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    I miti dell'uomo moderno e la loro crisi


     


    Carlo Nanni

    (NPG 1982-04-45)


    1. LA «GRANDE PROMESSA- DI LIBERAZIONE DEI TEMPI MODERNI

    1.1. La «Grande Promessa- e i suoi aspetti

    Ci sono degli eventi e delle date nella vita singola come nella vicenda storica comune che sono come pietre miliari, che diventano punto obbligato di riferimento per la comprensione di sé o del tempo. La rivoluzione industriale, la rivoluzione francese, la rivoluzione borghese, iniziate grosso modo circa duecento anni fa, sono indubbiamente di questo tipo, quando si è presi dal desiderio di andare in cerca delle nostre radici culturali comuni.
    Da allora le speranze e le attese degli uomini sono state sempre più pervase da quella che E. Fromm, recentemente scomparso, in uno dei suoi ultimi libri (1), ha denominato la Grande Promessa» dell'Umanesimo illuministico: una sorta di nuova religione e fede laica, che intendeva caratterizzarsi per un illimitato progresso, ottenuto attraverso le capacità razionali operative umane; per il dominio e il possesso dell'uomo sulla natura, attraverso la cultura e la civiltà; per una felicità fondata su una ottimistica, individualistica e utilitaristica visione della morale; e, ultimamente, per una illimitata libertà dell'uomo, finalmente affrancato da ogni feudalesimo esteriore e interiore, e avviato così verso l'assoluta e plenaria espansione personale autorealizzatrice.
    I progressi continui in campo industriale hanno insinuato l'idea di poter avere una produzione sempre più grande e quindi sempre più vaste possibilità di consumi, che avrebbero permesso benessere e felicità.
    Come ha scritto lo psicologo americano di origine ungherese, Rollo May, da allora nei cervelli degli uomini ha preso consistenza il modello di sviluppo dominato dalla logica del dinosauro cioè dalla logica di una crescita illimitata. La tecnica è apparsa sempre più come la scala che conduceva all'onnipotenza, ed è sembrato che la scienza stesse per renderci onniscienti.
    In un crescendo storico, la potenza della macchina e la forza della scienza hanno attratto sempre più le menti degli uomini: possederle ha voluto significare di essere grande, di avere il dominio sugli altri e sulla natura, di avere in mano il potere economico, politico, sociale. La scienza e la tecnologia sono diventati il criterio e il metro di giudizio supremo di ciò che è vero e di ciò che ha valore.
    Industrializzazione e macchine sono diventate in tutte le società come i portabandiera della pace, della libertà, della civiltà, della felicità.
    È sembrato che l'ora di una espansione personale piena e libera da ogni gioco o da ogni pastoia fosse formalmente scoccata.
