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    Le feste dei giovani



    Franco Floris

    (NPG 1981-6-3)


    Da circa un anno la rivista sta pubblicando esperienze di feste giovanili. La prima è stata la festa degli adolescenti di Verona all'Arena, al termine di un lungo cammino alla ricerca della loro identità umana e cristiana (1980/6).
    È seguita la presentazione della grande assise dei giovani del Triveneto ad Udine nel maggio 1980. Oltre 11.000 giovani che hanno voluto concludere in quel modo una riflessione comunitaria sul Catechismo dei giovani (1981/1).
    La terza esperienza presentata sulla rivista è dei 3.000 giovani che a Novara, nel settembre '80, hanno partecipato a quella che volutamente era stata chiamata «festa di tutti i giovani». Un ampio resoconto lo si trova nel numero di aprile.
    Il presente dossier vuole collegarsi idealmente a quelle esperienze e tentare una riflessione conclusiva. In un primo tempo per interpretare il diffondersi di queste feste. Ed in un secondo momento per delineare alcune attenzioni educative.
    Oggetto del dossier sono allora le feste giovanili in ambito ecclesiale. Evidentemente sullo sfondo di un più generale diffondersi di tensioni e atteggiamenti ludico-festivi nella società e anche nella chiesa.
    Non solo questo però. Oggetto del dossier sono anche gli atteggiamenti di coloro che seduti ai margini della festa la osservano. Diversi sospetti oggi gravano su queste feste. Non c'è forse una sfiducia quasi costituzionale rispetto alla festa, alla fantasia, all'esplosione dei sentimenti, in un'epoca di «apatia» come la nostra? E il ritorno di questi atteggiamenti è forse solo segno, come vorrebbero alcuni, di nostalgia cattiva, di ritorno all'indietro rispetto alle posizioni raggiunte in questi anni con la fatica e con la lotta?
    Quale significato conoscitivo, operativo, politico e ecclesiale hanno le feste e tutte le altre dimensioni del «sentimento»? Quali le responsabilità per la fede cristiana con il suo accentuato messaggio di gioia e di festa? Fino a che punto è tramontato nella pastorale giovanile il gusto del «negativo» come strada a Dio?
    Nello stendere queste riflessioni sono stati utilizzati diversi stimoli raccolti in un incontro redazionale.


    FATTI

    Una parola sul «metodo» con cui viene affrontato il problema. Della festa si può parlare in vari modi. Anzitutto partendo «dall'alto». Alla domanda come vivere la festa oggi, e cosa deve essere una festa per giovani, si risponde ricorrendo alla tradizione e ai grandi testi biblici, teologici, filosofici, maturati nell'alveo del cristianesimo. Un secondo metodo procede «dal basso». Si raccolgono un gran numero di informazioni sulla festa dei giovani, le si organizza ed ecco una proposta educativa e pastorale che avrà, almeno si pensa, discreto successo. Il metodo con cui si intende parlare della festa dei giovani in questo dossier rifiuta sia il metodo deduttivo (dall'alto) che quello semplicemente induttivo (dal basso). È piuttosto un metodo di riflessione sull'esperienza a cui si accede tuttavia con un certo numero di «precomprensioni». La scelta è di far reagire fatti e precomprensioni operando contemporaneamente un'azione di revisione su entrambi. Lentamente emerge allora una specie di criteriologia che ha il pregio della fedeltà alla situazione ed evita sia il giovanilismo, sia l'approccio deduttivo. Questo dossier sulla festa nei gruppi giovanili è una ricerca su un «segno dei tempi».
    In che senso? Una delle precomprensioni che viene messa in gioco fin dalla lettura delle esperienze è che queste feste sono probabilmente una attualizzazione, povera fin che si vuole, della «memoria» di Gesù Cristo nella quale la nostra vita cerca continuamente la sua identità ed il suo principio orientatore. La ricerca cioè è sorretta dalla convinzione che nelle feste si esprime una «risposta», umana e cristiana ad un tempo, ad alcuni interrogativi che il giovane d'oggi si porta dentro. Una risposta che, nel bel mezzo del guado della crisi che attraversiamo, esprime una rinnovata passione per la vita in tutta la sua ricchezza.

    1. Feste dei giovani: fatti e sospetti

    QUALI FATTI

    Un fenomeno nuovo in campo pastorale questi ultimi anni è il diffondersi di «feste di giovani» a livello diocesano, di movimento nazionale.
    Come rivista abbiamo riportato tre di queste grandi feste raccontandone i particolari: la festa degli 11.000 giovani del Triveneto a Udine nel maggio 1980, la festa dei giovani della diocesi di Novara nel settembre 1980, la festa degli adolescenti a Verona in occasione del grande cammino alla ricerca di una nuova identità cristiana nel 1979.
    Altri fatti di incontri di giovani credenti con una grossa carica festiva sono stati riportati dalla stessa stampa nazionale. Basti pensare alla grande Route degli Scout a Bedonia nel '79 e allo stile che lo ha caratterizzato fatto di spontaneità, ricerca e riflessione, preghiera, canti e giochi. Basti ancora pensare ai 30.000 giovani radunati nel nome di Taizè alla fine dell'80 a Roma. O, infine, ai grandi incontri nello stadio di Milano in occasione della giornata della vita o di giornate missionarie.
    Parallelo al diffondersi di giornate di festa è il diffondersi nei gruppi e associazioni ecclesiali di un atteggiamento più sereno e festoso. Gli incontri, anche quelli più «impegnati» di studio o riflessione, sono più distesi e gioiosi rispetto al passato. Si cerca, a volte in modo anche esagerato, lo stare insieme, la fraternità, il tono di comunicazione festosa. Quando gli incontri sono di preghiera la gioia si sposa con una attenzione al clima meditativo e al silenzio.
    La festa caratterizza la vita dei gruppi ecclesiali, ma si sta facendo largo in tutta la società e ha trovato originali affermazioni soprattutto fra i giovani. Qualcuno parla di cultura della festa. Non che le feste dei giovani siano un'invenzione di oggi. Quel che meraviglia è l'uscita della festa dal ghetto con lo slogan «riprendiamoci la città» e la sua istituzionalizzazione, cioè la sua gestione da parte delle pubbliche amministrazioni. Si pensi ad esempio al Carnevale di Venezia, alla Estate Romana promossa dall'assessore Nicolini, al Settembre Musica e ai Punti verdi a Torino. L'invasione collettiva dello spazio urbano, lo sconvolgimento delle sue misure, delle sue funzioni e soprattutto dei suoi significati, è ormai praticata massicciamente. Notevole è il fatto che il punto di partenza può essere diverso, dal cinema alla poesia, alla danza e alla musica, ma è il clima che risulta sempre tendente alla festa.
    Come spiegare tutto questo risveglio?
    Al fondo di questi fenomeni sembra esserci un grande bisogno di aggregazione e di partecipazione attiva, che chiede spazi, occasioni, stimoli per lanciarsi nella festa. Quello che si cerca non è la programmazione rigorosa, ma l'aggancio con la fantasia e la spontaneità dei presenti fino a lasciarsi coinvolgere. A volte, soprattutto negli stadi, allo spettacolo offerto dai vari cantanti, si aggiunge un altro spettacolo, quello dei partecipanti: lo spettatore si fa protagonista e lo spettacolo diventa autospettacolo.
    Alla «discesa in piazza», che nel Carnevale '80 e '81 è stato un fenomeno giovanile di tutto rilievo, vanno aggiunti allora i grandi incontri musicali giovanili che dopo il fallimento di Parco Lambro avevano conosciuto un momento di stasi, le feste dei vari partiti che - anche se in forma diversa dai festival rock - riescono ad aggregare i giovani al di là delle etichette di partito o di ideologia (in fondo più desiderosi di stare insieme che di ascoltare discorsi), le discoteche che conoscono un successo sintomatico e permettono - anche se in modo ambiguo - di esprimere il bisogno di stare vicini, insieme e di fare festa.

    IL SOSPETTO SULLA FESTA

    Prima di parlare della festa per tentare una interpretazione, occorre soffermarsi sugli atteggiamenti di chi parla della festa, per mettere in luce le precomprensioni che, inconsapevolmente o meno, si mette in gioco quando si legge un fenomeno come quello della festa giovanile.
    Il rischio infatti è di non lasciar parlare i fatti nella loro originalità per ingabbiarli invece subito con categorie ideologiche che invece non vengono messe in discussione. Un corretto accostamento alla festa implica una disposizione a cogliere il nuovo che la attraversa oggi, senza voler sottacere le ambivalenze di cui, come ogni esperienza umana, è carica. Un doppio processo critico si profila quindi per chi vuol parlare della festa dei giovani: lasciarsi da una parte sorprendere dalla festa e dalla visione di vita che essa veicola, e dall'altra giudicare la festa alla luce della propria esperienza di adulto e di cristiano, per separare ciò che è autentica ricerca umana da ciò che è invece frutto di ambiguità.
    Vediamo alcune posizioni più frequenti davanti alla festa.

    Il sospetto del militante

    Il diffondersi della festa è guardato con sospetto in primo luogo da quanti hanno fatto una scelta di «seriosità», di impegno politico, sociale ed ecclesiale.
    Essi vedono nel diffondersi della festa un segno di «riflusso», di caduta di tensione, una conferma della resa al sistema per tanti anni combattuto, un indice della fragilità psicologica e della ignoranza dei giovani d'oggi.
    Il loro sospetto è che la festa sia soprattutto un fenomeno indotto: «Chi c'è dietro la festa dei giovani - essi si chiedono - e a chi servono le feste? Si è voluto disinnescare la "bomba dei giovani" per ridurla a più miti consigli?».
    Con la festa, a loro avviso, L'attenzione si sposta dalla lotta negli spazi in cui si fa politica (strutture, istituzioni, lavoro, partiti...) agli spazi del tempo libero inteso come spazio di «reintegrazione» delle forze psicofisiche.
    Per altri il gioco e la festa sarebbero una resa dei giovani alla complessità della situazione: ci si abbandona al personale perché incapaci di sopportare il peso della militanza.

    La tesi del ritorno a casa

    Il secondo atteggiamento, più accondiscendente del precedente, è quello di quanti vedono nella festa uno dei sintomi del cosiddetto «ritorno a casa» dei giovani dopo anni di smarrimento. Il diffondersi della festa è accomunata al ritorno in famiglia e alle istituzioni in genere, alla fine della conflittualità per lasciare spazio alla tolleranza, al riconoscimento del valore della tradizione, alla ricerca di valori sicuri nel passato... La risposta positiva dei giovani all'invito a prendere parte a momenti di riflessione e preghiera negli stadi o nelle grandi piazze delle città, la disponibilità a incontrare e intrattenersi con leaders carismatici adulti, la simpatia per il folklore e le tradizioni popolari locali, sono visti come altrettanti indicatori di «ritorno».
    Forse, in questa prospettiva, con troppa facilità si identificano i valori che gli adulti vivono nella festa con quelli che i giovani vivono. Ci si interroga poco sulle diversità e le opposizioni per sottolineare solo l'«abbraccio» tra giovani e adulti, tra giovani e autorità religiose. Si tace sulle motivazioni e i contenuti che i giovani portano nella festa.

    La diffidenza del credente

    C'è anche un terzo atteggiamento che lascia perplessi, quello del cristiano che guarda con diffidenza la tensione dei giovani alla festa e le sue concretizzazioni, perché non si fondano immediatamente sull'unico evento che garantisce ogni festa, Gesù Cristo.
    Questa diffidenza verso la festa dell'uomo si esprime da una parte nel giudizio moralistico su tutto ciò che è festa tra i giovani e dall'altra nel tentativo di «battezzare» ogni festa, aggiungendovi degli elementi specificamente religiosi.
    Ogni festa che non sia direttamente radicata nel Cristo viene giudicata futile, senza senso. In un certo senso questi credenti vorrebbero avere il monopolio della festa. Questa tendenza ha portato anche a spiritualizzare «la festa», cioè a ridurla ai suoi elementi celebrativi (messa, processione, preghiera...) trascurando gli altri elementi tipici della «festa popolare»
    Altro atteggiamento ambiguo è lo strumentalizzare la festa. Non è vista come evento che ha valore in sé ed è quindi carico di significati preziosi, ma come «occasione» in cui far passare contenuti che hanno poco a che fare con la festa: viene pedagogizzata, come un contenitore per sé inutile e senza senso, ma utile in quanto permette di compiere gesti di educazione alla fede.
    Così davanti alla festa dei giovani molti sono incerti, anche se vi scorgono spazi utili per ricucire l'aggregazione giovanile nella chiesa e per trasmettere messaggi che in altra forma non sarebbero graditi.

    INTERROGATIVI

    Di fronte al diffondersi della festa ci poniamo due serie di interrogativi. I primi li abbiamo già lasciati intravedere parlando di «sospetto» sulla festa: come interpretare il diffondersi della festa in genere tra i giovani ed in particolare nei gruppi e movimenti giovanili ecclesiali?
    Da dove nasce la festa? È un ritorno, magari folcloristico, al passato o è qualcosa di inedito? E perché proprio ora la festa, in questo contesto culturale, sociale, ecclesiale? Quale messaggio per tutti racchiude la festa dei giovani?
    Una seconda serie di interrogativi vengono invece a porsi sul versante educativo: posto che la festa sia un fenomeno importante per la attuale condizione giovanile, come educare ad essa? A quali condizioni la festa?
    Un ulteriore interrogativo per le feste in ambito ecclesiale: sono un momento in cui si esprime un generale bisogno di festa, oppure hanno una loro particolare specificità? In che rapporto stanno con la maturazione di una identità cristiana?

