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    Il gruppo ecclesiale in un tempo di crisi culturale e di frammentazione personale



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1982-4-5)


    I problemi aperti sono moltissimi. Per non scivolare nel generico, dobbiamo isolarne alcuni. Quelli che intendiamo affrontare possono essere sintetizzati attorno a questo interrogativo. quali sono le condizioni da assicurare perché il gruppo possa risultare veramente luogo di esperienza ecclesiale per i giovani d'oggi? Come si vede, l'interrogativo dà per assodate alcune costatazioni: l'importanza del senso di appartenenza ecclesiale nella pastorale giovanile, la sua problematicità pratica, la relativa funzione del gruppo. Sappiamo che non tutti oggi sono d'accordo su queste ipotesi. Non intendiamo però affrontarle direttamente, per non portare la nostra riflessione troppo lontano. Le riprenderemo, di volta in volta, quando l'occasione si presenterà favorevole, senza distrarci troppo dal filo della nostra ricerca. Non ci basta però aver isolato alcuni problemi fra i tanti. Il rischio della genericità è ancora incombente. Viviamo in una situazione complessa. La complessità attraversa tutti i problemi che stiamo affrontando. Riesce disagevole fare ordine e scegliere prospettive, se non si avanzano delle ipotesi unitarie. D'altra parte la tensione all'unitarietà non può risultare a scapito della complessità. C'è una via di uscita? Crediamo di sì. E la tentiamo utilizzando la categoria del «tema generatore». Chiamiamo «tema generatore» quel suggerimento tematico che stimiamo capace di organizzare unitariamente le ragioni della crisi e, di conseguenza, gli interventi prioritari per risolverla. Il «tema generatore» non è l'unica ragione della crisi né la sua unica soluzione. Esprime però il punto più caldo, quasi la «sfida» più rilevante. E suggerisce conseguentemente la categoria prioritaria in fase progettativa, quella che dovrebbe coagulare tutte le energie. Nella ricerca suggeriamo due «temi generatori». Il primo è la «transazione». Con questa formula intendiamo dire che le ragioni della crisi di molti gruppi giovanili (e le possibilità di risolverla) stanno nella carenza di relazione, permanente e promozionale, tra istituzione ecclesiale e gruppo, inteso come «mondo vitale» (e, per questo, come preciseremo meglio in seguito, carenza di relazione tra la vita di gruppo e quella autonoma dei suoi membri). Il secondo «tema generatore» è legato alla necessità di fare del gruppo un luogo dove si producono e si esperimentano ragioni per vivere in un tempo, come è il nostro, di forte crisi e di diffusa rassegnazione. Questo compito è chiaramente di ordine «educativo». Il tema generatore può essere quindi condensato nella voce «educazione», come funzione prioritaria anche per il gruppo ecclesiale. «Transazione» e «educazione» rappresentano la prospettiva unitaria di tutto il nostro progetto. Sono quindi la sua chiave di lettura: la linea orientativa per il lettore timoroso di perdersi nell'intricato tessuto dei problemi evocati.

    1. Dieci anni di prassi ecclesiale per precisare i termini della questione

    Coloro che si interrogano, come facciamo noi qui, sulla funzione del gruppo nella pastorale giovanile e sulle condizioni di ecclesialità, trovano nella prassi recente della comunità ecclesiale italiana alcune importanti indicazioni.
    Esprimono il punto d'arrivo di un lungo cammino, animato dallo Spirito, un cammino ricco, stimolante, anche se sofferto e segnato da incertezze, tensioni, confronti. Queste indicazioni possono aiutarci a precisare i termini della nostra questione che, come tutte le cose troppo ripetute, ha subito una svaporazione semantica, che rende equivoca la comunicazione anche se si usano le stesse parole.
    Con questa operazione intendiamo anche mettere meglio a fuoco l'obiettivo della ricerca, distinguendo, dove è possibile, tra acquisizioni pacifiche e punti problematici.

    1.1. Importanza dell'appartenenza ecclesiale: ma a quale Chiesa?

    Il primo punto-fermo è determinato dalla consapevolezza diffusa circa l'importanza dell'appartenenza ecclesiale nella pastorale giovanile.
    La salvezza di Gesù Cristo è «nella Chiesa», anche se in una identificazione parziale e provvisoria. La salvezza è quindi normalmente mediata sul senso di appartenenza ecclesiale. La pastorale giovanile è perciò espressione dell'unica azione ecclesiale e richiede un profondo, indiviso, senso di appartenenza.[1]
    Questo dato teologico è oggi pacifico.
    Esso, però, si porta dentro un grosso nodo problematico. Per quale Chiesa l'operatore di pastorale deve sollecitare l'appartenenza? Dove si realizza il livello normativo di ecclesialità, tale da poter dire con verità di «appartenere alla Chiesa»? Si comprende facilmente l'importanza e la relativa novità dell'interrogativo. In una ecclesiologia autoritaria ed ecclesiocentrica, la Chiesa si identificava con l'«istituzione» (o con il suo sistema di governo): l'appartenenza alla Chiesa coincideva con l'obbedienza passiva e rassegnata.
    Il risveglio ecclesiologico operato dal Vaticano II da una parte e le pressioni contestative dall'altra, hanno modificato molto l'immagine di Chiesa. Il suo asse centrale tende a spostarsi dalla gerarchia al popolo di Dio, dalla dipendenza alla responsabilizzazione critica, dalla chiesa-dall'alto alla chiesa-dal basso.
    Ora siamo in un momento di decantazione e di discernimento. Come in ogni epoca di crisi non mancano le scelte di fronda e le spinte involutive.
    Il gruppo ecclesiale, che intende farsi luogo di educazione al senso di appartenenza ecclesiale, si trova nel fuoco di queste problematiche.
    Quali condizioni di ecclesialità normativa vanno rispettate ed assolte per «appartenere alla Chiesa»?
    Senza entrare nel merito della questione, possiamo rispondere a questo interrogativo, indicando quelle dimensioni normative di ecclesialità che sembrano il dato teologico acquisito dalla Chiesa postconciliare nelle sue espressioni più mature ed autorevoli.[2]
    Rappresentano l'orizzonte ecclesiologico in cui va collocato il rapporto tra gruppo e istituzione ecclesiale.
    La Chiesa, verso cui sollecitare il senso di appartenenza, è quella comunità di uomini in cui sono presenti globalmente queste dimensioni:
    - accoglienza della Parola di Dio, che convoca e spinge verso la missione;
    - un «popolo», uomini che prendono atto dell'invito salvifico di Gesù e si radunano in comunità, professando la stessa fede, celebrando la stessa liberazione escatologica e si sforzano di vivere nella sequela di Gesù il Signore;
    - i Sacramenti e soprattutto l'Eucaristia, epifania della Chiesa stessa;
    - il Vescovo con il suo Presbiterio, principio e fondamento di unità e di comunione interna;
    - un territorio, in cui vivere in contesto l'esperienza cristiana.

    1.2. Quale gruppo

    Quando parliamo di gruppo, intendiamo assumere questa voce in modo tecnico, partendo cioè dalla definizione di gruppo primario data dalla dinamica di gruppo, la scienza che studia i fenomeni psico-sociali che si scatenano appunto nei «gruppi»
    In questo contesto, gruppo è una collettività identificabile, strutturata, continua, di persone che svolgono ruoli reciproci conformemente a norme sociali, interessi e valori nel perseguimento di fini comuni.[3]
    Anche la «nota» della CEI sembra orientata a questo uso tecnico della voce «gruppo». Essa infatti, precisando la distinzione tra gruppi, movimenti e associazioni,[4] dà una definizione molto specifica di gruppo.
    La scelta di studiare in questa ricerca l'ecclesialità di «gruppo», utilizzando la voce di gruppo in termini tecnici, porta di conseguenza a considerare prima di tutto i singoli gruppi-di-base, così come vivono, si esprimono, operano in concrete situazioni territoriali, prescindendo dal fatto che questi gruppi siano collegati o meno ad un movimento o ad una associazione. Non studieremo quindi la vita delle associazioni o dei movimenti, né i fenomeni complessi che sono legati al rapporto comunicativo tra gruppi e movimenti-associazioni.
    Analizzeremo solo le condizioni che il gruppo deve assumere, nella sua vita interna, per essere ecclesiale.