    Fin da principio, e soprattutto dopo la rivoluzione francese, questa situazione si è rivelata nelle possibilità di alcuni pochi o al massimo della classe superiore e media: della «borghesia» capitalistica. Ma questo fatto è stato visto e interpretato, da chi faceva cultura, solo un incidente storico, un fenomeno transeunte, una questione di tempo o al massimo un qualcosa contro cui combattere e lottare. Ma è sembrato fuori discussione che le sorti della democrazia (il potere sociale per tutti), della piena umanizzazione (la libertà per tutti) e della felicità del genere umano (il benessere per tutti) fossero legate a doppio filo con la realizzazione di questa Grande Promessa.
    La vicenda storica che è conseguita, e che in vario modo fa parte del nostro vissuto, ce ne ha fatto vedere l'intrinseca debolezza.
    Da una parte, quelle che sono state dette le filosofie del sospetto (e i loro padri: già Darwin, ma soprattutto Marx, Nietzsche, Freud) hanno denunciato la fondamentale falsa coscienza, la strumentalizzazione ideologica, la astrattezza retorica: la Grande Promessa non sarebbe altro che la mistificazione degli interessi di parte della classe borghese emergente, strumento di rivincita sulle classi egemoni dell'ancien Regime (Aristocrazia e Clero), e a servizio della loro dominazione sull'intero corpo sociale. Dall'altra parte, il pensiero cristiano ne ha sottolineato la falsa autonomia e la ostentata sufficienza nei confronti della esperienza e della vita di fede (2).
    Nonostante ciò, è indubbio che la Grande Promessa illuministica si è potentemente insediata nella mente dell'uomo moderno e contemporaneo. Ha segnato un'epoca. Ha pervaso di sé la visione stessa della storia e del destino umano. L'illuminista Condorcet nel suo libro intitolato I progressi dello spirito umano, pur scritto dopo la delusione della rivoluzione francese, l'ha vista come l'espressione più compiuta di un immenso processo storico: quello dell'uomo che dalla barbarie avanza verso un mondo umano, grazie alle sue capacità razionali.
    Così si esprimeva al termine del suo schizzo storico: «Certamente l'uomo non diverrà immortale, ma la sua mortalità sarà resa più difficile, perché le malattie saranno debellate e la vita umana sarà allungata».
    Per una di quelle tragiche contraddizioni, che spesso si riscontrano nella vita reale, egli morì suicida. Ma l'ampiezza delle sue speranze di una storia umana, segnata da un progresso e da un miglioramento, non solo quantitativo, ma anche qualitativo, è qualcosa di più che un fatto isolato. È una testimonianza epocale. La fede nell'infinita perfettibilità dell'uomo e delle sue opere e, attraverso esse, la fede nella sua auto-liberazione, è tipica della Grande Promessa; da ciò la rilevanza data all'educazione, intesa come costruzione dell'uomo nuovo razionale, scientifico, progressista, attraverso il condizionamento, la disciplina e l'apprendimento delle idee e dei valori, condensati nella Grande Promessa.

