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    Atteggiamenti nei giovani per un progetto



    Domenico Sigalini

    (NPG 1981-5-44)


    Esistono varie fasi attraverso le quali passa un operatore di pastorale giovanile prima di arrivare a convincersi che occorre un progetto o un modello per intervenire in termini seri nel mondo giovanile.
    Dal lavoro disordinato, dalla moltiplicazione di tentativi di segno opposto, alla revisione, allo scoraggiamento, alla ripresa, all'intervento duro costi quel che costi, alla programmazione seria.
    Quando si è capito che occorre intervenire con un progetto, passano ancora alcune primavere prima di cogliere bene che tipo di progetto avviare. Si fanno tante esperienze, ma spesso si bruciano tanti entusiasmi. Esistono infatti alcune difficoltà precise con le quali spesso il progetto non fa i conti. Da buoni massimalisti come spesso siamo, si dubita del progetto anziché mettere in atto un serio lavoro di «decodifica».
    Esistono nel mondo giovanile alcune necessità, alcuni presupposti senza dei quali ogni progetto pastorale viene vanificato. Ora sono caratteristiche tipiche dei giovani, ora sono condizionamenti culturali, comunque sempre sono elementi che il giovane ha assimilato e che fanno parte del suo patrimonio culturale.
    Leggiamo questi aspetti sul versante della risposta, cioè evidenziamo alcuni atteggiamenti da favorire nei giovani così da rendere possibile l'avvio e la concretizzazione di un piano pastorale.

    Capacità critica

    È assolutamente impossibile oggi avviare un qualsiasi processo formativo che non propugni o sviluppi una seria capacità anche col rischio «da correre» di rendere ancor più problematica la accoglienza di tale processo. Non è il solo e solito ragionamento dei massmedia che strumentalizzano e ai quali si deve opporre una corazza. Si vede infatti che oggi i giovani sono più portati ad accostare immagini l'una dopo l'altra piuttosto che a sviluppare il loro sapere con una sequenza logica. Le immagini interessano, informano, ma il ragionamento non è un'altra immagine, è di altra origine, esige altri canali e processi per essere attivati. Questo è soltanto un aspetto del problema. È però in genere tutta la situazione di marginalità e di fragilità giovanile che invoca uno «spazio critico».
    Questa fragilità e marginalità si manifestano ancora di più quando la stessa proposta cristiana che viene fatta è massificante e securizzante.
    Si stabilisce allora una serie di atteggiamenti, esperienze, fatti, che, coordinati, rendono possibile l'avvio di un piano educativo. Fanno parte di questa sequenza:
    - una molteplicità di esperienze ragionate
    - un confronto di espressioni e evoluzioni storiche dei problemi concreti che si vivono
    - il superamento dell'illuminismo dell'intuizione attraverso la mediazione dell'attuale pratica
    - lo scambio di punti di vista e di mentalità diverse
    - l'assunzione di precise responsabilità in prima persona la passione per la ricerca dei significati nel molteplice
    - il bisogno di andare alle visioni di insieme, senza accogliere come definitive le spiegazioni o le valutazioni intermedie, le interpretazioni di un unico punto di vista.

    Ricerca

    Qualsiasi progetto di pastorale giovanile, nel momento in cui è avviato, attira sulla sua realizzazione una serie di situazioni che lo rendono completamente improponibile, se visto più come una trasmissione di obiettivi che una ricerca di essi. Si colloca in una serie di variabili che costituiscono il tessuto stesso della vita:
    - il velocissimo cambiamento di soggetti emergenti e determinanti che catalizzano la progettualità giovanile o che in genere condizionano la vita pubblica, la cultura, l'affermarsi o il frantumarsi delle ideologie
    - l'impegno di ricerca degli uomini in ogni campo che toglie ad ogni affermazione apodittica anche di tipo scientifico la definitività
    - l'affermarsi di modelli di vita opposti, irriducibili tra loro, ciascuno con una valenza veritativa non trascurabile o una efficacia nel risolvere problemi anche se momentanea
    - la perdita di memoria storica, l'assenza di un «diario» omogeneo della propria vita soprattutto nell'arco degli anni giovanili.
    Tutto questo non permette di impostare il cammino di maturazione del giovane sulla semplice acquisizione di contenuti. Impostare invece sulla ricerca, significa centrare sul soggetto anziché sugli «oggetti», non fare i paternalisti, ma gli animatori, abilitare al controllo di ogni processo formativo, sostituire alla verità fredda e astratta quella che ciascuno scopre. Acquisire l'atteggiamento della ricerca significa anche realizzare nel proprio modo di accostare qualsiasi realtà una sequenza di momenti collegati e vitali che non lasciano spazio ad improvvisazioni o plagi piuttosto frequenti nella vita di un giovane.

