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    La dimensione educativa del fatto morale



    Guido Gatti

    (NPG 1982-08-29)


    LA TEOLOGIA MORALE DI FRONTE ALLO SVILUPPO MORALE

    La teologia morale è un tipo di sapere tutto particolare, elaborato, a differenza di molte altre discipline, anche teologiche, direttamente ed immediatamente in funzione della pastorale ecclesiale e quindi della prassi e della vita.
    È naturale quindi che la teologia morale si sia occupata, almeno da qualche decennio, cioè da quando il tema dell'educazione morale ha cominciato a costituire oggetto di ricerca scientifica, appunto di problemi educativi.
    Non deve meravigliare che questa pretesa della teologia morale venga a volte considerata illegittima, stante la costituzione ormai pienamente e soddisfacientemente avvenuta di un corpo di scienze che autonomamente si occupano dei problemi educativi in genere, le cosiddette scienze dell'educazione.

    Un fatto nuovo nella teologia morale

    La pretesa della teologia morale ha tuttavia una qualche legittimità, nella misura in cui essa studi questo genere di problematica, rispettando l'ambito della sua metodologia e del suo oggetto formale: studi cioè il fatto educativo morale in quanto problema significativo per l'ethos cristiano e riflettendoci sopra con metodo teologico, cioè a partire dalla parola di Dio, sollecitata e interpretata nel quadro delle nuove acquisizioni emergenti appunto dallo studio della dimensione evolutiva del fatto morale.
    Naturalmente la teologia morale non è per sé competente a elaborare una vera e propria metodologia pedagogica: il suo scopo è un arricchimento del sapere teologico e una verifica della prassi ecclesiale in fatto di educazione morale.
    Ma per la teologia morale occuparsi di educazione comporta una specie di rivoluzione copernicana: essa dovrà studiare il fatto morale non più soltanto nel suo essere ma anche nel suo divenire: è una prospettiva e una attenzione che sono praticamente mancate nella teologia morale di tipo tradizionale. Essa ha sempre studiato il fatto morale solo per normarlo; del fatto morale ha studiato la dimensione del dover essere, una dimensione statica, considerata come già esistente da sempre in toto, di quel tipo di esistenza che hanno le realtà astratte e formali, come ad esempio la geometria euclidea.
    Ma per occuparsi della dimensione educativa del fatto morale non basta più rifarsi all'ordine morale come ad una realtà statica, costituita dai fini, dai valori e dalle norme, considerate come esistenti indipendentemente dalle persone concrete che le vivono e le realizzano; occorre sondare la prospettiva dinamica e concreta del fatto morale che è una prospettiva evolutiva, che studia la realtà morale essenzialmente in quanto fatto di crescita progressiva, correlata con tutto lo sviluppo generale della personalità.

    Quale dialogo tra fenomenologia e teologia in campo morale?

    La teologia morale deve fare i conti con qualcosa di concreto, che si rivela alla ricerca con una sua precisa fenomenologia di natura psicologica: la fenomenologia dello sviluppo morale.
    Tale fenomenologia non può essere direttamente inquisita dal teologo moralista, ma non può neppure da lui essere più oltre ignorata: prima di tutto per le implicazioni pratiche di carattere pastorale di cui la teologia morale si è sempre in qualche modo occupata; ma anche per motivi di carattere teoretico, interessanti la teologia morale in modo molto più diretto.
    Da una parte infatti, lo studio di questa fenomenologia, così come è stato portato avanti dalle scienze dell'uomo, ha spesso messo in discussione la validità dell'impegno morale umano, almeno così come lo prospettava la morale tradizionale, e quindi la sensatezza di ogni appello morale, incluso quello del vangelo: lo studio genetico del fatto morale porta infatti a elaborare una certa visione del fatto morale; ma determinate visioni del fatto morale (come ad esempio quelle tipiche della psicoanalisi e del behaviorismo) finiscono per vanificare la stessa realtà morale riducendola a qualcosa di umanamente deteriore o di puramente deterministico. È chiaro allora che la teologia morale, se vuole difendere con una apologetica convincente la serietà e la sensatezza del suo stesso compito, deve scendere sullo stesso campo di coloro che tale serietà e sensatezza negano.
    Dall'altra parte, occupandosi della dimensione educativa del fatto morale e facendo oggetto della sua riflessione questa fenomenologia dello sviluppo morale, la teologia morale è costretta a ripensare a fondo il suo discorso, a modificarne certe modalità, ad acquisire prospettive nuove che potranno magari, come vedremo, risultare molto in linea col messaggio morale del vangelo e quindi tali da stimolare la teologia morale e la stessa coscienza collettiva della comunità di fede a riscoprire certi aspetti del patrimonio morale cristiano ingiustamente fatti dimenticare o relegati in secondo piano da uno studio soltanto astratto e statico del fatto morale.