    1.2. Le «ideologie forti» della «Grande Promessa»

    Questo progressismo razionalistico - che sembra essere del resto il filo conduttore di tutta la tradizione e cultura occidentale - si è storicamente configurato in diverse ideologie e ha trovato ampia giustificazione e spazio nelle più disparate forme filosofiche degli ultimi due secoli. Ad esse ha partecipato vigore, forza, potenza persuasiva, qualità attrattiva e coagulazione veloce di consensi, dando loro il crisma delle ideologie forti e delle filosofie vincenti. Ha impresso loro la dominanza sulle altre concezioni o prospettive del mondo e della vita (= in tedesco Weltanschaung) e ha dato loro il potere di impregnare e pervadere tutte le diverse forme della cultura (arte, letteratura, linguaggio, riti, modelli comportamentali, ecc.).
    Le filosofie e le ideologie o le espressioni culturali che non si sono messe nella sua linea, sono state date subito o ben presto per irrimediabilmente perdenti, viste come un residuo del passato, presso a morire o da eliminare. Si pensi ad esempio alla sorte che subì la cultura delle università (= la filosofia scolastica) oppure tutta la cultura religiosa ed ecclesiastica.
    Prendendo a criterio discriminante il ruolo della scienza si possono distinguere in generale due orientamenti fondamentali: l'orientamento scientifico-tecnocratico, che configura in gran parte l'ideologia capitalistico-borghese, a tendenza liberale (l'ideologia del progresso), e l'orientamento, di cui il socialismo scientifico è l'espressione più conseguente, e che in ogni caso dà configurazione alla ideologia del cambio politico-strutturale (3).
    La divaricazione tra i due orientamenti si fa profonda sul terreno dei rapporti scienza-società, soprattutto su tre punti: in primo luogo sulle modalità politiche del fatto scientifico-tecnologico nell'instaurazione di una società a misura della Grande Promessa; in secondo luogo sul modo di intendere la società democratica ad essa conseguente; in terzo luogo sull'identificazione del tipo o forza sociale, propulsore della storia (il «soggetto storico»).
    Secondo l'orientamento scientifico tecnocratico, si è convinti che le forze umane, lasciate libere di esercitarsi pienamente, possano attraverso la scienza e la tecnica, arrivare ad assicurare l'instaurarsi di una società armoniosa per tutti. Qui democrazia vuol dire anzitutto garanzie concrete di libertà e spazi per la libertà, individuale o di gruppo. Il soggetto storico è l'individualità capace di guidare le forze produttive secondo i dettami della scienza e della tecnica. Ne può essere considerata concreta incarnazione la figura dell'imprenditore o del «manager» (più che una classe sociale in generale, la borghesia).
    Secondo l'orientamento del socialismo scientifico, invece, il conseguimento di una società a misura d'uomo, e cioè la realizzazione effettiva e per tutti della Grande Promessa è possibile solo mediante la previa collettivizzazione o socializzazione dei mezzi di produzione e della ricerca scientifico-tecnologica, a servizio di una prassi liberatrice, emancipatrice e disalienante.
    Solo così sarà possibile evitare l'altrimenti inevitabile mercificazione, espropriazione e alienazione del lavoro umano, così come la reale dominazione dell'uomo sull'uomo.
    È chiaro che in questo caso democrazia viene a significare piuttosto perequazione sociale e accesso di tutti alle opportunità di sviluppo storico, individuale e sociale. Il soggetto storico è la classe (proletaria) operaia, i cui interessi non sono di parte ma coincidono con il bene generale; e che attua il suo compito storico sotto forma di prassi rivoluzionaria (lotta di classe).
    Nel corso della storia il primo orientamento è riscontrabile nelle diverse forme del positivismo (da Comte a Spencer, ad Ardigò, ecc.); nel pragmatismo miglioristico di James, Schiller, Dewey e - almeno parzialmente - in diverse correnti contemporanee che si potrebbero chiamare neo-illuministiche, a cominciare dal neopositivismo e dal razionalismo critico di Popper e Albert. Il secondo orientamento si ritrova, ovviamente, nel marxismo e nelle diverse forme in cui si configura il «continente» del neo-marxismo contemporaneo; che però in taluni casi si allontana o altera di molto la prospettiva di socialismo scientifico dando aggio a venature utopiche (ad es. con E. Bloch), oppure privilegiando l'istanza liberatoria (ad es. con J. P.Sartre) o magari accentuando il ruolo della prassi politica o della soggettività, rispetto alle necessità oggettive immanenti alle strutture storiche di produzione.

