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    Indicazioni per una strategia pastorale



    Franco Floris

    (NPG 1981-5-49)


    Cosa si intende per strategia educativa?
    La strategia è la connessione tra i fini di un progetto educativo e i mezzi concretamente a disposizione per raggiungerli. Una strategia pastorale è l'insieme delle indicazioni sul come realizzare «in situazione» un determinato modello di pastorale ritenuto il più opportuno con «questi» giovani. Una volta tracciato il cammino ottimale, ci si interroga con quali mezzi percorrere la strada, cosa portarsi dietro, quali rischi occorre evitare, sui percorsi alternativi confacenti con il progetto scelto, sui compagni di viaggio... La strategia pastorale è sempre espressione di competenza pedagogica e perciò di riflessione teorica e di arte educativa, cioè di esperienza con i giovani. Proprio per questo tende a dare indicazioni più concrete ed operative. In questo pregio sta anche il suo limite.
    Nel presente contributo della strategia pastorale si traccia un quadro complessivo, anche alla luce di alcuni problemi educativi attuali, e vengono offerti dei suggerimenti. Quasi sempre, per forza di cose, le indicazioni risultano sommarie. Sono titoli di capitoli che vanno approfonditi attraverso studi successivi più analitici.

    FUNZIONE EDUCATIVA E MEDIAZIONI EDUCATIVE

    Tre tensioni educative

    Una strategia di pastorale oggi deve fare i conti con delle tensioni profonde che rischiano di svuotare dal di dentro i processi formativi.[1]
    Una prima tensione è relativa al metodo. Si è di fronte, in molte situazioni educative, ad un forte antimetodologismo.
    Alcuni insistono per l'artisticità dell'educazione, senza dare alcun peso al contributo delle scienze dell'educazione. Rifiutano ogni metodo per fidarsi della inventiva personale.
    Altri, pur optando per un metodo, in effetti non lo rispettano. Lo utilizzano di volta in volta in modo superficiale, eclettico, rigido, senza mai valutare con calma i risultati.
    Altri rifiutano ogni metodologia per esaltare la portata educativa dei rapporti faccia a faccia. Parlano di educazione indiretta, applicando generici criteri di formazione per osmosi ambientale. E così tendono ad eliminare qualsiasi intermediante oggettivo, come strumenti, sussidi, materiale di ogni specie, al limite qualsivoglia metodologia, e anche i contenuti stessi dell'apprendimento. Tutto si risolve nel contatto interpersonale e comunitario. Il rifiuto del metodo assume connotazioni ulteriori nei gruppi ecclesiali che, in nome di una opposizione insanabile tra educazione della fede e educazione dell'uomo, respingono il contributo delle scienze umane nella pastorale.
    Una seconda tensione è il risorgente anticontenutismo di molti ambienti giovanili anche ecclesiali, dove si preferisce il convivere al concredere, la tolleranza senza valori al confronto sui valori. Il compito educativo viene ad esaurirsi nei rapporti interpersonali all'insegna del rispetto reciproco, senza che si arrivi mai ad un confronto sui contenuti culturali e di fede.
    Sull'onda delle pedagogie nondirettive e libertarie si bada unicamente alle modalità di legame affettivo tra gruppi e individui e alla «difesa» della libertà di pensiero. Il combattimento teorico e pratico per la verità non trova più posto, non è neanche più esaminato, non fa parte del problema.
    Una terza tensione è la elaborazione depressiva alcune volte del ruolo dell'adulto (fino a vere forme di antiadultismo e di «mistica del fanciullo»), ed altre volte del ruolo del giovane nel nome della tradizione.
    Se fino a qualche anno fa era soprattutto la negazione del ruolo dell'adulto a preoccupare, oggi la situazione è più variegata. L'adulto non sempre è riuscito a ritrovare il suo ruolo di educatore ed il giovane è spesso sottoposto a rigurgiti di autoritarismo o ad abbandono educativo. Il rapporto educativo non trova spazio adeguato ed è misconosciuto a livello sociale ed ecclesiale.

    La «funzione educativa» come perno del rinnovamento pastorale

    Come uscire da queste tensioni senza negarle ed anzi in modo da utilizzare le energie che vi si sprigionano?
    È importante trovare un punto di appoggio comune. Questo punto di appoggio, nella attuale situazione culturale, sociale ed ecclesiale, dopo il crollo del mito dello sviluppo guidato dalla ragione e del cambio politico-strutturale guidato dalla ideologia, è la «funzione educativa», con le connotazioni di tipo etico che ogni discorso pedagogico comporta.
    Dire funzione educativa è affermare una relazione complessa a tre termini in cui ogni termine ha senso se pensato nella direzione degli altri due. I tre termini sono: l'adulto, il giovane e la cultura, intesa come insieme di credenze collettive, ruoli sociali, stili di vita.
    L'adulto è il depositario della «memoria» culturale ed ecclesiale, in un determinato spazio e tempo. Il giovane invece rappresenta, più che la cultura, nuovi bisogni, nuove esigenze, nuove intuizioni sul futuro.
    Il terzo polo della relazione è la cultura come realtà dinamica in evoluzione dal «già fatto» al «da fare», ed è lo spazio in cui si svolge l'incontro/scontro tra generazioni. L'innovazione culturale, attraverso la logica della destrutturazione-ristrutturazione, diventa l'obiettivo della funzione educativa.
    La naturale opposizione tra giovani e adulti, sia nella società che nella chiesa, contiene, come è comprensibile, dei grossi rischi (possono riassumersi nella morte del giovane o in quella dell'anziano), ma è lo spazio cruciale in cui si elaborano nuovi contenuti ed in cui quindi giovani e adulti sostengono una reciproca maturazione.
    Ogni strategia pastorale non può che partire dalla affermazione della centralità della funzione educativa che, a questo punto, può essere anche definita in termini di «formazione permanente». Non è in gioco infatti solo la maturazione delle nuove generazioni, ma anche l'evoluzione e la maturazione umana e cristiana degli stessi adulti.

    Lo spazio delle «mediazioni»

    Perché la funzione educativa possa attivarsi si richiedono alcuni passi.
    Il primo è innegabilmente dell'adulto che, consapevole di questa relazione a tre, avvicina il giovane attraverso una cosciente «regressione» (che scioglie il suo comportamento, rendendolo più plastico) e lo accetta come suo interlocutore. L'adulto intesse ed invita il giovane ad intessere le capriate di un ponte: la funzione educativa.
    Il secondo passo costituisce, all'interno del ponte-funzione educativa, dei «ruoli» specifici, cioè differenti funzioni e comportamenti del giovane e dell'adulto, ordinati alla ristrutturazione della cultura. In questo spazio viene in particolare a costituirsi la relazione educativa tra educando ed educatore.
    Il passo successivo è la realizzazione di mediazioni, cioè di spazi, tempi, modi, istituzioni in cui incontrarsi, giovani e adulti, nella elaborazione dell'unico compito. Le mediazioni sono il terreno in cui si incontrano giovani e adulti ogni volta che sperimentano soluzioni ai problemi della vita, all'interno di una relazione in cui sono entrambi soggetti.
    Nell'intento di creare cultura e svolgendo in questo modo un servizio di maturazione reciproca, giovani e adulti elaborano in modo solidale ruoli, funzioni, istituzioni, riti sociali, concezioni di vita, miti, spazi vivibili, strumenti operativi, itinerari di sviluppo personale e collettivo.

