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    Cultura nichilista e annuncio cristiano



    Giannino Piana

    (NPG 1982-05-10)


    Ogni situazione storico-culturale, soprattutto quando mette radicalmente in gioco la condizione umana - e perciò la comprensione che l'uomo ha di se stesso, del senso e del destino della vita - costituisce una provocazione per la fede. Il messaggio evangelico deve fare criticamente i conti con le diverse forme culturali, che esprimono le aspirazioni e le attese, ma anche le frustrazioni e le delusioni degli uomini. Lo esige la fedeltà alla logica della storia della salvezza, che ha il suo momento più alto nel mistero dell'incarnazione. Il Dio della rivelazione è un Dio di uomini, che ha voluto condividere fino in fondo la condizione umana, a nulla sottraendosi, fuorché al peccato. Per questo «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore (Gaudium et spes, Proemio, 1).
    Tenteremo perciò, in queste pagine, di porci di fronte al fenomeno del nichilismo nella prospettiva della fede per cogliere le stimolazioni che da esso provengono e verificare le possibilità effettive dell'annuncio cristiano nel nostro tempo e le modalità concrete secondo le quali tale annuncio deve essere attuato.

    PER UN APPROCCIO PARTECIPANTE

    Ci si consenta un'osservazione preliminare. Porsi di fronte al fenomeno del nichilismo non significa considerarlo dal di fuori, quasi si trattasse di un fenomeno storico-culturale che non ci tocca, e che pertanto possiamo tranquillamente oggettivare, prendendo totalmente le distanze da esso. Il nichilismo è una mentalità, un'inclinazione, un modo di pensare e di vivere, di guardare il mondo e la storia, che coinvolge globalmente la condizione umana presente, almeno per quanto riguarda l'Occidente. È uno status esistenziale diffuso che attraversa le coscienze e al quale non è facile - forse neppure giusto - sottrarsi.
    La crisi delle grandi narrazioni di emancipazione del soggetto, lo scollamento tra ragione pratico-operativa e ragione teoretica, l'assenza di valori e di modelli culturali accettati socialmente, la stessa frammentazione del linguaggio, incapace di stabilire un terreno di convenzione su cui possano confluire sensi oggettivi, sono altrettanti fattori generalizzati che provocano sofferenza ed angoscia, perdita della identità personale e collettiva, nientificazione del tempo e della speranza storica. La combinazione di elementi strutturali con dati che si riferiscono alla condizione soggettiva rende precario ogni tentativo di interpretazione.
    La questione di fondo, che emerge come dominante, è quella del senso della vita. Ad essa non sembra più possibile dare risposta, accettando - come per il passato - soluzioni elaborate dall'esterno e, in definitiva, imposte al soggetto, ma soltanto scavando nel vivo della situazione soggettiva, accettando la povertà e il limite umano.
    Ogni uomo - credente e non - vive oggi drammaticamente questa esperienza. La fede non ci esime, infatti, dallo sperimentare le lacerazioni della condizione umana; anzi, ci immerge ancora più dentro di esse e ci fa solidali con esse. Per questo l'atteggiamento nichilista non può essere guardato dal cristiano come un atteggiamento a lui estraneo, assumendo una posizione distaccata e sufficiente, ma come una dimensione della propria vita, non diversa in questo da quella degli altri uomini. Il che significa che l'approccio corretto al nichilismo, e ai problemi che esso pone, deve essere un approccio partecipante. Occorre porsi di fronte ad esso con la consapevolezza del proprio coinvolgimento soggettivo; occorre guardarlo «dal di dentro»; occorre, di conseguenza, essere coscienti che la fede non può essere annunciata come antidoto o come alternativa alla tendenza nichilista, ma come «compagnia» dell'uomo, che vive il tormento di questa esperienza.