    LA FENOMENOLOGIA DELLO SVILUPPO MORALE

    Questa rilevanza anche teologica dello studio della fenomenologia dello sviluppo morale potrà emergere chiaramente da una esposizione, anche solo estremamente sommaria, della storia di questo settore della ricerca.

    Lo sviluppo morale secondo Freud: morale del Super-ego

    Questa storia è cominciata con Freud, il quale ha dato inizio ad uno studio psicologico del fatto morale e del suo sviluppo con una ampiezza e profondità di analisi da conferire alla sua opera, nonostante la sua evidente unilateralità e i suoi pregiudizi, il significato di un punto di partenza da cui non è possibile prescindere.
    Secondo Freud, l'istanza psichica depositaria della preoccupazione morale è l'Io ideale o Super-ego; si tratta di una energia psichica, capace di contrastare efficacemente, sul suo stesso piano delle pulsioni inconsce, le energie e le pulsioni cieche ed amorali dell'Es.
    Esso è prodotto nel soggetto dalla graduale incorporazione o introiezione dei veti, dei comandi e delle attese dei genitori; incorporazione che si realizza al momento del superamento del complesso di Edipo, attraverso un meccanismo di identificazione col padre amato-odiato e che, pur arricchendosi di contenuti per tutto il resto della vita, resta sostanzialmente fedele al suo meccanismo originario di interiorizzazione forzosa.
    Il Super-ego è quindi portatore degli imperativi etici che pesano nella vita di ogni persona umana e rappresenta in pratica quello che viene abitualmente chiamato coscienza morale.
    Senza di esso e al di fuori delle costrizioni operate dall'ambiente educativo, il comportamento umano ubbidirebbe unicamente al principio del piacere che è l'energia di base dell'Es.
    Il fatto morale non consiste dunque nello sviluppo omogeneo e spontaneo di una qualche facoltà morale innata: una simile facoltà non esiste: l'uomo è nella sua origine, in quanto essere della natura, un animale assolutamente immorale.
    A spingerlo verso ciò che chiamiamo bene morale non può essere che una qualche costrizione esterna a lui, contrastante con i suoi impulsi originari: questa costrizione è il bene morale stesso.

    Le due fasi dello sviluppo morale

    Le fasi dello sviluppo morale si riducono allora essenzialmente a queste due: la fase di libera esplosione degli istinti primari e la fase della interiorizzazione dei veti.
    Una prima fase è la libera esplosione degli istinti primari vigorosamente contrastata dalle costrizioni dell'ambiente educativo. Questi impulsi primari sono di loro natura ciechi ed amorali: la loro soddisfazione risulterebbe perciò autodistruttiva e socialmente pericolosa; ma l'impotenza del bambino e la vigilanza educativa rendono la loro esplosione largamente immaginaria ed illusoria: nello scontro con le esigenze dei genitori, rappresentanti della società e portatori del principio della realtà, essi sono regolarmente sconfitti; la minaccia e il ricatto affettivo costringono il bambino alla loro repressione e rimozione e a un comportamento almeno esternamente morale: ma si tratta di una moralità ancora esteriore e quindi largamente inautentica ed apparente.
    La seconda fase è quella della interiorizzazione di questi veti e di questi comandi, attraverso la formazione del Super-ego. Esso risulta già completamente organizzato al termine del c.d. periodo di latenza e non subisce più modificazioni qualitative per tutta la vita.
    Si tratta di una fase di moralità, tutto sommato ancora forzata e quindi inautentica ed ipocrita.
    Per il fatto di stare ormai dentro la psiche, incorporata nel super-ego, la norma morale non cessa di essere subita e contrastata; l'obbedienza rimane forzosa. Si tratta di una morale che continua a operare con la forza della minaccia e con l'angoscia del sentimento di colpa: una morale sostanzialmente eteronoma.