    Mediazioni educative e mediazioni religiose

    Il discorso delle mediazioni esige un approfondimento nella direzione della educazione alla fede.
    Nell'educare alla fede si fa ricorso a mediazioni che, in quanto hanno per oggetto la promozione umana del giovane (fino ad aprirlo, dal di dentro del suo vissuto, al mondo «religioso»), si possono chiamare educative. Per mediazioni «religiose» si può intendere invece quelle mediazioni che hanno un contenuto esplicitamente cristiano.
    Si nota anzitutto una certa disaffezione verso le mediazioni educative. Alcuni preferiscono educare alla fede facendo ricorso quasi unicamente alle mediazioni religiose esplicite, quali la parola di Dio, i sacramenti, la preghiera, la direzione spirituale.
    Se è da sottolineare la rinnovata attenzione alla dimensione educativa delle mediazioni esplicitamente cristiane, in quanto provocano ad una crescita e la sostengono con ripetuti interventi in cui è presente in modo «denso» la grazia, non si può tacere che le mediazioni religiose non possono sostituire il cammino di crescita umana. L'educazione alla fede non può ridursi alla sola partecipazione a queste mediazioni. Ogni passo sul piano della crescita umana è sempre un «camminare davanti a Dio», anche se in modo inconsapevole. C'è poi da ricordare che l'insistenza sulle sole mediazioni religiose può dare luogo a forme pastorali molto elitarie, perdendo per strada quanti sono ancora in fase di approfondimento della propria identità.
    Troppo poco infine ci si interroga sulla valenza educativa delle «mediazioni religiose». Si lascia alla iniziativa di Dio di supplire alle carenze, più o meno gravi, sul piano della «significatività». Alcune volte, si sente parlare in termini di «adattamento» delle mediazioni, come la messa, la penitenza... Non basta adattare. In una mediazione come l'attuale messa si ha l'incontro tra la «memoria vivente» della Pasqua di Cristo e la sedimentazione degli stili culturali di duemila anni di storia. Come la messa, anche le altre mediazioni religiose sono un impasto di fede e cultura. Proponendo ai giovani certe mediazioni, si ripropongono, oltre l'esperienza cristiana, anche significati e visioni culturali che hanno poco o niente da dire all'uomo e al giovane di oggi. Il rifiuto degli elementi culturali delle mediazioni induce fenomeni di rigetto della fede. In molti casi è più che un rischio. Anche le mediazioni religiose vanno allora riformulate in termini educativi attraverso originali sintesi tra «memoria vivente» del Cristo e nuove forme culturali.

    QUATTRO PERCORSI PER UNA STRATEGIA D'INSIEME

    In quali direzioni muoversi allora per un rinnovamento pastorale?
    Per evitare unilateralità è importante avere un quadro di insieme in cui collocare gli interventi.
    Una strategia pastorale, come ogni strategia educativa, deve muoversi in quattro direzioni o secondo quattro livelli strettamente connessi: il livello istituzionale, il livello personale, il livello dei contenuti culturali e religiosi, il livello del metodo educativo.

    Perché questa articolazione degli interventi?

    Una strategia a livello di istituzioni è evidentemente il punto di partenza. Senza istituzioni finalizzate all'educazione dei giovani ogni discorso finisce nel vago. Non basta però avere istituzioni: devono qualificarsi a servizio dei giovani, evolvendosi al loro fianco senza perdere in identità educativa.
    Insistere sul livello istituzionale è importante anche per una serie di fenomeni come l'importanza degli elementi strutturali (riti, itinerari, spazi, ruoli) in campo educativo, il disinteresse di molte istituzioni ecclesiali per i giovani, l'anti-istituzionalismo acritico che ha portato a suicide fughe in avanti tanti gruppi, l'abbandono da parte delle istituzioni sperimentato da molti operatori di pastorale giovanile...
    L'attenzione alle istituzioni e al peso educativo degli elementi strutturali non è tuttavia sufficiente. I cambi istituzionali e strutturali sono decisivi ma non bastano per rinnovare ed educare. I problemi e le resistenze delle persone possono rendere vani gli stessi cambi strutturali. Fare pastorale significa sempre di più attivare processi di «cambio» nelle persone, coinvolgerle in modo rispettoso, accettare «compromessi» sul piano operativo. Significa mettere insieme delle «comunità educative» che valorizzano le individualità e in cui i giovani sono accolti, rispettati, valorizzati in un processo di crescita che riguarda anche gli adulti e le istituzioni.
    In terzo luogo, oggi soprattutto che attraversiamo una crisi culturale in cui il vecchio modello di vita è morto ma uno nuovo stenta a consolidarsi, una strategia pastorale ritaglia larghi spazi ai contenuti culturali e cristiani. Nella crisi alcuni reagiscono con il chiudersi all'interno dei gruppi e delle comunità. Soprattutto quando si ha a che fare con i giovani è pericoloso. Si ritorna ad ambigue opposizioni tra fede e cultura, a spiritualismi e misticismi, a forme più o meno esplicite di «cultura cristiana».
    Di fronte alla nuova domanda culturale basata sulla ricerca di una nuova qualità di vita, quale strategia di contenuti?
    Il quarto livello della strategia è quello dello stile educativo con cui vivere i processi formativi a cui si è fatto cenno ora. Per superare gli scogli dell'autoritarismo e del permissivismo, è necessaria una nuova «competenza educativa». La scelta dell'animazione, intendendo questo termine in senso specifico, rappresenta un modello educativo che accoglie gli stimoli positivi del principio di autorità e del principio di libertà, e li elabora in un originale itinerario educativo.

    IL LIVELLO ISTITUZIONALE Dl UNA STRATEGIA PASTORALE

    Parlare di strategia a livello istituzionale significa in primo luogo chiedere alle istituzioni di verificare con cura la qualità del loro servizio ai giovani. Se lo devono chiedere le diocesi, le parrocchie, i centri giovanili, i movimenti, le scuole, tutti gli spazi di aggregazione giovanile in ambito ecclesiale.
    Una strategia pastorale non ha senso se non coinvolge in prima persona le istituzioni, che invece in questi anni spesso hanno preferito non compromettersi. Hanno lasciato che lo facessero, nel bene e nel male, dei «volontari» che hanno finito per svolgere un lavoro quasi a titolo personale, anche contro le istituzioni o per lo meno lontano da loro.
    Ancora oggi in diverse diocesi manca la volontà politica di dare vita ad una pastorale specializzata nel campo giovanile.
    Qualcosa si sta muovendo, lentamente. L'impegno di rinnovamento è però quasi sempre da parte dei «movimenti» giovanili a carattere nazionale o da parte dei gruppi locali. Si fa sempre più urgente l'impegno delle istituzioni per definire i progetti di una pastorale giovanile locale, zonale, diocesana.