    PROSPETTIVE

    È ovvio che la festa non è cominciata con i giovani. Ed è probabile che molti adulti sappiano sulla festa più dei giovani perché l'hanno a lungo sperimentata. L adulto ha forse anche più motivi per fare festa. Eppure i giovani vivono in una situazione originale data, oltre che dal fatto di essere giovani, dal fatto di esserlo in questo momento storico. Qual è allora il «nuovo» che i giovani vivono nella festa? E in che modo questo si rapporta con l'esperienza di festa degli adulti e dell'uomo in generale? Un principio pedagogico, e prima ancora filosofico, sottolinea che per avere un quadro sensato di un evento non bisogna osservarlo troppo da vicino, ma «da lontano», perché solo così si evidenzia il disegno e si percepisce la prospettiva che lo anima. In effetti per capire la festa dei giovani non è sufficiente vivere le loro feste. Occorre rivivere l'esperienza giovanile dentro un quadro culturale e religioso di grosso respiro. Solo così per conferma o per contrasto, per indebolimento di segnali o per il loro rafforzamento, la festa dei giovani manifesta la sua ricchezza e lascia intravedere i suoi rischi.
    In tre brevi riflessioni viene approfondita la lettura della festa dei giovani. Nella prima si descrive la festa dal punto di vista antropologico e i modelli di evoluzione che l'hanno caratterizzata lungo i secoli. La seconda tenta di mettere in luce gli elementi «nuovi» della festa dei giovani. La terza si chiede come evangelizzare la festa oggi, per coglierne tutta la ricchezza.

    2. La festa: descrizione e modelli

    Fino a che punto dare ragione ai vari sospetti sulla festa dei giovani?
    Per rispondere è necessario assumere un duplice atteggiamento critico. In primo luogo occorre mettere in discussione le categorie culturali e religiose di chi riflette sulla festa dei giovani, per non assumere atteggiamenti ideologici che mitizzano o demitizzano la festa per principio. Senza neppure degnare di uno sguardo quello che sta effettivamente succedendo e senza chiedersi sino a che punto è corretta la propria visione della vita.
    Il secondo atteggiamento critico riguarda invece il modo con cui i giovani vivono la tensione alla festa, la organizzano. La disponibilità al nuovo non è semplicismo acritico. La festa dei giovani è un quadro ricco di tonalità e sfumature ed il disegno a volte rischia di farsi indecifrabile. Come allora dare un giudizio sulla festa dei giovani?
    La festa dei giovani va in primo luogo misurata con l'esperienza della festa che ormai è patrimonio culturale e religioso. Esistono studi celebri sul senso della festa e sul modo concreto di viverla. Ecco il primo termine di confronto. Tuttavia non basta verificare se la festa dei giovani risponde ai «criteri» della festa in genere. Essa infatti è anche qualcosa di inedito rispetto al passato. Esprime, entro limiti da verificare, una nuova visione della vita.
    In effetti la festa dei giovani è una reazione a certe sfasature o ambiguità del modo di vivere fino a qualche anno fa, e anche una esplicitazione originale di alcune tensioni latenti da tempo nella società industriale e razionalista. Un processo alla festa dei giovani, o quanto meno una riflessione con indirizzo educativo, è possibile solo attivando un corretto circolo ermeneutico tra memoria culturale-religiosa e festa dei giovani.
    Per fare questo procediamo con un certo ordine. I primi due passi consistono nel proporre, sulla base degli studi antropologici, una descrizione di festa e nell'indicare grosso modo alcuni modelli di festa che hanno caratterizzato la sua evoluzione, nel tempo.

    COSA INTENDIAMO PER FESTA

    La festa è un avvenimento in cui è possibile rintracciare alcuni elementi costanti da un punto di vista antropologico e religioso.

    Il «sì alla vita»

    Un primo elemento è la centralità della vita e il volerla celebrare, cogliendone gli aspetti positivi e negativi, dentro un quadro globale di senso ultimo, e soprattutto accettandola con un atteggiamento di «sì alla vita» nonostante tutto.
    Della vita nella festa si parla con un linguaggio ben preciso, che non è quello scientifico-logico ma quello simbolico-evocativo: ci si interroga non su «come vivere» (a livello etico o politico), ma sulle «ragioni per vivere» ancorando la vita in profondità.
    «Ogni festa è un'affermazione, un sì alla vita, un giudizio favorevole sulla nostra esistenza e su quella del mondo intero. Quindi, per poter celebrare una festa, è necessario che la vita abbia un senso. Se l'esistenza si considera un assurdo, una mera frustrazione, celebrarla risulta impossibile. La festa non nasce nel vuoto, esprime un'abbondanza, che proviene dalla stima calorosa per l'abituale» (J. Mateos).
    Il dire sì alla vita si esprime secondo due modalità: si può dire sì alla vita a causa di qualche fatto o evento che per la sua positività spinge a fare festa; si può dire sì alla vita per affermarla «nonostante tutto», nonostante i tanti segni di morte. In tali momenti si afferma la vita e la gioia nonostante le realtà dell'insuccesso e della morte.
    Questo sì alla vita non è una convinzione filosofica o intellettuale dimostrabile: è una esperienza vitale. È una fede nella forza stessa della vita.
    Nella festa si assiste così ad una produzione di senso che distende le sue radici nel personale e nel collettivo, nel presente e nel passato, nel superficiale e nel profondo della vita, fino ad aprirsi, dal di dentro, ad un discorso di trascendenza. Non si formula necessariamente in termini teologici, ma a meno di non dichiararsi illusoria, questa fede finirà per appoggiarsi su un fondamento sovrapersonale, almeno implicito. Senza questa fede non c'è festa. Da un punto di vista più strettamente cristiano la festa esprime una solidarietà con il mondo che trova il suo fondamento nell'adesione al «molto buono» che Dio pronunciò sulla creazione e all'annuncio che Cristo ha vinto la morte per sempre.

    Luogo di memoria e di speranza

    La elaborazione di senso non è un'attività di chiusura sul presente, ma un modo preciso di «collocare» il presente tra passato e futuro. La festa oltre che un sì alla vita, è un sì alla storia nel suo complesso (senza per questo cadere in visioni storiciste). La festa e la celebrazione al suo interno sono luogo privilegiato del «fare memoria».
    La memoria non è un semplice riportare in superficie un ricordo: è il rivivere ciò che mantiene l'uomo nel suo essere. La festa rivela così la sua natura profonda di modo di conoscere e far esperienza del reale. Senza la «memoria» la vita rischia di ridursi a fogli sparsi di un calendario, a frasi slegate che non riescono a diventare discorso.
    Nel fare memoria i brani della vita vengono ricuciti insieme e sopra il testo vengono messi i titoli che danno senso alle pagine colme di parole. Facendo memoria si evidenziano le righe portanti del disegno della storia personale e collettiva.
    Il disegno della storia emerge dalla festa come «esperienza» globale, più che da una attività intellettuale, e trova il suo momento culminante nei momenti rituali. La memoria non include solo il riferimento al passato, ma anche al futuro: la festa è ampliamento della coscienza storica fino ad includervi il futuro e a reinterpretare il presente a partire dal futuro. La festa esalta così la speranza, il desiderio, L'attesa di giustizia universale, i tempi dell'abbondanza e pienezza definitiva.

    La comunità: riferimento alla tradizione e contatto immediato

    Il riferimento al passato non è solo per ricercarvi un evento che fondi in modo definitivo un senso per la vita. È anche riferimento alla «tradizione culturale» in cui la festa è maturata. La festa è sempre ritorno alle origini, alle caratteristiche peculiari di un popolo, di una nazione, di una regione, di un paese. Attraverso i canti e i balli attraverso i gesti e i ritmi che spesso arrivano da tempi lontani, ci si sente parte di una collettività, di un popolo. Si afferra in modo globale di essere parte di una vita più grande entro cui hanno vissuto molte generazioni. Ci si sente realtà viva, si esprime la solidarietà, si esaltano i tratti in comune con i presenti piuttosto che le differenze.
    Altro elemento caratteristico è allora l'esperienza di comunità. La festa non è mai un evento del singolo e neppure del piccolo gruppo, ma di una unità culturale e religiosa di ampio respiro. C'è un riconoscersi popolo e nazione. Ci si rende conto che la comunità è una realtà data non dalla somma delle parti, ma un «noi» di ordine superiore ai singoli «io».
    Alla consapevolezza di vivere una identica patria culturale e religiosa va aggiunta l'esperienza immediata di contatto con gli altri. Nella festa si superano le divisioni, le fratture generazionali e sociali. Si è maggiormente disponibili non a dimenticare, ma ad andare oltre le diversità. I rapporti primari si fanno più intensi, quasi tendono a occupare gran parte della festa. Si tocca con mano la compagnia degli altri, la gratificazione, la solidarietà, che aiutano ad affrontare le difficoltà del presente e la paura del futuro.

    I gesti simbolici

    Altro aspetto tipico della festa sono i gesti simbolici, primi fra tutti i grandi riti religiosi.
    I gesti simbolici rappresentano nell'economia della festa un momento originale di comprensione del senso della vita. Nel rito, nella celebrazione e negli altri momenti simbolici si accede al senso della vita con una attività complessa, in cui entra tutta la persona, e che va oltre la comprensione che si ha attraverso il pensiero e la riflessione pura.

    La celebrazione rituale

    Al centro di tutti i simboli che costellano la festa sta la celebrazione rituale.
    In essa la comunità si separa dal quotidiano per farne «memoria» alla luce dei grandi miti religiosi che permettono di coglierlo come luogo di manifestazione del trascendente. Nella celebrazione la vita viene compresa utilizzando le categorie fondanti la storia di un popolo. Così, per i cristiani, la vita viene compresa dentro il grande evento di incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù il Cristo.
    Tuttavia nella celebrazione non c'è solo un comprendere. C'è soprattutto un fare festa: ci si lascia prendere dall'entusiasmo perché «le cose stanno così», perché la vita, se interpretata a fondo ha, nonostante tutto, senso.

    Altri gesti simbolici

    La festa però non va ridotta alle sole celebrazioni in cui è in gioco l'orientamento esplicitamente religioso della vita. I riti sono il cuore della festa, ma attorno ad essi esistono altri elementi simbolici che pure esprimono significati decisivi per la vita. La festa include una lunga serie di «gesti alternativi», di rottura della monotonia del quotidiano e ne indicano la traiettoria ultima, L'apertura al trascendente.
    Vanno ricordate due caratteristiche di questi gesti: L'eccesso e il contrasto. Essi possono essere alternativi nella direzione dell'eccesso nel senso che «L'attività festiva è sfrenata. Si "strafà" sempre e si "strafà" di proposito. Si vive ad alto livello» (H. Cox). Oppure possono essere alternativi perché esprimono un contrasto rispetto alla vita di ogni giorno. «La qualità festiva di una vacanza dipende dal fatto che è eccezionale» (J. Pieper).
    Si possono citare qui tutti i gesti che creano nuovi ed inusuali rapporti tra le persone, esaltano la spontaneità e la libertà, sono occasione di esuberanza, di sperpero. L'esuberanza durante la festa «ha la sua radice nel sentimento di libertà e di ricchezza. Affermando la vita, L'uomo sa che la sua atmosfera è la spontaneità, non la soggezione, L'abbondanza, non la scarsità. Oppresso nelle faccende quotidiane da infinite restrizioni, norme, convenzioni sociali ed etichette, recupera nella festa la sua spontaneità... A causa di diverse paure, non si osa di solito sfidare il fardello di tante stupide norme, né la freddezza dell'anonimato urbano. Nella festa, con l'appoggio e la complicità degli altri si incomincia ad essere se stessi, a dar prova della propria capacità; si lascia cadere la maschera imposta e a volte si adotta anche qualche trucco che faccia risaltare meglio, il proprio vero volto... L'esuberanza è manifestazione di ricchezza, non principalmente o necessariamente di denaro, bensì di spirito: è effusione, abbondanza, pienezza...» (H. Cox).

    L'atteggiamento contemplativo

    Un quarto elemento della festa è l'atteggiamento contemplativo. La festa è un insieme variegato e confuso di messaggi che possono alla fine stordire chiunque. Si rischia di rimanere in superficie, di vivere la festa nei suoi elementi più epidermici.
    Ogni festa richiede quindi, per essere vissuta con «intensità n, un minimo di contemplazione, cioè di esercizio a passare dal superficiale al profondo. Contemplare è vivere i vari simboli della festa con la capacità di andare oltre la loro materialità per coglierne e gustarne il senso ultimo. Senza questa attività di «andare dentro» e «andare oltre» la festa è perduta.
    La contemplazione si esprime nella festa in due modi. Il primo è il riposo, il silenzio, i tempi di interiorizzazione lontano dalla massa, il gusto per la vita di famiglia, la preghiera personale. Nei momenti di calma il soggetto è invitato a smontare la festa per essere consapevole (è molto di più che essere coscienti, e coinvolge tutta la persona) e godere (è qualcosa di più che la gioia, perché implica il senso di pienezza di chi tocca con mano il senso ultimo delle cose) di quello che sta vivendo.
    La contemplazione non si esprime tuttavia solo nel riposo, nel silenzio, nella preghiera personale, ma in tutti i momenti della festa. È una attività «dentro la festa» di passaggio continuo dal superficiale al profondo attraverso una azione di svelamento del profondo. In tale direzione portano tutti i messaggi, gli incontri, i simboli. La contemplazione «dentro la festa» richiede una capacità particolare, quella di vivere dentro sapendo insieme «prendere le distanze», per essere capaci di guardare tutto in prospettiva. Se si è troppo vicini, in senso metaforico, non si percepiscono le dimensioni delle cose e delle persone.
    Nella contemplazione matura il clima della festa, cioè la decisione, presa attraverso uno «sguardo unificante» sulle cose, a dire «sì alla vita» e quindi ad abbandonarsi alla gioia, alla serenità, al gratuito, all'esaltazione. Solo nella contemplazione il clima della festa non degenera in consumismo o in scarica di sentimenti prima repressi ed ora incontrollati. Solo nella contemplazione il rischio che è la vita viene accettato e «sopportato» senza paura.
    La contemplazione esprime, ed in un certo senso garantisce, la qualità «religiosa» e «cristiana» della festa. Lo sguardo di insieme sulla festa e il contatto con la dimensione profonda delle cose introducono nella dimensione religiosa della festa, in quella dimensione cioè in cui i simboli si fanno invocazione e appello a Dio, e allo stesso tempo segno ed espressione del suo amore. Solo a questo punto Cristo è il Signore della vita e della festa.
    La contemplazione genera così una «fede n che non è conclusione logica di ragionamenti, come del resto ogni fede, ma è convinzione profonda che la vita, con le sue sequenze di gioia, salute e libertà, può più della disgregazione e della morte. La festa non è immaginazione semplicista: si appoggia su esperienze parziali ed intime, ma reali: appartiene al terreno della speranza.
    Nel suo insieme la festa è un grande «simbolo», cioè un evento concreto che indica una realtà ancora più grande e sublime che in certo modo la contiene: L'anelito umano ad una felicità senza limitazioni.