    1.3. Le coordinate dell'«homo faber»

    Non è questo il luogo di una individuazione a distanza più ravvicinata, di queste diverse correnti di pensiero. Né tantomeno si può delineare qui, anche solo brevemente, la loro parabola storica o le loro particolareggiate prospettive sull'uomo (4).
    Ma è certo bene fare qualche rilievo che ci aiuti a capire meglio la visione dell'uomo, che entrambi gli orientamenti condividono e che in diverso modo trasmettono e trasferiscono a livello di mentalità comune.
    Una tale immagine di uomo si potrebbe, globalmente, considerare una riedizione «scientifica» dell'ideale umanista dell'homo faber suae fortunae (= l'uomo costruttore del proprio destino), tuttavia con una serie di caratterizzazioni ben diverse proprio a seguito del ruolo della scienza (o meglio del modo di concepire la scienza).
    In primo luogo è chiara l'affermazione di una fondamentale laicità dell'uomo e della sua storia, nel senso che secondo i canoni della Grande Promessa il progresso storico non discende da una visione religiosa o sacrale del mondo e della vita, ma solo dalle leggi scientifiche. Secondo lo spirito scientifico si deve pure foggiare il comportamento umano individuale e collettivo, dando luogo ad un nuovo comune ethos. L'affermazione della laicità arriva spesso a forme di laicismo, che riducono il religioso soggettivo e la vita religiosa sociale a mero affare privato, quando non vengono considerati residuo irrazionale prescientifico o strumento di potere e «oppio dei popoli».
    Solo in pochi casi - anche se in crescita significativa negli ultimi tempi - si ammette che la religione possa svolgere il ruolo di forza liberatrice e che comunque non si opponga necessariamente ad una visione scientifica del mondo. In secondo luogo è tendenza abbastanza comune quella che quasi identifica la vita umana con la sola sua dimensione e configurazione sociale. Le altre dimensioni dell'esistenza vengono quasi messe tra parentesi o dimenticate: il pubblico sembra avvolgere tutto, in ossequio ad una mentalità che fa consistere la scientificità essenzialmente nell'osservabilità, nell'intersoggettività e nella comunicabilità linguistica.
    Un tal modo di vedere l'esistenza, a livello educativo, porta ad identificare tutta l'educazione con i processi e le forme di socializzazione e di inculturazione.
    È pure abbastanza diffusa, fino a sembrare scontata, una certa identificazione del termine «storia» con il termine «politica»: con la conseguenza di una certa politicizzazione dell'intera esistenza e della visione dei processi storici stessi. I problemi storici, così come quelli sociali sono visti in primo luogo od esclusivamente come problemi di potere (politico, economico, civile, ecc...) e di consenso.
    Ma quel che sembra più decisivo per le sorti dell'uomo è il fatto che in queste ideologie, e pressoché in tutte le correnti filosofiche sopra indicate, l'orizzonte dell'uomo è circoscritto al mondo e alla storia.
    Non solo si afferma che l'uomo si realizza nella storia o che il mondo privilegiato dell'uomo è quello che lui forgia con le proprie mani e segna con la sua razionalità, facendo cultura e costruendo civiltà. Mondo e storia costituiscono anche il tutto entro cui ogni cosa umana avviene. Ciò che è al di fuori della storia è negato o semplicemente rigettato nel mondo dell'insignificanza umana.
    È l'immanenza radicale: affermata in nome dell'uomo e delle sue «magnifiche sorti progressive» (Leopardi).
    Alla visione immanentistica si accoppia nella maggioranza dei casi una fondamentale concezione materialistica del mondo e della vita. La struttura portante del reale è individuata nei rapporti materiali dell'esistenza: alcuni ne danno una accentuazione sociale, altri una accentuazione economicistica.