    Osservazioni

    La morale e la coscienza risultano quindi alla fine una ben povera cosa e Freud non esita ad affermare nei loro confronti il più totale disinganno.
    Freud ne riconosce la necessità: i veti e i comandi portati dal Super-ego non sono capricci arbitrari ma esigenze della realtà e condizioni di sopravvivenza per il singolo e per la società: la formazione del Superego è una tappa necessaria nel cammino della ominizzazione; ma egli pensa che il Super-ego ci chieda troppo e soprattutto in modo troppo esclusivamente autoritario; di qui la frequente formazione di sintomi di nevrosi individuale o collettiva come difesa o come spia del disagio profondo di questa sottomissione forzata ad un despota spesso irragionevole.
    Di fatto Freud finisce per essere nei confronti della morale, dopo Marx e dopo Nietzsche, uno dei grandi maestri del sospetto.
    La morale poggia per lui sulle tenebre dell'inconscio, vive solo attraverso la sottomissione forzata a una voce che, pur risonando dentro di noi, resta sempre la voce di un altro.
    Gli impulsi libidinosi e aggressivi che essa reprime ci appartengono in modo più originario che non la coscienza e non tacciono mai del tutto. Quando la loro repressione non sfocia nella nevrosi, genera una virtù ambigua; quella che Freud chiama, non senza un accento di disprezzo, la morale civile o morale borghese.
    Se la religione è tutta illusione, la morale lo è in gran parte.
    Essa tuttavia è il prezzo da pagare alla sopravvivenza della civiltà. Se il suo rigore produce la nevrosi, la sua carenza condurrebbe (e conduce di fatto chi non è sufficientemente educato o socializzato) a una regressione allo stato allucinatorio e anarchico dell'infanzia.
    L'educazione morale che perpetua e rafforza il super-ego collettivo, trasferendolo nei singoli, ha quindi una funzione necessaria anche se pericolosa. La psicanalisi non ne auspica l'abolizione ma un ridimensionamento: «La psicanalisi, ogniqualvolta è venuta a contatto con la pedagogia, ha auspicato una limitazione dell'educazione».[1]
    Solo nel periodo lungo, come speranza lontana, essa promette e promuove un superamento della stessa moralità del Super-ego e l'approdo a una morale, non più legata all'irrazionale e all'inconscio ma alla ragione e alla verità.

    I post-freudiani: verso una morale dell'io

    Rimproverando a Freud il carattere puramente negativo, anche se necessario, della sua demistificazione, E. Fromm ne mostrava così i limiti: «La funzione della psicoanalisi è stata di ridimensionare, dimostrando come i giudizi di valore e le norme etiche siano espressione razionalizzata dei desideri e dei timori irrazionali e spesse inconsci e che pertanto essi non possono accampare pretese di validità oggettiva. Ma tale ridimensionamento che era in se stesso preziosissimo, divenne sempre più sterile quando non riuscì a procedere oltre la pura critica».[2]
    In realtà Freud ha fatto qualche tentativo di andare oltre questa sua sconsolante pars destruens, costruendo sopra l'oscura fondamento dell'etica del Super-ego le tracce di una più umana morale dell'io. Ma il tentativo è rimasto in gran parte allo stato di adombramento.
    Accanto alla repressione delle pulsioni cieche ed inconsce dell'Es ad opera delle pulsioni contrarie, ma in fondo, altrettanto cieche e inconsce del Super-ego, Freud arriva ad ammettere, almeno come eventualità rara e fortunata, o come progetta di lungo periodo da realizzarsi attraversa la funzione demistificatrice del sapere disincantato e quindi come difficile esito del processo di sviluppo cognitivo dell'Io in atto da millenni, un dominio consapevole di queste pulsioni ad opera del logos. Si tratterebbe in questo caso di una morale fondata sulla cognitività, sulla consapevolezza, di cui sarebbe protagonista un Io forte, reso appunto tale da una conoscenza non più illusoria di sé.
    La storia dello studio dello sviluppo morale dopo Freud è la storia della riscoperta e della riaffermazione di questa morale dell'Io o della ragione che Freud aveva appena adombrato e in cui viene visto il vero scopo di ogni educazione morale autentica.
    Su questa strada camminano già alcuni dei seguaci più diretti di freud (Fromm, Frankl, Erikson), gli psicologi della scuola umanistica (Thomae, Nuttin, Maslow, Allport, ecc.) e in qualche modo anche i più recenti studiosi dei processi cognitivi che fanno da base all'esperienza morale (Piaget, Kohlberg).
    Essi riscoprono, accanto alla coscienza morale infantile o autoritaria, che si identifica con il Super-ego, una coscienza morale adulta o umanistica, intessuta di libera coerenza con le proprie scelte di fondo, con un progetto maturo e ragionato di vita. In questo caso l'impegno morale non si identifica più con la sottomissione alienante ad una istanza inconscia, ma con un momento decisivo della dimensione progettuale di tutta la personalità umana. Il presupposto naturalmente è l'esistenza di una capacità radicale innata di cogliere il bene, di volerlo, di vedervi un adempimento dei propri desideri, la strada della realizzazione di sé.
    Naturalmente il lavoro di Freud non è stato inutile: resta aperto il sospetto (e l'educatore non potrà più ignorarlo) sul carattere infantile o immaturo (e quindi sostanzialmente inautentico) di ogni forma di coscienza morale autoritaria e costrittiva e quindi anche di ogni educazione morale tesa, attraverso l'autoritarismo, il plagio o l'indottrinamento, a creare forme di coscienza eteronoma di questo tipo; ma si fa strada la convinzione che l'accesso a una morale adulta sia per l'uomo una possibilità reale e quindi la sua vera vocazione e la strada della sua piena realizzazione personale. Tale forma di coscienza matura diventa quindi il fine e il criterio di validità dell'educazione morale.

