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    Verso una preghiera «da soli»



    Adriana Zarri

    (NPG 1980-03-42)


    Non vorrei fare dell'apologetica - attività, peraltro, alla quale mi sento assai scarsamente portata - nel rilevare il grosso salto di qualità che esiste tra il primo «dossier» raccolto tra giovani animatori di gruppi ed il secondo realizzato invece tra gli allievi di una scuola, sia pure retta da religiosi; e che conferma, se ve ne fosse bisogno, la scarsa incidenza dei religiosi stessi, in queste supplenze scolastiche, in quanto gli allievi costituiscono un campione non dissimile da quello che avrebbe potuto raccogliersi in una qualsiasi scuola laica: una raccolta assai varia di credenti, di non credenti, di anticlericali, di disinteressati al problema e anche interessati, ma a livello di pura ricerca laica e personale.
    Il divario tra le testimonianze di questi allievi raccogliticci (il cui denominatore comune della scuola «cattolica» sembra essere un dato puramente e casualmente sociologico senza sostanziale rilevanza) e i giovani impegnati nell'animazione di gruppi religiosi è quindi abbastanza normale, per chi considera la scarsa efficacia della «scuola cattolica» e può destare stupore solo in chi seguiti a credere nella sua utilità.

    Una analisi del «ritorno» alla preghiera senza ingenui trionfalismi

    Possiamo rilevare nelle testimonianze dei temi comuni, primo fra tutti, un tentativo di analisi di un fenomeno - la crisi della preghiera - a prescindere dalla valutazione che poi si dà della preghiera stessa.
    Parlo di «tentativo» soprattutto per il secondo blocco di risposte. In quanto ultime infatti non incontriamo approfondimenti originali che vadano al di là dei soliti luoghi comuni della «caduta dei valori» (ma quali?) o della «svolta culturale»: tema che avrebbe meritato una ben più acuta riflessione e che,detto così, senza nessun ripensamento, ha tutta l'aria di un luogo comune ripetuto privo di verifica personale. Pure presenti in entrambi i gruppi sono altri due temi sui quali converrà soffermarci. Il primo è la delusione politica, indicata come una delle cause della crisi dei giovani ed anche di un certo «riflusso» di preghiera, con gli equivoci che essa può comportare («Il ritorno dei giovani alla preghiera per me è causato dalla disperazione, dal fallimento di se stessi nell'impegno esasperato e per questo è un ritorno pericoloso perché "intimista", troppo "spirituale", emotivo, poco calato nel quotidiano. C'è il rischio di chiudersi nell'isola della preghiera»): una delle osservazioni più pertinenti e che impone un'analisi di un certo fenomeno di ritorno, spesso ingenuamente trionfalizzato.

    Una netta preferenza per la preghiera fatta da soli

    Un ultimo tema comune, anch'esso meritevole di meditazione, è la crisi della preghiera comunitaria e la netta preferenza della preghiera fatta da soli «maggiormente profonda» - scrive un ragazzo - «anche se forse meno ricca come quantità di intuizioni». È anche questo un riflusso, dopo tanta euforia comunitaria spesa negli ultimi tempi? In parte probabilmente sì. Ci troviamo di fronte all'ambiguità della riscoperta del privato: scoperta che fu dapprima politica («il privato è politico» si disse felicemente agli inizi; e fu una sana riemergenza del personale sul collettivo). Senonché poi, per molti, divenne l'astiosa, stanca e qualunquistica rivincita dell'individuale sul comunitario: cosa evidentemente ben diversa. Ma, a parte la pendolare dialettica ed il difficile equilibrio tra le due dimensioni, occorre anche chiederci se la preghiera fatta da soli, pur essendo «forse meno ricca come quantità di intuizioni» non sia davvero «maggiormente profonda». Proprio perché da soli - e soltanto da soli - sono possibili certe effusioni intime e appassionate che, fatte in pubblico, risulterebbero impudiche, né avrebbero molta probabilità di esprimere il sentire di tutti. La preghiera comune, perciò, deve pagare certi valori suoi propri, assenti dalla preghiera solitaria, con un certo calo di intensità, adeguandosi a formule e linguaggi non necessariamente standardizzati e piatti ma certo più anodini e meno rispondenti al momento psicologico dei singoli. E in un momento in cui la singolarità (anche senza cadere nella degradazione del privatismo) conosce una sua stagione forte, è comprensibile questa preferenza per la preghiera personale. E forse, su questa preferenza, pesa anche una visione critica di certo comunitarismo a poco prezzo - che era piuttosto una ricerca di appoggio psicologico e di consenso ideologico - la cui stagione, non ancora terminata, sta tuttavia decadendo.

    Troppi luoghi comuni ed un certo inquinamento narcisista

    Se ci addentriamo nell'analisi, anche sommaria e globale, delle testimonianze del secondo gruppo (degli studenti, cioè, non particolarmente impegnati e non particolarmente credenti) ci imbattiamo spesso nei soliti luoghi comuni: «... i problemi si risolvono con il lavoro e non con la contemplazione», aspettando «che cada la manna dal cielo». Non moltiplicherò le citazioni di questo tipo. Le trovo monotone e anche un tantino anacronistiche, in un mondo che sta finalmente denunciando la sterilità dell'efficientismo e riscoprendo il valore della gratuità. Un'impostazione così banalmente utilitaristica sarebbe stata egualmente superficiale, ma almeno culturalmente più ammissibile dieci, venti, trent'anni fa.
    Egualmente direi di certi circoli viziosi inquinati da un morbido narcisismo bassoromantico: «suono per suonare, vivo per vivere, studio per studiare»: formule ad effetto che possono anche piacere ad un ragazzo ma che hanno sotto una filosofia abbastanza superata oppure, assai più probabilmente, non hanno sotto null'altro che il suono di una supposta bella frase. (Per onestà va detto che questo fiore romantico l'ho colto nel giardino cattolico impegnato).