    1.3. La funzione del gruppo in ordine all'appartenenza ecclesiale

    Nella prassi pastorale e nella autocoscienza ecclesiale attuale, il gruppo viene considerato normalmente come lo strumento privilegiato di educazione al senso di appartenenza ecclesiale, almeno a livello giovanile.
    Quando però si tenta di definire più concretamente il senso da dare alla formula un po' generica di «strumento privilegiato», le posizioni si differenziano.
    Questa cosa riveste una notevole importanza per la questione che stiamo studiando.
    Dobbiamo perciò precisare queste differenti posizioni teologico-pastorali.
    Lo facciamo, raccogliendole in una tipologia di linee di tendenza.
    - Alcuni affidano al gruppo una funzione solamente propedeutica rispetto alla comunità ecclesiale. Solo nella comunità si vive l'appartenenza alla Chiesa; solo essa è soggetto salvifico a pieno titolo. Il gruppo aiuta i giovani a maturare, li sostiene nel difficile momento del loro cammino verso l'età adulta. È destinato a sparire, nell'azione pastorale, appena il giovane è pronto ad entrare nella comunità ecclesiale. La sua funzione solo propedeutica non permette di collocarlo tra i luoghi di ecclesialità. In ultima analisi, non può esistere un serio problema di «ecclesialità» di gruppo, perché ecclesialità è nota attribuibile solamente alla comunità nel suo complesso.[5]
    - Una posizione simile a questa può essere rappresentata da coloro che affidano al gruppo solo una funzione strumentale. Si parte dalla costatazione facile e diffusa delle molte carenze di cui soffre la comunità ecclesiale di fatto.
    Si parla, per esempio, di comunitarietà, di intensità di rapporti primari, di conoscenza e di condivisione. E poi le comunità sono anonime, massificanti, lontane dal respiro vivo dei problemi quotidiani.
    La riflessione teologica affida un'ampia corresponsabilità a tutti: ai giovani, alle donne, ai poveri.
    Si immagina una comunità presente là dove si fa la storia, per animare con il fermento evangelico la vita di tutti, fino a condividere gioie e speranze, tristezze e dolori.
    Di fatto, però, si costata che molte comunità sono arroccate, chiuse, disattente ai soggetti emergenti, lente e burocratiche, incapaci di vitalità.
    E si potrebbe continuare.
    Il gruppo rappresenta quello spazio esistenziale dove le grandi parole «comunione», «corresponsabilità», «presenza»... diventano esperienza. Esso ha quindi una sua ragione d'essere, non intrinseca, ma funzionale: «strumentale», appunto.
    È destinato ad annullarsi quando e dove le comunità, nel loro complesso, riusciranno a raggiungere il livello di autenticità che loro è giustamente esigito.[6]
    Abbiamo utilizzato la formula «strumentale» non in un modo riduttivo o, peggio, negativo; ma solo per esprimere una situazione ecclesiale che accentua i compiti della «grande» Chiesa e riduce il piccolo gruppo a luogo di servizio esperienziale e critico. «I gruppi informali si può dire che cercano di procurare a quanti ne sentono il bisogno ciò che la Chiesa globale non dà e forse non può dare loro. Tutto dipende, sembra, dall'incapacità generalizzata della Chiesa di offrire a quanti sono più seriamente motivati dal vangelo la possibilità di viverlo nelle sue strutture tradizionali. Si tratta dunque di una reinvenzione della Chiesa in se stessa e al di fuori dei suoi organismi istituzionali; al limite contro questi; ma più spesso al loro fianco. Si tratta dunque alla fine di un rinnovamento della ecclesiologia».[7]
    - La radicalizzazione del modello strumentale porta a progettare il gruppo come Chiesa parallela. Quando ci si rende conto della impraticabilità di una riforma, il gruppo accentua la sua funzione fino a porsi in parallelo alla vita della comunità. Il rischio è tutt'altro che remoto, come lo dimostra la prassi di molti gruppi. «Talvolta si può dare il caso di gruppi più o meno numerosi che tendono a trasformarsi in "chiesuole", o rifugiandosi in un consolatorio devozionalismo intimistico, o tradendo una forma sottile di individualismo aristocratico, oppure praticando un integrismo comunitario, chiuso ad ogni altro tipo di rapporto che non sia quello imposto da loro. Ciò potrebbe alimentare la presunzione di realizzare attraverso il gruppo il "tutto" della Chiesa e della vita cristiana, o almeno di esserne l'espressione migliore».[8]
    - Altri, infine, affidano al gruppo una funzione di «ecclesiogenesi», di generazione cioè della Chiesa dal basso. I gruppi (e le comunità di base) «promuovono la causa del Vangelo e sono portatori della realtà ecclesiale anche nell'ambito organizzativo e decisionale. Questa trasposizione dell'asse ecclesiale contiene in germe un principio nuovo di "far nascere la chiesa", di un "nuovo inizio di chiesa", di una autentica ecclesiogenesi. Non si tratta di allargare il sistema ecclesiastico vigente, avente come punti centrali i sacramenti e la vita del clero, ma di far emergere un nuovo modo di essere Chiesa, il cui nucleo centrale diventi la Parola e la presenza del laico».[9]
    Questa funzione, affidata al gruppo, permette di assolvere un importante imperativo ecclesiologico: «non si tratta di trapiantare deduttivamente una Chiesa, ma di fondare induttivamente una Chiesa».[10]
    Il gruppo è quindi il luogo in cui la Chiesa rinnovata sta nascendo. Non è destinato a spegnersi con il tempo, ma rappresenta l'alternativa più affascinante per rendere viva, interpellante e salvifica l'unica Chiesa di Gesù.
    Davvero il gruppo fa nascere la Chiesa dal basso.
    Da questa tipologia, necessariamente schematica, è facile costatare come l'affermata importanza del gruppo si frantuma in posizioni teologiche molto diverse. Esse hanno un peso rilevante nella prassi pastorale.
    Prima di definire le condizioni di ecclesialità, dovremo riconfrontarci con queste posizioni, per tentare una loro elaborazione più teologicamente corretta.

    2. Fatti che ripropongono il problema in termini nuovi

    Molti operatori di pastorale giovanile hanno vissuto la stagione del gruppo con grande speranza. E giustamente: chi fa la storia della pastorale giovanile di questo ultimo decennio, dovrà mettere in risalto i notevoli frutti che questo orientamento ha portato. Non riusciamo però a pensare alle scelte vissute e alle opzioni condivise solo in termini di positività. Ci si accorge che molte attese sono andate deluse, molte speranze sono rimaste vanificate.
    Come conseguenza, nella comunità ecclesiale italiana oggi non mancano operatori, studiosi e pastori che mettono sotto giudizio la priorità affidata al gruppo nella pastorale giovanile e sollecitano verso una inversione di rotta.[11]
    Come reagire? Dichiariamo conclusa, senza nostalgie, la stagione del gruppo? Oppure riaffermiamo le opzioni di un tempo, in modo indiscusso, quasi ripetitivo?
    Per risolvere una provocazione così interpellante, ci sembra indispensabile ricercare prima le ragioni che hanno costituito il «problema», quelle che hanno mandate deluse le attese di tanti operatori pastorali.
    Quando avremo sul tappeto questi «fatti», potremo più facilmente prendere posizione: verificare cioè se la crisi è legata strutturalmente alla scelta di gruppo o se invece essa è più congiunturale, motivata cioè solo da una sua troppo parziale gestione.
    La prima ipotesi dà ragione a coloro che ritengono conclusa la funzione del gruppo nella pastorale giovanile. La seconda sollecita gli operatori a ripensare intensamente queste funzioni e a rivisitarle alla luce dei problemi nuovi che stiamo attraversando. Suggeriamo dunque alcuni «fatti».[12]

    2.1. Comunione-comunità: è difficile passare dalle parole ai fatti

    In questi anni, abbiamo parlato molto, a tutti i livelli, di comunione e di comunità. Sono diventate parole del vocabolario ecclesiale quotidiano, parole quasi a risonanza magica.
    Se però si guardano le cose più in profondità, ci si accorge facilmente che non è facile passare dalle parole ai fatti. Certo, non sono mancati fatti di notevole portata ecclesiale; e già la sensibilità diffusa verso queste esigenze rappresenta un fatto provvidenziale e indubitabile.
    Esiste però un contrasto, a volte duro, tra coloro che hanno intensamente creduto alla forza rinnovativa evocata da queste espressioni e coloro che invece le utilizzano all'interno del vecchio schema di riferimento antropologico.
    C'è chi parla di comunione collocandosi sempre fuori dai nodi antropologici e strutturali che questa parola veicola.
    Si ignora che «comunità», come la stessa parola di Dio, è parola umana. Essa si porta dentro un mistero più grande, dono dello Spirito. Ma questo mistero è sempre condizionato, reso visibile, nella povertà e nella responsabilità delle mediazioni umani che fanno la «comunione».
    L'invito a fare comunione non ha considerato sufficientemente i condizionamenti strutturali che lo rendono praticabile: gestione del potere, discriminazioni, condizionamenti ambientali. E neppure ha assunto disponibilità la strumentazione tecnico-organizzativa che può produrre e favorire i processi.
    Tutto è stato oggettivato attorno a concezioni disincarnate o magico-rituali.
    Molti gruppi, soprattutto giovanili, hanno invece preso sul serio l'esigenza di «comunione». E hanno cercato una sua realizzazione anche sul piano strutturale. Gli esiti di questa operazione sono noti: comunione-dal-basso, circolazione orizzontale della Parola di Dio, animazione, confronto e corresponsabilità, diffusione delle informazioni, egualitarismo, liturgia «a misura di gruppo»...
    In questo modello di comunità sono tutt'altro che assenti i rischi di vanificare la ragione ultima della comunione ecclesiale, il mistero di Dio che ci convoca e ci salva, come dono interpellante.
    Tra i primi e i secondi il dialogo non è stato facile. Una esigenza così carica di rinnovamento si è ridotta, qualche volta, ad occasione per innescare una spirale conflittiva, trascinata tra aperture pericolose e tentazioni di integrismo.

    2.2. Dai rischi da «mondo vitale» qualcuno vuole uscire negandone la funzione

    Le ricerche più recenti sulla condizione giovanile mettono in evidenza una tendenza assai diffusa: la ricerca di piccoli «mondi vitali».[13] Chiamiamo «mondi vitali» quegli spazi esistenziali capaci di saturare i bisogni del personale, in termini di intensa emotività e di larga soggettivizzazione.
    «Per mondo vitale quotidiano si intende l'ambito di relazioni intersoggettive (e prima ancora l'intenzionalità del soggetto aperto all'esperire vivente del mondo vitale) che precedono e accompagnano la riproduzione della vita umana e che, successivamente, anche attraverso comunicazioni simboliche tra due o poche persone, formano la fascia delle relazioni di familiarità, di amicizia, di interazione quotidiana con piena comprensione reciproca del senso dell'azione e della comunicazione intersoggettiva. Mondi vitali quotidiani si possono anche formare per nuova nascita (religiosa, politica, civile), per metanoia».[14]
    Questi «mondi vitali» permettono di elaborare la grave crisi che stiamo attraversando, senza grossi rischi e senza pericolosi scompensi.
    Essi rappresentano quel progetto «a corto respiro» di cui i giovani di oggi avvertono l'esigenza.
    Il gruppo è un frammento significativo di mondo vitale.
    Esso viene quindi vissuto intensamente in , questa prospettiva, superando e quasi travolgendo le modalità con cui era stato definito nel periodo della scoperta della politica. «La cessione del tempo al gruppo non avviene sotto il vincolo di un patto di produttività diretto alla realizzazione di un progetto, ma piuttosto sulla base di una promessa di rafforzamento verso l'esterno estraneo, come gesto di fiducia verso la realizzazione di un organico circuito di sentimenti e di opere».[15]
    Questo orientamento acutizza i rischi già diffusi nella attuale condizione giovanile: la frammentazione, l'isolamento, la soggettivizzazione, la crisi di partecipazione e di progettualità.
    Questa costatazione spinge qualche educatore a contestare la scelta di gruppo: si tenta di uscire dai rischi «da mondo vitale», negandone la funzione.