    VERSO UN NUOVO MODELLO DI ACCULTURAZIONE DEL VANGELO

    Queste ultime attitudini devono, in primo luogo, qualificare l'atteggiamento dei credenti e delle chiese nei confronti della problematica giovanile, e più specificamente dell'attuale tendenza nichilista.
    Ma l'atteggiamento esistenziale, per quanto necessario e preliminare, non è sufficiente. È indispensabile riformulare il messaggio cristiano in rapporto alle precise domande poste dalla concreta condizione umana, perché esso risuoni come «buona notizia» per l'uomo.
    I problemi implicati sono, da questo punto di vista, di un duplice ordine: anzitutto, problemi di ordine metodologico, relativi cioè al rapporto fede-cultura; in secondo luogo, problemi di contenuto, riguardanti cioè la sostanza del messaggio, il taglio secondo il quale va proposto, le accentuazioni da evidenziare tanto a livello di evangelizzazione quanto a livello di prassi storica.

    II modello del passato: la continuità tra fede e cultura

    La condizione fondamentale per un confronto serio del cristianesimo con ogni forma culturale è l'elaborazione di un corretto modello metodologico.
    Il modello attraverso il quale si tendeva in passato, in modo prevalente, a rapportare tra loro fede e cultura era un modello di integrazione reciproca, fondato sulla presunta continuità tra le due grandezze. La fede aveva l'esigenza, per poter essere accolta dall'uomo, di appoggiarsi alla cultura come interpretazione storica dei bisogni umani; a sua volta, la cultura rimandava alla fede come risposta ultima ai problemi della verità e del senso.
    Questo modello, per tanto tempo pacificamente accettato, ha dato in realtà luogo alla nascita di pericolosi equivoci. Nella tradizione scolastica post-medioevale, e soprattutto nell'epoca dell'illuminismo, la ragione metafisica costituiva di fatto il vero supporto della fede. La ricerca razionale circa l'assoluto, e la possibile affermazione della sua esistenza e persino dei suoi connotati fondamentali (attributi), era il presupposto da cui partiva e su cui, in ultima analisi, si fondava la riflessione credente. La teologia tendeva così a trasformarsi in complemento o corollario di una costruzione razionale previamente elaborata, e le grandi categorie della rivelazione biblica correvano il rischio di essere piegate ad un'interpretazione di comodo, incapace di farne sprigionare le valenze più rivoluzionarie ed inedite. La conseguenza era la sostanziale riduzione della fede alla religione, con lo snaturamento del significato più profondo e più vero del messaggio evangelico.
    Non diverso è il processo che si è sviluppato nell'epoca contemporanea attraverso l'introduzione delle categorie dialettiche nel quadro del discorso teologico. L'accento ottimistico, posto dalla cultura sulla storia come luogo della possibile liberazione umana, finisce per fare dell'annuncio evangelico un complemento delle ideologie forti di trasformazione del mondo. La comprensione del mistero di Dio e delle verità della rivelazione viene in tal modo compressa entro l'orizzonte di categorie umane e di schemi progettuali, desunti immediatamente dalle grandi utopie dell'avvenire storico-mondano, riducendo lo spazio della «novità» del messaggio cristiano.
    Ancora una volta la continuità tra fede e cultura, ridimensiona la fede, riducendola di fatto - almeno tendenzialmente - in ideologia di liberazione, e tagliando fuori da essa gli aspetti più negativi, e non facilmente assimilabili, quali la sofferenza, la morte, il limite e la precarietà umana.

    Il superamento della responsorialità e la fede come «compagnia»