    La rivalutazione delle istituzioni educativo pastorali

    L'investimento di nuove energie sta portando in molti casi ad una rivalutazione delle istituzioni ecclesiali che si pongono come obiettivo l'educazione dei giovani. Dopo anni di destrutturazione, quando non di abbandono, o perché si predicava che non aveva senso una pastorale specifica per i giovani, o perché non si riusciva a mantenersi al passo con la loro evoluzione, c'è un rinnovato interesse educativo e pastorale.
    Anche se alcuni guardano ancora con sospetto le aggregazioni giovanili in cui non ci si dedica solo all'annuncio di fede, ma si fa spazio ai vari interessi e bisogni giovanili, è più pacifico di una volta che per educare alla fede è indispensabile creare ambienti in cui i giovani possano identificarsi. Senza una «pedagogia di ambiente» l'educazione alla fede rischia di ridursi alla trasmissione di informazioni o alle celebrazioni liturgiche. Troppo poco per apprendere a vivere da cristiani.

    Due criteri per qualificare le istituzioni educativo-pastorali

    La rivalutazione delle istituzioni di pastorale giovanile è normalmente un fatto pacifico. Il problema è piuttosto come qualificarle per un reale servizio. Prima di indicare alcune opzioni, è opportuno accennare a due criteri da utilizzare in modo dialettico per verificare la valenza educativa dei vari ambienti e riformularne gli obiettivi.

    Il criterio della plasticità

    Il primo criterio è il recupero della elasticità e plasticità delle istituzioni e delle mediazioni che si sviluppano al loro interno.
    Ogni struttura educativa con il passare degli anni tende naturalmente a perdere in elasticità e a irrigidirsi per conservarsi il più possibile inalterata nel tempo.
    Alla base della sclerotizzazione si nasconde una crisi di comunicazione della istituzione con il mondo esterno, coi giovani soprattutto. Mancando il confronto con l'esterno vengono a mancare le informazioni per mettere in discussione i vecchi equilibri e ricercarne dei nuovi. Le istituzioni ecclesiali che si occupano dei giovani sono facilmente colpite da questo male, anche perché tendono a darsi una struttura piramidale con il potere accentrato nelle mani di pochi. La conseguenza è che il loro stile, le loro attività, in una parola la loro proposta, si riducono a compiti di routine, modulati su schemi pastorali validi nel passato e ritenuti validi anche oggi.
    Solo un confronto tra istituzione pastorale, realtà sociale e mondo giovanile può sbloccare la situazione di stallo e avviare nuovi processi formativi. Assumendo con cura informazioni corrette sulla condizione giovanile la istituzione può ritrovare elasticità e lasciarsi, entro certi limiti, trasformare dalle nuove esigenze educative.

    Il criterio della identità

    Il secondo criterio per una innovazione istituzionale è la fedeltà alla identità della istituzione, cioè la conoscenza, la comprensione, la accettazione (almeno implicita e globale) dei suoi obiettivi.
    Un centro giovanile ha sempre una identità, per il fatto stesso che ha delle strutture, si organizzano delle attività, circolano delle persone con determinati ruoli e compiti... Questo non basta perché abbia una identità educativa. L'identità di un centro è educativa se è immediatamente sperimentabile dal giovane, ed è una proposta effettivamente praticabile. La domanda è: che cosa i giovani sperimentano nella vita di un centro?
    Per non perdere il contatto con i giovani alcuni ambienti hanno mascherato la loro identità ecclesiale e si sono trasformati in generici spazi di incontro per giovani. Per ritrovare rilevanza nel mondo giovanile hanno perso la loro identità. Questa strategia non paga a sufficienza. Non ha pagato nel passato perché i giovani si sono serviti in modo strumentale degli spazi ecclesiali. Non paga oggi, perché i giovani sono diffidenti verso le istituzioni che non dichiarano la loro identità e tentano operazioni di proselitismo, e perché in effetti hanno bisogno di incontrare proposte abbastanza identificabili e chiare.
    Da parte di alcuni, per uscire dalla ambiguità, si sta tornando a parlare della identità in modo rigido. Secondo loro, dopo anni di confusione è giunto il momento di chiarire le cose, cioè di allontanare dagli spazi giovanili ecclesiali gli «infiltrati», che non sono pronti a fare una esplicita scelta di fede, e di chiedere una altrettanto precisa opzione di fede per potervi accedere.
    Si confonde l'identità personale del giovane con la identità delle istituzioni. I giovani sono alla ricerca di una identità e questa avviene in modo lento, con momenti di esaltazione, pausa, riflessione, crisi...
    Il criterio della identità riguarda piuttosto che i singoli, le istituzioni e le loro finalità.
    La identità della istituzione educativa ecclesiale non va neppure confusa con quella chiesa in quanto tale. L'identità della istituzione educativa è in effetti una identità-ponte, perché si propone di collegare la ricerca dei giovani e la proposta cristiana. In quanto identità «educativa» sopporta, nel senso positivo di «si fa carico», quanti sono ancora in ricerca e misura i tempi di maturazione sui ritmi del singolo e sui ritmi dell'ambiente in cui il giovane vive.

