da realizzare a scapito di momenti e di mete ritenute velleitarie e irrealizzabili. Di qui l'attenzione ai rapporti interpersonali, ai problemi dell'identità personale, alle esigenze personali.
    I giovani di oggi, diversamente da quelli degli anni '60, non privilegiano più la «prassi» sul pensiero e come verifica del pensiero. Di qui, credo, deriva quel ritorno alla riflessione, alla contemplazione che tanta eco desta nelle nuove generazioni. Di qui l'importanza delle esperienze personali che può arrivare a un frazionamento di esperienze nelle aree più diverse, fino a quel «consumismo della esperienza» di cui parla Enzo Bianchi, parallelo a un certo «consumismo della relazione».
    Ripeto però che tracciare il ritratto «del giovane d'oggi» è illusorio è, al limite, mistificante perché manca omogeneità nel campo giovanile e forti sono le differenziazioni: anche in questo i giovani sono il riflesso di una società che manca di omogeneità culturale e che è densa di contraddizioni.

    «Vorrei le idee trasformate e raccontate in esperienze»

    D. Lei ha parlato di sondaggi recenti fatti dalla rivista per verificare le richieste dei giovani. Ebbene, in breve, cosa chiedono oggi i giovani a una rivista che voglia tenere aperto il dialogo con essi?

    R. Anzitutto, e proprio dalla nostra inchiesta, emerge la richiesta di concretezza di situazioni e di esperienze giovanili: dare la parola ai giovani, presentare testimonianze di vita quotidiana, mettere in comune i problemi, ecc. Diffidano delle proclamazioni dei grandi ideali, delle teorizzazioni.
    Mi scriveva una nostra lettrice recentemente: «Mi è difficile leggere un articolo (vostro o di qualunque altro giornale) senza provare un senso di repulsione e di noia per frasi in cui si cerca di teorizzare e descrivere cose che si possono capire solo vivendo... Vorrei vedere le idee trasformate e raccontate in esperienze... Secondo me, forse è giunto il momento (in questa epoca in cui il Privato va a spasso con la Paura) di coinvolgere ancora di più la gente a partecipare ancora di più agli argomenti della rivista, in modo che ognuno racconti la sua». E un altro lettore osservava e suggeriva: «Allargare lo spazio del dibattito, aprire uno spazio maggiore a interventi ed esperienze concrete dei giovani, evitare teorizzazioni dannose. Bisogna mettersi in discussione, non proporci modelli che nemmeno osiamo pensare di seguire. Comunichiamoci le esperienze fatte, le lotte riuscite. Facciamo meno discorsi tipo "dobbiamo cercare... ", "l'importante è che dobbiamo realizzare", ecc. Più vita, meno idee. O più vita di idee».
    Seconda richiesta: il confronto, sia all'interno del mondo giovanile, sia tra le diverse posizioni ideologiche di una società pluralista. Un esempio: la rivista ha pubblicato due dossier, tra gli altri, concepiti diversamente. Il primo sull'aborto, in occasione della nota polemica. E DN prendeva chiaramente posizione contro la liberalizzazione dell'aborto, in difesa della vita nascente. Il secondo era sul metadone. E qui la rivista dava la parola ai sostenitori della terapia metadonica, vedi proposte Aniasi, e a quanti si dimostravano nettamente contrari a tale proposta. A conclusione, il nostro parere. Ebbene, il secondo dossier fu preferito al primo. Terza richiesta: dare la precedenza ai problemi giovanili e personali. E questo rientra in quel discorso del "personale" di cui abbiamo fatto cenno sopra. Ad esempio, nel sondaggio condotto lo scorso anno, di cui abbiamo già dato qualche cenno, abbiamo sottoposto ai lettori una serie di argomenti preferenziali che andavano dalla politica ai fenomeni di emarginazione, dall'ecologia alla nonviolenza, ai problemi tipicamente giovanili. Ecco le scelte fatte dai giovani: su nove argomenti i primi quattro sono: nuova morale e sessualità, problemi psicologici giovanili, giovani e contemplazione, i nuovi giovani degli anni '80: caratteristiche, problemi aperti, ecc. Solo dopo questi quattro argomenti, tutti squisitamente di tipo personale, seguono, nell'ordine i problemi dell'emarginazione, della nonviolenza, del servizio civile alternativo al servizio militare, dei partiti politici italiani. In coda: l'ecologia. Conferma di queste scelte: al primo posto, tra gli argomenti trattati nell'anno precedente sulla rivista: giovani e valori.

    La linea educativa di Dimensioni nuove

    D. In quali ambienti e come viene utilizzata oggi la rivista?

    R. La maggioranza dei lettori la usa a titolo personale, confrontandosi magari con amici, ecc. In questi ultimi anni ha preso però sempre maggior sviluppo l'uso della rivista nei gruppi giovanili, al fine di dibattere insieme qualche problema. E soprattutto la rivista è entrata nella scuola sotto due titoli: come sussidio di cultura generale e come sussidio per la scuola di religione. Sono ormai varie migliaia le copie che arrivano in abbonamento-pacco - un apposito abbonamento offerto appunto per la scuola e che va da ottobre a maggio a prezzo ridotto - a scuole medie superiori diffuse in tutta Italia.
    Significativo un fatto. Da alcuni anni la Regione Piemonte svolge una campagna per l'entrata, nelle classi delle medie superiori, di quotidiani e riviste. Nel campo riviste, su oltre 130 riviste offerte alla scelta degli insegnanti e dei Consigli di classe, DN si è classificata costantemente al quarto o quinto posto. Segno di una innegabile fiducia nei suoi contenuti culturali.

    D. Un'ultima domanda. Secondo Lei, si può parlare di una «pedagogia», cioè di una linea educativa portata avanti globalmente dalla rivista nei suoi vari interventi in questi vent'anni?

    R. Mi rifaccio, per rispondere, ancora alla tesi di laurea di Flavia Agnesi. Dopo circa 200 pagine di analisi dei contenuti della rivista, fatta criticamente, l'Autrice conclude così la sua ricerca: «Considerandola globalmente, la "pedagogia" di DN vuole educare ad alcuni atteggiamenti profondamente umani: la capacità di senso critico anche verso se stessi, l'abitudine alla verifica e al confronto con gli altri e con la realtà per evitare ogni forma di manipolazione culturale; uno spirito di tolleranza e di rispetto delle opinioni e delle scelte diverse dalle proprie per rendere possibile il cammino di tutti verso la verità; la coerenza fondamentale in ogni momento della propria vita, che rifugge da separazioni alienanti nell'ambito della intera esistenza; l'impegno generoso, profondo e meditato, ordinato sia a tradurre nell'azione i valori interiorizzati, sia a contribuire personalmente alla realizzazione di rapporti "fraterni" con gli altri uomini e di una vita sociale più umana». In queste righe mi ci ritrovo pienamente e ritrovo il senso di questi venti anni di lavoro. Insisterei su un elemento: lo spirito di tolleranza, il senso di rispetto degli altri, il rifiuto di ogni integrismo di qualsiasi segno, la collaborazione con chi la pensa diversamente, sapendo bene che nessuno è depositario della verità e che tutti insieme dobbiamo cercarla con onestà e con umiltà.
    Chiudo ricordando la battuta di un insegnante di religione gesuita che aveva adottato la rivista come sussidio per il suo insegnamento. Alla mia richiesta ma i suoi ragazzi seguono la rivista, ne utilizzano i contenuti?» mi guardò un po' e mi rispose: «La maggioranza sì, la segue con interesse. E coloro che la sorvolano almeno si fanno l'idea che il cristianesimo è una cosa seria».


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