    L'EVOLUZIONE DEI MODELLI DI FESTA

    In che rapporto stanno le attuali feste dei giovani con le feste del passato, in particolare con le tradizionali feste cristiane?
    Per dare una risposta occorre delineare il quadro di evoluzione della festa lungo i secoli. In effetti sembra possibile ritagliare alcuni modelli e tentare un confronto con la situazione attuale.
    Nel tracciare questo quadro si tiene conto solo di due criteri, lasciandone evidentemente altri da parte: il passaggio dalla festa paesana della società pre-urbana alla festa nella società urbana e industriale; la separazione progressiva tra festa cristiana e la «festa dell'uomo».

    La festa paesana

    Nella società tradizionale, pre-urbana e sacralizzata, i ritmi della vita sono strutturati sulla base di tre elementi: la natura, la religione, la vita della comunità locale. La natura per prima impone i suoi ritmi: i tempi della semina e del raccolto, della potatura e della vendemmia, del sole e della pioggia, del giorno e della notte. Rispettoso dei tempi della natura, L'uomo pre-urbanizzato lo è anche dei ritmi della sua «natura», nel senso che adegua i suoi ritmi personali a quelli sociali e culturali in cui è immerso.
    Il secondo elemento che segna i ritmi di vita nella società pre-urbana è la religione con i suoi riti e le sue feste, che da una parte seguono da vicino i ritmi della natura e dall'altra sono collegati alla esistenza della comunità locale. Il tempo è segnato dalle feste: non da una cifra, ma dalla festa di un santo.
    La festa è infine il luogo della affermazione dell'unità culturale che lega insieme i membri della piccola comunità. Sono tempi forti di incontro e si tengono al centro del paese, nella piazza.
    Man mano che la secolarizzazione e la urbanizzazione prendono piede, il ritmo della vita e di conseguenza delle feste, prende un altro corso. I tre fattori che fondano i ritmi di vita perdono la loro importanza. L'uomo ha contatti meno diretti con la natura, organizza la sua esistenza a prescindere dal fenomeno religioso, non si sente più partecipe di una comunità definita.

    La festa nel mondo urbanizzato e secolarizzato

    Quali sono invece i ritmi di vita in una società urbanizzata, e in base a quali criteri vengono definiti? I criteri possono essere ricondotti a tre «opposizioni» tempo di non lavoro/tempo di lavoro, consumo/produzione, vita privata/vita pubblica.
    Nella società tradizionale il tempo era segnato dal lavoro, anche la festa, che spesso non era che evocazione del lavoro (la festa del raccolto, la festa di Pasqua-primavera...). Nella società industriale invece tempo di lavoro e tempo di non lavoro si oppongono rigidamente, come si vede nelle coppie settimana/weekend, vacanze/resto dell'anno.
    Nel tempo di non-lavoro la tendenza, contrariamente al modello precedente, è di raccogliersi lontano dai posti della vita quotidiana. Chi può si rifugia al paese, via dalla città. La fuga non è solo spaziale, ma concerne il rapporto tra le persone; non c'è la ricerca della collettività, ma il raggrupparsi per affinità sociali e culturali. Più che superare le diversità, qui vengono accentuate.
    Mentre dunque nella società pre-urbana le feste portavano i soggetti al cuore della vita quotidiana, raccogliendoli al centro del paese, esaltando l'attività di ogni giorno, trascendendo lo sforzo di produzione nel ricordo dell'identità e dei legami che li univano malgrado le differenze sociali, oggi le feste-vacanza diventano luogo di oblio, di negazione del quotidiano, di liberazione da tutte le regole e costrizioni sociali.
    Il secondo ritmo che regola il tempo e istituisce le feste è il ritmo consumo/produzione.
    Non è che manchino le feste, anzi sussistono pure quelle tradizionali, ma la civiltà dei consumi le ha trasformate. Da feste pubbliche sono diventate essenzialmente occasione di incontri familiari e amicali. Da feste in cui l'esuberanza e l'abbondanza avevano un significato simbolico, a feste in cui il consumo è indotto dai mass media e ha fine in se stesso. Mentre poi nelle feste tradizionali, senza negare le gerarchie, gli uomini si riunivano al di là delle loro differenze sociali, oggi tutto serve per far accrescere le differenze.
    Il terzo criterio di organizzazione del tempo è il ritmo vita privata/vita pubblica. Nel mondo pre-urbano la vita privata e a ridotta al minimo: tutto in qualche modo apparteneva al gruppo sociale e religioso. Oggi invece si moltiplicano le appartenenze ai gruppi più diversi fino a che il soggetto non e più membro di una comunità. Le feste messe in piedi da questi piccoli gruppi sono sempre un «affare privato», autonomo rispetto al ritmo sociale complessivo e senza che venga messa in gioco l'identità personale dei partecipanti. Il tempo della festa diventa fuga dalla vita pubblica e rifugio nel privato familiare e di piccolo gruppo. Prevale la logica delle differenze e non quella della «comunità e «identità» comune.
    La festa tradizionale era un «convivere» che nasceva da un «concredere». Oggi si tende a convivere la festa, senza porsi alcuna domanda sul concredere: «non si crede o si crede poco insieme, ma si vive abbastanza insieme, cioè si cerca di più una maniera di vivere insieme sentimenti ed esperienze comuni» (S. Acquaviva).

    La festa dopo l'ideologia dell'impegno

    Che significa a questo punto l'esplosione del momento ludico e festoso tra i giovani, ma non solo tra loro?
    Prima di rispondere occorre aggiungere altri elementi relativi prima alla festa negli anni della contestazione giovanile e poi alla festa nell'attuale crisi della società dei consumi.
    Incominciamo con una domanda: il '68 ha conosciuto la festa? Forse no. Il' 68 ha conosciuto piuttosto la manifestazione, il corteo e la lotta. La festa è tuttavia presente a due titoli: come momento di riposo o come momento di celebrazione di un obiettivo raggiunto. La festa è un momento di relax, a cui non si attribuisce troppa importanza. È un intervallo nella fatica dell'impegno. Il gruppo conduce invece una vita seria, senza cedimenti al consumismo (la festa è spesso vista come fenomeno di consumismo contro cui lottare). Non c'è tempo da perdere. Il gioco, la festa, L'amore vengono subordinati alla attività, alla discussione, all'impegno. La moralità è nella direzione dell'impegno, non certo del gioco e della festa. Al massimo la festa può essere «festa nella lotta» o meglio «dopo» la lotta, o punto di arrivo utopistico (la festa di Marx), o anche i «cieli nuovi e terra nuova» dei gruppi ecclesiali militanti.

    Dopo la festa della civiltà dei consumi

    L'esplosione della festa e del gioco non è tuttavia da confondere semplicemente con il clima festaiolo della civiltà dei consumi. La soggettivizzazione dei ritmi di vita, frutto della secolarizzazione e della civiltà dei consumi, non sembra avere avuto sbocchi positivi per i problemi di senso che l'uomo si porta dentro, e, se si vuole, per la festa che della ricerca di senso è sempre stata, anche semplicemente dal punto di vista antropologico, momento privilegiato.
    Nella festa tradizionale, attraverso le ritualizzazioni (dalla messa al ballo, dal pasto in famiglia alla processione e al ritrovarsi tutti in uno stesso luogo) si aveva «una produzione collettiva di senso esplicitata da parte di una comunità organizzata, capace di trasmettere in quel momento dei precisi valori culturali, all'interno di un sistema culturale a cui i partecipanti alla festa appartengono» (S. Acquaviva).
    Se l'avvento della secolarizzazione aveva compromesso il riferimento esplicitamente religioso della festa, la civiltà dei consumi ha spostato l'asse della festa da un modello in cui spazi, tempi, oggetti, situazioni interpersonali erano vissute come simbolo rituale della vita, ad un modello di festa in cui spazi, tempi, oggetti e situazioni vengono consumati per se stessi. Non c'è più «partecipazione» alla vita attraverso le cose utilizzate in modo rituale. Mentre la festa rituale implica un partecipare attivo, la festa dei consumi produce un passivo vedere: si assiste, si è spettatori di un messaggio già confezionato che non si può che vedere o usare secondo certe norme insite nel messaggio stesso.
    «Alla produzione collettiva di significati si sostituisce il consumo individuale ma indifferenziato di dati prodotti altrove, cosicché il modello di realtà a cui si tende è quello sapientemente dosato presentatoci dai massmedia» (S. Acquaviva).
    Possiamo dire che la festa della civiltà dei consumi comincia a essere contestata? In un certo senso sì, anche spesso proprio i giovani ne rimangono prigionieri. Più che altro rimane in molti un senso di insicurezza legato ad una maniera diversa di vivere la vita, insieme alla incapacità di darle significato: i significati ultimi della esistenza, come quello della morte, sono vissuti in maniera problematica e praticamente senza riuscire a darle una risposta. Non si vuole ad ogni modo affermare che la festa della civiltà dei consumi sia solo alienazione. Non è da pensare invece che dentro ogni spazio di festa anche se alienato, ci sia una «nostalgia» di festa più autentica? Come non pensare che il ballo o la musica allo stadio (che non si sottrae evidentemente alle leggi del consumismo) non ripropongano domande di senso anche se troppo spesso soffocate o troppo presto abortite?

    3. Il «nuovo» nelle feste dei giovani: valori positivi e rischi

    Non è facile separare nella festa i valori dai disvalori, il bene dal male, perché è il fenomeno come viene vissuto dai giovani ad essere complesso. Spesso i cosiddetti disvalori non sono altro che valori impazziti o esasperati.
    Parliamo pertanto di valori ricordando di volta in volta i rischi di atteggiamenti unilaterali, e di difesa ad oltranza di un valore preso da solo e non autenticato dal quadro complessivo dei significati in cui si esprime.

    Un modo nuovo di fare esperienza del reale

    La festa giovanile è anzitutto espressione di un modo nuovo di conoscere il reale. La crisi della conoscenza razionale (sia di tipo scientifico che di tipo ideologico) e del linguaggio che la veicola, si fa oggi sempre più evidente. Per troppo tempo, in base a questo modello di conoscenza, si è considerato «fantasia» tutto ciò che non stava nel linguaggio, non era cioè concepibile linguisticamente. «Ciò che è indicibile, semplicemente non è». Questo è stato lo slogan per una certa razionalità. Tutto ciò che esula dal concettuale e quindi dalla discorsività linguistica, è privo di qualsiasi valore conoscitivo, non corrisponde a realtà alcuna.
    A questo modo di conoscere sta opponendosi oggi una «nuova» forma di conoscenza che alcuni chiamano «conoscenza a rizoma n, quasi un «gambo sotterraneo che è diverso sia dalla radice, simbolo dell'origine e del fondamento e quindi della conoscenza metafisica, sia, dall'albero, simbolo della produttività e quindi della conoscenza razionale e tecnologica.
    La conoscenza a rizoma è conoscenza simbolico-evocativa, in quanto tende a cogliere nelle cose e nella loro esperienza un «di più» di significato che non è immediato, ma in profondità. La conoscenza a rizoma è allora una conoscenza che prova a «dire oltre». È la conoscenza che si ha nel canto, nella poesia, nell'espressione gestuale, nello stesso silenzio.
    Tra i segni di questa conoscenza nuova si può inscrivere anche la riscoperta della festa. Nella festa infatti si vivono significati che spesso sono indicibili, non si possono facilmente dire ma parlano all'uomo nella loro evidenza. Nella festa i significati si «mostrano» all'uomo. Si tratta di una conoscenza per evidenza che immette nel mondo dei simboli, del senso ultimo delle cose. In tal modo si procede per una forma di conoscenza più globale che è tutt'altro che irrazionale, perché non rifiuta la ragione ma la utilizza per decifrare quel che si è vissuto fino al limite in cui le parole non sono più sufficienti.
    È facile vedere a quali rischi corre incontro una esaltazione della festa che non contemperi il vissuto indicibile con il discorso razionale, con l'esprimere la ragionevolezza dell'esperienza. Non è nel ripopolare la festa di «dei» più o meno mitologici o di esperienze misticheggianti che i giovani possono maturare una identità umana e religiosa.
    D'altra parte non è meno distruttiva una eccessiva razionalizzazione della esperienza di festa. La festa non è riducibile a concetti, informazioni astratte, discorsività razionale. È anzitutto una esperienza, un vissuto che per la sua ricchezza (e non per la sua ambiguità) trasborda «oltre» il razionale. Occorre in fondo prendere in esame, più di quanto non lo si faccia normalmente, tutto lo spessore teorico e comunicativo al tempo stesso del linguaggio simbolico».