    Alcune intuizioni conclusive

    Non ci dilungheremo ad esporre questa storia nei particolari. Quanto detto ci permette già alcune grandi intuizioni, presenti a modo di minimo comun denominatore un po' in tutte le teorie dello sviluppo morale e meritevoli perciò che la teologia ci veda uno stimolo su cui riflettere alla luce della parola di Dio.
    Mi sembra che si possano esporre sommariamente nei seguenti punti.

    1. Lo sviluppo morale, cioè la storia dell'esperienza morale della persona, passa attraverso una serie di fasi o stadi: si va da un punto di partenza, che è la totale immaturità morale del bambino, attraverso delle fasi intermedie o premorali di progressiva maturazione, fino ad una fase di piena maturità (che non è detto debba essere raggiunta da tutti).
    2. Ma, cosa che più conta, questa evoluzione non è primariamente di carattere quantitativo, ma di carattere qualitativo; essa riguarda cioè, a livello di conoscenze, non tanto la quantità e l'esattezza oggettiva delle conoscenze morali possedute quanto il come si possiedono, le categorie del pensiero morale e le forme del ragionamento morale; a livello di atteggiamento morale, essa riguarda, più che la quantità di atteggiamenti conformi alla norma, un atteggiamento più profondo che è il modo di essere conformi alla norma e di realizzare i valori, non il numero delle virtù ma la qualità delle virtù.
    3. Questa qualità è legata al tipo di interiorizzazione delle norme e di adesione interiore ai valori; riguarda cioè il passaggio dall'immaturità intesa come eteronomia morale ad una maturità consistente essenzialmente in una particolare forma di autonomia morale.
    L'autonomia morale non è naturalmente l'indipendenza dai valori, dall'ordine morale oggettivo espresso dalle norme: questa sarebbe non maturità morale ma assenza di moralità. Così l'eteronomia non è la dipendenza dalle norme ma la dipendenza dagli altri, dall'autorità dei genitori e degli educatori, dal peso condizionante di una cultura.
    Quello che fa l'immaturità morale è la soggezione passiva e forzata, condizionata da meccanismi meno consapevoli; e quello che fa l'autonomia è l'adesione consapevole e libera, che presuppone una vera comprensione dei valori non soltanto in maniera intellettualistica ma anche in modo valutativo, cioè con risonanze affettive positive che nascono dal vedere nel valore morale appunto un valore, qualcosa di affascinante e di assolutamente meritevole di essere realizzato.
    4. Questa percezione permette anche il passaggio dal materialismo morale (per cui la norma vale nella sua materialità come un assoluto, che è poi il legalismo o formalismo del fariseo di ogni tempo e di ogni religione), alla ragionevole ermeneutica morale dell'adulto che permette di vedere dietro alla norma il valore e privilegia il ruolo dell'intenzione rispetto alla cosa (sia pure di una intenzione oggettivamente responsabile verso la realtà) e di dare alle norme una interpretazione intelligente, considerandole come mezzi per un fine e quindi relativizzandole appunto a questo fine.

    UN CONFRONTO CON I DATI DI FEDE

    Credo che la teologia morale, ponendosi davanti a queste intuizioni come davanti a dei segni dei tempi, cioè a stimoli per la sua riflessione sulla parola di Dio, trovi occasione per recuperare alla pervietà della fede alcune strade della morale neotestamentaria (e quindi rivelata) che temo siano rimaste obliterate e andate consunte per il non uso.