    Alcune «qualificazioni» per le istituzioni giovanili ecclesiali

    In quale direzione qualificare oggi i centri educativi per giovani?
    * Un centro giovanile deve oggi essere pensato prima come servizio alla maturazione della identità personale del giovane, e poi come luogo di esercizio della sua responsabilità e attività sociale ed ecclesiale.
    È in crisi la identità dei singoli, la risposta personale ai grandi temi della vita, la coordinazione dei desideri in progetti praticabili. Se fino a qualche anno fa un centro era soprattutto un luogo di attività in funzione del cambio sociale ed ecclesiale, oggi sembra decisivo che le sue proposte siano di servizio alla ricerca di un senso alla vita.
    Contro la frammentazione ed il relativismo culturale, un centro giovanile deve porsi come «cassa di risonanza» e di composizione critica delle proposte delle agenzie di socializzazione e delle esperienze personali. Solo all'interno di questo orientamento si potrà parlare anche di esercizio della responsabilità ecclesiale e sociale.
    * C'è tra i giovani un intenso e mai a sufficienza soddisfatto bisogno di rapporti personali, stare insieme, fare festa, comunicare gratuitamente con gli altri, anche come reazione ad una società pragmatista, utilitarista, produttivistica.
    In questo contesto è urgente riscoprire il valore della persona, del rapporto interpersonale, della accoglienza, del fare festa insieme. Per rispondere a tali requisiti un centro deve qualificarsi come luogo di educazione alla comunicazione: comunicazione con il sé profondo, comunicazione con gli altri, comunicazione con l'ambiente. Compito decisivo è la cura dello stare insieme, del rispetto e della tolleranza, della gratuità nell'incontro con gli altri, del fare della festa non un semplice momento di relax ma un momento di esperienza di senso.
    * Connesso a questo bisogno è l'orientamento a cercare una nuova qualità di vita nella pratica quotidiana. La caduta della speranza nel cambio politico-strutturale spinge a ricercare il «nuovo» nella immediatezza e concretezza quotidiana. Un centro giovanile è un laboratorio di vita quotidiana se affronta il problema di come vivere in un tempo di assenza di certezze e di grossi obiettivi, se in qualche modo collabora per elaborare un «nuovo stile» di vita.
    * Un ruolo particolare, oltre alla cura dell'aspetto personale della vita, va dato, in un tempo di crisi del politico, all'azione nel sociale e nel prepolitico (animazione, volontariato tra gli anziani e gli handicappati, servizio civile, partecipazione nei quartieri). In questi spazi si può lentamente abilitare ad una nuova capacità di azione ed intervento nella realtà, ad un'azione più vicina al mondo in cui si vive, meno spersonalizzante, più immediata e controllabile nei risultati. In questo modo si riapre in termini costruttivi anche il discorso di una nuova coscienza politica e di un modo nuovo di fare politica.
    * Viviamo in un tempo di pluralismo che ha attutito la forza di qualsiasi proposta che intenda farsi totalizzante, in grado di organizzare la intera vita di una persona.
    Un centro giovanile ecclesiale non può essere semplice «dialogo sulla crisi» ma deve essere un vero centro di proposta educativa, culturale, religiosa. Non solo per rispondere alle domande dei giovani, ma anche per provocare le domande e mettere in crisi il qualunquismo.
    In particolare deve essere spazio convincente di una proposta di fede in grado di dare senso alla vita nel suo insieme. Tutt'altro che nascondere la propria identità, invita con coraggio e intelligenza al passaggio da una fede abitudinaria o anonima ad una fede confessante, dando rilievo ai momenti espliciti di vita religiosa come la eucaristia, la penitenza, la preghiera quotidiana, la partecipazione alla vita parrocchiale e diocesana.
    La non-direttività, la paura di essere rifiutati dai giovani, la reale difficoltà di un linguaggio lontano dalle nuove generazioni, hanno indotto una insicurezza negli educatori, fino a smarrire il coraggio della proposta. Oggi il rischio, non è l'eccesso di proposta, ma anzi il suo affievolirsi. La esigenza di radicalità e di essenzialità e la nuova domanda religiosa sembrano invocare una certa «violenza propositiva». Le scelte, (anche di rifiuto del messaggio cristiano) infatti si fanno davanti alle proposte e non davanti al silenzio. A patto, evidentemente, che questo non significhi integrismo, fanatismo, emarginazione dei giovani che non arrivano ad una scelta esplicita di fede.
    * Un'ultima qualificazione è l'educazione al senso delle istituzioni.
    I centri giovanili in questa direzione vanno pensati oltre che come «mondi vitali» in cui i dinamismi affettivi favoriscono la nascita di nuove energie e la ricerca di un senso alla vita, anche come «piccole istituzioni», cioè come ambienti organizzati con ruoli, funzioni, norme e regole di vita, relazioni sufficientemente stabili con le istituzioni sociali ed ecclesiali, itinerari di crescita...
    I centri giovanili pur conservando un minimo di elasticità evitano perciò una eccessiva fluidità interna ed esigono un minimo di controllo sui propri membri. In particolare accumulano progressivamente una storia, una memoria che lentamente si integra con la più vasta memoria ecclesiale e sociale. I «nuovi» non dovranno allora iniziare tutto e sempre da capo. A contatto con l'esperienza accumulata troveranno più facile individuare punti di riferimento per la loro vita personale e avranno il tempo di sperimentare con calma un rapporto positivo con le istituzioni e aprirsi, senza grossi traumi e in modo critico, al mondo sociale ed ecclesiale di più vasta portata.

    IL LIVELLO DEGLI ATTEGGIAMENTI PERSONALI

    Per operare una innovazione non basta un cambio istituzionale e strutturale. Ogni innovazione è possibile solo se riesce a coinvolgere le persone che ne fanno parte e indica, al momento del cambio, quali atteggiamenti personali e interpersonali vanno attivati.
    Una strategia istituzionale presuppone che i cambiamenti strutturali generino mutamenti nelle interazioni personali. L'esperienza dimostra che raramente questo mutamento relazionale si verifica. Anzi, spesso il mutamento strutturale genera tensioni interpersonalii che vanificano il progetto di cambio.
    Una strategia di pastorale giovanile raggiunge i suoi obiettivi, se individua, oltre gli opportuni cambi istituzionali e strutturali, nuovi atteggiamenti reciproci, capaci di veicolare nuovi messaggi educativi e di dare origine a nuove strutture psicosociali.
    Certo il mutamento relazionale da solo non basta. Occorre ricordarlo contro ogni forma di intimismo educativo. Come avviare allora un processo pastorale che curi la dimensione personale dell'educazione e insieme coinvolga criticamente nelle varie istituzioni sociali ed ecclesiali? Una risposta va cercata nel vivere il processo educativo dentro le istituzioni in termini di «comunità educativa».

    La «comunità educativa»

    Quale contenuto dare al concetto di comunità? Può essere stimolante partire dai vari usi del termine.
    Si può notare anzitutto come molti «gruppi» (e centri) giovanili si definiscano sempre più come «comunità». L'operazione semantica accentua gli elementi di fraternità, accoglienza reciproca, gratificazione emotiva dei membri. Ed evidenzia la consapevolezza di essere passati da una ricerca di valori e di senso, alla condivisione di una identità comune.
    Questo uso sottolinea due elementi della comunità: la possibilità di frequenti rapporti faccia a faccia; la condivisione di determinati valori.
    Un secondo uso del termine si ha quando si parla di «comunità cristiana» e di «comunità parrocchiale». Vengono accentuati altri elementi. Il primo è teologico: la comunità prima che conquista è «dono» che trova la sua radice nella Pasqua di Cristo. In altre parole si coglie l'aspetto misterico della comunità e lo si utilizza per affermare un nesso profondo tra alcune persone.
    Nel parlare di comunità parrocchiale si ricorda anche lo spessore istituzionale della comunità, la quale non esiste come mondo separato o interno alle strutture. Ogni comunità implica ruoli, funzioni, impegni e compiti, norme e usi a cui tutti in qualche modo fanno riferimento.
    Un altro uso si ha quando la comunità viene connotata come «educativa». In questo caso si sottolinea che i suoi membri si considerano in stato di «formazione permanente».
    I vari usi del termine permettono di delineare alcuni punti fermi in prospettiva educativa.
    Anzitutto si tratta di creare spazi di aggregazione giovanile in cui si fa luogo, in modo critico, al bisogno di rapporti interpersonali, al rispetto della individualità, alla rassicurazione esistenziale. Il successo numerico ed educativo dei «movimenti» che prestano attenzione a questi aspetti della vita sono una conferma della importanza di un simile orientamento.
    D'altra parte una comunità non è solo un ambiente in cui si svolgono delle relazioni, ma è anche e soprattutto un luogo in cui ci si educa reciprocamente alla relazione, a nuovi e sempre più maturi atteggiamenti interpersonali. Il cambio nella sfera personale è decisivo non solo per la vita della comunità, ma anche per il cambio sociale nel suo complesso.
    Il secondo orientamento è la attenzione ai temi della identità e della proposta di valori. Solo in questo modo si elabora in termini educativi un discorso di comunità che, prima ancora che somma di rapporti faccia a faccia, è condivisione di valori e di una pratica di vita.
    In terzo luogo vanno recuperati, oggi soprattutto, gli elementi istituzionali per controbilanciare la tendenza dei giovani a vivere solo il lato personale dei rapporti sociali ed ecclesiali, trascurando il rapporto con le istituzioni.
    L'educazione al senso delle istituzioni non è possibile d'altra parte senza un esercizio concreto di responsabilità del giovane. Non si può quindi soltanto esigere prestazioni senza che ci sia accesso e corresponsabilità nelle decisioni e negli orientamenti della vita comunitaria.
    In quarto luogo va accentuata la dimensione cristiana del fare comunità.
    La scelta di fede va presentata come progressivo orientamento alla vita comunitaria, senza per questo proporre stili di vita monacali o semimonacali.