    Osservazione → intuizione personale → elaborazione di un piano → deduzioni → verifica → modifica delle ipotesi alla luce dei risultati → ampliamento dell'osservazione.

    È una sequenza forse troppo galileiana, ma non fredda perché in ciascuno di questi passaggi ci sta l'arte maieutica di un educatore, il coraggio della sperimentazione, le sofferenze di chi si propone come singolarità e come novità, la lotta contro quel «senso comune», che non permette alcuna realizzazione personale.
    È senz'altro evidente che un giovane in ricerca è più scomodo di chi è solo in ascolto, ma è altrettanto vero che non può esserci ascolto serio se non si attiva prima o poi una ricerca. Da questa emergono motivazioni, decodifica, informazione, focalizzazione delle scelte di fondo di ogni progetto, la fatica del costruire. Questo atteggiamento è ancora più necessario se si opta per un modello circolare di educazione, sia per lo stile di ricerca e di lettura attenta che esso comporta sia per il costante riferimento alla fede che «esalta» la sequenza della ricerca con continue spinte a ricercare ulteriormente, a riavviare il processo, non mai concluso. Non si teme quindi né l'instabilità né il cambiamento della cultura e del mondo di oggi.

    Senso del collettivo

    Oggi è impossibile privatizzare qualsiasi progetto. Il ritorno al «personale», l'implosione sono sempre domande di comunione. Tutti i discorsi di ricupero o di rifondazione della «paternità spirituale» del sacerdote nei confronti del giovane, dei momenti di silenzio e di raccoglimento, della riflessione sulla vocazione personale, i richiami alla corporeità, sono solo l'altra faccia di una comunione che si fa più esigente con l'altro e la condizione per un incontro-confronto con gli altri, che rimane sempre fondamentale per ogni progetto.
    La ricerca, il senso critico, non sussistono se non sono attuati e scambiati in comunità. I progetti personalistici o non hanno consistenza o, dopo fatiche improbe, rientrano. È un inganno credere di aiutare le persone a maturare puntando solo e soprattutto sulla propria sicurezza individuale. L'uomo nuovo o emerge da una comunione e corretta comunicazione o non emerge affatto. È lo stile, del resto, del messaggio evangelico, di una lunga serie di documenti della Chiesa che sviluppano nei secoli la pedagogia di Dio. È l'aspirazione stessa dei giovani che della parola di Dio normalmente privilegiano gli Atti degli Apostoli.
    Questo incontro-scontro-comunione con gli altri che spesso è solo il gruppo dei pari ha una sua evoluzione.

    Uscita dalla solitudine → gruppo-scorta (con le dimensioni della capacità di un'automobile) → gruppo-piazza (o bar) come riferimento naturale non impegnato → gruppo di ascolto o di interessi comuni → coppia, più o meno isolata → gruppo di impegno o di confronto → impegno e confronto senza gruppo.

    L'evoluzione non è automatica e raramente oggi si arriva all'ultima tappa. Il senso del collettivo, il bisogno di comunione, il considerare l'altro come significativo per me nella costruzione di un progetto, trapassa e può svilupparsi in ciascuno dei momenti della sequenza descritta. Oggi tante volte lo strumento «gruppo» non è utilizzabile o non è vivibile; si deve però insistere, coscientizzare e rendere praticabile questo senso del collettivo.