    La legge della gradualità

    La prima di queste strade è quella della consapevolezza del carattere processuale e quindi progressivo ma anche graduale dell'esperienza di fede, anche nella sua dimensione di coerenza nella vita e quindi nel suo risvolto morale.
    È stata proprio la storia più recente del magistero morale della chiesa, con i capitoli Humanae Vitae e Persona Humana (PH) (Dichiarazione sopra alcune questioni di etica sessuale), a costringere la riflessione teologica a scoprire il ruolo della legge della gradualità nell'ambito della vita morale.
    Ma la gradualità non va vista come un'ancora di salvezza che mantiene agibile l'impegno morale del credente anche in situazioni di conflitto, che sfocerebbero altrimenti nell'angoscia o nell'abbandono; essa è una strada promettente per la comprensione del fatto morale in sé e va percorsa coraggiosamente, anche fuori del campo ristretto della morale coniugale e sessuale dove essa finirebbe per svolge un ruolo di causa scusante; essa va allargata a categoria mentale e prospettiva pratica per tutta la realtà morale: non soltanto il dominio di sé in funzione dell'autenticità dell'amore (che è il valore fondante la morale coniugale e sessuale) ma anche la giustizia, il valore della vita umana, la veracità e ogni altra virtù o valore prima di essere confini da difendere e perfino prima di essere valori da costruire, sono sensibilità da educare e in maniera necessariamente graduale.
    La legge della gradualità non è che lo sviluppo e l'approfondimento in prospettiva dinamica della tradizionale distinzione tra oggettivo e soggettivo in campo morale (sia negativamente distinguendo la colpa soggettiva dal disordine oggettivo; sia positivamente distinguendo l'ordine astratto dei valori dall'itinerario personale di colui che li realizza).
    Non si tratta solo di riconoscere che questa distinzione, pur essendo un fatto mentale, ha un suo fondamento reale nel mondo dell'uomo e della morale; non si tratta neppure soltanto di riconoscere che questa distinzione ha un riscontro pratico (non eccezionale né infrequente, anzi quasi normale nell'età dello sviluppo) in una certa sfasatura tra il disordine morale oggettivo e la colpevolezza soggettiva; si tratta anche di comprenderla cone riscoperta della natura processuale del fatto morale nella sua globalità.
    Essa va anzitutto capita alla luce di una migliore comprensione dei rapporti tra opzione fondamentale della vita morale e scelte categoriali che le danno corpo e espressione.
    È vero che l'opzione fondamentale (come dice la PH) può essere radicalmente modificata da atti particolari e non è vero che uno solo di questi atti particolari non possa di per sé essere sufficiente perché si commetta peccato mortale (PH 11); ma è anche vero che la libertà fondamentale può già decidersi con l'aiuto della grazia, mediante una scelta di fondo almeno iniziale che già orienta verso Dio la vita nella sua globalità, benché essa non abbia ancora conquistato un vero dominio su tutti quegli altri strati della personalità (emotività, disposizioni innate o acquisite, abiti mentali ed operativi) che pure condizionano profondamente il comportamento morale concreto.
    Integrare tutti questi strati della personalità nel suo fondamentale progetto di vita è per la libertà umana un compito di crescita e di maturazione che può essere portato avanti solo gradualmente.

    Dalla schiavitù della legge alla libertà filiale

    La seconda intuizione che la teologia è chiamata ad accogliere da questo tipo di ricerche è quella della polarità eteronomia- autonomia morale come direzione di fondo su cui si gioca, ma anche si misura, la crescita morale.
    Si è invitati qui a riscoprire una delle ispirazioni più autentiche ed originarie del messaggio cristiano.
    S. Paolo descrive qualcosa di analogo alla polarità eteronomia-autonomia con la contrapposizione legge fede.
    La legge è presentata come l'opposto della fede, come un equivalente dell'incredulità, cioè del rifiuto di Cristo: la legge che si contrappone alla fede non il semplice insieme delle norme morali, tanto meno quelle avallate dall'autorità di Dio e inserite nella storia della salvezza. È un atteggiamento di fiducia illusoria nelle capacità dell'uomo di salvarsi da solo, attraverso una forma di orgogliosa scalata al cielo della perfezione morale, ed è insieme la condizione alienante di colui che si sente tenuto al bene solo dalla forza di un'obbligazione esteriore senza vera adesione interiore e quindi senza vera libertà. Una legge di questo genere ha una sua funzione salvifica, ma solo di carattere preparatorio, pedagogico: essa, incapace di cambiarci dentro, perché estranea al nostro progetto peccaminoso di vita, è capace di darci la consapevolezza penosa ed umiliante del peccato e quindi di farci sentire il bisogno di una salvezza che ci può essere data solo come dono in Cristo: essa è il pedagogo che ci conduce a Cristo: L'uomo carnale, cioè immaturo nel impegno morale e nella sua religiosità, vanamente teso all'osservanza di una legge di cui avverte la sensatezza ma che è tropo superiore alle sue forze interiori, sperimenta una profonda frattura nella sua personalità: all'attrazione del bene si contrappone la schiavitù dei desideri peccaminosi ed egli è interiormente lacerato. consapevole della sua vocazione ma anche della sua impotenza.
    Chi vive invece nella fede una esperienza di autentico incontro con Dio, fondato non più sulla sottomissione servile ma sulla devozione filiale, si trova in una condizione analoga a quella dell'autonomia morale.
    Quello che l'orgogliosa pretesa di un impegno morale autosufficiente non poteva garantirgli glielo dà gratuitamente la fede, cambiandogli il cuore con il dono dello Spirito e con l'amore che esso infonde nel credente.
    La fede conduce dalla condizione di schiavi a quella di figli, dal timore servile all'amore disinteressato che caccia fuori la paura (I Gv 4,18). «Quando è venuta la fede non siamo più sotto il potere del pedagogo. Voi tutti infatti siete figli di Dio» (Gal 3,25).
    L'amore ricupera i valori proclamati dalla legge e ne costituisce quindi un inveramento, ma ne supera la formalità eteronomica. L'amore è sorgente di spontaneità e coerenza.
    La fede che opera attraverso l'amore, giustifica l'uomo nella radice stessa del suo agire; rende giuste non soltanto le sue opere ma anche il suo cuore.
    Il dono dello Spirito è il dono di un principio dinamico non più estrinseco all'uomo, ma operante dall'interno del suo progetto di vita che rende aperti all'amore di Dio, cioè spirituali.
    Esso è la legge nuova del credente, una legge scritta non più su tavole di pietra ma nel cuore dell'uomo.