    La possibilità di restituire credibilità all'annuncio cristiano, in un tempo come il nostro, caratterizzato dal diffondersi della mentalità nichilista, è dunque legata ad un ribaltamento del tradizionale modello metodologico, cioè al superamento del modello della continuità per andare in una direzione nuova, e più rispettosa dell'originalità dell'evento cristiano.
    Questo comporta, in primo luogo, il riconoscimento che la fede non può essere concepita come pura e semplice risposta ai bisogni umani, e neppure al bisogno religioso, ma come un «in più» e un «diverso», un «radicalmente nuovo». Alla radice degli equivoci presenti nel modello tradizionale, tanto nella sua versione classica quanto in quella più attuale, vi è senza dubbio la tendenza ad una lettura «responsoriale» del messaggio cristiano, che lo destituisce dalla sua qualità effettiva e del suo spessore di originalità. Si tratta, in altre parole, di una lettura funzionale e strumentale - al fondo utilitaristica - che mortifica (e non può non mortificare) l'essenza più autentica dell'annuncio. Il cristianesimo non è un facile grimaldello mediante il quale aprire le porte alla soluzione dei problemi storici dell'uomo o alle legittime aspirazioni del desiderio umano; non è semplicemente la risposta ai problemi inquietanti del senso e della verità. La fede, che assume l'uomo nella sua totalità, non tende, di sua natura, a diventare orizzonte ultimo di interpretazione e di legittimazione delle culture e delle ideologie; non si pone in alternativa ad esse, ma neppure le utilizza strumentalmente come ambiti da cui partire per dare soddisfazione alle esigenze e alle tensioni - pur positive - che da esse si sprigionano. La fede, molto più umilmente, «accompagna» i bisogni umani, anche quello religioso, senza mai assumerli in proprio, condivide le speranze e le delusioni della vita quotidiana dell'uomo, si siede a mensa con tutte le culture, soprattutto con quelle deboli e perdenti, aprendo all'uomo un orizzonte diverso, quello del dono assoluto.
    Più che confrontarsi con le culture, la fede «sostiene» la diversità culturale mediante un giudizio che è accoglienza totale, è abbattimento delle mura di qualsiasi divisione, per annunciare, attraverso l'imitazione e la sequela di Cristo, la «diversità» di Dio, che è l'assoluta vicinanza, l'assoluta povertà, l'assoluta misericordia, l'assoluto perdono.
    La riconciliazione tra fede e cultura appare così come il rendere trasparente, soprattutto nell'invocazione e nell'adorazione, che esiste un luogo in cui tutto è già stato in anticipo assolto e purificato. Tutto ciò perché «dentro» la storia un «pezzo» di essa è divenuto il punto di consistenza ultimo ed irrinunciabile: il mistero della redenzione, di cui la fede deve cogliere la «forma», la logica intima che permette ad un evento particolare e storicamente situato di abbracciare dentro di sé ogni ricchezza.
    Il tempo della fede è dunque il tempo che il regno di Dio che viene genera dentro il tempo dell'uomo, in assoluta coincidenza e in assoluta diversità. È la «qualità» che Dio produce nel tempo umano, alimentando la compagnia fedele del credente entro l'apparente lontananza da Dio, cui sembra condannata ogni impresa secolare. Essa nutre in tal modo la speranza di chi soffre piuttosto che il pacifico possesso di chi ha già vinto, e abbatte il muro dell'inimicizia, relativizzando la categoria del «nemico». Il messaggio evangelico stimola l'uomo a pagare il proprio tributo dovuto alla condizione storica e lo accompagna con simpatia e con amicizia in questo faticoso lavoro, attraverso il quale si apre la strada a quella riconciliazione che trasforma le mani sporche in pulite nel segno del compimento messianico, cioè nell'abbraccio definitivo del Padre.
    Il rapporto fede-cultura non è dunque disegnabile né in termini di sostituzione né in termini di estraneità, ma soltanto di «compagnia», di giudizio e di riconciliazione, di condivisione e di convivialità, attuate all'ombra della croce di Cristo, per mezzo della quale è dato di riconoscere il peccato accumulato nella vicenda storica della libertà e, insieme, di aprirsi ad una speranza, che si riferisce proprio al futuro della progettualità umana (cf. I Mancini - G. Ruggieri, Fede e cultura, Torino 1979). Ci sembra superfluo sottolineare quanto quest'ultimo modello, più rispondente alla logica della rivelazione e più rispettoso dell'autonomia umana, si addica all'approccio concreto all'attuale condizione dell'uomo, segnata dalla tendenza nichilista. Esso mette, infatti, in grado la fede di entrare in dialogo con tutto l'umano, e perciò anche con le- esperienze negative dell'uomo, persino con la tentazione dell'assurdo e del non-senso, senza presumere di dare risposte umanamente soddisfacenti, ma testimoniando e annunciando, con la forza della profezia, una possibile diversità per l'uomo e per il mondo.