    Una pastorale attenta alla dimensione personale della crescita

    Da sempre il rispetto della persona e l'attenzione alla dimensione personale della crescita sono stati due criteri fondamentali per l'educazione. Oggi tuttavia se ne parla in modo nuovo. Tra le cause della rinnovata attenzione alla persona si possono ricordare il rischio della distruzione del «soggetto» nella società del consumismo e del conformismo, la cura delle nuove generazioni per i temi del personale, la considerazione che non sempre la pastorale giovanile si è preoccupata che la scelta di fede fosse una scelta personale prima che di gruppo o di ambiente. Per uscire dal conformismo di gruppo e dal conformismo sociale occorre fare maggiormente spazio alla educazione del singolo.
    Come tradurre questa nuova valorizzazione della persona in termini pastorali? Perché l'educazione sia un servizio alla «scelta personale» vanno valorizzati gli strumenti che abilitano a «vivere dentro», a far risuonare dentro di sé gli avvenimenti in cui si è coinvolti.
    A livello conoscitivo vanno valorizzati maggiormente i momenti di «solitudine», come i tempi di preghiera personale, le giornate di ritiro e di deserto, l'incontro ed il dialogo franco con adulti e giovani con una grossa carica umana e cristiana, la lettura e meditazione di libri di spiritualità, la confessione come appuntamento con la dimensione profonda della propria responsabilità, il contatto prolungato e calmo con la natura. I giovani oggi devono poter usufruire maggiormente di questi momenti, proprio perché ingolfati in troppe proposte, parole, attività.[2]
    Un altro aspetto della educazione personale è l'educazione alla «disciplina» e alla «ascesi». Di fronte al problema cruciale di tradurre i valori in stile di vita molti giovani falliscono, per la difficoltà dell'impresa ma anche perché non sono abituati a «pagare di persona». A molti manca una disciplina personale che li metta in grado di utilizzare con continuità le loro energie. Manca la calma, la politica dei piccoli passi, il distacco dal successo immediato, la possibilità di dilazionare nel tempo la gratificazione, il senso del «sacrificio». Senza fare del moralismo bisogna chiedere ai giovani un reale impegno per apprendere a vivere la coerenza. Lo sviluppo del personale non può essere una targhetta di comodo per coprire la indecisione, la paura di esporsi e di rischiare, la incapacità di mantenere a lungo gli impegni, l'insofferenza per le piccole regole pratiche della vita di gruppo... Compito della pastorale è in questa direzione la ricerca di nuovi spazi di verifica personale, un certo «controllo» sulla vita dei giovani, nuovi spazi per apprendere a sostenere il peso di responsabilità, iniziative in cui esprimere la libera dedizione di sé agli altri.

    L'educatore come ruolo e come persona

    Va ripensato anche il rapporto tra operatori e comunità. I primi devono essere consapevoli di essere educatori non a titolo personale ma a nome di una comunità a cui, in un certo senso, devono rendere conto. La comunità deve a sua volta impegnarsi in una specie di «mandato» agli operatori, in modo che si sentano accompagnati, capiti, sostenuti nel loro compito. Molte scollature educative non nascono da grossi problemi culturali o teologici, ma dal raffreddamento dei rapporti personali tra educatori e istituzioni ecclesiali.
    Il mandato della comunità si esprime in particolare al momento della scelta degli educatori. Raramente ci si chiede fino a che punto, per esempio, i giovani animatori sono preparati sul piano personale e sul piano della competenza educativa. E del resto, fino a che punto ha senso contare solo sulla collaborazione dei giovani animatori? Non è giunto il momento di chiedere un impegno maggiore agli adulti nella pastorale giovanile?
    Non basta che gli operatori abbiano buona volontà. Oggi è urgente dare competenza «professionale» a quanti nella chiesa vogliono occuparsi dei giovani. Sono da moltiplicare quindi i corsi di preparazione di nuovi educatori, per qualificarli oltre che sul piano dei contenuti della fede anche sul piano del metodo educativo.

    UNA STRATEGIA PASTORALE ATTENTA Al CONTENUTI

    Una strategia pastorale deve anche fare i conti con l'attuale momento di transizione o, come dice qualcuno per sottolineare il carattere passivo del fenomeno, di trapasso culturale.
    Raramente si fa con i giovani attività in termini di riflessione culturale e di studio dei tanti problemi che la società sta vivendo. I gruppi hanno un linguaggio povero e soffrono di scissione tra linguaggio personale dei giovani, aperto alle nuove problematiche, e linguaggio ufficiale, spesso infarcito di moralismo e tradizionalismo.
    Alcuni gruppi fanno riflessione culturale, ma lo fanno in termini di rivincita della fede nei confronti della cultura moderna e delle sue sconfitte. Altri invece si sono rifugiati nel mondo del sentimento religioso e dell'oltrerazionale. A nulla serve l'atteggiamento di rivincita o il disinteresse. Occorre invece assumere la crisi. E occorre un «nuovo fare», meno politico e più culturale.
    Quale strada percorrere per un nuovo investimento culturale nei gruppi giovanili ecclesiali? Si intravedono quattro passi successivi tra loro collegati.

    La assunzione della crisi

    Il primo passo è la assunzione della crisi. Si tratta in qualche modo di imparare a vivere con minori sicurezze e di non confondere la certezza che offre la fede con la insicurezza che emerge ogni volta che sul piano delle scienze umane (e prima ancora sul piano della vita quotidiana) ci si pone il problema di una sintesi organica delle esperienze personali e collettive.
    Vivere senza sicurezze vuole anche dire sopportare la frammentarietà e apprendere la vita ricucendo faticosamente le varie esperienze.
    Il rischio è di finire nelle secche del relativismo, dello scetticismo e del nichilismo. Contro questi rischi non bastano le ventate di tradizionalismo o di utopismo più o meno ingenuo.
    Bisogna invece attrezzare i giovani ad una marcia faticosa in cui si impara ad utilizzare sistemi poveri e ideologie deboli, cioè piccole progressive sintesi della realtà attraverso cui consolidare il bisogno di fare unità e avere una «visione della vita».

    La «nuova soggettività» come problema educativo

    Il secondo passo è la ricognizione delle nuove riflessioni sull'uomo in vista di una loro liberazione.
    Quali sono le nuove istanze culturali non è facile dirlo e tanto meno sintetizzarlo velocemente. Emergono alcune linee che attraversano la attuale frammentazione e differenziazione. Più che altro dei nuovi germi. Rimandando a studi più competenti e organici per una loro recensione completa bisogna limitarsi ad alcuni accenni, per indicare in che senso attivare un confronto educativo sulla «nuova soggettività».
    Non è questo il momento di elencare i tratti della nuova soggettività, che del resto in questo dossier sono già stati presentati con molta chiarezza da Carlo Nanni. Rimandiamo a quelle pagine, sottolineando ancora una volta che la lettura va anzitutto fatta in termini scientifici, ed in secondo luogo va fatta con sensibilità educativa.