    Coscienza della complessità

    Si direbbe che oggi è finito il tempo della ricerca paziente e della costruzione lenta di un qualsiasi modello antropologico. È più gradito non tanto il «tutto e subito» che è sempre stata la traduzione esterna della fragilità dei piani di intervento giovanili, quanto la sicurezza di ogni singolo passo dell'esistenza, la chiarezza, la semplificazione, l'assolutizzazione, il piccolo cabotaggio.
    L'analisi paziente della realtà, il confronto serio e pratico dei propri modelli di vita, la ricerca stessa sono visti come il classico «menare il can per l'aia», cioè come un disimpegno, un non voler risolvere. Questa situazione può essere ricondotta e causata da interventi educativi fatti sul mondo giovanile che spesso hanno peccato di improvvisazione, confusione, giovanilismo, carenza di progetto. Tali errori però non giustificano il semplicismo, la securizzazione ad ogni costo, il «tutto e subito» dell'educatore e non più del giovane.
    La coscienza della complessità è la calma e la determinazione dell'approccio coraggioso alla realtà, l'humus naturale di un progetto, il tentativo di vivere effettivamente una tensione di sintesi in un mondo frantumato, la determinazione di non imboccare la strada più facile solo perché più gratificante, la pazienza dei tempi lunghi, la condizione per fare un piano organico.
    In un progetto di pastorale giovanile che segue il modello circolare, la coscienza della complessità trova il suo posto nei nodi che costruiscono il collegamento dei vari aspetti. Procediamo per tappe.

    situazione ↔ evento di Dio

    L'analisi della situazione può essere fotografica, l'evento di Dio un po' meno, ma sufficientemente definito, la loro mutua «illuminazione» esige coscienza della complessità.

    situazione ↔ evento di Dio

    obiettivi

    L'emergere degli obiettivi è frutto di sintesi ma anche di scelta di campo, di esperienza, di vocazione o di carisma talvolta, di attenzione al cammino della Chiesa, di accentuazione di poli più o meno complementari. Invece la loro determinazione precisa esige la coscienza della complessità per evitare di confondere obiettivi con strumenti, impianto educativo ampio con piccole tappe in cui si assolutizza qualche aspetto e si perde la visione del tutto.

    situazione ↔ evento di Dio

    obiettivi

    metodo

    valutazione

    Dagli obiettivi al metodo, dal metodo alla valutazione e così di nuovo all'inizio, la coscienza della complessità evita la schematizzazione dei passaggi, il ridurre a un algoritmo l'esperienza, la passione e il progetto educativo, il valutare solo ciò che si vede subito, concludere affrettatamente il processo educativo.

    Capacità di accogliere

    È sufficientemente diffusa e orientata la mentalità tecnologica del costruire, del fai da te, del pretendere. Oggi se schiacci un bottone, si accende qualcosa, se introduci un gettone o una scheda magnetica, esce una risposta che è sempre un ampliamento della potenza di chi richiede. In questa maniera inavvertitamente l'uomo si fa misura dell'esistere, delle cose, delle situazioni, non nel senso che ne è il padrone, ma nel senso che si riduce a questo. Allora quando parli di vita, di sofferenza, di morte, di Dio, di eventi, o ti senti frustrato, o al massimo credi che prima o poi con le nuove macchine riuscirai a controllare anche questo.
    Sarebbe diversa la situazione se ci fosse la capacità oltre che di fare, anche di accogliere. Aprire una coscienza giovanile al dono, alla gratuità, all'accoglienza è importantissimo per iniziare qualsiasi cammino di fede. La fede è appunto un dono, la vita è un dono, la stessa sofferenza può essere un dono.
    Per arrivare a questo atteggiamento ci possono essere varie strade: una di tipo «scientifico», attraverso la scoperta del limite, della complementarietà, attraverso l'epistemologia di ogni studio umano e di ogni conquista umana. Le scienze, anche le più raffinate partono da postulati, da intuizioni, contengono un «dato» dono si potrebbe dire, che colloca l'uomo in un posto serio, in un posto umano. L'altra via è quella della esperienza, della valutazione spassionata di successi e insuccessi, dei radicali cambiamenti che i «doni» quotidiani della vita provocano in noi: dall'amore ricevuto alla capacità di dono.