    2.3. La scarsa coscienza di ecclesialità di molti gruppi

    La «nota» della CEI sui criteri di ecclesialità rappresenta innegabilmente un evento importante per operare un discernimento dopo i contrasti dei primi anni '70 e il largo silenzio di questi ultimi anni (ne parleremo al paragrafo seguente).
    Essa però cade in una situazione culturale segnata dalla preminenza del «mondo vitale» sulla istituzione.
    Questo dato di fatto conduce alla facile costatazione che essa possa concretamente interessare solo i «movimenti» e qualche leader particolarmente sensibile. Essi sembrano quasi gli unici suoi interlocutori reali, anche se giustamente il documento intende proporsi a tutti i gruppi che cercano spazi e significati di ecclesialità.
    Purtroppo, molti di questi gruppi, sganciati dai grossi movimenti, non avvertono problemi di ecclesialità. Non è la ragione (neppure conflittuale) dello stare assieme dei loro membri. Essi aggregano, al contrario, sul bisogno di comunicazione interpersonale e sulla ricerca di una identità rassicurante; aggregano, in una parola. sulla loro capacità di esprimere «mondo vitale», di essere luogo di incontro e di comunicazione emotiva nell'anonimato e nel disincanto diffuso.
    Si tratta di una costatazione importante e non sempre compresa dagli operatori più distratti.
    L'ipotesi tradizionale di gruppo metteva l'accento sui contenuti: la scelta di un gruppo o di un altro era normalmente orientata dal progetto valoriale del gruppo. L'appartenenza ad un determinato gruppo comportava così progressivamente l'accettazione e l'interiorizzazione dei valori che lo caratterizzavano.
    Oggi sembra che le cose non vadano più così; o almeno non vanno così in termini generalizzati. Non viene scelto un gruppo sulla discriminante dei suoi contenuti, ma sulla capacità che questi contenuti (eventualmente) hanno di saturare i bisogni di identità personale e di rassicurazione sociale.[16]
    Per dirla con un famoso assioma della comunicazione: nei gruppi di oggi vale più la comunicazione di relazione che la comunicazione di contenuto.[17]
    Questo fatto produce il disinteresse sostanziale circa i problemi di ecclesialità, che sono costitutivamente problemi di contenuto. Qualche gruppo li recupera sul piano della relazione; e così sono confinati nel solo momento celebrativo, vissuto con toni di larga emotività e intensa soggettivizzazione.

    2.4. Crisi di comunicazione: siamo in un tempo di largo silenzio

    Al quarto elemento problematico abbiamo già fatto accenno. Lo riprendiamo in modo esplicito.
    Abbiamo l'impressione di trovarci oggi in un tempo di profondo silenzio tra gruppi, movimenti, istituzioni ecclesiali. Fortunatamente non mancano le eccezioni. Rappresentano però solo un'isola felice in un contesto di larga crisi.
    Sottolineiamo questo dato di fatto, per la sua gravità educativa. Tutti sappiamo infatti che la relazione educativa è fondamentalmente relazione comunicativa. Il silenzio sottende quindi scarsa capacità di maturazione e di influsso reciproco.
    Il contrappeso negativo non investe solo i gruppi, deprivati del confronto istituzionale e collettivo. Entra in crisi profondamente anche l'istituzione nel suo complesso: soffre di incapacità di «governare»[18] e di invecchiamento precoce.
    Le ragioni di questo silenzio sono molteplici.
    Fondamentalmente esse esprimono la più vasta e generalizzata crisi dei meccanismi di trasmissione culturale, che segna tutte le istituzioni formative e rende complicato il dialogo e ristretto il messaggio fatto circolare tra le diverse agenzie educative.
    Ci sono però anche ragioni congiunturali, legate cioè a fenomeni abbastanza tipici del tempo di «bonaccia» che sta subentrando alla ventata contestativa. Abbiamo l'impressione di vivere un tempo in cui i diversi interlocutori (gruppi, movimenti, istituzione ecclesiale) si sentono stranamente autosufficienti, più centrati a rinsaldare le fila e a rimarginare le ferite, che ad affrontare i problemi veri e urgenti. C'è quasi un'aria di rispetto vicendevole, che esprime nel sottobosco la paura di risollevare gli annosi conflitti, fortunatamente assopiti. L'istituzione ecclesiale costata, con una punta di soddisfazione, la tenuta e la ripresa dell'associazionismo cattolico e sente il bisogno di riorganizzarlo, proponendo limiti e condizioni. Nello stesso tempo si verifica con speranza come i gruppi più vivaci rappresentano una riserva abbondante di ministeri preziosi per la vita ecclesiale (catechisti, animatori dei più piccoli, collaboratori liturgici...).
    I movimenti più forti si sono consolidati e possono scegliersi gli interlocutori o alzare il tono della voce, con la pretesa di determinare un parametro per gli altri.
    I gruppi sono riusciti a selezionare le richieste, innescando il filtro della soggettivizzazione (che da fatto personale diventa così fatto di gruppo). Questo permette loro di sopportare e assorbire le tensioni, senza essere costretti a continui e dolorosi riaggiustamenti interni.

    2.5. Un grave problema educativo

    I fatti che abbiamo elencato pongono già notevoli preoccupazioni educative. Emerge, come conseguenza e come condensazione di tutto questo, un ulteriore grave problema.
    La dinamica di gruppo ha spesso enfatizzato un dato di facile costatazione: la capacità omogeneizzante del gruppo in forza della pressione di conformità.
    Questa indicazione ricorda che la forza maturativa del gruppo sta nella sua capacità di far interiorizzare atteggiamenti e comportamenti, quando questi rappresentano la norma valoriale del gruppo o quando essi sono vissuti dai modelli di riferimento più significativi all'interno del gruppo
    Una visione meno rassegnata di educazione raccomandava l'attenzione critica nei confronti del conformismo di gruppo, per permettere la responsabilizzazione autonoma dei suoi membri.
    Ora si ha l'impressione che molti elementi, in questo fronte, stiano cambiando.
    Le ricerche sulla condizione giovanile mettono in evidenza che i gruppi non riescono a portare tutti i loro membri al raggiungimento degli obiettivi di gruppo.[19]
    C'è infatti uno scarto notevole tra le percentuali che definiscono l'appartenenza ai gruppi ecclesiali e quelle che descrivono gli atteggiamenti religiosi dei giovani. Tutto questo esprime un dato lampante: chi partecipa a gruppi anche religiosi non ne condivide necessariamente il significato, come ricordavamo prima; e soprattutto non riesce ad interiorizzarne progressivamente la proposta.
    La soggettivizzazione e la frammentazione attraversano anche l'appartenenza ai gruppi.
    La medaglia ha anche il suo rovescio.
    Il confronto tra giovani appartenenti ai gruppi e giovani non aggregati mette in risalto che questa appartenenza è ormai la variabile più influente nella formazione di atteggiamenti, anche se questa variabile è influenzata dal tipo di gruppo o associazione a cui si appartiene.
    Una citazione, che conclude lo studio dei risultati di una recente ricerca sulla «domanda religiosa» dei giovani, esprime bene l'intreccio di questi elementi problematici. «Confrontando il comportamento delle variabili nei due campioni "giovani aggregati e giovani non-aggregati" si osserva una sostanziale uniformità di andamenti complessivi: alcune variabili (scolarità, occupazione, estrazione sociale) sembrano più influenti di altre (sesso, età, referente geografico o demografico) nel determinare differenze di risultato in ambedue i campioni. Ciò non significa che la variabile associazionismo presente nel primo campione non interagisca con quelle, modificando l'effetto da esse prodotto; in realtà, nel campione dei non aggregati, in cui la variabile associazionismo non è presente, l'effetto discriminante di scolarità, occupazione ed estrazione sociale, è molto più evidente. Si può dunque presumere che l'appartenenza ad una qualsiasi associazione, gruppo, movimento (anche prescindendo dal tipo di aggregazione) produca una maggiore omogeneità nei sistemi di significato e nel vissuto religioso, neutralizzando in parte l'effetto discriminante delle variabili elencate; si tratta per altro di modifiche relativamente modeste. In altre parole, l'appartenere o non appartenere ad una associazione è meno discriminante che appartenere a questa o quella associazione».[20]

    3. Un progetto: perché il gruppo sia luogo di esperienza di vita nuova e quindi di Chiesa

    La ricerca sugli aspetti problematici della vita dei gruppi non ci ha portato fuori tema rispetto all'obiettivo che ci siamo proposti.
    Non possiamo infatti definire in astratto le condizioni per fare del gruppo un luogo di esperienza ecclesiale. Lo possiamo fare solo all'interno dei fatti problematici che caratterizzano la vita attuale dei gruppi giovanili.
    Se il gruppo ha una funzione solo marginale o se dobbiamo dare credito alle voci che definiscono conclusa la sua stagione, la ricerca sulle condizioni di ecclesialità può essere risolta senza grossi problemi. Si possono fissare tranquillamente con un processo di deduzione dal modello ecclesiologico riconosciuto.
    Se invece, nonostante le difficoltà, il gruppo conserva un suo significato ampio e urgente, dobbiamo seriamente cercare quali condizioni possano salvare le dimensioni normative di ecclesialità nella situazione concreta attuale. Non basta più un metodo deduttivo; si richiede un modello ermeneutico, un modello cioè in cui si attivi una circolarità ermeneutica tra normatività e attualità.[21]
    L'espressione messa a titolo dice l'orientamento complessivo del nostro progetto: cerchiamo un gruppo dove si possa fare esperienza di ragioni per vivere, in questo tempo di crisi, perché solo dentro questa esperienza vitale è possibile annunciare la ragione decisiva della vita nuova nel Signore della vita e nel movimento di coloro che lo confessano tematicamente (la Chiesa).
    Il nostro progetto si articola in tre momenti complementari e consequenziali:
    - Nel primo momento affrontiamo il significato del gruppo in ordine alla esperienza di Chiesa. I fatti che abbiamo appena descritto rimettono in questione e problematizzano alcuni dati. Sono sufficienti però i brevi accenni con cui abbiamo concluso il paragrafo precedente per riconfermare l'importanza del gruppo nella pastorale giovanile. Non solo quindi intendiamo riconfermare l'importanza del gruppo in ordine alla educazione al senso di appartenenza ecclesiale, ma soprattutto, cerchiamo di precisare teologicamente questa funzione, definendo il gruppo come «mediazione» di Chiesa.
    - Nel secondo momento, studiamo il modello di relazione da attivare tra gruppo e istituzione ecclesiale, trascinando sul piano educativo la costatazione, raggiunta nel momento precedente, che il gruppo è Chiesa, ma non è «la Chiesa». Questa ricerca, giocata attorno al tema generatore della «transazione», ci porta ad un modello di ecclesialità più articolato, per collocarci criticamente nel fuoco dei problemi che abbiamo evidenziato.
    - Nel terzo momento, ricerchiamo esplicitamente le condizioni da assicurare al gruppo per farlo di fatto quel luogo di esperienza di Chiesa che in teoria gli abbiamo riconosciuto. In questo momento conclusivo ritornano i contributi precedenti, verso una sintesi a carattere operativo: quella espressa appunto nel titolo del paragrafo, in cui si riprende il secondo tema generatore della «educazione».