    Il confronto con la memoria culturale

    Si dice che i giovani sono senza memoria, per indicare che entro certi limiti sono sradicati dalla loro cultura. In altre parole, i giovani sanno poco del passato e il modo con cui lo sanno si rivela inutile per la loro vita personale.
    Cosa si intende con memoria? Si distingue tra memoria e tradizioni. Per memoria (o tradizione) si intende la capacità dell'uomo di rifarsi continuamente alla sua costituzione essenziale. Quando si dice che i giovani sono senza memoria ci si riferisce alla loro incapacità di ancorarsi alla storia e alla cultura.
    L'educazione alla memoria si propone di far entrare i giovani in contatto con «la sedimentazione del passato di una collettività in documenti e costumi, in convinzioni e gusti, in ideali e strumenti». Ai giovani che poco sanno di tutto questo è giusto far osservare che «senza passato non c'è presente e non potrà esserci futuro». La pretesa di dare vita a una nuova soggettività buttando a mare il patrimonio culturale, nasconde spesso la incapacità a confrontarsi criticamente e serenamente con esso.
    Lo spazio in cui educare alla memoria è lo spazio della «cultura da fare», tenendo conto della «cultura già fatta». Non si educa alla memoria per il gusto del passato ma per apprendere a vivere oggi, e essere in grado di pensare e volere un futuro. La cultura da fare è l'angolatura con cui entrare in contatto con il passato ed impone una fecondazione delle nuove intuizioni culturali con le indicazioni che vengono dalla «memoria» di un popolo. Solo in questo modo la nuova soggettività si libera dalle numerose ambivalenze.

    La risignificazione nella fede

    La «nuova soggettività» emergente, caratterizzata dal rifiuto di tutto ciò che può annullare il personale e la individualità, dalla esaltazione del quotidiano e del corporeo, da una nuova ricerca etica fondata sul soggetto e sul desiderio, è ricca di ambivalenze anche rispetto ad una visione cristiana della vita. In effetti la nuova elaborazione avviene al di fuori di qualsiasi riferimento al mondo religioso cristiano o a qualsivoglia forma culturale del cristianesimo.
    Come riflettere con i giovani ed in termini di fede sulla nuova soggettività? L'avvicinamento alla nuova soggettività, al di là dei facili innamoramenti, va collocato in un contesto teologico preciso. La teologia della incarnazione indica una strada e offre indicazioni originali.
    Il primo compito è l'assunzione della crisi nella fiducia che ogni ricerca umana, per dono di Dio in Cristo, può diventare luogo di salvezza. La pastorale giovanile deve preparare sempre nuovi spazi culturali in cui incarnare la parola di Dio, rinnovando continuamente la scelta di Paolo agli Ateniesi: «Vi annuncio ciò che venerate». «Non si tratta di consegnare il sapere contemporaneo ad un altro sapere, bensì di svelare ciò che esso venera» (G. Ruggieri).
    L'orientamento alla incarnazione spinge in secondo luogo a non vendere con il messaggio della fede anche le forme culturali del mondo adulto o, peggio ancora, del passato, e dall'altra a non usare in modo ingenuo il nuovo linguaggio perché, a volte, non offre molti spazi per un annuncio di fede.
    Accogliere la cultura della nuova soggettività non deve dunque svuotare l'esperienza di fede, che resta sempre portatrice di elementi di «rottura» e di «critica» per ogni cultura umana. Non si può svuotare di senso e rendere vana la croce e la risurrezione di Gesù Cristo. La fede si impegna a risignificare i temi culturali emergenti, consolidando e purificando quelli presenti, integrando quelli carenti, per riconsegnare alla fine «l'uomo all'uomo».
    L'approccio della fede alla cultura non può essere fatto in termini captativi o strumentali (per gettare una testa di ponte in campo nemico) e neppure in termini di contrapposizione, come sta accadendo invece in diversi ambienti giovanili ecclesiali. Deve sempre trattarsi di un «fare compagnia» alla crisi, senza rivincite e senza voler sostituire i dati della fede alla faticosa ricerca di nuove concezioni di vita.

    Le ragioni della fede

    Un capitolo a parte, anche se in continuità con i precedenti, è quello che oggi va sotto il titolo «la riscoperta delle ragioni della fede». In questi anni l'educazione alla fede si è mossa alternativamente o sulla strada del «vieni e vedrai» facendo vivere ai giovani esperienze significative, senza tuttavia preoccuparsi di dare in modo organico e sistematico «contenuti» di fede; oppure sulla strada di una intensa catechesi dei contenuti, senza tuttavia preoccuparsi di far sperimentare un ambiente in cui acclimatarsi ad uno stile di vita cristiano.
    Le due piste sono state spesso opposte l'una all'altra.
    Il Catechismo dei giovani ricordando con forza la importanza di un confronto prolungato dei giovani con i «contenuti» della fede, ha riaperto il grande capitolo della dimensione veritativa della fede. Contro tendenze irrazionaliste ha sostenuto il ruolo della ragione nell'educazione alla fede. Contro tendenze razionaliste ha sostenuto un modo di «dare ragione della fede» in termini non di verità oggettiva ma di significatività della fede per la vita del giovane.
    Per il Catechismo dei giovani i due poli della educazione alla fede sono il vissuto del giovane e della comunità cristiana, e la attività di riflessione-intelligenza della fede.
    Il rapporto tra i due poli deve evitare unilateralità; ognuno dei due deve definirsi alla luce dell'altro. Bisogna non esasperare il polo-riflessione dando «ragione della fede» con metodi di tipo storico, scientifico o metafisico che pretendano di «dimostrare» la ragionevolezza della fede. La fede è non la risultante di un processo dimostrativo sul piano della pura razionalità
    Bisogna anche evitare la esasperazione del polo-esperienza, quasi che il credere sia una scelta irrazionale ed emotiva di vita, senza che la ragione vi abbia alcuno spazio.
    L'accesso alla fede è dato invece da una conoscenza per «connaturalità», cioè da una conoscenza-riflessione che nasce dentro un vissuto soggettivamente significativo, e con l'aiuto non solo della intelligenza, ma di tutta la persona del credente. Al fare esperienza di vita cristiana deve dunque accompagnarsi la riflessione sulla sua «sensatezza». La dimensione veritativa della fede è la dimensione della sua sensatezza, cioè della coniugazione, con metodo razionale, di esperienza umana e di «contenuti» cristiani. Come concretamente realizzare questo obiettivo?
    La riflessione esplicita sui contenuti deve accompagnare di pari passo l'esperienza di una comunità cristiana. Senza il sostegno della esperienza di senso la fede viene ridotta ad ideologia.
    La riflessione sui contenuti va misurata in secondo luogo non solo sul bisogno di «fare un discorso completo», ma anche sulla assimilabilità soggettiva di nuovi contenuti.
    L'attenzione ad un approfondimento catechetico e teologico si sta oggi facendo più intenso tra i giovani. Si moltiplicano i corsi di teologia, i corsi biblici, le iniziative di catechesi sistematica. L'adolescenza e i primi anni della giovinezza vengono sempre più proposti come anni di «scuola di fede», con un particolare rilievo per i contenuti espliciti. In un tempo di pluralismo di proposte che sconfina nello scetticismo, le scuole di fede sono un servizio indispensabile per il consolidamento o la rinascita della fede. Molti giovani non hanno avuto più occasione di riflettere sulla sensatezza della fede dal tempo della cresima o prima ancora.