    Capacità di mediare

    Il mondo giovanile vive una età che è dotata del massimo di capacità intuitiva e di una grossa carica di raziocinio. Il procedere per ipotesi e tesi, l'arrivare con entusiasmo a spaccare un capello in due induce una sorta di illuminismo. Si crede fatalisticamente che la percezione si trasformi automaticamente in azione così come è ideata allo stato puro.
    Basta capirle le cose perché siano subito attuate, basta che un ragionamento fili, sia evidente, perché tutti ne siamo convinti esistenzialmente. Tutto deve quadrare per filo e per segno.
    È necessario allora insegnare pazientemente l'arte della mediazione, che non è compromesso, principio del minor male, tradimento degli ideali, ma in prima approssimazione una sequenza di questo tipo:
    - approfondimento come valutazione globale esistenziale dei fatti
    - accostamento del problema per cerchi concentrici, dal generale al particolare
    - collaborazione con altre impostazioni compatibili
    - traduzione delle intuizioni in cammini educativi con obiettivi e tappe precise
    - individuazione concreta di strumenti
    - valutazione e confronto con i principi o le intuizioni di partenza
    - disponibilità a cambiare idea se la prassi ha aiutato a conquistare verità
    - ripetizione delle attività programmate fino a passare attraverso una corretta «abitudine».
    Le sparate lasciano il tempo che trovano, anche se si ripetono. Invece, esperienze ripetute lasciano il segno. Niente passa nella vita dell'uomo, se non vi si sente a casa sua, se in essa non ha il suo domicilio, la sua residenza. Domicilio e residenza non sono di un momento, ma sono quotidiani.

    Capacità di valutare

    Il mondo spesso idealista dei giovani, che sono portati a pensare alle realtà in termini utopici, e la tendenza radicale, che favorisce soprattutto l'idea senza collocarla nella situazione e nel comportamento generano la convinzione che l'affermazione di un valore attraente e significativo nella sua formulazione sia talmente al di sopra di ogni sospetto da non essere più valutabile. Diventa una sorta di scatola chiusa sulla quale non si dice più nessun giudizio. Chi non lo condivide non capisce niente e chi distingue è borghese.
    È la cultura dello slogan che in poche paro le, magari argute, fa intuire una verità ma non la cala nella realtà.
    Si crea quasi un tabù sul quale non si può emettere valutazione. Così per esempio dire che siamo tutti uguali, significa cancellare ogni vocazione o originalità; dire che ci vuole giustizia, significa percorrere anche la via della violenza; parlare di sindacato, significa non poter più mettere in atto un parere personale; affidarsi alla libertà, significa misconoscere la presenza e i diritti degli altri.
    Si potrebbe continuare.
    A questo riguardo è necessario far scattare l'atteggiamento della valutazione. In ogni realtà umana è presente il bene e il male, occorre capacità di discernere motivando, uscire dalla genericità idolatrica dello slogan, dire pane al pane e vino al vino.
    È ancora un richiamo alla verifica nella prassi, non per demolire i valori, ma per viverli concretamente, per quel che essi sono, non per una comoda idolatria che disimpegna. Non è detto che la prassi neghi i valori, dico «male» quel che si pensa «bene», ma coinvolge tutto quanto tale bene esige per poter essere affermato.
    Ci potrebbero essere altri atteggiamenti, questi sono i più evidenti.
    Tempo fa erano chiamati virtù e costituivano il contenuto di un corso di formazione, oggi sono prerequisiti; i contenuti di fede, gli obiettivi del modello di pastorale sono più avanti nel cammino, fondano questi atteggiamenti, li richiedono e li aprono all'accoglienza di una vera esperienza cristiana che essi già adombrano.


    T e r z a
    p a g i n A


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