    La centralità dei problemi di senso

    Nella festa i giovani sembrano in effetti esprimere una originale ricerca di senso, legata meno alle tradizionali domande esistenziali sulla libertà, o sulla felicità o sulla verità, o sulla giustizia nel mondo, e più alle domande che il quotidiano solleva e al «desiderio» che avvolge tutta la vita. Che senso ha lo scorrere della vita e che senso ha il desiderio? Che senso ha la nostalgia di autenticità ed il bisogno crescente di intimità personale, di amore gratuito, di sentimento e di emozioni?
    Le domande di senso non sono a sé stanti, ma traspaiono dentro la vita quotidiana come dimensione profonda delle cose che si vivono giorno dopo giorno.
    La ricerca di senso è sempre più legata alla ricerca di certezze per la vita quotidiana. Dopo anni caratterizzati dalla frenesia, dai momenti di rottura, dai movimenti di avanguardia, oggi si ricerca la stabilità, un quadro di certezze con cui vivere. «Al posto della esplosione di libertà di rivolta e di entusiasmo, al posto della ricerca del nuovo e del rischio, c'è oggi un bisogno di regole, di certezze quotidiane» (F. Alberoni).
    Per alcuni questo bisogno si sta trasformando in preoccupazioni utilitaristiche che scacciano ogni idealità, ogni tensione. La ricerca di certezze non è tuttavia una chiusura nello squallido e schizofrenico quotidiano. Se è vero che spesso si passa dall'entusiasmo allo scetticismo, dal fanatismo alla indifferenza, dalla protesta alla connivenza, è anche vero che il nostro vivere quotidiano è alimentato dal ricordo e dalla speranza dello straordinario, della utopia.

    La presenza della morte

    Nella festa i giovani cercano di riscoprire certezze per la vita e per la morte, per la gioia e la sofferenza, per lo stare insieme e per la solitudine. È un modo attraverso cui tentare di ritmare il quotidiano, di scrivere una biografia accettabile della loro vita.
    L'attuale crisi culturale (sia quella borghese del progresso, sia quella marxista della rivoluzione, che addormentavano, entro certi limiti, le tematiche sul senso della vita) ripropone un tema obbligato in ogni festa: la morte.
    Il mito del progresso e il mito della rivoluzione avevano finito per emarginare la morte. Il loro crollo, o almeno la loro relativizzazione, la ripropone con intensità. C'è in fondo una reazione alla scomparsa della morte dalla scena sociale e culturale. L'uomo sente di essere nuovamente indifeso e povero davanti ad un fenomeno personale e collettivo drammatico come la morte.
    La riscoperta della festa come celebrazione della vita, è un tentativo di assumere, senza sfuggire, L'esperienza della morte e di trovare un «sì alla vita» talmente radicale (come rischio e come fede) da integrare, per quel che è possibile, la stessa morte. Come non collegare il ritorno del carnevale tra i giovani ad un modo per fare i conti, esorcizzandola, con la morte che del carnevale è sempre stata regina?

    La celebrazione del frammento esistenziale

    La festa segna il passaggio nei giovani dall'utilizzo di categorie di tipo politico a categorie esistenziali nell'interpretare la vita.
    Una interpretazione con categorie politiche mette in luce l'aspetto storico e strutturale della vita: i fatti si dispongono lungo un continuum con un primo ed un dopo, e sono collegati tra loro da rapporti di potere e dipendenza.
    La festa, in questa visione, è sempre una memoria del faticoso (e vittorioso) divenire della storia in cui si colgono soprattutto gli aspetti strutturali e comunitari. La festa celebra in questo caso l'utopia della storia, senza per questo nasconderne la meschinità.
    La festa dei giovani non sembra tuttavia una celebrazione della storia nella sua complessità, vastità e durata. È forse invece la celebrazione dell'istante, del frammento esistenziale che la festa è in se stessa, senza preoccupazione di collegamento con un qualche quadro storico personale, collettiva, religioso. Come risposta al bisogno di «vivere bene», qui-ora, la festa sfrutta l'attimo, L'emozione, L'euforia, lo stare insieme come modo per riappropriarsi della vita.

    Contro la «cattiva qualità della vita»

    Quel che fa problema non è in ogni caso il passaggio da una visione «storicistica» della vita ad una visione simbolico-esistenziale, quanto piuttosto il fatto che il problema del senso nasce per molti unicamente come bisogno di risarcimento esistenziale. La festa diventa a questo punto una specie di cattedrale nel deserto della vita. Se il quotidiano è un assurdo, può la festa farsi momento di «sì alla vita n come è nel suo statuto originale?
    C'è da chiedersi però se in questa festa che, almeno a prima vista, è per alcuni una «celebrazione della crisi n se non della disperazione, non si ritrovino anche certi filoni di energia vitale (e di fede) che permettano di «accogliere» la vita nonostante tutto.
    Il bisogno di festa e di momenti ludici si radica nella esperienza di cattiva qualità della vita. L'istanza di un modo di vivere diverso si impone come bisogno radicale; la festa sembra accoglierla riproponendo il tema dei «fini», del modello di vita. In quale direzione rintracciare i fini: nella direzione della attività e dell'impegno o nella direzione dello stare insieme e della festa?
    Ma la festa pone in discussione, oltre che i fini, anche la strategia di intervento nella realtà. Viene messa in questione l'ideologia del cambio politico rivoluzionario nella convinzione, più o meno tematizzata, che esistono nella persona bisogni e desideri profondi ed ineludibili, i quali non sono totalmente riconducibili e non trovano risposta in termini puramente economici e politici.
    Non necessariamente il rifiuto del ruolo totalizzante del politico è «riflusso dal politico». Si intravede piuttosto l'emergere dell'esistenza di un senso della vita che è al di là o prima del politico. È forse in questa prospettiva che si nota un cambio di strategia, una ricerca di nuove vie per affrontare i problemi della persona, un consolidarsi di tematiche come i valori, la cultura, la religiosità. L'attenzione si volge ai preliminari indispensabili e ai fondamenti irrinunciabili per una qualsiasi ipotesi di cambiamento ad ogni livello dell'esistenza.
    È in questa scelta di fondo che sembra decisivo collocare il bisogno del gioco e della festa, come bisogno di riscoprire la vita nella sua interezza e nella sua ricchezza inesauribile.

    La festa come valore in sé e utopia

    Quale allora il messaggio di fondo? Contro una società razionale e tecnologica e contro il mito della totalizzazione della politica si propone la festa come momento di vita di primaria importanza. La festa si fa fine a se stessa, valore da coltivare nella sua immediatezza. Non è più un mezzo a servizio del cambio politico e della reintegrazione delle forze per tornare al lavoro; non è premio né riposo del guerriero, né intervallo nella lotta. La festa va accolta e vissuta proprio in quanto festa con i suoi fini e con le sue strategie esistenziali. Al limite la festa non deve avere uno scopo, ma un senso legato alla riscoperta della vita.
    I giovani sono consapevoli che la festa non è il tutto della vita: c'è il lavoro, lo studio, L'attività sociale e personale. Sembrano consapevoli però che il quotidiano ha bisogno di momenti di festa in cui celebrare l'esperienza che l'utopia è realizzabile. Nella festa si celebra una possibilità ed un dover essere. Essa è l'utopia del «mondo nuovo» vissuta, almeno per un attimo, in modo sperimentale. Ed è nostalgia di ciò che (forse) non potrà mai esserci, ma che va desiderato con forza per poter essere uomini.
    Invece di proiettare l'utopia e il godimento in un regno lontano, o in un futuro, i giovani la vogliono qui-ora, immediatamente. La festa è uno di questi momenti, anzi un momento privilegiato. Si potrebbe applicare alla festa oggi la frase di Schiller a proposito del gioco: «L'uomo è uomo solo quando gioca». La festa sembra sostenuta da un profondo «sì alla vita», proprio mentre non ci si nasconde - oggi meno di ieri - la complessità (e a volte l'assurdità) del quotidiano. Si celebra ciò che «già è», ma soprattutto si alimenta il desiderio di ciò che deve essere: la comunità, il mondo nuovo, la pace, L'accoglienza e la gratuità interpersonale, il riposo dal lavoro... Non ci si inganna sul presente, anzi lo si coglie nella sua povertà e lo si contesta proprio nel vivere la festa. E si ritrovano in essa nuove energie per un cambio politico, strutturale e prima ancora si trovano motivazioni e fini per un cambio.

    Vita è stare insieme e comunicare con gli altri

    La festa fa emergere il rapporto con le persone sul rapporto con le cose. Supera in effetti, al di là delle apparenze, il consumismo, anche se la festa richiede un consumo di cose superiore all'ordinario. Quel che conta è stare insieme perché la vita è tale quando si riesce a stare gratuitamente insieme tra persone. Sia nel piccolo gruppo che fa festa in un appartamento, che nelle grandi cavalcate musicali allo stadio il desiderio è incontrarsi, parlarsi, comunicare.
    Dire festa significa per i giovani dire tolleranza, accoglienza, gratuità, ascolto. La comunicazione diventa un fatto globale: tende ad aprirsi a tutti e tende a coinvolgere tutta la persona. Non solo è un fatto verbale. È una esperienza che crea nuova solidarietà e nuove possibilità di rapporti per il futuro. Dà inizio ad un nuovo stile di vita interpersonale.
    Le feste dei giovani, senza tornare a modelli di festa paesana, tendono a rompere lo schema privatistico della festa instaurato con la società dei consumi. Si esce nuovamente dal piccolo gruppo, dal proprio nido e ambiente per ritrovarsi in spazi comuni, di grande respiro, in cui è possibile sentire che si è in «molti» senza per questo diventare massa.
    Ogni festa è, in modo a volte indecifrabile - occorre riconoscerlo -, celebrazione della utopia della comunità e dello stare insieme. È celebrazione dell'unità necessaria ma impossibile, vista come fine ultimo e mai come mezzo. Lo stare insieme diventa più importante del fare insieme. La vita ritrova così un fine per cui vivere, un fine da raggiungere per una nuova qualità di vita.
    Non mancano le perplessità di fronte a questa dilatazione della sfera emotiva nella vita dei giovani che trova nella festa un intenso momento espressivo.
    Che senso ha, in primo luogo, la festa in cui tutti ci si «abbraccia n e si proclama di voler stare insieme? Non sarebbe meglio ricordare anche in quei momenti le differenze: tra morale dei giovani e morale degli adulti, tra conservatori e innovatori, tra ideologie di destra e ideologie di sinistra? Che significato ha questo dimenticare le differenze? Non è qualunquismo?
    La festa non nega le differenze, le opposizioni, la conflittualità. Le assume e le conduce, attraverso un salto qualitativo, ad uno spazio esistenziale in cui le differenze più che dimenticate vengono elaborate in un ordine superiore di valori e di rapporti tra le persone. Il valore della persona e del rapporto interpersonale prevale sulla dimensione età, posizione sociale, ideologia, morale, religione. Si vive in un'esperienza di comunione radicale che è profezia non contro il pluralismo, ma contro la divisione, la sopraffazione, la violenza reciproca. Non viene negata la diversità ed il pluralismo, anzi lo si esalta perché consolida il valore della persona, il rispetto dei gruppi, delle culture locali, dei ruoli sociali e culturali.
    In questa impostazione vi sono ad ogni modo alcuni rischi.
    Viviamo in un tempo di disgregazione culturale, sociale e religiosa in cui il bisogno di identità si fa primario, e in cui, di conseguenza, si sviluppa una pressione nella direzione della integrazione sociale. Pur di vivere si corre il rischio di cercare la sicurezza a qualsiasi prezzo. Si tace allora sulla diversità a favore di una presunta identità comune che rassicura, ma che in realtà fomenta l'angoscia. Siamo al rifiuto di pensare, alla incapacità di sopportare la conflittualità, alla falsa tolleranza in ambito sociale ed ecclesiale.
    Un secondo pericolo è dato dallo stile con cui si vive la festa. È possibile in effetti viverla ancora nella logica del possesso e della appropriazione dell'altro. La sete di rapporti interpersonali può portare a forme di isolamento e di anonimato.
    L'isolamento nasce non tanto dalla non-comunicazione, quanto piuttosto dalla comunicazione superficiale, interessata, strumentale. In tal senso non è l'aumento quantitativo dei rapporti primari a garantire la festa, quanto la possibilità di rapporti qualitativi nella consapevolezza di essere «vissuti dalla Vita».
    Il rischio, soprattutto a livello ecclesiale, può essere accentuato da un certo efficientismo che ripropone nella festa la priorità del «fare insieme» (discutere, riflettere, pregare) a scapito dello «stare insieme». Il vero «contenuto» non sono in effetti anzitutto i «contenuti», ma il vissuto della festa nella sua immediatezza.
    Si può uscire, da questo rischio, solo se un valore è ricercato da tutti e su tutto: la vita nella sua immediatezza come mistero e come dono, presente in se stessi e negli altri.
    Un ultimo rischio dal punto di vista della comunicazione nella festa, è la dipendenza possibile da leaders (cantanti, «profeti», uomini di cultura) che creano una corrente di comunicazione verticale non sufficientemente controbilanciata da una corrente orizzontale, o anche da slogans ideologizzati che finiscono col ricacciare nel buio il vissuto concreto con le sue domande senza invece attivare un serio e ragionato confronto tra «contenuti» ed esperienza.