    1.4. Il trionfo della razionalità pratica e delle scienze umane

    Per comprendere la genesi di questo nuovo modo di sentire, non è fuor di luogo considerare più da vicino quello che ne può essere considerato il fondamento prossimo: la nuova concezione della razionalità, che ha portato al sorgere e allo svilupparsi delle cosiddette scienze umane (biologia, sociologia, psicologia, etnologia, antropologia culturale, linguistica, scienze della comunicazione, pedagogia, ecc...).
    L'illuminismo per molti aspetti si ricollegava all'ideale della matematizzazione del conoscere, che sola potéva dare - secondo Cartesio e gli altri razionalisti dell'età moderna - quella certezza che è la mèta suprema dell'attività razionale dell'uomo. È solo essa infatti che permetterebbe quel sapere rigoroso «scientifico», che fuga ogni dubbio e vince il particolarismo delle opinioni o la privatezza delle emozioni e delle sensazioni.
    Ma sulla scia dell'empirismo baconiano e galileiano, l'illuminismo crede di poter giungere a questa conoscenza certa e sicura, anche in quegli ambiti sinora considerati fuori delle possibilità scientifiche: l'uomo e la sua storia, dove sembrano regnare sovrane le particolarità, l'individualità, la contingenza, la discontinuità. Anche Marx prenderà le distanze dai socialisti utopici (Saint-Simon, Prudhon, Fourier, Blanqui, ecc.) proprio perché pretende di essere riuscito ad evidenziare nella economia, nella vita sociale, nella storia, leggi assolutamente rigorose, proseguendo il lavoro degli economisti inglesi (Smith, Ricardo, ecc.), e «rimettendo in piedi» la dialettica rovesciata di Hegel.
    Sono del resto gli stessi marxisti - già a partire da Engels, l'amico e il collaboratore di Marx - i primi a riconoscere il contributo teorico dell'illuminismo allo sviluppo del marxismo: fino a considerarsi i «veraci» prosecutori di esso. C'è da notare che in questa aspirazione alla scientificità, tutto il conoscere umano ha subito una forte accentuazione in senso operativo e pratico, a discapito delle funzioni prospettiche e speculative della conoscenza.
    Matematizzare non vuol dire, forse, calcolare, operazionalizzare, trasferire in codici formali logico-deduttivi le asserzioni sul reale, in vista d'agire su di esso? In certi ambienti, anzi, si è arrivati a risolvere l'ordine pratico nel tecnico, con la tendenza a ridurre i problemi dell'agire umano a problemi tecnici. Certa «ingegneria» genetica del nostro tempo ne è una classica espressione, con tutti i problemi che essa pone. Peggio: in taluni casi è difficile dire che non c'è stata o non c'è una dipendenza - o per lo meno un intimo rispecchiamento - dell'attività conoscitiva e dell'affermazione dei valori con la tecnocrazia economica e il potere politico socialmente dominante.
    In questa visione strumentale della ragione rispetto alle richieste del potere economico e politico, Horkheimer, un autore della scuola di Francoforte, ha visto una causa della eclissi della ragione, che sperimentiamo nel nostro tempo (5). In ogni caso, si sono infrante le vecchie barriere tra scienza e tecnica, tra sapere puro e sapere applicato, che ascendeva ad Aristotele e al mondo greco con la sua contrapposizione tra attività politica e intellettuale (propria dell'uomo libero) e attività artigianale e lavoro manuale (propri dei semi-liberi o degli schiavi).
    L'interazione tra scienza e tecnologia si è fatta molto intensa, con reciproci vantaggi. Si sono pure molto attenuati i confini disciplinari e le distanze tra scienze pure e scienze applicate.
    Comunque è stata la razionalità pratica, scientifica e tecnologica, ad avere il sopravvento (6), anche se non disgiunta da una finalità umanistica: è l'agire umano e il suo operare nel mondo, che fa da interesse-guida della conoscenza (Habermas): anche quando essa si rivolge direttamente e in prima istanza verso la rilevazione, la spiegazione o la comprensione di fatti, di eventi, di fenomeni (7). In questo orizzonte di senso, si comprende la rilevanza data alle scienze umane, chiamate a portare materiali per quella «scienza della liberazione», realizzatrice di una vita pienamente umana.
    Queste scienze - molte delle quali ancora in pieno sviluppo o quasi ancora da nascere - non solo sono diventate il centro degli interessi conoscitivi dell'uomo comune, ma hanno assunto il ruolo di polo di riferimento per la definizione di ciò che è umano: ad esse si chiede di dire la parola ultima circa la verità e il valore di ciò che l'uomo è e produce.

    2. LA CRISI DELLA GRANDE PROMESSA NEL NOSTRO TEMPO

    2.1. I punti nodali della crisi

    Le ideologie forti e la loro concezione dell'uomo hanno fatto cultura in questi ultimi trent'anni: sono diventate cioè patrimonio sociale comune, presente in vario modo in tutti, facendo mentalità.
    Da alcuni anni sembrano investite da una crisi profonda che noi stessi in vario modo respiriamo.
    Si cercherà di analizzarla, raccogliendola attorno ad alcuni punti nodali.