    Aria di «ritratti di famiglia» nelle lettere dei giovani animatori

    Leggendo poi il «pacchetto» di questi ultimi mi è parso di avvertire una certa aria di «ritratti di famiglia», per usare un'espressione ormai nota. Mi è parso di avvertire degli echi, a volte vaghi, a volte molto precisi, di quanto sono andata dicendo e scrivendo sulla preghiera, da un po' di tempo a questa parte e soprattutto di un mio libro sull'argomento (che peraltro vedo citato anche nella presentazione dell'inchiesta).[1] Non so se queste assonanze derivino dal fatto che molti mi abbiano letta. La mia vanità d'autrice potrebbe farmi auspicare quest'ipotesi; ma, a ben pensarci, sarebbe meglio di no: che quanto questi ragazzi scrivono (e a volte son cose molto belle) sia frutto di meditazione personale più che di letture, anche ben assimilate. Ma se anche si trattasse di uri «ridetto» ben personalizzato ciò significherebbe che ho colto nel segno e che sono riuscita a interpretare un sentire comune; e la mia vanità sarebbe egualmente soddisfatta.
    Nemmeno a proposito della preghiera mancano luoghi comuni che riecheggiano quella pessima traduzione dell'«ora et lavora» di Benedetto, che suona equivocamente «chi lavora prega»: affermazione che potrebbe anche essere giusta se riportata all'inabitazione trinitaria che prega in noi continuamente (ma allora non soltanto nel lavoro) ma che abitualmente è ben lontana da questi sfondi teologali e sembra invece voler costituire un alibi a chi non ha un gran desiderio di impegnarsi nella contemplazione. Cosi leggiamo: «pregare per me è il lavoro d'ufficio, il guadagnare con lealtà ed onestà lo stipendio...» e via dicendo. Anche qui, senza quegli adeguati sostegni, mi par si tratti, più o meno, di facili luoghi comuni.

    Il ritorno di un Dio da temere, col rischio di non riuscire ad amarlo

    Una ragazza di ventitre anni ci offre un'analisi interessante: «cerchi nella preghiera la soluzione al tuo star male nel mondo, così tra un po' di anni starai male anche nella preghiera perché non ti risolve niente se non la unisci a una attività di cambiamento al di fuori. ...In questi ultimi anni è cambiato l'oggetto della preghiera, non ci si rivolge più ai capi, non ci sono, ma a Dio, sperando che usi la bacchetta magica per cambiare le cose che noi non abbiamo la voglia di cambiare. E così ci si chiude nelle chiese, si fanno i ritiri, e la maggior parte di tali atti, a mio avviso, sono riflessioni sul sociale, su come si può cambiare la società e noi stessi alla luce del Vangelo... Però, anche quando il Leader Dio non soddisferà più (dato che non lo cerchiamo come Padre, come Colui che ci ama per sempre, come modello di vita) allora bisognerà cercare qualcosa d'altro per superare la disillusione... Cosi... è gratificante per un sacerdote avere tante persone attorno, dopo un periodo di "abbandono" e non si preoccupa tanto dei motivi per cui uno ritorna e di che cosa chiede al Padreterno, basta che stia nuovamente sotto l'ombra del campanile».
    La citazione è stata lunga ma forse valeva la pena di farla per intero. Detto magari in uno stile faticoso c'è il ripercuotersi della crisi dell'autorità nell'ambito di una religione che abbiamo sempre gestita autoritariamente, fino a proiettare sul «Padreterno» (che mi sembra la traduzione popolare del liturgico «Omnipotens Deus») concetti di potere e di dominio che certo non gli sono estranei ma che sono ben lungi dall'esaurirne la dimensione di amicizia, di misericordia e di amore. In fondo questo concetto di Padreterno, onnipotente e giudice - che ha prevalso nella nostra religiosità - è il meno accattivante: un Dio che si teme (il «santo timor di Dio» come si diceva un tempo) e magari si venera, ma di cui ci si può difficilmente innamorare.

    Due citazioni da ricordare

    Possiamo pure cogliere, in questa stessa analisi (e magari spedire molto in alto), lo scetticismo circa le grandi folle e la discreta messa in guardia contro talune facili euforie. E che una ragazza di ventitre anni veda le cose con maggior acutezza e realismo di monsignori e vescovi, di età ben più venerabile, è un fatto che non si sa se considerare esaltante o deprimente.
    È il caso di terminare con qualche altra citazione breve e bellissima: «Per pregare è necessario un atteggiamento di povertà... ci sentiamo troppo ricchi della nostra cultura, del nostro progresso, delle nostre "ideologie", della nostra autosufficienza... Tendo a portare tutta la preghiera nella mia giornata e tutta la mia giornata nella preghiera».
    E ancora: «... ho scoperto che non serve parlare, che la preghiera è silenzio e amore. Ed allora ho continuato a restare in silenzio, senza dire nulla, convinta che ascoltare è amore. Poi ho scoperto anche che non siamo noi che amiamo nella preghiera; diamo solo il permesso a Dio di amarci. Prima cercavo Dio, poi ho capito che più che dire "dove sei" dovevo dire "eccomi"».
    L'autrice di queste considerazioni non annota l'anno di nascita; e non è certo pensabile che sia molto recente; ma a questa maturità non si chiedono gli anni.

    NOTE

    [1] A. Zarri si riferisce al suo volume Nostro Signore del deserto. Teologia ed antropologia della preghiera (Cittadella 1978) (n.d.r.).


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