    L'appello alle interiori energie di bene

    Un'altra intuizione che la riflessione di fede è chiamata ad accogliere è quella di fondare ogni forma di educazione morale sull'uomo stesso, sulle sue energie di bene, sui suoi bisogni più profondi, sulla saggezza dei desideri di cui è creaturalmente costituito.
    Nulla è più in linea con la concezione dell'uomo propria della fede della fiducia nella originaria possibilità dell'uomo di aprirsi al bene, non solo per forza ma anche per amore.
    La fede nella creazione dell'uomo da parte di Dio esclude ogni dualismo manicheo e quindi la possibilità che il male abbia nel mondo dell'uomo la forza di un principio costitutivo.
    Certo la libertà umana è fallibile e la storia dell'uomo è tutta quanta segnata dalla presenza del peccato personale e collettivo che rappresenta per questa libertà un pesante condizionamento negativo; ma condizionare non è costituire.
    Il peccato non ha corrotto del tutto il cuore dell'uomo, cioè il nucleo costitutivo della sua libertà che si rivela nella saggezza dei suoi desideri più profondi e nel bisogno di autotrascendimento sempre inappagato fin che non riposa in Dio.[3] Gli stessi condizionamenti negativi del peccato hanno un contrappeso positivo nella presenza dello Spirito nel cuore di ogni uomo; il dono della sua grazia ridà l'avallo di Dio alla fiducia che ogni educazione morale è chiamata a concedere alla interna capacità dell'uomo di aprirsi ai valori che lo realizzano: Cristo, fiducia di Dio all'uomo è il fondamento della radicale speranza da cui è mossa ogni educazione morale che si ispira alla fede.
    Tutto questo non autorizza l'educatore a farsi delle illusioni sulle reali possibilità attuali dell'educando: ciò che è potenziale non è sempre immediatamente traducibile in atto. Neppure si devono ignorare i limiti e i condizionamenti della interiore capacità di bene di ogni uomo. Ignorarli non serve; ma proprio anche quando essi fossero estesi e tragicamente insuperabili, rimane vero che è solo sulle reali capacità di bene di ogni persona che l'educazione può e deve puntare per ottenere quel livello di positività morale che, essendo l'unico concretamente possibile, è anche l'unico domandato da Dio e capace di incarnare il sì a Dio dell'uomo in situazione.

    INDICAZIONI OPERATIVE

    Da queste riflessioni condotte alla luce della parola di Dio sui risultati della ricerca operata dalle scienze dell'uomo sulla dimensione evolutiva del fatto morale, mi sembra si possano far scaturire alcune indicazioni pratiche.