    Dopo la morte della ideologia

    La festa dei giovani sottolinea oggi anche la cosiddetta morte della ideologia, cioè la crisi di interpretazioni totalizzanti (della politica, come della vita personale) e di ogni visione «storicistica» dell'uomo.
    La festa da celebrazione da una qualsiasi ideologia della storia, sembra diventata celebrazione immediata della vita. Dalla festa in cui la priorità era data ai contenuti ideologici ed al loro consolidamento mediante l'essere festosamente insieme (senza però dare credito alla vita/storia nella sua complessità), sembra si stia passando ad una festa che lascia emergere la vita in quanto tale prima di volerla inquadrare, inscatolare.
    Persino le feste di partito, quelle potenzialmente più ideologiche, stanno cambiando volto, e non solo perché l'odore delle salsicce riempie i tendoni in cui si parla di politica. La priorità è data anche qui al «convivere» prima che al «concredere» Lo dimostra la forte mobilità, giovanile e non, nella partecipazione a queste feste da chiunque siano organizzate.
    Fine della ideologia non vuole dire tuttavia morte dell'uomo: piuttosto significa «fede» nella vita in tutte le sue espressioni, in tutte le sue potenzialità, riconoscimento del «rischio n che è la vita e scommessa sul futuro dell'uomo. Crisi della ideologia e rinascita della fede, nonostante tutto, nel fluire della vita e, in fondo, nella vivibilità della vita nel nome del mistero e dell'appello al trascendente contenuto nell'essere stesso dell'uomo.
    La festa viene così vissuta come apertura a nuove sintesi culturali, come esigenza di uscire dalle secche dei vecchi schemi superati ormai dalla complessità del reale per giungere ad una «nuova coscienza» esistenziale. Esprime così una rivoluzione culturale e la consolida attraverso un contatto più immediato con le persone e con le cose.
    Quali le ambiguità e i rischi?
    La morte della ideologia rischia per alcuni di diventare celebrazione della assurdità e incomprensibilità della vita, del rifiuto di ogni tentativo di capire la realtà nella sua ricchezza e complessità. Ogni tentativo di riflettere viene etichettato come ideologico. Si è, come si vede, all'ideologia dell'anti-ideologia. Non è forse vero che per alcuni la festa è celebrazione della disperazione, di atteggiamenti nichilisti che possono esprimersi sul tono di «godiamoci quel poco che abbiamo» o «a che pro agitarsi e riflettere?». È la logica distruttiva di chi si buca e di chi arriva puntualmente depresso alla sera della festa.
    Un secondo rischio è la perdita della memoria culturale: il rifiuto della ideologia può diventare rifiuto della storia dell'uomo, dei modelli di vita sociale, delle istituzioni e del loro peso storico, di tutto ciò che il passato lontano e vicino ha elaborato. L'esaltazione dell'attimo, del frammento, viene così a porsi come disprezzo della cultura in cui si vive. L'esito è l'imbarbarimento delle nuove generazioni.
    Un altro rischio, in continuità con il precedente, è il disinteresse per le mediazioni culturali per esaltare il ritorno al vangelo allo stato puro. Si fa rifiuto di ogni teologia, di ogni tentativo di integrare esperienza biblica con esperienza dell'uomo attraverso la riflessione scientifica della teologia.
    L'atteggiamento radicale di alcune frange giovanili in effetti non fa che sostenere a tal punto l'esperienza mistica del cristiano nell'emozione della preghiera, da misconoscere l'intelligenza e il senso di responsabilità di tanti uomini che hanno cercato di vivere la fede dentro la cultura contemporanea.

    I sentimenti e le emozioni come valore

    Un tratto particolare delle feste dei giovani è l'attenzione a fenomeni come il sentimento, L'emozione, L'esaltazione personale collettiva.
    Contro il moralismo tradizionale (la vita come dovere e sacrificio) e contro il moralismo serioso del '68 (la vita come compito e impegno assoluto), con la festa oggi si afferma la centralità nella vita di emozioni e sentimenti, come momenti privilegiati di autorealizzazione. La crescita della persona non è solo frutto di azione, impegno, serietà, ma anche di gioia, allegria, passione, amicizia gratuita, senso festoso di solidarietà, gusto e fascino del bello. La festa, si osserva, è vissuta bene, se l'esperienza emotiva che permette è in sé positiva e soddisfacente. La festa, da questa angolatura di lettura, non ha bisogno di contenuti aggiunti dal di fuori. L'esperienza emotiva è il vero contenuto che arricchisce la persona e attua una autentica rivoluzione verso una nuova qualità di vita. Gioco, musica, danza e poesia, elementi caratteristici della festa, con tutti i sentimenti che veicolano, sono momenti che dilatano l'esistenza, aprono a nuovi orizzonti e creano una forte tensione al bello, al buono, al rinnovamento personale e collettivo. Le emozioni e i sentimenti hanno così, dal di dentro, una valenza politica: non perché rigenerano per «rientrare» nel solito quotidiano, ma perché stimolano ad un «nuovo modo» di rientrarvi. L'esperienza della festa interiorizza nuove motivazioni, chiarifica e consolida le scelte, può essere il primo passo verso una nuova pratica di vita.
    Non mancano i rischi che possono sfociare in uno scorretto equilibrio tra festa e quotidiano, fra festa ed impegno.
    Il primo rischio nasce dal contenuto delle emozioni. Possono esprimere la voglia di «giocare la vita» o la amarezza di «essere giocati dalla vita». In questo caso ci si abbandona passivamente ad una festa consolatoria e alienante. Dietro la festa non c'è niente, nessuna «intenzionalità profonda», nessun avvenire e speranza di cambio e di crescita. La festa trasporta fuori dalla storia ed esalta la soggettività fino al narcisismo e alla fuga trascendentale dal quotidiano per rifugiarsi nei paradisi della droga e del misticismo.
    Il secondo rischio nasce dal sovraccarico di tensione e frustrazione quotidiana con cui si arriva alla festa, che la trasforma in una «scarica emotiva», in svago in cui ricuperare le energie disperse, in divertimento e spettacolo in cui distrarsi, illudersi, svagarsi. Tutto viene vissuto ancora come «avere» ed accumulare, che consegna alla noia e alla nausea. Si è alla alienazione della festa dopo quella del lavoro, a cui dà una mano la società dei consumi.
    Un terzo rischio proviene dalla esasperazione delle emozioni che sottolineano il «principio del piacere» senza il contrappeso della razionalità. La festa esalta positivamente un modo nuovo di conoscere, un conoscere globale vissuto con tutto il corpo. Il rischio è di vivere di utopismo. Dalla esasperazione delle emozioni non controllate dalla razionalità non nasce l'impegno, ma l'impossibilità di fare, la disponibilità all'avventura, L'abbandono alla violenza depressiva.

    La valorizzazione dell'ambiente di vita

    Altro tratto delle nuove feste giovanili sembra essere la riscoperta dell'ambiente di vita quotidiano come spazio privilegiato in cui fare la festa.
    Sempre di più si cerca di vivacizzare con le feste i centri storici delle città, gli spazi di grande afflusso cittadino, le piazze dei paesi. Si tende invece ad evitare i luoghi chiusi, lontani dalla folla. Si vuole farsi vedere, coinvolgere la gente, innescare un procedimento a catena sul tema della gioia e dello stare insieme.
    Del resto la festa non si oppone alle tradizioni. Timidamente rispuntano i balli popolari, i costumi di un tempo, le sagre paesane. Al di là del gusto a volte eccessivo per queste tradizioni, come interpretare questi fatti se non in termini di ricerca di identità culturale? E come pensare la festa se non come riappropriazione della storia «locale», del proprio ambiente di vita, delle caratteristiche peculiari del proprio paese e quartiere?
    Anche le feste dei gruppi ecclesiali tendono a «farsi vedere». Dopo anni in cui ci si era rifugiati in spazi semiprivati, la festa tende a riempire le piazze e a recuperare certe dimensioni tipiche della religiosità popolare. Di frequente le stesse strutture pubbliche vengono richieste dai gruppi ecclesiali. Solo di rado nel fare questo prevale il tono della rivincita. In genere si è più «tranquilli» nel possesso della propria identità cristiana e si sente bisogno di testimoniare che la fede non è morta.
    Interessanti sono in queste direzioni le feste di quartiere. Basta pensare da un lato all'impegno di tanti gruppi giovanili per fare festa non negli spazi chiusi del centro giovanile ma in quelli pubblici dove tutti possono liberamente accedere. E basta pensare al tentativo frequente di coinvolgere tutta la gente del quartiere nelle feste. In qualche caso anche le processioni segnano il ritorno alla dimensione festiva, comunitaria, incarnata nell'ambiente.

    4. Una festa da evangelizzare

    Di fronte alla festa, ma anche all'angoscia e noia del nostro tempo, ci sono due modelli di comportamento per il cristiano.
    Una prima scelta è quella di ritirarsi pavidamente dentro lo spazio ristretto della festa cristiana e delle sue verità profonde, evitando di esporsi all'esterno, se non per compiere qualche sortita da cui ricavare la conferma che il mondo va male e non sa fare festa, oppure fa solo festa dimenticando la sofferenza che è nel mondo. Questo modo di fare è, in qualche modo, una resa della nostra fede di fronte al profano, quasi si avesse paura che la fede non possa illuminare il profano o quasi che la fede sia un fatto chiuso in sé.
    Della festa dell'uomo si ha paura, e la si relativizza, forse per paura di confondere un naturale ottimismo esistenziale con la fede nella Risurrezione del Cristo. Anche la pastorale giovanile ha paura a volte di percorrere itinerari educativi in cui si dia spazio alla festa, alla gioia, allo stare festosamente insieme. La stessa riflessione teologica non si sottrae a questo rischio del «negativo».
    «La teologia - scrive Metz - si è rivolta (almeno nelle zone europee) sempre più al dolore, all'infelicità, alla critica della superficialità della nostra infelice coscienza e delle banalità delle nostre depressioni più che alla felicità della gioia cristiana... Il lamento sulla infelicità è forse più facilmente sistematizzabile e pensabile (teologicamente) in modo più convincente? o la costante forza della cosiddetta «teologia negativa» è dovuta solo alla precauzione, esagerata, alla debolezza dei teologi, alla loro poca forza di affermazione? Non rimane forse la gioia figlia della mistica, di una mistica di tutti i giorni e perfino di quella mistica che in ultima analisi scaturisce, muta, da tale "teologia negativa"?».
    Questo richiamo a pensare cristianamente con categorie positive deve in qualche modo orientare l'atteggiamento pastorale verso la festa dei giovani.
    La seconda scelta è quella di abbandonare il «cuore della festa» alla ricerca di tutto ciò che nel profano può avere collegamenti sotterranei con questo cuore che è il Cristo risorto. Si tratta di proclamare la concordanza ovunque si trovi. Ciò che appare festa mondana o consumista non ci induce ad aggredire o a ritirarci paurosamente: è potenzialmente luogo di festa cristiana, luogo cioè in cui si incarna, anche se in modo inconsapevole, la festa che ha inizio nel Cristo.
    Questa seconda scelta è la scelta della evangelizzazione. Il cristiano, tutt'altro che pauroso davanti alla festa, sente che ha un compito preciso: evangelizzarla. Questo è l'unico e specifico servizio che può offrire. Come concretizzare questo impegno?
    Riprendendo la teologia dell'Evangelii Nuntiandi che parla di evangelizzazione come insieme di «testimonianza» e di «annuncio n, si può parlare di due compiti.
    Il primo compito è la testimonianza che può essere intesa come la partecipazione alla festa dei giovani per consolidare e purificare educativamente la loro tensione alla festa ed il loro modo di viverla. In un tempo in cui prevalgono i temi della angoscia e del disincanto, il cristiano propone la festa come segno di speranza per tutti. È consapevole che la festa lascia intravedere una ricerca profonda di una tavola di salvezza a cui aggrapparsi nel naufragio. È innegabile che nella crisi ci sia un bisogno diffuso di festa. La pastorale giovanile lo assume riconoscendovi un segno dei tempi. In ogni festa c'è una invocazione di senso che va accolta e liberata. Ogni festa ha in fondo una portata religiosa.
    Il secondo compito è l'annuncio. Non basta farsi compagni di viaggio dei giovani e prendere parte alle loro feste. Il cristiano sente impellente il bisogno di «dare ragione» della festa, annunciando e proclamando che Gesù è il Signore della vita e della festa e che quindi si può «cantare in terra straniera».

    Accoglienza, contestazione, superamento della festa dell'uomo

    L'evangelizzazione della festa è un movimento in tre tempi che si svolge lungo il tracciato di un ideale circolo ermeneutico tra esperienza giovanile di festa ed esperienza cristiana di festa. I tre tempi sono: accoglienza, contestazione-rivelazione, superamento.
    La festa cristiana assume anzitutto fino in fondo il bisogno emergente di festa tra i giovani e lo accoglie come spazio, pur ambivalente, di intensa ricerca di Dio.
    Tra la festa dell'uomo e la festa cristiana c'è continuità profonda e la festa cristiana deve continuamente «farsi carne» nella festa dell'uomo, secondo le intuizioni di ogni generazione. Siamo lontani dalla logica della incarnazione quando la festa dell'uomo va in una direzione e quella religiosa si incammina, tutta sola, verso un'altra.
    La festa cristiana deve dunque porsi in relazione con la festa dell'uomo attraverso un processo che è contemporaneamente di «dare» e «ricevere». Alcune intuizioni giovanili sulla festa possono aiutare a vivere meglio l'affermazione che Cristo è il cuore della festa per ogni uomo.
    Dalla ambivalenza e dalle domande irrisolte del primo momento (chi garantisce la festa? si può fare festa in «terra straniera»?) nasce il secondo momento: nel nome della «memoria di Gesù Cristo» si contesta la festa dell'uomo, in quanto celebrazione della divisione più che della comunione, momento di frustrazione più che di gioia profonda, tempo di risarcimento più che di proclamazione di senso, affermazione di autosufficienza più che riconoscimento della propria creaturalità e grido di salvezza. L'evangelizzazione si esprime, da questo punto di vista, come momento di contestazione, relativizzazione, rottura con la festa dell'uomo.
    Alla contestazione si unisce immediatamente la «rivelazione» che la festa è possibile ed ha un fondamento definitivo in Cristo Gesù. Il cristiano è consapevole che un grande evento costituisce radicalmente la sua festa e quella di ogni uomo, cioè l'evento Cristo nella sua morte e risurrezione. Per il cristiano Cristo è il fondamento di ogni festa. Per chi non sa del Cristo invece ogni festa rischia di rimanere nel vago e lasciarsi travolgere dalla paura e dalla noia.
    Il terzo momento della evangelizzazione è quella del superamento: L'annuncio pasquale è un evento sorprendente, inaudito, dove il bisogno di festa non solo viene accolto e purificato, ma aperto su tempi nuovi e nuovi spazi, fino a dimensioni escatologiche di «cieli nuovi e nuova terra».
    Che la vita sia una festa per il cristiano è una affermazione che va qualificata. In effetti della vita il cristiano fa contemporaneamente due letture: siamo in un tempo nuovo che è già Regno di Dio in mezzo a noi, e, allo stesso momento, siamo in un tempo che ancora non è il Regno definitivo. La fede ci invita ad unire queste due letture apparentemente inconciliabili, e a dare luogo ad un linguaggio fatto di affermazione e di silenzio, di consapevolezza e di smarrimento di fronte a questo Regno che è già, ma non si lascia possedere se non attraverso segni e anticipazioni.