    3a. IL GRUPPO COME INDISPENSABILE MEDIAZIONE DI CHIESA

    Abbiamo detto che i fatti nuovi che stanno emergendo nella attuale situazione culturale e giovanile ci portano a riaffermare l'indispensabilità del gruppo come «mediazione» di Chiesa.
    Precisiamo questa affermazione attraverso approssimazioni successive.

    3a. 1. La comunità come «condizione» della fede

    Quando ci si interroga sulla funzione della comunità ecclesiale in ordine alla attuazione della salvezza e alla maturazione della fede, ritorna con frequenza la costatazione che la comunità è «condizione». Qualche volta l'indicazione resta però vaga e generica, soprattutto nella prassi quotidiana.
    Al contrario, l'affermazione ha un peso notevole anche per la nostra ricerca, perché la scelta del gruppo per l'esperienza di Chiesa è molto legata ad un approfondimento della funzione di «condizione».
    Dobbiamo quindi dedicare qualche battuta a questa precisazione. Lo facciamo a partire dalla maturazione teologica in cui si comprende oggi la salvezza cristiana.[22]
    La salvezza cristiana è radicalmente dono: la persona salvata è costituita in una novità di esistenza attraverso un intervento gratuito e sconvolgente di Dio.
    Questo dono non è però sostitutivo della libertà e della responsabilità dell'uomo. Anzi, esso è costitutivo della possibilità e della esigenza di una risposta e di una decisione personale: per l'autocomunicazione di Dio l'uomo è diventato capace di disporsi e di accogliere autonomamente il dono della salvezza. La comunità ecclesiale rappresenta lo spazio esistenziale più significativo in ordine alla disposizione e all'accoglimento del dono della salvezza.
    In questo senso e per questa fondamentale collaborazione» la comunità è definibile «condizione» della fede.
    Vediamo brevemente le ragioni, richiamando cose già analizzate in altro contesto.[23]

    Comunità e significatività dell'evento salvifico

    L'evento di Dio che chiama a salvezza è sempre Parola che interpella, rispondendo a domande esistenziali profonde.
    Spesso però, quello che è vero sul piano oggettivo, non lo è nella storia delle singole persone.
    Viviamo infatti in un tempo di larga disaffezione religiosa e di forte pluralismo antropologico. Per molti giovani, la Parola di salvezza non rappresenta più una risposta alle proprie attese, perché queste attese sono state manipolate o perché quella e stata formulata in una acculturazione lontana da quella giovanile.
    La comunità, per la sua struttura costitutiva, offre generalmente uno spazio di identificazione e quindi di forte significatività.
    Quando essa vibra anche della Parola di salvezza, questo evento può operare in tutta la sua sconvolgente potenza: la significatività soggettiva permette al dono dello Spirito di far crescere fede e salvezza. La comunità è così sacramento di salvezza, perché nella sua costituzione, nella carica di identificazione e nel clima antropologico che in essa si respira, essa si fa appello ad una decisione esistenziale, libera e responsabile, per il Regno di Dio. Per questo, la comunità è «condizione».
    In questa prospettiva, «condizione» è molto di più di semplice «occasione»: nel sacramento cristiano, anche se con una intensità ed efficacia diversificate, il segno contiene sempre la salvezza a cui appella.

    Comunità e sostegno alla vita di fede

    La salvezza è dono che richiede una accoglienza; una accoglienza giocata nella quotidianità della propria esistenza, prima che sui gesti rituali e liturgici. Anche nel sostenere questa accoglienza, la comunità ha un grosso peso.
    Se essa sollecita ad una progettazione di sé lontana dagli atteggiamenti che definiscono l'uomo nuovo in Gesù Cristo, il suo essere-appello difficilmente riuscirà a produrre accoglienza. Il giovane, abilitato ad uno stile di vita non-cristiano, non riesce ad accogliere il dono di Dio. E se lo accoglie, lo riduce a sola espressione formale. Quando invece nella comunità si respira un'aria da «nuova creatura», perché gli atteggiamenti a cui ciascuno è sollecitato corrispondono a quelli definitivi della fede, speranza e carità teologale, essa sostiene strutturalmente la decisione di fede. Diventa così «grazia divina»: luogo in cui la potenza di Dio, incarnandosi nelle mediazioni umane, incontra l'uomo e lo salva.
    Anche in questa prospettiva, la comunità è molto di più che semplice occasione. Essa diventa vera «condizione», sostegno salvifico alla decisione di fede. Certo, gli atti cristiani decisivi possono essere compiuti solo personalmente. Ma queste azioni si compiono nel «grembo materno» della comunità, solo attraverso essa. La fede della comunità sostiene e custodisce la nostra debole fede, la vivifica e la rigenera.

    Comunità e celebrazioni della salvezza

    Accanto a queste due funzioni, che possiamo definire intrinseche, e come loro espressione esterna più tipica, collochiamo quel fatto a cui è facile pensare quando si parla della importanza della comunità in ordine alla educazione dei giovani alla fede.
    Nello spazio vitale della comunità i giovani hanno l'opportunità di incontrare la Parola di Dio, di celebrare i sacramenti, di esperimentare la comunione ecclesiale, quella comunione che è radicalmente dono e promessa, oltre la faticosa comunione umana.
    Il giovane cristiano incontrando, in una comunità in cui si identifica gioiosamente, la proposta della Parola di Dio e dei sacramenti, riesce ad accoglierli e a viverli come qualcosa di importante e di decisi

    3a. 2. Questa comunità per molti giovani non può che essere il gruppo

    Abbiamo affermato un importante principio, tutto giocato sul dover essere. Non possiamo certo concludere la nostra riflessione con queste costatazioni. Dobbiamo chiederci con coraggio: quale comunità di fatto rappresenta questo progetto di comunità?
    Abbiamo già detto che la comunità può esercitare la funzione di condizione solo quando diventa luogo di identificazione. Qui sta il cuore del problema.
    Dobbiamo spendere qualche parola per precisare l'assunto.[24]
    Si crea un senso di appartenenza quando l'individuo riceve in modo adeguato i contenuti che determinano e definiscono l'istituzione di cui è chiamato a far parte. Nel nostro caso, ciò che il bambino prima e il giovane poi hanno appreso della Chiesa, deve corrispondere oggettivamente ad un corretto progetto ecclesiologico, senza riduzioni e senza esagerazioni. In caso contrario, l'accettazione o il rifiuto non è per «la» Chiesa, ma per quell'immagine distorta di chiesa che ha interiorizzato.
    Già questo primo elemento sollecita ad una verifica attenta, alla luce della nuova ecclesiologia.
    Ma non basta. L'appartenenza non è prima di tutto determinata dalla oggettività e dalla forza razionale dei contenuti, ma dalla consapevolezza che la realtà descritta da quei contenuti è significativa (risponde cioè a interessi e attese importanti per il soggetto, fino a far concludere che far parte di quella istituzione è cosa della massima importanza).
    Come sappiamo, la significatività è tutta sul piano soggettivo. Il soggetto è chiamato quindi a scoprire il valore della proposta che gli è rivolta. Essa deve risultare importante-per-me; non è sufficiente che lo sia in sé.
    La significatività è determinata normalmente dal grado di adesione, di identificazione della persona con l'istituzione stessa.
    In altre parole, si avverte come significativa solo la proposta che è mediata da una istituzione avvertita come significativa. Una proposta oggettivamente corretta e razionalmente fondata, se non è esperimentata come affascinante, perché è mediata da una istituzione marginale, rifiutata, contestata, difficilmente conduce all'identificazione e quindi ad un reale senso di appartenenza.
    In questo caso, saltano per il soggetto le funzioni che facevano della comunità la condizione per la maturazione della sua fede.
    Per avere sotto lo sguardo più facilmente il quadro delle esigenze e verificare meglio le conclusioni a cui approdano queste riflessioni, possiamo riassumere su tre parametri le condizioni che regolano il senso di appartenenza alla comunità ecclesiale:
    - si richiede una struttura significativa, per essere veramente e soggettivamente luogo di identificazione;
    - questa struttura deve risultare intensamente comunionale, per sostenere l'esperienza di quella salvezza di cui la comunità ecclesiale è sacramento, attraverso la sua anticipazione storica privilegiata, che è appunto la comunionalità;[25]
    - questa struttura deve essere infine quella in cui si invera oggettivamente il progetto di Gesù Cristo, così come è espresso nell'autocoscienza attuale della Chiesa, per fare veramente esperienza di Chiesa.
    La Chiesa come istituzione ha perso oggi molto di significatività: per motivi di credibilità interna e per la crisi generale che ha investito ogni istituzione formativa. Soprattutto riesce difficile vivere reali esperienze comunitarie, per l'anonimato e la marginalità delle sue strutture.
    Dobbiamo «inventare» un luogo alternativo: significativo, comunionale ed ecclesiale.
    Questo spazio è, oggi più che mai, il «gruppo»: per molti giovani dunque l'indispensabile mediazione ecclesiale e la «condizione» per la maturazione della loro fede.