    Insufficienza dell'autoritarismo educativo

    L'autorità e l'obbedienza possono avere una certa funzione morale ma solo come qualcosa di sussidiario e provvisorio. Non possono essere nulla di più di una pedagogia degli inizi o dell'innesco.
    «Certo l'obbedienza può essere di aiuto in questo perché l'esecuzione materiale di un ordine facilita la comprensione del suo valore intrinseco; ma evidentemente si tratta soltanto di una funzione ausiliaria... Il consenso interiore indispensabile pei qualsiasi azione che voglia realizzare un determinato valore morale non può in nessun modo essere comandato... Chi o credesse confonderebbe l'autorità che scaturisce dalla cosa in se stessa con quella che viene dal semplice comando... La nozione di autorità non può essere la prima nozione etica e perciò non è in grado di sostenere a lungo l'intero complesso della vita».[4]
    Di qui la svalutazione di tutte le strategie educative fondate sull'autoritarismo e quindi a maggior ragione sull'uso delle minacce, del castigo, del ricatto affettivo, delle motivazioni interessate, soprattutto se protratte oltre i primi inizi del processo educativo; esse hanno una efficacia ritardante l'ingresso nell'autonomia e l'assunzione di responsabilità.

    Insufficienza dell'indottrinamento

    Ugualmente svalutata ogni strategia che punti primariamente sull'efficienza educativa óbll'insegnamento di tipo nozionale o indottrinamento.
    L'educando non è un recipiente da riempire con nozioni che gli vengono solo dall'esterno; è un soggetto attivo del fatto morale, anche nella sua dimensione cognitiva; deve portare avanti una sua ricerca personale, elaborare una sua capacità di ragionamento morale.
    Insegnare la morale è in realtà farla emergere dall'interno stesso dell'educando. Del resto la psicologia sembra dire che l'utilizzazione di stadi di ragionamento troppo superiori a quelli dell'educando è destinata a rimanergli insignificante.
    E comunque la semplice presentazione concettualmente esatta della verità morale, se pure producesse un surplus di sapere puro, non darebbe ancora necessariamente luogo a una vera maturazione di coscienza. Il vero orizzonte cognitivo della persona in campo morale è, più che puramente intellettuale, esistenziale-valutativo. La coscienza si sviluppa veramente solo quando è messa in grado di cogliere creativamente i valori così da rimanerne trasformata.
    La norma è veramente posseduta dalla coscienza come forza di bene, solo quando, in maniera almeno virtualmente esistenziale, è percepita esperienzialmente come difesa di un valore.
    Ma questo più che dalla dottrina è prodotto dalla vita.

    Una educazione personalizzata

    Ma la riflessione di fede sul fatto morale come processo non è soltanto in grado di mettere in guardia contro strategie sbagliate e destinate all'inefficacia; essa può dare anche delle indicazioni positive, attinte alla visione dell'uomo che le è propria e confermate dall'esempio della pedagogia stessa di Dio, leggibile in filigrana sotto il disegno degli eventi che costituiscono la storia della salvezza.
    Alla inevitabile gradualità di ogni itinerario umano di fede e di crescita morale corrisponde da parte di coloro che, in modo soltanto analogo a quanto avviene per altre forme di educazione umana, possiamo chiamare gli educatori della fede, una pedagogia personalizzata.
    Personalizzare l'educazione significa innanzitutto fondarla sulla forza di un amore incondizionato, che accetta l'educando nella sua concreta realtà, senza imporgli altri progetti educativi che non siano quelli già stampati dalla creazione e dalla sua storia di vita nella concretezza del suo essere e costituiti dalle sue effettive, limitate ma insieme imprevedibilmente ricche, potenzialità di essere e di valorizzazione.
    È l'amore stesso con cui ci ama Dio; un amore che non è subordinato alla nostra risposta e alla nostra accettazione dei suoi progetti nei nostri confronti. Dio ci ama per quello che siamo: il suo progetto su di noi non è altro che l'inveramento segreto dei nostri progetti migliori; egli non ce lo impone con la forza di un comando estrinseco ma con la normatività interna al suo stesso amore creativo.
    La psicologia sembra attribuire oggi grande importanza all'efficacia educativa di una accettazione incondizionata dei genitori nei confronti del bambino: essa permetterebbe ai genitori di evitare quasi istintivamente gli eccessi dell'autoritarismo o della sua direttività, della freddezza eccessiva e dell'iperprotezione; ma soprattutto permetterebbe al bambino una buona satellizzazione nei confronti dei genitori e quindi lo avvierebbe felicemente sulla strada della conquista di una identità sicura e di una socializzazione personalizzante.
    Un educatore o un gruppo giovanile educa se ama di un amore accogliente e incondizionato, che non dice: ti amo se...; ma dice ti amo e basta; e proprio per questo si propone come esperienza del valore. Personalizzare l'educazione è anche accettare coraggiosamente e senza riserve mentali il principio della gradualità, accettare di accompagnarsi al cammino dell'educando nonostante le eventuali lentezze e tortuosità, sorreggendolo con la pazienza di Dio. E questo presuppone naturalmente una conoscenza personale, esperienziale e non solo nozionistica, dell'educando che non può venire, anch'essa, che da un amore partecipativo e intelligente.