    Gesù, il fondamento di ogni festa

    Quali temi biblici e teologici possono oggi essere di rivelazione per il giovane sul senso della festa e sulla noia, sull'apatia che tante volte lo avvolge quando osserva con occhi disincantati il mondo in cui vive?
    Tra le tante pagine della bibbia, quali oggi è importante raccontare ai giovani d'oggi? Se fino a qualche anno fa le pagine dell'Esodo potevano rivelare la loro ansia di liberazione come partecipazione al grande esodo della storia, oggi sembra più interessante partire dalle pagine che raccontano dell'amore gratuito di Dio per l'uomo peccatore, e del Regno che gratuitamente e nel segno della abbondanza viene offerto all'uomo.
    Indichiamo velocemente alcuni di questi «fatti» e «temi» generatori del Vangelo per parlare oggi alla festa dei giovani.
    Il tema basilare è quello dell'avvento del Regno di Dio: «il Regno di Dio è vicino». Per Gesù dire che il regno è vicino significa proclamare «la vicinanza della incondizionata volontà di salvezza di Dio, di misericordia e grazia che vengono incontro all'uomo, e in esse altresì l'opposizione a tutte le forme di male: sofferenza e peccato» (E. Schillebeecks).
    Il Regno di Dio per Gesù non è solo un evento futuro, ma una realtà al presente, una realtà che la sua prassi rende presente: nel suo «girare facendo del bene», nello schierarsi per i diseredati e i declassati, che appare soprattutto nelle parabole e nella familiarità con i peccatori. Dove Gesù appare scompare sia l'angoscia di vivere che l'angoscia di morire: egli libera gli uomini e li restituisce alla vita.
    Nel ricercare i temi biblici che possono aiutare a interpretare la festa un posto di primo piano vengono ad occupare le parabole in cui Gesù «racconta» del Regno di Dio.
    Due aspetti interessano da vicino per un dialogo a proposito della festa in un tempo di angoscia. Nella parabola c'è sempre un invito impellente ad accogliere il Regno, il «buon annuncio»: chi sente la parabola è sollecitato con forza a «farsi sopraffare dal lieto messaggio di Dio n. In secondo luogo la parabola è sempre un annuncio di speranza per la gente che sbaglia: a tutti senza eccezione è rivolto l'invito alla salvezza.
    Altro tema biblico ricco di significato per la festa è il tema delle beatitudini che segnano definitivamente una rivoluzione escatologica, un rovesciamento di tutti i rapporti. Sono la rivoluzione dei poveri, degli emarginati, dei senza diritti, degli impotenti di fronte alla storia. La escatologia di cui Gesù parla non è quella dell'al di là soltanto. Per Gesù qui-ora si realizza, si compie la rivoluzione, nella sua persona che si fa vicino ai poveri e ai diseredati.
    Molte sono le pagine dei vangeli che raccontano della accoglienza gratuita e liberante di Gesù.
    Così ad esempio nelle parabole al centro sta quasi sempre l'annuncio di lieto messaggio che sollecita, soprattutto i senza speranza, a lasciarsi «sopraffare» dall'avvento di Dio. Lo stesso invito alla speranza fatto ai poveri, ai diseredati, agli emarginati, viene svolto nelle beatitudini che segnano la rivoluzione dei poveri, non come attesa di un futuro che non viene, ma come presenza qui-ora, in Cristo, della salvezza. La festa dei poveri è possibile perché Gesù è venuto a loro.
    I miracoli sono i grandi segni di questa presenza liberante ed allietante a favore dei poveri. Marco soprattutto ci tiene a dire che i miracoli sono l'incarnazione della buona novella. Egli vuole dipingere Gesù come uno che ha reso lieti gli uomini, offrendo loro non solo la guarigione fisica, ma anche e soprattutto la consapevolezza che davvero Dio è «buono».
    Altro tema evangelico che illumina la festa dell'uomo è la figura del Cristo che mangia e beve con i peccatori. La sua vita quotidiana in mezzo a loro si fa lieto messaggio. La consapevolezza che la presenza di Gesù fonda una festa definitiva è espressa nella disputa con i giudei proposito del digiuno. È impossibile essere tristi in presenza di Gesù. Digiunare sarebbe negare che la salvezza è presente.
    L'invito a non digiunare viene confermato nei racconti in cui Gesù stesso prepara la mensa per i suoi amici e per la folla. La sua mensa è una mensa abbondante, segno di una abbondanza escatologica che la sua presenza realizza in mezzo agli uomini. La comunione conviviale di Gesù con i peccatori o la comunione che egli offre al popolo ed in particolare ai discepoli, è realizzazione del Regno di Dio che così si manifesta come Regno di pace, di abbondanza, di felicità, di accoglienza suprema dell'uomo da parte di Dio.
    Il tema della festa è un tema che percorre tutto il vangelo. È decisivo per capire la figura di Gesù, come ricorda anche il Catechismo dei giovani, che inizia il racconto della vita di Gesù proprio dalla sua partecipazione ad una festa a Cana di Galilea. Egli partecipa alla festa e si fa anzi il garante ultimo, col miracolo dell'acqua trasformata in vino della festa.[1]
    Non è tuttavia quella di Gesù una festa di tipo qualunquista. L'accoglienza del peccatore non è scetticismo sulla possibilità di essere buoni. Alla festa segue sempre l'invito alla conversione, alla vita nuova. È il caso di Zaccheo, ed è il caso della peccatrice che Gesù salva dalla lapidazione.
    In ogni caso per Gesù sono l'accoglienza e la festa che fondano la conversione e la nuova vita, e non il contrario. La festa non è anzitutto frutto di una qualsiasi conquista morale, ma puro dono di Dio che opera a sua volta la conversione dell'uomo. La festa non è per Gesù un diritto dei buoni e dei giusti. Non è un premio, ma un diritto anche per chi sbaglia.

    La festa nella fede, speranza, carità

    L'incontro tra il bisogno di festa e le domande che si porta dietro (chi garantisce la festa? si può fare festa in terra straniera? può fare festa chi è disincantato e deluso dalla vita?) e l'evento cristiano aiuta a non avere criticamente paura della festa. Ora si può davvero abbandonarsi alla festa.
    Questa decisione di abbandono alla festa si esplicita nell'attivazione di una serie di atteggiamenti verso la vita che danno tonalità evangelica alla festa.
    Sono atteggiamenti che traducono in situazione gli atteggiamenti di base del cristiano che nella tradizione cristiana vengono riassunti in fede, speranza e carità. Senza fede non c'è festa. L'ambiguità della festa moderna sta nel fatto di non esprimere a sufficienza una «parola» sull'uomo. La parola non è mai assente, ma è confusa e flebile. La parola si consuma ed il senso del fare festa e della vita non emergono. Fare festa è affermare che la vita ha un senso. Convertirsi e credere nel Regno di Dio è il consolidamento definitivo della fede che si fa strada timidamente nella festa dell'uomo. Nella logica del Regno il «sì alla vita» viene motivato, contro ogni forma di scetticismo e nichilismo, ma anche contro l'esaltazione di potenza e l'autosufficienza di chi non fa i conti con il limite che lo avvolge.
    Senza speranza non c'è festa. La festa celebra la possibilità di un mondo nuovo, esalta una speranza che giudica il presente contro ogni forma di utopismo e contro ogni illusione. Nella festa ci si ricorda di ciò che può essere diverso, di ciò che ancora non è, ma deve essere.
    Si fa festa nella convinzione che ci sarà un tempo in cui si realizzerà quanto si crede: il futuro ci contesta, ci richiama alla responsabilità collettiva e personale. La festa, se ben vissuta, alimenta allora l'impegno ed il realismo, genera nuove forze ed energie, rimette in cammino.
    Senza carità non c'è festa. La festa è un evento comunitario che dilata e consolida la dimensione personale dell'esistenza. Non esiste festa se non prevalgono atteggiamenti come l'apertura agli altri, il desiderio di condividere, la disponibilità all'incontro, la solidarietà interpersonale e politica. Nella festa le persone si incontrano fuori dei ruoli sociali, in quanto persone, e chiedono di essere accolte e valorizzate nella loro originalità. La festa riconosce ed esalta la diversità: si fa esperienza di persone, gruppi, mentalità, subculture nuove.

    Orientamenti pastorali

    Il cristiano sa che la storia è entrata in una situazione definitiva dal momento in cui il grande evento del Cristo ha attraversato il tempo. Egli ha annunciato e ha realizzato il Regno di Dio, L'accoglienza suprema e sommamente gratuita di Dio all'uomo. Questo grande evento fonda una nuova visione dell'uomo e della storia. Fonda anche la festa dell'uomo.
    Consapevole di questo il cristiano è colui che si guarda attorno per scorgere ogni segno di festa nell'uomo e nel giovane, come «anticipazione» del Regno di Dio in mezzo a noi. Quando partecipa alla festa dell'uomo egli sa di prendere parte ad un'esperienza che ha il suo fondamento ultimo in Cristo. Il partecipare alla festa dell'uomo accresce questa sua consapevolezza: ogni festa è per lui «sacramento» del Regno.
    Non per questo egli sente il bisogno di gridare a voce alta il contenuto cristologico di ogni festa dell'uomo. Il gusto del silenzio e della contemplazione del seme che cresce senza farsi notare lo porta ad un profondo rispetto degli spazi e tempi umani in cui si fa festa. Non ha l'ansia di sacralizzare e battezzare, se così si può dire, ogni festa. Per se stessa la festa, senza altra aggiunta, è luogo di esperienza di Dio. Per se stessa la festa è già novità del Regno di Dio. Senza bisogno di aggiungervi qualche benedizione.
    Cosa significa questo in pastorale giovanile? In primo luogo che ci si interessa davvero alla festa dei giovani, sotto qualunque forma, anche alienata, essa si presenti. In secondo luogo che si opera a fianco dei giovani per consolidare questi spazi e tempi di festa in cui il senso della vita emerge con più forza.
    Se immerso nella festa dei giovani il cristiano si applica a fare festa con loro, sente tuttavia una forte nostalgia di esplicitarne il contenuto teologico e cristologico. Sente l'importanza di fare festa tra cristiani, non in opposizione alla festa dell'uomo, anzi per vivere in profondità anche quella. Si comprende in questo senso il diffondersi di feste nell'ambito dei gruppi e momenti giovanili ecclesiali.
    Come fare festa in ambito giovanile ecclesiale? Finora le indicazioni sono state offerte sul piano delle ragioni e dei contenuti di fondo della festa. Attivando un procedimento ermeneutico con cui in modo circolare ci è mossi dal polo della festa dell'uomo all'evento fondante e da questo, in seconda istanza, alla festa dell'uomo, sono stati individuati alcuni temi teologici e antropologici che possono illuminare la festa dei giovani.
    Ora occorre, con lo stesso procedimento metodologico, compiere un passo ulteriore e rispondere alla domanda sul «come» fare festa. La fede infatti indica dei motivi, delle ragioni, ma non il modo di fare festa.
    I vecchi modi di fare festa non sono sufficienti a descrivere i nuovi contenuti. Non basta per fare festa con i giovani oggi rifarsi al passato recente o lontano. Occorre invece «saper leggere nel nuovo quanto può servire al credente e alla comunità cristiana perché la festosità presentata dalla fede si incarni in una storia che non è più quella né della comunità primitiva, né della comunità di Roma del secolo V, né delle comunità monastiche dell'alto medioevo, né delle comunità agricole che continuavano a caratterizzare la più parte dei credenti anche dopo il concilio di Trento (G. Grasso). In altre parole ciò che costituisce la festa dei giovani oggi è luogo di mediazione culturale per esprimere il contenuto ed il modo concreto con cui vivere la festa cristiana.

    PER L'AZIONE

    Da dove ripartire, anche sulla scorta delle esperienze giovanili, per riscoprire oggi la festa? La riscoperta della festa non potrà essere mai un recupero di ordine folcloristico, un revival di tradizionalismo culturale o religioso. Non saranno gli interventi degli enti pubblici a creare un nuovo «precetto» di festa. D'altra parte non ha più senso parlare di festa in termini di precetto o di comando. La festa non si comanda; è una possibilità. Se è inutile aggrapparsi al passato e combattere battaglia di retroguardia, è invece importante cercare di capire, come si è fatto nelle pagine precedenti quello che accade, e verificare se è veramente la fine della possibilità umana di dare significato alla propria esistenza, o se esiste lo spazio per inventarne degli altri. Il ritmo della vita è oggi segnato da criteri personali: è il ritmo del corpo, dell'io, della coppia, del piccolo gruppo. Ora questi ritmi si rivelano sempre più insufficienti a far vivere bene, a far capire il senso dell'essere al mondo. Il problema è riscoprire che la vita ha un senso nel suo complesso. Da questo punto di vista la festa, come spazio di celebrazione rituale del significato della esistenza, continua ad avere un senso. Comprendiamo la festa ed impariamo a viverla, se riusciamo a mettere in armonia i ritmi del corpo e la nostra capacità di amare, cioè a mettere in armonia il significato che diamo alla vita qui-ora, alla nostra vita di ogni giorno, con il significato che possiamo dare a questo nostro essere per sempre, oltre il tempo e la vita (Sabino Acquaviva). A quali condizioni si può allora consolidare o riscoprire la festa con i giovani oggi? Sempre da un punto di vista educativo alcune indicazioni sono già state date in altro contesto su «come» educare i giovani alla festa. Si veda l'articolo di F. Floris sulla riscoperta delle dimensioni festa, tempo e «memoria» per fare liturgia con i giovani in NPG 1980/10, soprattutto alle pp. 13-16.