    3a. 3. Questo gruppo, mediazione di Chiesa, è già Chiesa

    Affrontiamo ora l'ultimo nodo: precisare teologicamente la funzione del gruppo in ,ordine alla Chiesa, definendo meglio il significato da attribuire alla voce «mediazione».
    Nell'autocoscienza della comunità ecclesiale attuale è diffusa la consapevolezza che l'incontro salvifico con Dio si realizza, sempre e per tutti, in una logica sacramentale: un segno, visibile e concreto, ci conduce misteriosamente ma efficacemente a Dio.[26] Chiamiamo questo segno «mediazione».[27]
    È avvenuto così in Gesù di Nazareth, la manifestazione radicale e decisiva di Dio-per-noi. Egli è Dio con noi e per noi. Ma questa presenza e questo incontro passano sempre attraverso la sua umanità, rivelante e nello stesso tempo nascondente, come ci insegna la storia degli incontri che punteggiano la sua esistenza terrena. La sua umanità manifesta Dio come mediazione che si fa appello ad una decisione di fede, libera e responsabile. Solo nella fede, che interpreta e supera la povertà del visibile, possiamo incontrare veramente Gesù Cristo.
    Nelle mediazioni esiste un rapporto molto stretto tra ciò che si vede, che si incontra, che si manipola (tutto questo lo chiamiamo «visibile») e il significato e la realtà che il visibile si porta dentro (lo chiamiamo «mistero», nel senso cristiano del termine).
    Da una parte, c'è un processo che dal visibile porta al mistero. Ciò che costituisce il visibile è il mistero che esso si porta dentro. La sua ragione di credibilità, di efficacia, di esistenza, è quindi sempre un «dono».
    D'altra parte, esiste un processo che va dal mistero al suo visibile, perché il mistero di Dio è incontrabile solo nel visibile che lo veicola. La responsabilità sacramentale di cui il visibile è stato investito spinge verso una sempre maggiore trasparenza, per esprimere meglio il mistero che si porta dentro.
    Questi brevi accenni ci permettono di comprendere, per analogia, il rapporto tra gruppo e Chiesa.
    La Chiesa ha una sua struttura sacramentale e in modo sacramentale opera per l'attuazione della salvezza.[28]
    Il visibile della Chiesa (le sue istituzioni, le persone che la compongono, i riti liturgici, gli apparati strutturali, i diversi organismi...) è il segno, di intensità salvifica variabile, che sollecita ogni uomo ad una decisione personale per la salvezza, un segno che contiene già salvezza, perché si porta dentro il suo mistero.
    Il rapporto visibile-mistero non è un gioco linguistico né una convenzione semantica. Esso è un evento di ontologia salvifica. Non travolge la responsabilità personale, ma la sostiene, la consolida, le offre ciò di cui è appello.
    Non è Chiesa solo il mistero; ma è Chiesa il visibile e il mistero assieme, in quella unità indissociabile che costituisce il segno sacramentale.
    La costatazione teologica dell'unità tra visibile e mistero ci permette di approdare ad ulteriori considerazioni.
    Il visibile della Chiesa, spesso povero e lacerato rispetto al mistero di cui è appello, si porta costitutivamente dentro il suo mistero. Per questo ogni visibile ecclesiale è, in qualche modo, Chiesa, come indispensabile mediazione del grande evento salvifico che è «la» Chiesa.
    Il gruppo giovanile, per molti giovani, rappresenta un visibile particolarmente significativo, un visibile meno opaco di altri nella istituzione ecclesiale, rispetto al suo mistero. Nel gruppo, infatti, i giovani incontrano più esperienzialmente quella comunionalità concreta che è costitutiva del mistero salvifico.
    Quando il gruppo assicura le condizioni di ecclesialità che lo fanno «visibile ecclesiale» (quelle condizioni che studieremo esplicitamente nel terzo momento), esso è quindi «mediazione» di Chiesa: è Chiesa. Proprio in quanto mediazione, non esaurisce «la» Chiesa.
    Per il gruppo, le ragioni di relativizzazione sono anche strutturali: nel gruppo non sono presenti completamente quelle dimensioni normative della Chiesa, che abbiamo precedentemente elencate.
    Il gruppo esprime la crescita della Chiesa «dal basso», nello sforzo umano. Non è tutta la Chiesa, perché la Chiesa è dono dall'alto, da accogliere in riconoscente umiltà.
    Per questi motivi, il gruppo ecclesiale, pur essendo un reale evento della Chiesa, deve restare aperto agli altri eventi di Chiesa e soprattutto alla Chiesa che raccoglie in sé pienamente le dimensioni dell'essere Chiesa.

    3b. UN GRUPPO CHE SA VIVERE LA TRANSAZIONE

    Questo secondo momento traduce in suggerimenti operativi la costatazione teologica che il gruppo è «mediazione» di Chiesa.
    Lungo lo sviluppo del paragrafo, verrà introdotto un tema appena sfiorato nelle problematiche finora affrontate: il rapporto gruppo-persona.
    Dobbiamo motivare la ragione di questo apparente sconfinamento.
    La riflessione teologica che ci è servita per definire la funzione del gruppo in ordine al senso di appartenenza ecclesiale ha messo in primo piano l'esigenza di intessere rapporti tra il gruppo e la Chiesa nel suo insieme.
    Abbiamo indicato questo fatto come il «tema generatore» di tutto il problema, proprio perché siamo convinti che la mancanza di una corretta relazione tra gruppo e istituzioni ecclesiali stia alla radice della attuale situazione critica e rappresenti quindi la via di uscita da privilegiare per fare evolvere in positivo quanto abbiamo costatato come problematico.
    Esperienze in questo senso sono già in atto: molteplici e felici.
    Esse mettono in evidenza un altro dato, assai stimolante.
    Riesce a relazionarsi in termini corretti con l'istituzione ecclesiale, solo quel gruppo che è capace di instaurare un sistema di vita interna che faccia spazio alla irripetibile responsabilità personale dei suoi membri, senza rinunciare ad essere pienamente e intensamente gruppo, luogo cioè di rapporti interpersonali omogeneizzanti.
    Quando un gruppo fagocita la libertà e la decisionalità dei suoi membri, essi non sentono affatto l'esigenza di decentrarsi verso altre istituzioni: il gruppo è così rassicurante e involvente, che si teme appassionatamente di uscirne. Il gruppo diventa totalizzante e autoescludente.
    Lo stesso discorso vale per le situazioni opposte. Quando il gruppo non sa rappresentare uno spazio di identificazione, perché si deteriora fino a diventare semplice aggregazione sul compito, priva di ogni coesione primaria, le persone vivono allo sbaraglio. Manca ad essi una esperienza di identificazione; sono quindi strutturalmente incapaci di valutare la significatività dell'appartenenza ecclesiale, di quella appartenenza che richiede un grosso impegno di razionalità per risultare meritevole di identificazione.
    Queste costatazioni sono alla radice dell'allargamento di prospettiva: l'esigenza di definire il rapporto tra gruppo e istituzione connota immediatamente l'altra esigenza di determinare la relazione gruppo-persona.
    Chiamiamo questa «relazione», nella sua forma matura e maturativa, «transazione».

    3b. 1. Transazione come relazione

    Transazione significa appunto relazione. Usata in forma positiva significa modello positivo di relazione.
    La proposta è dunque questa: costruire transazione nel gruppo; elaborare cioè nel gruppo un modello di relazione capace di salvare due esigenze apparentemente contraddittorie: l'autonomia e l'interdipendenza. Ci spieghiamo.
    Gruppo e istituzione ecclesiale da una parte e gruppo e persona dall'altra, sono realtà distinte, autonome, che hanno una loro ragione costitutiva fondamentale che le distingue e le fa esistere a prescindere dall'altro polo relazionale. Il gruppo è, come dicevamo, evento di Chiesa: non deriva il suo essere ecclesiale dalla Chiesa istituzione, ma la esprime, la invera, la visibilizza. La sua ecclesialità gli proviene dal «mistero salvifico» che si porta dentro, come sacramento di ecclesialità.
    La Chiesa non deriva la sua ragione d'essere dal gruppo, come è evidente. Gruppo e Chiesa sono quindi due realtà autonome e distinte.
    Lo stesso si può dire a proposito del rapporto gruppo-persona.
    Il gruppo non è la somma delle persone che lo compongono. Come ricorda la dinamica di gruppo, esso è invece l'insieme delle relazioni che intercorrono tra le persone che lo compongono. Una realtà nuova, autonoma, rispetto ai suoi membri.[29]
    La persona infine esiste in sé, a prescindere dal gruppo di cui può far parte.
    Le cose dette finora però ci costringono ad affermare immediatamente che gruppo-persona-Chiesa non possono sussistere pienamente se non in un reciproco intenso rapporto. La persona ha bisogno del gruppo come suo «grembo materno»: l'abbiamo approfondito analizzando la funzione di «condizione» della comunità in ordine alla maturazione della fede.
    Il gruppo ha bisogno della Chiesa nel suo insieme (Chiesa particolare, locale e universale), perché esso è Chiesa, ma non è «la» Chiesa. È evento di Chiesa nella misura in cui è aperto, relazionato, confrontato con la grande Chiesa.
    La Chiesa, infine, ha bisogno del gruppo, per essere presente, esperimentabile a livello giovanile: il suo essere sacramento diventa in situazione giovanile il gruppo, luogo privilegiato in cui la Chiesa si fa appello significativo.
    Transazione è quel tipo di relazione che sa coniugare armonicamente le due esigenze di autonomia (perché persona, gruppo e istituzione ecclesiale esistono in sé e in sé possiedono una loro ragione autonoma) e interdipendenza (perché gruppo, persona e istituzione hanno l'uno bisogno dell'altro per la rispettiva autenticità).
    La scelta della transazione come tema generatore comporta la scommessa educativa di elaborare un tipo di relazione tra persona, gruppo e istituzione, nuova rispetto a quelle spesso diffuse, che si riducono alla conflittualità permanente, al misconoscimento, alla cattura reciproca, alla dissoluzione di ogni relazione.
    Il futuro del gruppo ecclesiale sta, in questa nostra ipotesi, nella sua capacità di vivere in stato di transazione, ai tre livelli del sistema: le singole persone, nella loro individualità irrepetibile, il gruppo come centro educativo privilegiato, l'istituzione ecclesiale come Chiesa in cui sono assicurate le dimensioni normative di ecclesialità.
    Per qualche gruppo il processo è complicato dal fatto che il livello di sovrasistema è determinato anche dal movimento o dalla associazione a cui si appartiene.
    Anche in questo caso, lo schema progettuale della transazione non muta; aumentano solo i poli su cui intessere transazione.

    3b. 2. Transazione è esperienza

    La transazione è esperienza, è vissuto.
    Non può quindi essere risolta accumulando informazioni al riguardo. Va realizzata producendo progressivamente esperienze di transazione e promuovendo nel gruppo atteggiamenti di transazione.
    Possiamo esemplificare alcuni di questi atteggiamenti, per indicare gli stimoli educativi che il gruppo dovrebbe impegnarsi ad assumere e a promuovere:
    - il senso della globalità;
    - la capacità innovativa, che coincide con l'interiorizzazione di valori come la libertà, la tolleranza, l'accettazione positiva dell'alterità, la compassione, la solidarietà;
    - la capacità di superare i falsi problemi ideologici e le lunghe disquisizioni teoriche, per impegnarsi concretamente nelle cose;
    - il senso della persona, che fa toccare con mano la grandezza di ogni uomo, mai riducibile alle proprie visioni ideologiche e mai strumentalizzabile come «forza d'urto» in vista del raggiungimento di obiettivi, anche validi;
    - il senso del dialogo: capacità di giudicare la propria esperienza sul contributo positivo che offre chi ha progetti diversi, chi ha fatto scelte diverse, chi persegue obiettivi diversi;
    - l'accettazione degli strumenti necessari, con un profondo senso di relatività e di limite;
    - l'accettazione motivata e critica della funzione delle strutture e delle istituzioni, per valutarle nella loro dimensione positiva e per impegnarsi a modificarle per quanto possiedono di condizionante e di alienante;
    - il senso del mistero, che ci fa toccare con mano il limite di ogni nostra visione.