    UNA RIVISITAZIONE DEI CONTENUTI DELL'ANNUNCIO

    Il discorso metodologico, per quanto importante, rischia di essere sterile se non conduce a una rivisitazione dei contenuti fondamentali del messaggio cristiano. Il nichilismo è, anche da questo punto di vista, provocatorio; stimola cioè i credenti a fare i conti con alcune dimensioni della condizione umana, e conseguentemente a ricuperare alcuni aspetti del mistero cristiano, che la tentazione di letture religiose e ideologiche, correvano il pericolo di dimenticare.
    Ci sforzeremo, perciò, in quest'ultima parte, di enucleare alcuni orientamenti e alcune tematiche, che meritano di essere ricuperate nel quadro dell'annuncio cristiano agli uomini di oggi.

    Il ricupero del linguaggio «simbolico»

    La crisi della dialettica, e perciò delle ideologie forti, fondate su una concezione positiva ed evolutiva della storia umana, mette a nudo la necessità di inventare un nuovo linguaggio, capace di accettare la «differenza», e persino la coesistenza dei contrari, senza presumere di poterla superare, ma insieme cogliendone la fecondità nell'interpretazione dell'esperienza umana.
    Il tradizionale linguaggio razionale- dimostrativo tende pertanto ad essere sostituito con un linguaggio diverso, nel quale il simbolo e il mito divengono prevalenti.
    Il mondo giovanile è particolarmente affascinato da questo linguaggio, che non dimostra ma mostra, non spiega ma evoca, non circoscrive ma apre, non indica in termini precisi ma suggerisce e allude, alimentando la creatività. È il linguaggio della poesia e dell'arte; è il linguaggio della soggettività sempre irriducibile perché legata all'orizzonte del mistero.
    L'accostamento della diversità e del contrario non è, in questo tipo di linguaggio, disturbante, e non comporta un appiattimento della tensione in avanti. Il simbolo rimanda costantemente ad un «oltre» se stesso, mai totalmente codificabile - come invece avviene nella lettura dialettica della realtà. «Simbolo» significa etimologicamente accostamento; è il mettere insieme realtà che sono lontane non per mantenerle staticamente in vita, ma per dischiuderle ad una comunione, che risulta feconda di novità.
    Non è questo, del resto, il linguaggio della grande tradizione mistica cristiana, che si è sempre espressa in termini di teologia negativa o apofatica, mettendo l'accento sull'alterità di Dio e facendo emergere l'infinita distanza, l'incolmabile scarto del mistero assoluto? Ma, più ancora profondamente, non è questo il linguaggio della rivelazione biblica, mai preoccupata di definire concettualmente verità e valori, ma di narrare, mediante simboli e miti, le gesta di Dio nella storia degli uomini? Cristo, la pienezza della rivelazione, è il grande «simbolo», nel quale il divino e l'umano, l'infinito e il finito, l'eterno e il temporale si incontrano ed entrano tra loro in una comunione così profonda da diventare una sola persona.
    Ricuperare il linguaggio simbolico, nell'annuncio del messaggio cristiano, significa pertanto entrare in sintonia con lo spirito della rivelazione e cogliere lo spessore autentico dei grandi eventi della storia della salvezza; significa penetrare nel senso più profondo del mistero cristiano, che l'uomo non può mai totalmente oggettivare e possedere, ma dal quale deve lasciarsi coinvolgere, così da esserne posseduto nel segno di una ricerca, che non ha termine.