    LA SCELTA DELL'ANIMAZIONE

    Resta ancora da approfondire lo stile educativo con cui vivere le varie dimensioni della strategia pastorale. Con quale metodologia muoversi all'interno delle tre tensioni accennate all'inizio, e cioè l'anticontenutismo, l'antimetodologismo, l'elaborazione depressiva o del ruolo dell'adulto (antiadultismo) o del giovane (autoritarismo) nel rapporto educativo?
    È necessario un metodo educativo che permetta il recupero della figura dell'adulto e della tradizione in termini di autorevolezza e non di autoritarismo; che permetta di passare da una «educazione del silenzio» ad una «educazione della proposta»; da una educazione settoriale (solo contenuti, solo rapporti faccia a faccia, solo educazione alla fede) ad una educazione come evento complessivo della vita del giovane; da una educazione frutto di buona volontà ad una educazione frutto anche di competenza.
    Una risposta a queste esigenze è possibile individuarla in una pastorale che faccia dell'«animazione» l'orientamento e la scelta progettuale e operativa di fondo.[3]

    L'animazione al crocevia di educazione, socializzazione, inculturazione

    Diamo al termine animazione, contrariamente all'uso generico che se ne fa, un contenuto specifico che la pone al crocevia tra processi di educazione, socializzazione, inculturazione.
    La maturazione dell'individuo è frutto di molti interventi. È, in primo luogo, frutto della educazione, cioè di tutti quei processi formativi in cui avviene uno scambio «sotto controllo» tra mondo degli adulti e mondo dei giovani. Nelle «istituzioni educative» il giovane viene curato e arricchito fino a che è in grado di utilizzare gli strumenti linguistici ed operativi del sistema sociale.
    Oltre l'educazione c'è uno scambio più vasto tra giovani e ambiente. Il giovane è immerso in un «processo di socializzazione», cioè di acquisizione di una serie di competenze, ruoli, compiti in famiglia, nel lavoro, nel tempo libero. Mentre la socializzazione percorre le sue tappe si delinea un ulteriore punto di contatto tra giovane e sistema sociale, il «processo di inculturazione». In questo scambio viene a forgiarsi la personalità/identità del giovane che fa suoi, in modo sempre più consapevole, degli schemi interpretativi e operativi, degli atteggiamenti e delle scale di valori, uno stile di vita. Entra a far parte di una determinata cultura.
    In questo quadro formativo della personalità l'animazione non è un settore a parte, a fianco della educazione, socializzazione, inculturazione, ma piuttosto è uno stile particolare con cui «pilotare» la crescita delle nuove generazioni, e più in generale, i processi di formazione permanente.
    L'animazione dà un sapore originale alle attività formative, è un «catalizzatore» che scatena e regola lo svolgimento dei processi formativi. Quando è assente si fa strada l'alienazione, la schiavitù, l'oppressione dell'uomo sull'uomo. Al contrario c'è l'animazione quando si vivono rapporti liberanti, carichi di speranza, aperti all'incontro con gli altri e alla stessa dimensione trascendente della vita.
    L'animazione si caratterizza, nel quadro della educazione, socializzazione ed inculturazione, per un obiettivo specifico. Si propone di «consentire all'individuo di partecipare attivamente, creativamente e criticamente alla gestione dei processi che il sistema sociale in cui (il giovane) è inserito ha attivato affinché egli possa sviluppare le sue specifiche caratteristiche, la sua personalità, e, nello stesso tempo, svolgere un ruolo utile secondo le regole di fini del sistema stesso, assorbendo anche tutta la irrepetibile esperienza umana che è cumulata nella sua cultura» (NPG 1980/12, p. 45). L'animazione vuole condurre gli educandi alla capacità di reale autogestione, a livello individuale e collettivo, dei processi di formazione ed apprendimento, rendere l'individuo ed il gruppo co-animatori di se stessi e fare della vita un momento permanente di formazione. L'obiettivo quindi non è solo «apprendere», ma «imparare ad apprendere» anche per il futuro.
    In un tempo come il nostro di settorializzazione, di non comunicazione tra i vari ambiti di crescita, l'animazione vuole quindi promuovere la tensione alla sintesi dei processi formativi, ponendo al centro l'unità della persona. In questo senso l'animazione è una metodologia formativa globale che mira ad una crescita ed educazione armonica dell'individuo considerato un'unità indivisibile e non una somma di parti o di funzioni. Per raggiungere i suoi obiettivi l'animazione dispone di strumenti originali che possono essere ridotti a tre: la teoria della comunicazione, il gruppo primario come spazio privilegiato, la ricerca come atteggiamento e metodo nella soluzione dei problemi.

    La teoria della comunicazione

    Molti dei problemi di crescita individuale e sociale nascono da disturbi nel campo della comunicazione e dalla difficoltà di utilizzare in modo corretto i simboli che permettono lo scambio intersoggettivo e con l'ambiente.
    L'animazione si propone di condurre i soggetti a conoscere, appropriarsi e ristrutturare i loro processi di comunicazione.
    Quali sono i problemi a cui dare risposta e in che modo possono interessare la pastorale giovanile?
    La comunicazione soffre anzitutto di grossi disturbi nel modo con cui i concetti e le parole si riferiscono alla realtà. Le parole si fanno spesso astratte, suono senza contenuto, espressioni incapaci di veicolare esperienze significative.
    In secondo luogo i simboli usati nella comunicazione sono scarsamente evocativi dei livelli profondi della realtà: sono superficiali, pragmatici, espressione di una scientificità che usa le cose senza chiedersene il senso.
    Altro grosso disturbo è l'estraneità del linguaggio dei giovani e degli adulti. I primi parlano un loro linguaggio selvatico, che per molti versi ha perso la ricchezza del linguaggio elaborato nel passato. I secondi usano simboli avulsi dalle esperienze che i giovani stanno conducendo.
    I problemi della comunicazione influiscono in modo massiccio nel rapporto tra giovani e fede. Il rifiuto della fede è spesso solo rifiuto dei simboli che la veicolano. Come non pensare che il rifiuto della liturgia, ad esempio, non sia fortemente indotto dalla scarsa capacità evocativa dei suoi gesti e delle sue espressioni, cariche di incrostazioni e messaggi culturali ormai incomprensibili?