    3b. 3. Un modello di transazione

    Per non lasciare nel vago una esigenza così importante, possiamo tentare anche una proposta di modelli di transazione.
    Lo facciamo analizzando le due fondamentali relazioni su cui va giocata la transazione: il rapporto gruppo-persona e il rapporto gruppo-istituzione.

    Rapporto persona-gruppo

    A proposito del rapporto gruppo-persona, consideriamo immaturi, non sufficientemente capaci di assicurare la transazione, due modelli: quello individualista e quello «organologico».[30]
    Il primo modello inadeguato lo chiamiamo «individualista», perché considera il gruppo come la somma di individui, per nulla modificati e influenzati nella loro individualità dal fatto di realizzare una esperienza di gruppo.
    In questo modello, gli interventi educativi sono sempre e unicamente centrati sull'individuo preso come singolo. Il gruppo rappresenta solo una buona occasione per la realizzazione di questi processi.
    Il secondo modello inadeguato lo chiamiamo «organologico», utilizzando un termine poco felice ma espressivo se ben compreso. Si considera il gruppo come un organismo fisico (di qui, dunque, l'aggettivo «organologico»), che produce attività e formazione. Gli individui partecipano a questa produzione per il fatto di far parte fisicamente del gruppo.
    In questo modello, la pressione di conformità è spinta al massimo. Il gruppo è centrato sul gruppo. La persona riceve dal gruppo per osmosi.
    Il modello che ipotizziamo per definire la transazione è quello che ci piace immaginare, con una espressione già utilizzata, a «grembo materno»: gli atti decisivi sono sempre compiuti personalmente, nell'intimo della propria libertà e responsabilità, perché solo personalmente si può credere, sperare, amare, incontrare Dio, attuare nella propria vita l'evento di tale incontro. Queste azioni sono però vissute nel gruppo come luogo di produzione e di sostegno della vita, come grembo materno, appunto: la solidarietà del singolo con gli altri risulta così profonda che il suo individuale essere salvo non può venire separato dal suo essere-in-gruppo.[31]
    Sul piano operativo, questo modello comporta precise attenzioni. Da una parte si costruisce clima di gruppo, favorendo intensamente lo spontaneo stare insieme, per creare uno spazio caldo dove fare esperienza di vita nuova. Dall'altra, nel gruppo è costante la preoccupazione di responsabilizzare ciascuno alle proprie decisioni: il confronto è ricercato attivamente, sono evitati gli sbandamenti emotivi, lo stile di animazione non è mai non-direttivo, si fa largo uso di approcci razionali.

    Rapporto gruppo-istituzione

    A proposito del rapporto gruppo-istituzione, ci sembra importante affermare la funzione di mondo vitale da riconoscere al gruppo e progettare la transazione a partire da questa scelta.
    Ci spieghiamo meglio.
    Anche in questo caso, indichiamo i due modelli che riteniamo inadeguati: così, dal negativo, è più facile ritagliare la proposta positiva che intendiamo fare.
    Il primo modello inadeguato è quello che riduce il gruppo a luogo di rifugio e di conforto per la persona. In questo modello, si realizza un fenomeno diffuso, di cui abbiamo già parlato. La cessione del proprio tempo al gruppo non avviene in vista della realizzazione di un progetto condiviso; ma piuttosto per ritrovare nel gruppo un rafforzamento verso l'esterno minaccioso. Si sta assieme, perché assieme si esperimenta quel conforto esistenziale che l'istituzione rifiuta o minaccia, spingendo verso il formalismo o l'anonimato. L'aspetto negativo di questo modello, quello che ci fa denunciare la carenza di transazione, non è dato dalla ricerca di conforto o di esperienza diretta di incontro: questa è una esigenza irrinunciabile. Denunciamo come immaturo questo modello, quando chi lo pratica non spende nessuna energia per modificare l'esterno che non soddisfa: si arriva così veramente ad una «chiesa parallela». Un aspetto, apparentemente opposto ma segnato invece della stessa logica, è dato dal gruppo che attiva una grossa aggressività verso l'istituzione, aggressività che non va alle cause, ma serve solo come strumento raffinato di coesione interiore.[32]
    Il secondo modello inadeguato è quello giocato sul fronte opposto: il funzionalismo.
    Il gruppo non ha nulla di autonomo, ma tutto è in funzione della istituzione. Rappresenta solo la «riserva di caccia» della istituzione. Il gruppo è così centrato unicamente sul compito verso l'esterno. La legge dell'efficienza (della produzione continua di risposte alle esigenze che emergono nell'istituzione) schiaccia ogni ricerca di gratificazione (di quello, cioè, che il gruppo è capace di fare per rispondere ai bisogni dei suoi membri).
    Il modello positivo, quello in cui si vive un intenso rapporto di transazione, è rappresentato da quel gruppo che risulta momento autonomo della vita dei suoi membri e che, nello stesso tempo, cerca costantemente il confronto con l'istituzione per essere pienamente luogo vitale per tutti i suoi membri.

    3c. L'ECCLESIALITÀ DEL GRUPPO TRA «SIGNA ECCLESIAE» E «SIGNA REGNI»

    Entriamo nel terzo momento del nostro progetto.
    Le informazioni che abbiamo progressivamente accumulato ci aiutano a risolvere anche l'ultimo problema, quello che abbiamo lasciato irrisolto quando abbiamo affermato che il gruppo è mediazione di Chiesa se realizza un «visibile ecclesiale», se cioè è gruppo ecclesiale.
    In quel contesto non abbiamo precisato queste condizioni di ecclesialità. Ora affrontiamo esplicitamente l'argomento.

    3c. 1. Criteri di ecclesialità

    Abbiamo usato nel titolo due formule evocative: Signa ecclesiae e Signa regni.
    Con la prima formula (signa ecclesiae) intendiamo designare le note formali di ecclesialità, quelle che definiscono la specificità intenzionale dell'esistenza cristiana nella Chiesa. Possono essere raccolte attorno ai tre nuclei collettori della «parola», dei «sacramenti» e del «ministero». La circolazione della parola, la celebrazione della vita nuova nei sacramenti e l'obbedienza a coloro che nella comunità servono l'unità e la carità, indicano i criteri più immediati e misurabili di ecclesialità.
    Anche la già citata «nota» della CEI insiste nel riconoscere l'ecclesialità dei gruppi su questi parametri. Essa fa eco alla Evangelii nuntiandi che articola l'ecclesialità delle comunità di base attorno a questi criteri.[33]
    Con la seconda formula (signa regni) intendiamo invece designare i tratti promozionali, attraverso i quali si anticipa nell'oggi la promessa del Regno.
    La salvezza cristiana, di cui la Chiesa si afferma sacramento, è, come ricorda ancora l'Evangelii nuntiandi, «il dono grande di Dio, che non è solo liberazione da tutto ciò che opprime l'uomo, ma è soprattutto liberazione dal peccato e dal maligno, nella gioia di conoscere Dio e di essere conosciuti da lui, di vederlo, di abbandonarsi a lui».[34] Tutto ciò che è «liberazione» è nell'ordine della salvezza: la anticipa, la significa, la concretizza.
    Questi segni anticipatori sono da una parte misurati dalla definitività della salvezza, perché possono essere sue anticipazioni solo se sono nella sua logica. Dall'altra però, sono fatti storici, di intonazione culturale, perché possono visibilizzare la salvezza solo se la dicono all'interno delle attese dell'uomo, lungo lo scorrere del tempo.
    Signa regni, in un tempo di crisi, per una condizione giovanile che cerca ragioni di vita contro l'avanzare della morte, sono la produzione di una nuova qualità di vita: la pace, la giustizia, la libertà, la liberazione dei poveri e degli emarginati, il rispetto dei diritti di tutti, l'attenzione ai soggetti emergenti (la donna, i giovani stessi), la produzione e l'esperienza di senso, la capacità formativa, la saturazione dei bisogni di sicurezza e di identità.
    I documenti ecclesiastici che affrontano lo studio dei criteri di ecclesialità dei gruppi non sono molto attenti ai signa regni. Forse danno per acquisita ormai la loro importanza nella prassi ecclesiale e concentrano la criteriologia attorno alla pratica dei signa ecclesiae.
    Ci sembra urgente però, per fare una riflessione sul gruppo ecclesiale ben contestualizzata, riaffermare vigorosamente che «la comunità cristiana (e quindi in modo del tutto particolare il gruppo ecclesiale) non ha il luogo emergente ed esclusivo della propria esperienza nell'obbedienza vissuta responsabilmente dei "signa ecclesiae" (...), quanto nell'obbedienza finalizzante dei "signa regni"».[35]
    Certo, non possiamo ridurre la misura dell'ecclesialità alla presenza o alla assenza dei signa regni, perché svuoteremmo la specificità dei criteri di ecclesialità. Di un simile svuotamento, i nostri gruppi ecclesiali hanno tutt'altro che bisogno.
    Non possiamo però concentrare la ricerca e misurare l'ecclesialità solo sui signa ecclesiae, per i gravi rischi, teologici e culturali, che il fatto comporta.
    I signa ecclesiae sono la celebrazione, la risignificazione, la verifica profetica dei signa regni. Da una parte li collocano nella loro giusta prospettiva, di anticipazioni storiche e parziali di una salvezza che è radicalmente dono, che attinge la definitività dell'esistenza, che solo possiamo vivere nella accoglienza obbediente della celebrazione.
    Dall'altra, li orientano verso la loro autenticità anche antropologica, perché nella salvezza annunciata e celebrata l'uomo è maturato profeticamente verso la sua verità.
    Senza l'illuminazione della Parola, la produzione della vita può restare. intristita e ripiegarsi contro i sogni liberatori dei suoi cultori.
    Senza produzione di vita, nella fatica del quotidiano, la celebrazione diventa vuoto rincorrersi di parole o scivola in una magismo inconcludente. La storia dei nostri gruppi lo dimostra, a più voci.
    In un tempo di presuntuosa autosufficienza, come era quello che sembra definitivamente concluso, i gruppi dovevano essere sollecitati a misurare la loro ecclesialità sulla capacità di decentrarsi gratuitamente verso la sconvolgente e imprevedibile irruenza dell'evento di salvezza.
    Quando invece l'uomo tocca con mano la sua pochezza e cerca disperatamente ragioni di vivere fuori di sé, la profezia evangelica lo deve sollecitare a riprendere coraggiosamente in mano la propria esistenza, perché può celebrare il Signore della vita solo chi tenta di essere signore di questa sua vita.
    Il nostro è tempo di crisi. Troppi gruppi la risolvono sfuggendo dalle proprie responsabilità: altri relegano i momenti celebrativi al tempo vuoto della vita di gruppo. L'invito a misurare l'ecclesialità sui signa regni, celebrati dai signa ecclesiae, permette di riallacciare nel concreto dell'impegno quotidiano la profezia della fede e la produzione di una nuova qualità di vita.
    Questa è dunque la nostra proposta: i gruppi giovanili sono «ecclesiali», realizzano cioè le condizioni che li fanno «mediazione» di Chiesa, nella misura in cui diventano luogo dove si producono i signa regni di una nuova qualità di vita e, nello stesso tempo, luogo in cui progressivamente si verifica e si celebra tutto ciò nei signa ecclesiae.
    L'ecclesialità di gruppo non è determinata prima di tutto sulla accoglienza tematica di parola-comunione-sacramenti (i signa ecclesiae), ma dalla capacità di diventare luogo in cui i giovani di questo tempo di crisi esperimentano ragioni per vivere e sono sollecitati dalla testimonianza delle diverse comunità ecclesiali a fare questa esperienza nel nome del Signore della vita. Questa scelta, di natura prevalentemente teologica, mette in primo piano la preoccupazione esplicitamente educativa. L'ecclesialità investe quindi la gestione della vita interna di gruppo, le modalità in cui si sviluppa.
    Di conseguenza, fatichiamo a riconoscerci in quelle esperienze che invece travolgono l'umano di gruppo perché rifiutano l'analisi tecnica, nel nome di una ecclesialità tutta giocata lontana dal tessuto quotidiano della gestione di gruppo. Abbiamo l'impressione che in questa operazione venga misconosciuta la costitutiva struttura sacramentale della Chiesa, quello stretto rapporto tra visibile e mistero, di cui abbiamo parlato. Viene così vanificata la sua ragione d'essere, con il falso alibi di rispettarla più intensamente.