    Una catechesi morale fedele all'uomo

    Questa personalizzazione dell'educazione morale, pur rispettando la gradualità della crescita personale e facendo appello alle reali energie e alle effettive possibilità di bene dell'educando, deve tuttavia essere ispirata alla preoccupazione di favorire un contatto vitale e un incontro personale con il messaggio liberatore ma anche responsabilizzante del vangelo. Deve, sia pure attraversando quando la gradualità lo richieda la fase della preevangelizzazione, farsi evangelizzazione e catechesi. Proprio anche perché solo nell'annuncio liberatore di un amore senza condizioni il giovane potrà trovare il senso e la normatività del suo impegno morale: solo nel vangelo risiede il definitivo e rassicurante «vale la pena» che sostiene lo sforzo della crescita e giustifica le rinunce e l'autorinnegamento che essa comporta.
    Coniugare l'urgenza dell'evangelizzazione con la necessità della gradualità e con l'impegno di partire dal giovane e dalle sue interne istanze di bene è usare, anche in catechesi morale, quello che si chiama oggi metodo antropologico.
    È una dimensione che ogni catechesi o evangelizzazione deve rispettare, quindi anche la catechesi morale.
    La verità dei valori ha tanta più probabilità di essere capita e di risultare significativa quanto più essa raggiunge i giovani dentro le loro esperienze, si fa risposta ai loro interrogativi, aperta ai loro bisogni e alle loro aspirazioni, sia pure evidenziando e facendo emergere quelle, magari meno immediatamente consapevoli e più latenti, che sono in linea con l'oggettiva costruttività e desiderabilità del vero bene. È un punto di non-ritorno della pastorale del post-concilio: la fedeltà a Dio deve essere verificata dalla fedeltà all'uomo, così come resta vero che la fedeltà all'uomo è autentica solo se insieme fedele al Dio che ha scelto di stare dalla parte dell'uomo. Metodo antropologico significa quindi attenzione all'uomo; ma non all'uomo astratto o «generico» bensì all'uomo concreto che è oggetto qui e ora della nostra azione educativa: l'uomo fenomenico. Ma ogni persona è un mondo di esperienze unico e irripetibile.
    La diversità delle situazioni (e la frammentazione è una caratteristica peculiare dell'attuale condizione giovanile) impone una individualizzazione e una differenziazione notevole della catechesi morale: l'annuncio e la testimonianza della verità dei valori deve adeguarsi alle concrete domande di senso, di luce, di espansione personale del giovane.
    Ma tale diversità e frammentazione delle proposte ha pure bisogno di un elemento unificatore che deve essere un po' la proposta ufficiale della comunità di fede, il termine almeno ideale di riferimento per chi alla fine ci interroga (e qualcuno ci sarà sempre) con un certo bisogno, mai spento del tutto, di oggettività, sulla vera sostanza morale del vangelo, sulla voca.zione integrale dell'uomo.
    Questo elemento unificatore non va necessariamente visto in un testo ufficiale, magari nei catechismi nazionali che pure ne rappresentano una traduzione autorevole. Caso mai deve ispirarsi alla preoccupazione di fondo che giustifica questi testi: testimoniare con fedeltà tutto il messaggio morale cristiano anche in quegli aspetti che sono controcorrente, contro la corrente oggettiva della cultura e perfino contro la corrente soggettiva delle attese individuali, distorte dalla cultura di massa, e mostrare con paziente, dimessa, umile ma convinta apologetica la sua fondamentale validità.
    Servirà almeno a mantenere viva la cattiva coscienza dei disimpegnati e dei conformisti; e la cattiva coscienza è l'ultima scialuppa di salvataggio nel naufragio della morale. Ma io credo che avrà spesso una efficacia anche positiva imprevedibile: nella parola del vangelo c'è la forza dell'amore di Dio.


    NOTE

    [1] Anna Freud, Psicoanalisi per educatori: una introduzione (Rimini 1972) 65.
    [2] E. Fromm, Dalla parte dell'uomo (Roma 1971; 35.
    [3] S. Agostino, Confessioni, 1. I, 1,1, ML 32,661
    [4] A. Roeper, Morale oggettiva e soggettiva. Uni conversazione con K. Rahner (Roma 1972) 122-3.


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