    5. La festa a quali condizioni? riflessioni educative

    Prima di passare dall'analisi alla riflessione è importante dichiarare una scelta preliminare: consideriamo la festa dei giovani un fenomeno ambivalente che lascia intravedere grossi spazi educativi da cui partire verso una piena maturità umana e cristiana. Alla maturità umana e cristiana si può in effetti arrivare attraverso percorsi e itinerari diversi. Fino a qualche anno fa un itinerario educativo e pastorale di largo seguito partiva dall'impegno (il «fare insieme») per arrivare ai rapporti interpersonali («stare insieme» e «fare festa»). La dimensione interpersonale della vita e la stessa festa erano punto di arrivo o strumento in vista del «fare insieme». A volte neppure ci si arrivava, come dimostrano le tante crisi dei rapporti personali nei gruppi sessantottini.
    È innegabile che dare credito educativo alla festa e perciò ai rapporti primari è un itinerario incerto: si rischia di non vedere mai spuntare il giorno dell'impegno. Proprio per questo occorre parlarne in termini di educazione umanizzatrice e di evangelizzazione. Nei giovani è presente un bisogno di festa che occorre accogliere, ma anche liberare per aiutarli a «chiamare per nome» il loro bisogno e autenticarlo, integrandolo nella crescita umana globale e nella maturazione di una fede che dia consistenza e spessore alla festa.
    Quali allora possono essere le condizioni che rendono la festa un ambito di educazione e di evangelizzazione?

    LA FESTA COME «SPAZIO APERTO»

    Una prima condizione per fare festa con i giovani è di considerare lo spazio in cui si fa festa come «spazio aperto», accessibile ai giovani in forme compatibili con la personale situazione umana e religiosa, e quindi con diversi gradi di consapevolezza antropologica e religiosa del senso della festa.
    Per capire si possono tenere presenti tre modelli di festa, a secondo dell'uso dello spazio, e, in fondo, del modo di impostare la festa in quanto tale. Vengono richiamati come si vedrà, da un altro punto di vista i modelli di festa già delineati nelle pagine precedenti.

    La festa come spazio a cerchi concentrici

    Un primo modello di festa, quello della tradizione soprattutto contadina e paesana, è costituito da uno spazio organizzato a cerchi concentrici lungo un crescendo di partecipazione e consapevolezza che conduce progressivamente verso un centro dove si celebra in modo esplicito l'evento che dà senso ed identità culturale e religiosa ai partecipanti.
    Gli avvenimenti, in questo modello, tendono verso un unico punto riconosciuto da tutti con facilità e sono pertanto organizzati con andamento centripeto. Muoversi verso il centro significa aderire sempre più profondamente alla «ragione della festa». Viene così a crearsi un continuum spaziale e temporale in cui i soggetti partecipano secondo le loro possibilità e livelli di maturazione.
    Questo modello è il modello della festa del paese, che trova nella piazza con al centro la chiesa e quindi la processione e la messa, il suo culmine vitale. Il movimento centripeto era assicurato dalla omogeneità culturale e dalla comune identità religiosa.

    La festa come spazio chiuso

    La festa si svolge questa volta in uno spazio incredibilmente ridotto: uno «spazio chiuso»: un cerchio ristretto di persone con una precisa identità che li distingue dagli altri.
    Lo spazio è limitato alla chiesa, o alla sala parrocchiale o al cortile oratoriano. Da forma aperta di festa paesana si è passati (ed è una realtà che stiamo sperimentando in questi anni) ad una festa privata, limitata agli iniziati, che fa di tutto per tenere lontane le persone che non condividono fino in fondo la ragione della festa. Niente più campane che suonano, niente più festoni per le strade, niente processioni o confluire di numerose persone nello stesso spazio, niente sagra paesana con suoni, balli e canti che tendono a coinvolgere tutti.
    In questo modello viene anzitutto a cambiare il rapporto interno-esterno, perché alla festa si accede attraverso un esame indiretto delle qualità del soggetto (è richiesta, ad esempio, una fede consapevole ed una identità precisa). Cambia anche il modo di vivere la festa. Quasi tutto viene concentrato nella celebrazione liturgica in cui, fra l'altro, la maggioranza non è che spettatore passivo, consumatore di luci, suoni e parole. Uno spettacolo organizzato dai pochi per i più, e in cui i pochi tengono ben stretta la chiave di apertura e di lettura della festa. Il coinvolgimento è ridotto al minimo: poche e controllate le emozioni, e gli scambi affettivi interpersonali e comunitari.

    La festa come «struttura a griglia»

    Un altro modello di festa oggi diffuso è quello a schema semiaperto, come si verifica nelle feste di partito o nelle grandi manifestazioni allo stadio per una partita di calcio o per uno spettacolo musicale. Tipico di queste feste è la mancanza di un vero centro di identità e la offerta invece di diverse possibilità di consumo. Lo spazio è semiaperto, perché in qualche modo bisogna riconoscersi in un movimento, in una bandiera. La identità personale richiesta è tuttavia minima e labile. Non viene del tutto messa in gioco perché il partito (o il complesso musicale o la squadra di calcio) non si impongono, oggi soprattutto, come realtà totalizzanti la vita, come invece avveniva negli altri due modelli di festa. La festa politica o quella allo stadio non arriva così al cuore della festa, che è tale solo se è evento di senso e celebrazione del senso della vita nel suo complesso.
    Caratteristico è il fatto che ognuno fa il suo percorso, senza mai arrivare ad un centro. Nella struttura a griglia ci sono diverse entrate ed uscite, e di conseguenza diversi percorsi. Ognuno può muoversi come meglio crede, ma non è un cammino che porta necessariamente verso un centro. Si genera confusione e frustrazione perché non si arriva ad affermare una identità personale e collettiva in modo soddisfacente. Gli stimoli e i messaggi, che pure circolano, finiscono per sbiadirsi e perdersi. Raramente prevale il senso di appartenenza, l'emozione comunitaria, l'adesione ad una visione esistenziale.

    Quale strutturazione della festa oggi?

    Se è possibile valutare le feste dei giovani dal punto di vista strutturale, si ha l'impressione che si ci sia maggior esigenza di dare luogo ad una festa a «struttura aperta». Non è solo la tendenza a recuperare spazi pubblici per fare le feste a provarlo. Ci sono da segnalare altri sintomi, come il riconoscimento di un centro della festa nella celebrazione liturgica senza per questo escludere quanti vogliono disporsi liberamente ad una certa distanza dal centro, la volontà di comunicare con tutti i presenti l'attenzione a che la festa non si riduca a spettacolo ma sia un momento gestito in proprio.
    La festa va vissuta come spazio a cerchi concentrici a cui è possibile accedere a seconda del proprio desiderio di festa e del proprio grado di consapevolezza. La richiesta di una comune identità non può essere la carta di ingresso, se non in quanto chi partecipa attiva una ricerca di identità e di «ragione per vivere» sempre più profonda. Oggi più che mai chi organizza una festa per giovani deve concepirla come servizio alla ricerca e celebrazione della identità, ai livelli concretamente possibili per i singoli partecipanti.
    La festa, anche quella a specifica identità cristiana, non è allora soltanto una festa di cristiani e per cristiani, ma una festa per ogni uomo che deve sentirsi invitato e vi trova stimoli per interrogarsi sul senso della vita. Grazie alla struttura a cerchi concentrici, ognuno viene accolto, rispettato, sollecitato a crescere.
    Pensare alla festa come spazio aperto significa in fondo riconoscere in tutti una ricerca di senso e scegliere di animarla, convinti che la partecipazione genera identità (e quindi esperienza di salvezza), anche se non genera nuovi proseliti per i gruppi ecclesiali.

    GIOVANI E ADULTI ALLA FESTA

    Per sua natura la festa è una intensa esperienza di comunità attorno a valori condivisi insieme per ritrovarvi una identità ad un tempo personale e collettiva. Come si è visto però la dimensione comunitaria non è affatto una dimensione centrale nella festa della civiltà dei consumi, che riduce le sue feste ad eventi semiprivati, di piccolo gruppo. La festa è in questo caso fuga dalla comunità.

    Il collegamento con la «memoria collettiva»

    Che dire allora delle feste dei giovani? Non c'è forse il rischio anche per queste feste, che pure hanno riscoperto valori come il ritrovarsi insieme in grande numero, il centrare la ricerca sui significati di fondo della vita, il vivere festosamente insieme, che si trasformino in feste di una identità «diminuita»? In un tempo come il nostro in cui molti giovani sembrano aver perso contatto con la «memoria culturale» ha senso fare festa solo tra giovani? Non è un ricreare degli steccati, mentre la festa ha sempre avuto la caratteristica di rompere i cerchi chiusi e sollecitare la comunicazione tra i soggetti diversi per cultura, età, esperienza?
    La festa è di per sé il luogo della accumulazione della memoria collettiva, mediante la narrazione illuminata dal messaggio di fede, della storia del popolo nelle sue vicende lieti e tristi. La festa è così una grande scuola del senso, umano e cristiano, della vita.
    Perché la festa possa oggi trovare o ritrovare questa dimensione di collegamento con la memoria collettiva occorrono alcune condizioni.
    Intanto un dato di fatto riconosciuto da molti è proprio l'assenza di una «memoria» tra i giovani. Anche se non manca in loro una ricerca di senso, questa non si esprime a sufficienza nel confronto con le risposte elaborate dalle generazioni che li hanno preceduti. Il bisogno di confronto sembra tuttavia farsi più impellente.
    Una prima condizione per un progressivo arricchimento del senso della vita è l'esperienza intergenerazionale.
    L'uomo è continuamente chiamato a ridefinire il senso che dà alla sua vita e a quella degli altri, e non può farlo se non situando creativamente la sua esperienza nel contesto della esperienza degli altri. Così viste le cose, non è solo il giovane che ha bisogno di incontro e dialogo con l'adulto nella festa, ma anche l'adulto non può fare a meno delle sollecitazioni di senso che salgono dalle nuove generazioni.
    Basta dunque con le feste dei giovani?
    Non del tutto. La festa con prevalenza di giovani è una mediazione educativa che permette di esprimere nuovi bisogni in una situazione «controllabile», anche se non da laboratorio. In qualche modo la stessa festa è una proposta che trova maggior rispondenza tra i giovani e che, entro certi limiti, i giovani richiamano a tutta la società.

    Il contributo degli adulti e dei giovani alla festa

    Occorre a questo punto riconoscere che la presenza dell'adulto è decisiva proprio dentro le feste dei giovani. L'adulto ha un suo ruolo specifico perché si possa parlare di evento comunitario. Il problema è piuttosto di precisare l'apporto reciproco alla festa.
    In effetti giovani e adulti si riferiscono alla festa con un linguaggio per molti versi diverso, rispondente a due modi di pensare la vita. Come per la vita così per la festa, non si può dire che una generazione riesce ad averne da sola una comprensione esaustiva. Solo nel rapporto intergenerazionale la festa acquista un volto sempre più ricco e preciso.
    Due esempi.
    L'esperienza che l'adulto ha della festa nasce normalmente in una visione della vita centrata sul «sacrificio» e sull'«impegno». Per l'adulto la vita è fondata sull'etica del lavoro, del successo, del sacrificio. Non così per i giovani, molto più attenti ad una definizione che parte dal desiderio, dalla soddisfazione qui-ora dei bisogni.
    Si può anche aggiungere che mentre l'adulto tende a celebrare il quotidiano proiettandolo in un quadro di insieme, sottolineando quindi l'aspetto storico del cammino dell'uomo, il giovane tende a celebrare il quotidiano nella sua immediatezza ed istantaneità come manifestazione di senso.
    L'adulto sottolinea una lettura della vita sul modello dell'Esodo nel segno della speranza della continuità e della dimensione comunitaria. Il giovane sembra preferire una lettura esistenziale sul modello del Qohelet biblico. Per l'adulto la festa è in genere celebrazione della vittoria (o accoglienza sofferta e dignitosa della sconfitta); per il giovane è celebrazione della vita che ha senso nonostante la sua finitezza o la sua stessa assurdità.
    Si comprende allora perché la festa ha senso solo se alimentata dal contributo sia degli adulti che dei giovani. Le due interpretazioni devono interrogarsi e completarsi per non cadere nella ideologia della festa. Le due interpretazioni infatti non fanno che ricordare aspetti decisivi della festa. Chi pensa la festa come vittoria afferma che Dio è il Liberatore, ma rischia di dimenticare che il Regno di Dio «non è ancora» e che la vittoria nella storia è sempre invocazione della vittoria escatologica. Chi afferma che la festa è celebrazione di senso dentro il non senso, rischia di non proclamare a sufficienza che il Regno di Dio «è già» in mezzo a noi e perciò si può fare davvero festa in terra straniera.

    Quali adulti?