    3c. 2. Il tema generatore dell'«educazione» per definire l'ecclesialità di gruppo

    Questo nostro orientamento è gravido di conseguenze operative.
    Ne ricordiamo alcune, tra le tante, collegandoci idealmente con i nodi problematici indicati più sopra.
    Questi suggerimenti ruotano tutti attorno al tema generatore dell'«educazione»: cerchiamo un gruppo ecclesiale capace di accogliere e di produrre «domande educative».

    Quali gruppi possono essere ecclesiali?

    La prima conseguenza è relativa alla verifica di quali gruppi possano essere ecclesiali, nel panorama attuale dei gruppi giovanili.
    Il problema è questo: l'ecclesialità è una nota che qualifica il gruppo sulla discriminante delle attività che esso progetta, per cui è ecclesiale il gruppo che fa «cose ecclesiali» e non lo può essere il gruppo impegnato ad assumere e risolvere istanze culturali, politiche, di tempo libero?
    Ecclesiale è una caratteristica formale o sostanziale? È una caratteristica implicita (per cui si può essere ecclesiali anche senza volerlo essere), oppure richiede un certo livello di esplicitazione, di tematizzazione?
    Nelle nostre comunità ecclesiali ci siamo posti spesso interrogativi del genere. Il materiale teologico accumulato ci permette di dare una risposta precisa e articolata. L'ecclesialità è una nota qualificante, che richiede di natura sua una coscienza tematica.
    Si può parlare di ecclesialità solo quando questa caratteristica è vissuta con intenzione esplicita almeno in qualche persona o a qualche livello del gruppo. Gruppi ecclesiali, però, non sono quelli che hanno come finalità qualcosa di tematicamente ecclesiale (relativo cioè alla vita pastorale o alla celebrazione della Parola o della liturgia...).
    Ecclesialità non è una nota che separa tra finalità «sacre» e finalità «profane», ma è una caratteristica che colloca le «finalità di vita» in un nuovo orizzonte di preoccupazione formativa che fa riferimento esplicitamente all'evangelo di Gesù il Signore.
    Lo diciamo a partire dal rapporto tra signa regni e signa ecclesiae, che abbiamo privilegiato.
    Se le cose stanno così, possono essere ecclesiali tutti i gruppi (quelli culturali, educativi, sportivi, politici, di interesse, di semplice aggregazione...), se accettano di risignificare nella fede ecclesiale le scelte e gli orientamenti della propria vita.
    uesto punto fermo è di grande importanza pastorale: fa della fede della comunità ecclesiale un criterio di compagnia, senza svuotare di specificità. E ci permette di far oggetto della nostra preoccupazione pastorale i giovani più poveri, quei tanti giovani che sono ai margini dei movimenti, anche perché hanno problemi diversi da quelli affrontati e risolti dai movimenti stessi: anche questi giovani hanno diritto di esperimentare nella Chiesa l'amore di Dio in Gesù Cristo.
    Questa coscienza di ecclesialità non può essere lasciata alla spontaneità e alla soggettivizzazione.
    Si tratta di un fatto «ecclesiale», e perciò segnato dalle esigenze teologiche del progetto normativo di Chiesa.
    Anche l'ecclesialità di gruppo deve quindi essere verificata da coloro che nella comunità ecclesiale possiedono il ministero del discernimento, per la verità e l'unità nella comunione. Giustamente, la «nota» della CEI insiste su questa esigenza ecclesiologica.[36]
    Il gruppo che ha smarrito questa consapevolezza, ha bisogno di essere aiutato a maturare progressivamente nell'accoglienza di questo impegno.
    Transazione significa anche questo, come è evidente.
    Questa verifica ha la funzione di riconoscere la presenza (o, al limite, di denunciare l'assenza) degli elementi sostanziali di ecclesialità. Non dà una qualifica o la toglie; ma formalizza autorevolmente una situazione oggettiva.

    Il gruppo ecclesiale come esperienza di una nuova qualità di vita

    La scelta di privilegiare i signa regni nella definizione dei criteri di ecclesialità mette inoltre l'accento su un altro aspetto, molto importante: la capacità di produrre e di accogliere la domanda educativa.[37]
    Una dimensione molto importante di questa esigenza è determinata dall'impegno, che deve caratterizzare il gruppo ecclesiale, di essere luogo dove si producono nuove comunicazioni simboliche.
    Ciò che distingue l'uomo dagli altri esseri viventi che popolano la terra è senza dubbio il fatto che egli non vive in un mondo costituito esclusivamente di cose fisiche, di istinti, di conflitti per la sopravvivenza e così via, ma in un mondo di simboli. Sistemi simbolici sono infatti i linguaggi, le istituzioni sociali, il denaro, il diritto, la scienza, l'arte, le tradizioni. (...) Se a queste considerazioni si aggiunge il fatto che la percezione della realtà avviene nell'uomo attraverso i sistemi linguistici, diviene maggiormente evidente il senso della affermazione secondo cui l'uomo non vive in un universo di cose, ma bensì in un universo di simboli. (...)Il progresso culturale dell'uomo, lo sviluppo delle sue capacità di affrontare e dominare la natura passa necessariamente attraverso lo sviluppo degli universi simbolici e quindi attraverso una maggiore capacità di articolare l'universo materiale attraverso più ricchi e discriminanti universi simbolici. Ad una maggiore capacità di dotare la natura di significati corrisponde una maggiore capacità di dominarla e di controllarla. Su questa equazione si fonda lo sviluppo dell'uomo e delle società umane, l'emancipazione dalla natura, dalla materia e dagli istinti ancestrali registrata nella parte più antica del cervello. Il mondo dei simboli è quello che consente all'uomo di trascendere i limiti della fisicità del mondo e in definitiva di essere ciò che è: l'uomo».[38]
    Se esprimiamo e, in parte almeno, costituiamo la realtà attraverso i simboli (quelle strutture significative cioè mediante le quali qualcuno dice qualcosa su qualcosa a qualche altro), un importante obiettivo educativo è determinato dalla capacità di utilizzare bene i simboli e di produrne continuamente di nuovi.[39] In questo uso-produzione ci si rapporta con la realtà per «trasformarla».
    Questa esigenza coinvolge immediatamente ogni convivenza umana e, direttamente, il gruppo ecclesiale che intenda autodefinirsi tale attorno ai signa regni.
    In un contesto pluralista, esso diventa il luogo privilegiato di revisione critica dei simboli esistenti e di elaborazione di nuovi. Attraverso il gruppo questa revisione e produzione si espande a tutto il sistema (ecclesiale e sociale).
    Un corretto processo di revisione critica dei simboli presenti abitualmente nel contesto di vita (di gruppo e di sistema) richiede la verifica delle categorie con cui viene compresa, interpretata e rilanciata ogni provocazione che giunge dalla realtà al gruppo; da quella realtà da cui non si può sfuggire e che, proprio per questo, forma la materia irrinunciabile di ogni stimolo educativo.
    Per fare ciò, il gruppo utilizza saggiamente le strumentazioni adeguate: la dinamica di gruppo e l'animazione culturale per analizzare i processi che hanno come radice i fenomeni di conformismo di gruppo; le scienze della comunicazione, per valutare i disturbi di comunicazione; le scienze sociologiche e economico-politiche per valutare i condizionamenti strutturali che stanno alla radice di molte situazioni.
    All'interno di questi processi di coscientizzazione liberatrice trova spazio la capacità di produrre nuovi simboli, sul piano religioso, politico, culturale, delle relazioni interpersonali e dei processi sociali, lasciando campo libero alla fantasia, alla creatività, alla capacità inventiva.
    A questo livello l'educazione si fa prospettica: abilita a diventare uomini nuovi.
    In un tempo in cui la creatività si è fatta troppo spesso spontaneismo o in cui affiorano rigurgiti regressivi, il gruppo diventa indispensabile, perché solo facendo esperienza di questi nuovi simboli si può sperare in una nuova qualità di vita.[40]
    Questo fa del gruppo il luogo, di cui c'è tanto bisogno oggi, in cui i giovani possano incontrare il Signore della vita nella esperimentata comune passione per creare vita dove c'è triste sapore di morte.

    Ecclesialità come processo e non come parametro discriminante

    Quando l'ecclesialità è misurata sui signa regni, con una forte accentuazione educativa, riesce disagevole pensare all'ecclesialità come ad un parametro discriminante, che permetta di giudicare in termini burocratici. L'ecclesialità è la capacità di inserirsi in un lento progressivo processo di maturazione che dalla iniziale accoglienza della propria vita porta alla confessione gioiosa del Signore di questa vita.
    Da questa prospettiva riesce difficile valutare chi è «dentro» e chi non lo è; e diventa impraticabile la tentazione di dichiarare «fuori» solo perché mancano alcuni connotati.
    Si potrà costatare soltanto che qualche gruppo è ai primi passi del lungo cammino che dovrà portarlo alla confessione del Signore della vita. Ma non si riuscirà a decidere tranquillamente che è fuori pista, perché questa decisione metterà prima di tutto in causa la nostra capacità di testimoniare il Signore della vita in una riscoperta e sofferta passione per la vita quotidiana.