    Il tradimento della Grande Promessa nella società dei consumi

    Quella che doveva essere la società del «ben-essere», sembra ridursi nel migliore dei casi alla società dell'avere (P affluent society = la società opulenta). L'uomo vale non tanto per quello che è, ma per quello che ha o riesce ad avere e produrre.
    Solo così rimane a galla. In caso contrario si è emarginati e rigettati nel mondo di quelli che non contano.
    L'esistenza diventa una affannosa ricerca dei beni per soddisfare le esigenze primarie e la folla dei bisogni artificialmente indotti ai fini del consumo delle merci prodotte.
    L'uomo è asservito alle esigenze della produttività, del profitto, del mercato e delle forze economiche nazionali o multinazionali. La logica della razionalizzazione scientifica e tecnologica che sosteneva l'ideologia di sviluppo, sembra mostrare quasi solo la sua cruda faccia di dominazione, appropriazione, trasformazione e mercificazione del lavoro umano in forme di alienazione mai prima conosciute pur nella ammissione di una accresciuta prosperità, socializzazione dei beni, svi, luppo tecnico, avanzamento intellettuale, coscienza critica, ecc. (8).

    La caduta ideale della possibilità di cambio

    Gli esiti, tutto sommato, alla fine negativi (a prescindere da ciò che facevano sperare nelle loro movenze iniziali), dei tentativi di cambio politico e strutturale di questi ultimi anni (contestazione giovanile e operaia del '68; la fine dei miti storici marxisti: il socialismo dal volto umano, il Vietnam, la Cambogia, la Cina, Mao; il movimento delle donne; i movimenti di descolarizzazione della società e di cultura alternativa) hanno ingenerato un forte sospetto circa la reale possibilità di una rivoluzione, cioè di una trasformazione totale consentita e non subita, qui ed ora nel presente e non perennemente procrastinata, comprendente il soggetto e la sua vita quotidiana e non solo il mondo politico ed economico.
    È caduta quella che Mancini, ripigliando B. Brecht (9), chiama l'idea dell'«epoca nuova», che incita alla prassi riformatrice e trasformatrice. «Il sol dell'avvenire» non sembra brillante più alto nel cielo. O, come ancora Mancini dice (questa volta richiamando Bloch e la sua «Real Utopie») (10), non si ha più la sensazione di vivere nel «rosso aurorale» di un'alba nuova.
    Parliamo per questo, forse con una certa enfasi, di fine dei miti e di tramonto delle ideologie (11): al pensare fervido sembra esser succeduto il calcolare, alla fede ideale il managerismo efficientistico, all'esaltazione il disincantamento (12). Rimane difficile parlare di cambio, e anche di «transizione»; al massimo si può accettare che è in atto un «trapasso», cioè qualcosa ad andamento fatalistico, non totalmente governabile, certo doloroso e faticoso. Forse è meglio parlare di «crisi» e basta, ammesso pure che si sappia dire di che natura essa sia, cioè quale degli aspetti in crisi comanda l'intero processo (economia, politica, cultura, strutture, istituzioni, ideologie, religione, ecc.).

    Il mal-essere» storico soggettivo

    Scienza e tecnologia (e cioè i supporti dell'ideologia dello sviluppo) sono state pure coinvolte (non certo da sole, ma, secondo alcuni, come maggiori imputate) nella denuncia della crisi di identità culturale, che rende difficoltoso sentirsi pArteci-
    pi di una mentalità comune di un patrimonio sociale specifico e determinato, di un progetto comune di costruzione sociale e di sviluppo storico.
    Anzi le si è accusate di contribuire a quello sradicamento dal tradizionale e dal locale che è l'avvio per quella polverizzazione ed omogeneizzazione culturale, necessaria al consumismo massificante (13).
    Allo stesso modo l'insistenza sul cambio del presente e le sue strutture è stato sentito presso molti come trascuratezza e omissione dell'antropologico, e del necessario raccordo storico.
    L'esito combinato (che è stato spesso vissuto in termini di angoscia, solitudine, tormento) sembra essere a livello soggettivo un duplice vuoto:
    a) quello derivante dall'atomizzazione e dalla frammentazione dell'esistenza
    b) quello derivante dall'assenza di quadri di riferimento e di sistemi di significato, che diano il senso della identità personale e sociale e dell'unificazione dell'esistenza privata e pubblica, in una totalità vitale ed organica (14).
    Esigenze di una diversa qualità della vita e emergenza del personale
    Pur essendo indubbiamente accresciute le possibilità di accesso ai beni di consumo, è molto forte il senso di una cattiva qualità della vita.
    Il deterioramento dei rapporti con la natura e il logoramento e scadimento delle relazioni interpersonali e sociali hanno spinto molti, nelle forme più svariate e con diversità di coscienza, alla ricerca di una diversa e migliore qualità della vita e dell'esistenza (15). Ad essa si è accoppiata l'esigenza di un miglioramento della vita quotidiana, di un esaudimento dei bisogni personali e privati: nella convinzione, più o meno tematizzata, che esistono nella persona aspetti e dimensioni che non sono totalmente riconducibili e non trovano risposta in termini puramente politici ed economici. Politica ed economia non sono tutto. Anzi spesso possono essere frenanti la libera espansione personale e coibenti la qualità della vita.