    Il gruppo primario e la dinamica di gruppo

    Il secondo strumento di cui si avvale l'animazione è il gruppo primario.
    Il gruppo primario è luogo dello spazio-tempo privilegiato per l'animazione culturale in quanto è «un ambito vitale» in cui maturano le scelte di base dell'individuo. Il gruppo primario è in effetti, secondo la psicologia sociale, il focolaio dei mutamenti della personalità individuale e, di conseguenza, dei sistemi sociali.
    I processi che avvengono nel gruppo primario sono spontanei, senza controllo alcuno. L'esperienza insegna come regolarsi. Gli errori non sono pochi, soprattutto quando il piccolo gruppo diventa unità educativa di base.
    Per sottrarre questi rapporti alla casualità o alla legge del più forte, la dinamica di gruppo ha svelato alcuni meccanismi della sua vita e ha indicato come «controllarli» per ottenere determinati risultati. Utilizzarla in campo educativo significa farne un uso commisurato ai fini, primo fra tutti il rispetto e la liberazione della persona che dal processo deve uscire con una accresciuta consapevolezza di sé e della realtà.
    I «fatti» che la dinamica di gruppo affronta sono per alcuni versi gli stessi nel tempo, ma per altri versi sono sempre nuovi. Così, da sempre esiste il problema del rapporto tra gratificazione ed efficienza nel gruppo. Ma oggi, nel vissuto dei giovani, è un problema con dei risvolti tipici: il bisogno di gratificazione sembra accresciuto e ciò solleva problemi educativi nuovi. Così, ancora, al centro dell'attenzione oggi bisogna porre due nodi pastorali a cui si è più volte fatto cenno: il rapporto tra scelta di gruppo e scelta personale a proposito di valori e di fede, ed il rapporto tra i piccoli gruppi (che rischiano di chiudersi al loro interno) e le istituzioni del sistema sociale.[4]

    Il «comportamento di ricerca»

    Il terzo «strumento» è il comportamento di ricerca.
    Viviamo in una società che educa alla acquisizione acritica e passiva della cultura sociale: si è sempre e solo consumatori, anche se consumatori intelligenti. Una strategia di animazione si propone non solo di insegnare a consumare «cibo» ma anche di educare a procurarselo, attraverso l'apprendimento di una precisa metodologia che attivi lentamente un «comportamento» di ricerca.
    Un modello di ricerca implica almeno tre «momenti» e la presenza di un «esperto».
    1. Presa di coscienza. È il momento in cui in un ambiente educativo emerge l'esigenza di cambiamento. La situazione si presenta come «problema» da affrontare e come cambio da effettuare. Il primo passo è la raccolta di tutti i dati disponibili sulla situazione (con particolare attenzione alle vicende della istituzione e delle persone), facendo in modo di individuare anche le possibili cause e le ipotesi di soluzione del problema
    2. Progettazione degli interventi. Una volta individuate, le alternative vengono ordinate, attraverso un lavoro di gruppo: si calcolano le risorse disponibili, si progettano gli interventi, si prevedono i tempi di azione.
    3. Adozione di nuovi atteggiamenti interpersonali. Il cambio istituzionale da solo non è sufficiente come non è sufficiente avere dei contenuti da trasmettere. La metodologia della ricerca richiede a chi è in situazione la disponibilità ad un cambio di atteggiamenti verso le persone, le istituzioni, gli interventi programmati. Si tratta in altre parole di creare un nuovo clima in cui regni la fiducia interpersonale e la fiducia nel raggiungimento degli obiettivi.
    4. Un agente di cambiamento. Tratto caratteristico di questo modello è la presenza di un agente di cambiamento (un animatore), cioè di un esperto capace di innescare il processo e di condurre a buon termine il cambiamento deciso. È il «ruolo» di quanti vogliono dedicarsi ai giovani in campo educativo e pastorale. In questo senso è decisiva per una innovazione pastorale la preparazione professionale di animatori.

    CONCLUSIONE: UNA MENTALITÀ STRATEGICA

    Pensare ed agire in termini di strategia non è impresa facile, come ben si capisce, perché si tratta di mantenere nel giusto equilibrio gli elementi di un sistema complesso come la pastorale giovanile. Si richiede una «mentalità strategica» fatta di riflessione ed intuizione, capacità innate e esperienza acquisita, interesse ai problemi teorici e abilità progettativa e operativa.
    Una mentalità strategica richiede di giostrarsi tra diversi modi di pensare e di procedere, tra loro interdipendenti.[5]

    Pensare per opposizioni

    Il primo modo è il «pensare per opposizioni». Pensa per opposizioni chi vede la pratica pastorale a partire da analisi precise, da ipotesi di lavoro preferenziali che escludono altre, da modelli diversi tra i quali se ne sceglie uno con chiarezza.
    In genere si deve dire che questa modalità di pensiero non è molto sviluppata. Si preferisce essere dei praticoni o applicare alla lettera modelli prefabbricati. Spesso si cade nel dogmatismo e nell'integrismo pastorale, perché si assolutizzano le proprie posizioni senza tener conto delle diverse situazioni.

    Pensare per composizioni

    Una volta scelta, attraverso un procedimento per opposizioni, una linea pastorale, si passa alla sua realizzazione. In questa fase agisce una nuova logica, quella del «pensare per composizioni». Pensa per composizioni chi ragiona non sulle ipotesi e sul «dover essere» soltanto, ma ragiona anche su ciò che qui-ora è possibile. Pensa per composizioni chi vede la pastorale come «compromesso» tra diverse mentalità di operatori, come mediazione tra resistenze, paure e limiti delle persone. Questa modalità di pensiero fa dunque spazio alle persone, ne rispetta le caratteristiche, ne valorizza le qualità, senza sognare altri mondi operativi.
    Il rischio del pensare per composizioni è il qualunquismo e l'immobilismo pastorale. Per andare incontro alle persone o per rispettare il diritto alla parola di tutti, si accetta il pericoloso principio «purché si faccia del bene».

    Pensare per assegnazione di compiti

    Il terzo modo di pensare è «pensare per assegnazione di compiti», in modo da realizzare i progetti, individuando di volta in volta strumenti, tempi, modi di intervento. La pastorale a questo punto va pensata in termini di programmazione e di efficienza. Pur evitando di ridurre la pastorale ad organizzazione, azione, efficientismo.
    Le tre modalità di pensiero non si escludono, né vanno confuse. Ognuna va utilizzata alla luce delle altre. Non basta scegliere, dopo opportune riflessioni, una linea pastorale senza fare i conti con le persone e senza sapere come concretamente realizzare il progetto. D'altra parte non basta pensare per composizioni. Si rischia l'immobilismo e il qualunquismo. Per evitarlo occorre una strategia di coinvolgimento delle persone e non fare arrivare i progetti dall'alto. Infine, superati gli scogli del pragmatismo, la pastorale deve muoversi sul terreno dell'efficienza, cioè della competenza e dell'arte educativa. A questo punto infatti non basta da sola la teoria pastorale. Entra in gioco anche ed in modo decisivo l'arte pastorale che si accumula con l'esperienza.


    NOTE

    [1] E. Damiano, Funzione docente, La Scuola, Brescia 1976.
    [2] Per una piena abilitazione alla «solitudine» è necessaria anche una «mistagogia della esperienza». Su questo tema rimandiamo a R. Tonelli, Un itinerario per educare alla lede i giovani d'oggi, NPG 1981/2, pp. 31-45.
    [3] Questa parte della strategia pastorale dedicata all'animazione è una sintesi veloce di alcuni contributi di Mario Pollo apparsi sulla rivista in questi anni. Per un approfondimento rimandiamo al suo volume: L'animazione culturale: teoria e metodo, LDC, 1980.
    [4] Su questi due problemi si veda: R. Tonelli, I «processi formativi» nei gruppi giovanili, NPG 1979/10, pp. 47-56.
    [5] Si veda Damiano E - Scurati C. (a cura di), L'aggiornamento dei docenti, La Scuola 1980, pp. 11-14


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