    La teologia della croce

    Ma la visione nichilista dell'esistenza, in particolare quella pratica e quotidiana affiorante a livello di coscienza giovanile, mette soprattutto l'accento sulle dimensioni negative dell'esperienza umana. L'interpretazione della vita come nonsenso e come assurdo, il rifuggire da letture totalizzanti della realtà, il rifugiarsi nella quotidianità, abbandonando la pretesa - ritenuta inutile - della progettualità storica, sono altrettanti «segni» ambivalenti di una condizione soggettiva nei confronti della quale è doveroso esercitare un giudizio critico.
    Non si può, tuttavia, negare che, al di dentro di questa situazione, affiorino stimoli di enorme importanza per la risignificazione del messaggio evangelico. Il cuore dell'annuncio cristiano è il mistero della croce: il mistero cioè di un Dio che non si è accontentato di condividere la condizione umana nelle sue strutturali limitazioni, ma ha voluto sperimentare radicalmente la morte nella maniera più ignominiosa ed infamante. La croce è il segno dello spogliamento totale, della più radicale impotenza. L'esito, cui giunge la vita di Gesù, è dunque lo scacco e il fallimento. Il negativo, l'assurdo, il non-senso sono pertanto al centro del mistero cristiano; costituiscono un tratto fondamentale ed irrinunciabile dell'evangelo.
    Ma, paradossalmente, la croce di Cristo trasforma il negativo in positivo, l'impotenza in potenza, la stoltezza in sapienza.
    Nella morte del Figlio di Dio, la morte dell'uomo, che costituisce il concentrato di tutte le paure, il luogo in cui si condensano tutte le riflessioni sull'assurdità e l'inutilità del vivere, è riscattata e vinta. La speranza cristiana fiorisce ai piedi della croce, perché a partire da essa acquista significato la fede nella risurrezione. La morte conserva, anche per il credente, il carattere tragico di frustrazione di tutte le attese umane; ma essa non è più, nell'orizzonte della fede, l'esito ultimo, bensì la via attraverso la quale l'uomo si apre al dono della vita nuova, che è partecipazione alla vita del risorto.
    Allora il negativo, lungi dall'essere misconosciuto come uno degli elementi costitutivi della condizione umana, diventa parte integrante dell'evento cristiano, perché proprio a partire da esso e in esso è possibile annunciare il senso di una vita, che acquista valore nel momento in cui la si perde, donandola a Dio e agli altri, nell'atto supremo dell'amore.

    La povertà come condizione fondamentale

    Il dono che Cristo fa della sua vita sulla croce è la rivelazione più alta del mistero di Dio: manifesta cioè la natura di Dio, del Dio trinitario, in cui le persone sussistono nella reciprocità del dono. La morte di Cristo, scandalo e follia per chi guarda le cose secondo l'ottica della sapienza umana, è l'annuncio dell'essere-per-glialtri, che definisce l'essenza più profonda del Dio della bibbia: un Dio che non ha l'amore, ma che è Amore.
    Lo scacco, il fallimento e l'impotenza, in una parola la povertà, diventano così la condizione fondamentale per rendere trasparente il mistero di Dio nella storia degli uomini. La lezione, che scaturisce dal prendere sul serio la croce di Cristo, da parte dei cristiani e delle chiese, è quella di vivere nella prospettiva di una radicale povertà, che è comunione nei rapporti umani e condivisione delle cose. È fare propria fino in fondo la logica della convivialità come rinuncia all'appropriazione e al possesso e come compartecipazione di tutto - di ciò che si ha e di ciò che si è - secondo la logica dell'amore totale.
    Se la chiesa vuole diventare il luogo della fraternità e della comunione, deve allora trasformarsi in comunità povera; deve saper rinunciare al potere e alle strutture aggiornate, quando rischiano di fare da schermo alla logica travolgente della Parola, tanto più efficace quanto più annunciata nella sua nudità originaria con strumenti che, nella loro semplicità, lasciano immediatamente intravvedere la sapienza di Dio; deve porsi quotidianamente al servizio dei poveri con la consapevolezza che di loro è il regno. Solo in questo modo è possibile non vanificare la croce di Cristo, ma renderne evidente, nella testimonianza, la grande portata salvifica. Solo così, soprattutto, i cristiani e le chiese possono farsi portatori di una speranza per il mondo e per la storia, che assume e riscatta anche le dimensioni negative della vita, inserendole nel mistero della Pasqua di Cristo e aprendole alla verità assoluta del futuro di Dio.

    CONCLUSIONE

    Il confronto con la cultura nichilista non paralizza dunque l'esperienza cristiana e non rende sterile l'annuncio, ma aiuta il cristianesimo a purificarsi e a riscoprire aspetti fondamentali, e purtroppo talora sottaciuti, del messaggio evangelico.
    Certo il nichilismo rimane - come d'altronde ogni altra realtà umana e ogni esperienza storica e culturale - un fenomeno segnato dall'ambiguità, nei confronti del quale occorre esercitare di continuo la critica e il discernimento. Ciò non toglie che, proprio a partire da esso, possano venire sollecitazioni preziose a rendere più trasparente la testimonianza e più credibile l'annuncio, perché a tutti gli uomini sia data la possibilità di percepire che solo nel nome di Gesù la vita acquista il suo senso definitivo e totale.


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