    2.2. Il riflusso

    Ad indicare il fenomeno di sfiducia e di crollo delle speranze di cambiare questo tipo di società, si è parlato di riflusso dal politico nel privato.
    Il fenomeno è tutt'altro che rassicurante.
    Nel rifiuto del carattere totalizzante del politico; nella disincantata relativizzazione o nella caduta di credibilità dei modelli di sviluppo tradizionali, come delle elaborazioni utopiche sessantottesche; nella progressiva soggettivizzazione dei modi dell'esistenza, si può intravedere l'intuizione di significati che sono prima o oltre il politico o l'economico. E forse - almeno come tentativo - può esservi la ricerca di vie nuove per risolvere i problemi delle persone, un nuovo senso etico, una nuova cura del mondo personale, interpersonale e sociale: preliminari indispensabili per qualsiasi seria azione politica.
    Ma per lo più ha significato non solo caduta dello slancio o dell'impegno, ma anche sequela acritica dei miti del consumismo facile o accettazione passiva di quel sistema sociale, magari precedentemente contestato.
    Per molti, e soprattutto per gran parte dell'ultima generazione che non ha vissuto il '68, il sentimento di sfaldamento, di «fine dei miti» e di «morte delle ideologie», assume le forme di una esistenza dominata dalla momentaneità atomizzata, senza quadro e senza progetto, ossessionata dalla ricerca spasmodica di sensazioni ed emozioni slacciate e mai del tutto soddisfacenti. Quando non si perde nei sentieri allucinanti della «via della droga».
    Talora sotto queste forme, che arrivano all'aberrante, sembra esserci la ricerca di una spontaneità espressiva e di relazioni interpersonali semplici, pacifiche, in cui non si abbia a dover pensare di aver sempre di fronte un nemico o un ostacolo. Ad altro livello il ritorno al folklore, alle tradizioni locali, al recente passato, attraverso quello che è stato detto il fenomeno del «revival», è stato visto come recupero della «memoria storica», come «ricerca del tempo perduto», come raccordo con il proprio passato individuale e collettivo. Tuttavia spesso ha dato l'impressione di essere anche rigurgito di forme reazionarie, ripresa di progetti e comportamenti grettamente chiusi.
    In questo senso «riflusso» viene allora ad assumere una accezione negativa di rifugio nel privato, inteso come assenza o rifiuto di prospettive sociali e collettive oppure di prevalenza data agli interessi egoistici o gruppali a scapito degli interessi generali.