    Ancora un rilievo sulle figure di adulti da invitare alla festa. Vanno ricordati gli apporti di quanti incarnano diversi ruoli e status sociali. Così, ad esempio, è importante che alla festa partecipino degli anziani per far ritrovare con la loro presenza la continuità storica, il valore dell'esperienza, L'ambiguità di superficiali esaltazioni del senso della vita.
    Sembra anche importante che gli adulti partecipino in quanto «esperti». La festa è sempre un momento di scambio di contenuti. Circolano sempre «domande n. Se è vero che la risposta è la festa nel suo complesso, non si può tacere l'importanza di momenti di riflessione esplicita su problemi di interesse giovanile. Ogni festa deve prevedere l'incontro calmo e sereno con uomini che hanno qualcosa da dire sulla vita. Possono essere leaders carismatici. Ma possono essere davvero degli esperti di contenuti.
    Infine un posto particolare va pensato per ogni figura di adulto che incarna l'autorità. Avere autorità è un ruolo e servizio specifico. Volerlo negare è giovanilismo oppure sottile manipolazione dall'alto. Il Vescovo, per fare un esempio, deve partecipare alle feste diocesane: deve essere vicino ai giovani, stare con loro, ritrovare il suo ruolo di guida, superare le distanze, farsi carico delle attese giovanili... Se è vero che i giovani rimangono anche oggi diffidenti verso le istituzioni e i loro rappresentanti è anche perché spesso chi le rappresenta è latitante.
    Infine presenza degli adulti vuol dire incontro, almeno in certi momenti, con la massa degli adulti e, più in generale, con le persone che hanno un'età diversa dall'universo giovanile ai quali la festa si indirizza. In concreto questo richiede di prevedere qualche appuntamento, nell'arco della festa, a cui gli adulti in genere possano accedere.

    LA FESTA TRA UN «PRIMA» ED UN «POI»

    «La festa sì, però...». La festa è un grosso avvenimento che, nel suo svolgersi, scatena emozioni profonde a cui raramente in altro modo si può accedere. Che pensare di questo scatenamento emotivo?
    Alcuni educatori, attendati sul terreno della prudenza, si mostrano diffidenti: quel che conta, a sentir loro, è il quotidiano. «A che serve fare esperienze che esaltano la gioia e la creatività se poi il ritorno al quotidiano è duro...». Per altri la festa non conta: quel che vale e realizza è l'impegno. Per altri ancora sarebbe meglio che le feste fossero «controllate», senza troppe esaltazioni, senza alimentare bisogni e desideri. «E poi chi li controlla»: questa è la loro preoccupazione.
    Bisogna anzitutto ricordare quanto già è stato detto: L'adesione a valori morali, stili di vita, verità esistenziali per radicarsi profondamente nell'uomo deve coinvolgere, in qualche modo, emotivamente. La festa è allora un grosso momento di apprendimento.
    Certo in molte feste il rapporto tra razionalità ed emotività tende a spostarsi nella direzione di quest'ultima, mentre non molti anni fa era la riflessione razionale e fare la parte del leone negli incontri giovanili. Occorre accettare lo spazio che la festa si è ritagliato senza preclusioni ed accettare che il cammino educativo può muovere dalla emotività verso la conquista di un equilibrio con le componenti razionali della vita. Il ritorno agli stati emozionali può essere un buon punto di partenza verso una forma nuova di conoscenza del reale.

    Prima della festa

    Non si vuole però dimenticare che la festa va inquadrata dentro un «prima ed un poi» educativo, dove prevalgono invece atteggiamenti più vicini alla razionalità e alla individuazione intelligente di un nuovo stile di vita.
    Prima della festa occorre individuare con calma la «parola» che sarà al cuore della festa, come luogo da cui interpretare la vita attraverso un collegamento tra il qui-ora ed un quadro di senso umano e cristiano.
    La festa implica sempre, come si è detto, un fare memoria ed una proclamazione di un senso che collega, al di là delle apparenze, passato-presente-futuro.
    Senza la parola si cade nel divertimento, nel consumismo, soprattutto quando la festa è a schema aperto e tutti possono parteciparvi.
    Pur essendo la festa un contenuto esistenziale per se stesso, occorre allora interrogarsi a fondo sulla «proposta» che è la è la festa e che la festa vuole lanciare. La proposta non può essere semplice proclamazione della parola di Dio o semplice «ricordo» dei grandi fatti della salvezza cristiana. La festa deve essere «parola a questi giovani», una parola che nasce dalla prolungata compagnia con loro, una parola che illumina il presente e il futuro, un messaggio in fondo di speranza.
    La seconda condizione del «prima» è il coinvolgimento dei giovani: oggi meno di ieri si può pensare ad una festa «per» i giovani che non sia festa organizzata «con i giovani» fin dall'inizio. Non deve nascere dall'alto, ma dai bisogni dei giovani; non deve nascere dal desiderio di fare pubblicità ad un qualsiasi messaggio (anche religioso), ma dall'urgenza che si è in travista con i giovani di ricercare una parola sulla vita.
    La partecipazione dei giovani non è quindi un problema di gestione delle attività, ma di individuazione del senso della festa e dell'orientamento che in qualche modo deve avere. I tempi di organizzazione si fanno più lunghi, ma è l'unica strada percorribile.

    Dopo la festa

    Un momento altrettanto importante, se non si vuol disperdere al vento l'esperienza accumulata, è il dopo festa, per il quale occorre predisporre una serie di metodologie di interiorizzazione. Quando la festa è finita, va attivato un processo di riequilibrio tra emozione e ragione, tra utopia nuova pratica di vita, tra desiderio di stare insieme e fare concretamente gruppo e comunità.
    Probabilmente non è l'eccessiva emotività con cui si vive la festa a farla guardare con sospetto, quanto la disattenzione nel pro porre mediazioni di ritorno al quotidiano, alla vita di gruppo, alla scuola, alla fami glia.
    Così, per fare un esempio, se nel clima euforico della festa si sperimentano nuovi rapporti tra giovani e adulti, superando le fratture intergenerazionali ed evidenziando una forte disponibilità alla comunicazione, non è questo che deve impensierire: si è vissuto un tempo di utopia che in qualche modo deve giudicare il quotidiano e stimolare ad un modo nuovo di stare insieme tra generazioni. Non si può negare la festa, quasi che eliminando ogni desiderio si vivesse meglio.
    Certo il dopo festa deve decantare le emozioni aiutando ad analizzare razionalmente la difficoltà del rapporto tra generazioni; a vedere il problema non solo sotto il profilo della moltiplicazione dei rapporti primari, ma anche e soprattutto nella condivisione degli stessi valori; a non pensare la comunità in termini di unanimismo, monolitismo di stili e di proposte culturali; a risolvere i problemi in termini non solo interpersonali ma anche strutturali.
    Quali mediazioni in concreto? Tutte le mediazioni che di solito si citano quando si parla del fare esperienza. Ne ricordiamo velocemente alcune: la revisione della festa dopo alcuni giorni di tranquillità facendone emergere con calma gli aspetti positivi e quelli meno belli; la conferma di uno slogan riassuntivo che magari è circolato con insistenza nella festa; un questionario da cui ricavare le impressioni; il collegare nuove iniziative alla festa facendone vedere la continuità anche se su piani diversi.

    NON OGNI DOMENICA È FESTA

    Viene da chiedersi: ogni celebrazione cristiana e ogni domenica devono avere il carattere di festa?
    Evidentemente no. La celebrazione cristiana ha luogo ogni domenica ed è impossibile celebrare una festa per settimana. La tradizione in questo è sempre stata esplicita, distinguendo non solo tra feria e festa, ma anche riservando il termine festa solo ad alcune grandi occasioni.
    Non ogni riunione tra cristiani in cui si vive una celebrazione è una festa. Non ogni domenica è una festa. C'è riunione ogni volta che un gruppo di persone si dà appuntamento per godere della reciproca compagnia e rallegrarsi insieme per qualcosa, discutere sulla vita di comunità. C'è festa quando c'è una grande moltitudine che riempie la piazza, come si diceva una volta.
    La differenza tra riunione e festa è data dalla presenza di un popolo e dalla esuberanza e nei mezzi per manifestarla. Il grado di esuberanza tende a distinguersi nettamente. La riunione, pur serena e «festosa», tende ad essere tranquilla e moderata. Sua caratteristica è una certa intimità. La sua esuberanza sta soprattutto nella qualità della comunicazione che, abbattendo ogni barriera provoca uno scambio intenso.
    La riunione tende alla contemplazione, alla meditazione, favorisce la confidenza e la distensione.
    La festa al contrario, pur non rinnegando le caratteristiche appena delineate, non privilegia la intimità ma la solennità, non cerca la comunicazione calma e distesa ma l'immergersi insieme in un ritmo travolgente e sovraccarico.
    Tra questi due estremi c'è evidentemente una gradazione di festa che in qualche modo richiama alla responsabilità e al grado di consapevolezza dei gruppi che vogliono fare festa. Se in certe piccole comunità quasi tutte le celebrazioni domenicali possono diventare festa, altrove si dovrà usare maggiore gradualità per non svendere proprio il senso della festa. Non c'è evidentemente norma per il modo di celebrare: ogni comunità deve trovare il suo ritmo di festa.
    Non è a caso che finora si è usato in prevalenza il termine festa e non celebrazione. Questo termine richiama troppo i riti e rischia di ridurre la festa solo al momento liturgico. Invece la festa è, prima che celebrazione, un fatto di comunità nel suo insieme. La festa è una riunione della comunità, entro cui si ha anche un momento di celebrazione.
    Quanto detto non è indifferente per la riscoperta della festa cristiana. Ancora una volta non si tratta di potenziare dei riti, ma di dare occasioni significative ai giovani per sperimentare il fare comunità. La festa è uno spazio privilegiato per fare comunità.

    Alcune istanze da salvaguardare

    La festa è cristiana se, pur prendendo come è ovvio le «distanze» del quotidiano, non intende sfuggire dalla storia e rimane invece ancorata alla realtà. La festa cristiana è sempre un processo di «incarnazione», non una fuga psicologica nel trascendentale.
    Usciti dal vecchio moralismo e dal moralismo dei rivoluzionari è possibile parlare della vita in modo nuovo, più esistenziale, alla ricerca di un orientamento e di certezze per la vita quotidiana. Nello spazio dell'esistenziale va progressivamente ritrovato il riferimento al politico e strutturale di ogni festa.
    La festa è cristiana, in secondo luogo, se non è celebrazione di uno stato di fatto di una «tensione» ed implica quindi la volontà di «uscire da» per «entrare in». La festa è sempre un abbandono di qualcosa ed un ingresso nel nuovo. In concreto nell'organizzare una festa ci si deve a lungo interrogare su quale «passaggio» sia urgente e quindi da richiedere con serietà nella festa. Solo così la festa recupera la dimensione pasquale tipica di ogni festa cristiana.
    La festa è cristiana se riesce a coinvolgere l'uomo, più da vicino i giovani, in tutte le dimensioni del vissuto. La festa deve avere uno spessore umano ben preciso: canti e musica, allegria e espressione gestuale, comunicazione interpersonale e interiorizzazione.
    Se da una parte la festa cristiana non va ridotta alla sola liturgia e preghiera, dall'altra è anche vero che, oggi soprattutto, è importante preservare a tutti i costi «il cuore della festa». Lo schema della festa deve ruotare attorno alla celebrazione e attorno ai tempi di preghiera personale a cui va dato uno spazio ed un tempo privilegiato.
    La festa è cristiana, in altre parole, se riesce ad essere in qualche modo un momento di grossa esperienza religiosa, al livello della religiosità in cui si toccano i grandi problemi della vita e dell'orientamento personale. Il rischio è che si strumentalizzi la festa su temi di tipo morale o programmatico o anche politico o pedagogico. Spesso si fa del moralismo superficiale, senza avere il coraggio di invitare i giovani a scendere in profondità nella loro esperienza. La festa deve essere sempre una scoperta o un ritorno a Dio.

    LA FESTA: UNA POSSIBILITÀ O UN DOVERE?

    Al termine festa per tradizione era collegato quello di precetto: il precetto della festa. La festa come dovere.
    Oggi la precettistica è scomparsa. Non ha più senso parlare di dovere di far festa. Eppure l'accostamento tra dovere e festa è un fatto che impressiona. Al di là della precettistica, rimane una domanda: che senso ha comandare la festa?
    Se è vero che le leggi proteggono ciò che di più sacro esiste, anche il dovere di far festa ha un senso molto forte e ricco. Quando la vita sembra travolgere e diventa difficile trovare una risposta ai problemi, la festa ritorna dovere. Per difendere il riposo dei poveri si impose la festa. Per difendere la dignità dell'uomo, come realtà superiore al lavoro, si impose la festa. Per affermare che l'uomo aveva una dimensione di apertura al trascendente si impose la festa. E oggi?
    Qualcuno ha detto che la festa più che un dovere è una possibilità. I giovani sottolineano questa possibilità. La loro tensione alla festa e al ludico, come al gratuito e all'immaginario tuttavia è qualcosa che non può essere risolta come semplice possibilità. In un tempo di trapasso culturale e di ricerca intensa di nuova coscienza e di nuova in identità personale collettiva fare è festa si impone nuovamente come dovere, come richiamo alla dignità suprema dell'uomo. Nel fare festa l'uomo potrà trovare nuovamente se stesso. E, come dice Moltmann, le catene cominceranno nuovamente a fare male e riprenderà la lotta contro le oppressioni.


    NOTE

    [1] Il Catechismo dei giovani suggerisce in fondo che un approccio significativo alla figura di Gesù può proprio incominciare da questi temi della partecipazione di Gesù alla festa dell'uomo e della condivisione di vita e con chi sbaglia. Un approccio nuovo rispetto alla presentazione tradizionale di Gesù (legata a schemi di teologia dogmatica), ed anche alla presentazione del Gesù liberatore (legata agli anni della centralità del politico). Evidentemente non basta che i cristiani annuncino ai giovani Gesù come colui che accoglie chi sbaglia e garantisce la festa dell'uomo, se con la loro testimonianza attiva non li aiutano e li sollecitano a consolidare nella «conversione», e quindi nel cambio personale e politico, la tensione alla festa.


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