    4. La transazione risolta in una comunità che accoglie i giovani e «assieme» si pone al servizio della vita

    Al termine di questo lungo e impegnativo cammino di riflessione, possiamo riprendere il problema da cui abbiamo mosso i primi passi.
    Quali sono le condizioni per fare del gruppo quel luogo di ecclesialità vissuta di cui i giovani di oggi hanno intenso bisogno, per fare esperienza di Chiesa?
    Abbiamo risposto all'interrogativo a passi successivi: affermando prima l'importanza del gruppo e concentrando poi i criteri di ecclesialità attorno alla capacità di produrre vita nuova e di celebrare questa vita nuova nel nome del Signore della vita.
    La scelta del gruppo, come luogo privilegiato di educazione al senso di appartenenza ecclesiale, non risulta quindi né esclusiva né totalizzante. Cerchiamo un gruppo capace di promuovere e rispettare l'irripetibile responsabilità personale e di confrontarsi continuamente con la comunità ecclesiale.
    Queste due esigenze sono espresse nel «tema generatore» della transazione.
    La transazione è momento transitorio. Rappresenta un tempo di quel processo di maturazione verso l'età adulta, un tempo che è destinato a dissolversi.
    La meta è la comunità che vive l'unità nella pluralità perché riconosce adulti i suoi figli.
    Come si vede, ciò che il gruppo è chiamato ad assicurare, ritorna presto all'unico soggetto di ecclesialità: la comunità. Ciò che la transazione intende promuovere diventa il modo rinnovato di essere della comunità ecclesiale.
    Quest'esito non è però automatico.
    Richiede che i primi passi del processo siano già segnati, almeno germinalmente, da quello che risulterà l'esito finale. E richiede una capacità di conversione nei tre «poli» del processo transazionale (persona, gruppo e comunità), perché il nuovo modello è più avanti di quello che ora si sta vivendo.
    Concretamente:
    - I giovani sono chiamati a maturare in adulti, in persone capaci di appartenere anche a gruppi secondari di cui si condivide il significato e la missione, anche senza il sostegno esterno dei rapporti primari.
    - Il gruppo ecclesiale è sollecitato ad operare un progressivo spostamento dalla funzione di appartenenza a quella di riferimento,[41] per permettere ai propri membri una appartenenza intensa là dove si lotta per promuovere la vita, nella storia di tutti.
    Qualche gruppo potrà evolvere in una «comunità cristiana», allargando l'orizzonte dei suoi obiettivi e conservando un altro indice di appartenenza.[42] Ma questa ipotesi la valutiamo come situazione eccezionale, anche se fortemente significativa.
    Ci sembra invece «normale» che il gruppo concluda la sua esperienza, in quanto gruppo primario, e si prolunghi come semplice gruppo di riferimento, dove si celebra quella fede comune che è stata espressa in modelli diversificati, in «compagnia» con ogni uomo di buona volontà.
    - La comunità ecclesiale è chiamata a decentrarsi sempre più intensamente verso la sua missione. Sul compito di essere «sacramento di salvezza» essa definisce la sua identità. Riesprime la salvezza di cui è sacramento in un orizzonte culturale più vicino alle attese degli uomini d'oggi; per questo si sente impegnata a far nascere «vita nuova» nel nome e per la grazia del suo Signore.
    Questa autocomprensione la condurrà ad accogliere gioiosamente le diversificate prassi di promozione della vita e a unificarle nella confessione e nella celebrazione dell'unico Signore.
    Nello stesso tempo, essa aiuta tutti a vivere nella trepida attesa del Regno che viene, unico approdo di perfezione piena e definitiva, che contesta la radicale provvisorietà e insufficienza di ogni umana produzione di vita.
    Qualcosa si sta già muovendo in queste direzioni.
    Le indichiamo quindi con rinnovata speranza, senza presumere di verificare se stiamo descrivendo fatti del presente o sognando futuro.


    NOTE

    [1] Tonelli R., Pastorale giovanile oggi. Ricerca teologica e orientamenti metodologici (Roma 1979) 299-304.
    [2] Bartoletti E., Pastorale della Chiesa locale, in Amato A. (ed.), La Chiesa locale. Prospettive Teologiche e Pastorali (Roma 1976) 47-58.
    [3] Tonelli R., La vita dei gruppi ecclesiali. Appunti di dinamica di gruppo per l'utilizzazione pastorale (Leumann 1978) 39-41 (contiene bibliografia).
    [4] Nota 6.
    [5] Angelini G., Pastorale giovanile e prassi complessiva della Chiesa, in Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, Condizione giovanile e annuncio della fede (Brescia 1979) 61-92. Si veda anche Liegè P.-A., Lo stare assieme dei cristiani tra comunità e istituzioni (Brescia 1979).
    [6] Sono in questa linea alcuni documenti pastorali che affermano l'importanza del gruppo nella pastorale giovanile. Per esempio quello del Sinodo Nazionale Tedesco (Ziele und Aufgabe der kirchliche Jugendarbeit, in Synode 4 (1973) 5-19) e quello della Conferenza ispettorie salesiane d'Italia (Catechesi, Associazionismo, Sport. Documenti della conferenza ispettorie d'Italia (Roma 1976).
    [7] Congar Y., I gruppi informali nella Chiesa, in Comunità ecclesiali di base. Utopia o realtà? (Assisi 1977) 38.
    [8] Favale A., Riflessioni conclusive, in Favale A. (ed.) Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali ed apostoliche (Roma 1980) 501. Si veda anche Congar Y., I gruppi 38.
    [9] Boff L., Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la chiesa (Roma 1978) 9.
    [10] Boff L., Ecclesiogenesi 50.
    [11] Angelini G., Pastorale giovanile 87-91
    [12] Siamo consapevoli che un'operazione come questa difficilmente può pretendersi oggettiva. Anche se molti dati sono oggettivamente documentabili, l'insieme della lettura rappresenta una nostra interpretazione della realtà.
    [13] Garelli F., Giovani, Chiesa e associazionismo, in Milanesi GC. (ed.), Oggi credono così. Indagine multidisciplinare sulla domanda religiosa dei giovani italiani. 1. I risultati (Leumann 1981) 186-211. Lo stesso si può costatare dalla ricerca promossa e realizzata dalla GiOC i cui primi risultati sono contenuti nel volume I giovani degli anni '80 (Torino 1981).
    [14] Ardigò A., Crisi di governabilità e mondi vitali (Bologna 1980) 15.
    [15] Bassi P. - Pilati A., I giovani e la crisi degli anni settanta (Roma 1978) 107.
    [16] Si veda la relazione di F. Garelli contenuta in questo stesso volume.
    [17] Watzlawick P. - Helmick Beavin J. - Jackson D.P., La pragmatica della comunicazione umana (Roma 1971) 44-47.
    [18] È la tesi sostenuta da Ardigò A., Crisi di governabilità.
    [19] Milanesi GC., Oggi credono 383-386.
    [20] Milanesi GC., Oggi credono 391.
    [21] Tonelli R., Un itinerario per educare alla fede i giovani di oggi, in Note di pastorale giovanile 15 (1981) n. 2. 10-13.
    [22] Santoro F., La comunità condizione della fede, (Milano 1977).
    [23] Tonelli R., Pastorale 170-197.
    [24] Milanesi GC., Sociologia della religione (Leumann 1973) 126-141.
    [25] Congar Y., Un popolo messianico. La Chiesa sacramento di salvezza. Salvezza e liberazione (Brescia 1976). Si veda anche Tonelli R., Pastorale 191-192.
    [26] Beinert W. - Semmelroth O., Il nuovo popolo di Dio come sacramento della salvezza, in Mysterium salutis. 7. L'evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo (Brescia 1972) 347-437.
    [27] Tonelli R., Si incontra Dio nello spessore fragile delle «mediazioni», in Note di pastorale giovanile 14 (1980) n. 10, 35-38.
    [28] LG 1, 48; GS 45; AG 1.
    [29] Tonelli R.. La vita, 39-40.
    [30] Klostermann F. (ed.), La Chiesa locale. Diocesi e parrocchie sotto inchiesta (Roma-Brescia 1970)10-26.
    [31] De Vita R., Piccoli gruppi e società in trasformazione (Milano 1978) 45-64.
    [32] Congar Y., I gruppi 39.
    [33] EN 58.
    [34] EN 9.
    [35] Pattaro G., Esperienza comunitaria e riflessione teologica, in Esperienza di comunità esperienza di Chiesa. Corso di formazione religiosa permanente (Leumann 1980) 76.
    [36] Nota 12.
    [37] Tonelli R., Una ricerca sull'obiettivo della pastorale giovanile: è possibile parlare di integrazione fede-vita nell'attuale condizione giovanile?, in Orientamenti pedagogici 29 (1982).
    [38] Pollo M., L'animazione culturale: teoria e metodo (Leumann 1980) 9-10.
    [39] Tonelli R., Un itinerario 33-39. Su questa esigenza è stata giocata tutta la proposta di «educazione liberatrice».
    [40] Schillebeeckx E., Il Cristo. La storia di una nuova prassi (Brescia 1980) 20-79. Anche Tonelli R., Un itinerario 39-41.
    [41] Trascriviamo una definizione descrittiva dei due termini in questione:
    - gruppo di riferimento: gruppo del quale il soggetto è membro, anche se non è il gruppo a cui abitualmente partecipa, e del quale ha assimilato le norme, i valori, le opinioni, i modelli di comportamento, al punto che la sua partecipazione attuale ad altri gruppi è regolata dalla identificazione a questo gruppo.
    - gruppo di appartenenza: gruppo nel quale il soggetto è presente, al quale partecipa.
    Ogni gruppo di appartenenza è anche gruppo di riferimento, perché spinge ad adeguarsi alle norme correnti per evitare censure.
    Si può ipotizzare anche un gruppo di riferimento diverso da quello di appartenenza. In questo caso, gruppo di riferimento è quello a cui una persona si ricollega solo intenzionalmente (o attraverso momenti celebrativi) per un confronto sulle norme.
    [42] Per questa ipotesi si veda Favale A. (ed.), Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spiriluali ed apostoliche (Roma 1980).


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