    2.3. Morte dell'uomo?

    Si dovrà concludere, nella linea degli strutturalisti francesi Ch. Foucault e G. Deleuze, con la dichiarazione della «morte dell'uomo», almeno nel senso che l'immagine umanistica dell'homo faber, anche se riammodernata, non è alla fin fine niente più che un mito? (16).
    Non si dovrà forse, come dice lo stesso Foucault, rispondere a chi vi crede ancora, al massimo con un ironico e benevolo «riso filosofico»?
    Quello che afferma una certa ricerca delle scienze umane sembra del resto confermato dalla esperienza storico-culturale e dall'esperienza quotidiana. L'arte, la letteratura, il cinema, e la cultura in generale sembrano offrirci, in questi ultimi anni, innumerevoli testimonianze di una vicenda storica in cui il soggetto e la libertà umana, intesi come centro di attività, come creatori di senso, come fonte di processi storici, sembrano assenti, o in cui l'uomo è ridotto a luogo di passaggio di meccanismi anonimi che lo sorpassano in ogni dove. Da questo punto di vista lo strutturalismo, nelle sue conclusioni, esprime un movimento diffuso nel pensiero contemporaneo di questi ultimi anni; un qualcosa che è nell'aria e che la cronaca di tutti i giorni attesta a chiare note: non è l'uomo mortificato nei più diversi modi e nei più disparati sistemi sociali? Non sono forse i suoi diritti fondamentali misconosciuti e calpestati?
    La morte dell'uomo, prima di essere una affermazione teorica, è un fatto concreto del nostro tempo.
    Lo strutturalismo ratifica concettualmente quel che l'uomo è costretto a diventare sotto i rapporti di produzione del tardo capitalismo.
    Per G. Deleuze si veda in particolare Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, p. 4 ss.

    NOTE

    (1) E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1977, p. 13 ss.
    (2) Si veda ad esempio P. Valori, L'esperienza morale, Morcelliana, Brescia 1971, p. 21 ss.
    (3) Si veda per ulteriori approfondimenti: J. Ladriere, I rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle culture, SEI, Torino 1978, p. 192 ss.
    (4) Si veda ad es. R. Garaudy, Prospettive dell'uomo. Esistenzialismo, cattolicesimo, strutturalismo, marxismo, Borla, Torino 1972; S. Palumbieri, È possibile essere uomo? Progetti e messaggi a confronto, Dehoniane, Napoli 1979; M. Peretti, Marxismo, psicoanalisi e personalismo cristiano, La Scuola, Brescia 1978.
    (5) M. Horkheimer, L'eclissi della ragione, Einaudi, Torino 1969.
    (6) Cfr. E. Cassirer, La filosofia dell'illuminismo, La Nuova Italia, Firenze 1967; Th. Adorno - M. Horkheimer, La dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
    (7) V. Possenti (a cura di), Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979, p. 24 ss.
    (8) Realizzare insieme un «progetto d'uomo» veramente umano, in «Civiltà Cattolica», 1981, quaderno 3133, pp. 5-6; E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1977, p. 15 ss.
    (9) Si veda I. Mancini, Come continuare a credere, Rusconi, Milano 1980, p. 20 ss. Il testo di B. Brechi cui si allude è la Vita di Galileo.
    (10) Ibidem, p. 21. Il testo di E. Bloch è Il principio speranza.
    (11) Cfr. L. Colletti, Tramonto dell'ideologia, Laterza, Roma/Bari 1980.
    (12) Cfr. E. Beseghi, Condizione giovanile e problematica educativa, La Nuova Italia, Firenze 1980 p. 115.
    (13) C. Nanni - M. Pellerey, I rischi della razionalità, in «Orientamenti Pedagogici», 1979, 3, pp. 518521; V. Lanternari, Crisi e ricerca di identità, Guida, Napoli 1977.
    (14) C. Nanni, Cultura, scienza, tecnologia e problema dell'identità personale, in Aa. Vv., Fanciullo e Società. Ed. Del Rezzara, Vicenza 1980, pp. 195-204.
    (15) Sul tema della qualità della vita e dell'emergenza del personale rinvio per notizie più diffuse al mio articolo Qualità della vita e qualità dell'educazione in «Orientamenti Pedagogici», 1980, 5, pp. 823-831.
    (16) Sullo strutturalismo e la morte dell'uomo si veda A. Pieretti (a cura di), Lo strutturalismo e la «morte dell'uomo», Città Nuova, Roma 1977, dove è possibile trovare oltre che una presentazione degli autori (Lévi-Strauss, Foucault, Althusser, Lacan, Piaget, ecc., anche una antologia del loro pensiero e una buona bibliografia.


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