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    Quali valori? Prospettiva della filosofia dell'educazione



    Carlo Nanni

    (NPG 1980-7-28)


    L'ASSENZA DI UN QUADRO GLOBALE DI RIFERIMENTO

    In pedagogia il discorso sui valori è tornato alla ribalta da due diversi fronti.
    Il primo è quello della didattica curricolare e della programmazione educativa in genere.
    La definizione degli obiettivi e la determinazione dei contenuti, come anche i problemi della valutazione, hanno fatto scattare la questione dei criteri secondo cui definire, determinare, valutare. È venuta a galla così la problematica delle finalità educative e dietro di essa, quasi a grappolo, la domanda sull'uomo, sui valori, sul modello di sviluppo, ecc., a cui o secondo cui progettare l'educazione, l'istruzione, la didattica, la vita scolastica.
    Il secondo fronte è dato invece dai critici dell'istruzione programmata e della teoria del curricolo che pure avevano cercato e cercano di vincere, sul campo della competenza, sia le insufficienze della didattica tradizionale, sia i guasti e le inconcludenze dello spontaneismo sessantottesco, descolarizzatore e autogestionale.
    Tuttavia, al di là delle polemiche di indirizzi e di prospettive, entrambi i fronti sono ultimamente d'accordo con chi dichiara
    - che l'educazione è per la promozione umana;
    - che è sempre un evento situato, con una sua specifica contestualità;
    - che si pone sempre all'interno di processi culturali e ideologici (intendendo per cultura il progetto di umanizzazione e liberazione che gruppi storici si danno, in vista della loro vicenda umana e comune e del rapporto con il proprio ambiente; e intendendo per ideologie le molteplici codificazioni della cultura, fatte sotto l'urgenza e in vista della prassi sociale particolare);
    - che avviene sempre quindi entro un orizzonte di senso, entro un quadro di riferimento che la supera e la muove. Ma il problema sta appunto qui.
    Più che l'assenza o il vuoto di valori, la crisi oggi riguarda proprio le grosse filosofie, i grandi progetti, i quadri di riferimento, i modelli ideali di identificazione: con la conseguente difficoltà e crisi di identità personale, sociale, culturale.
    E quel che è più grave, forse per la prima volta nella storia umana, il fenomeno non riguarda solo intellettuali o una fascia elitaria della cultura o della società. Tocca tutti, in virtù del livello mondiale raggiunto dalla comunicazione sociale, e in primo luogo - purtroppo - tocca proprio coloro che per il loro livello di sviluppo personale, sono alla ricerca e alla conquista di una identità: gli adolescenti e i giovani.
    Si comprende allora, il «timore e tremore» che può prendere genitori, educatori, animatori, chiamati a proporre o a suscitare una vita secondo valore.
    Cosa dire, cosa proporre, ad esempio a quei giovani o a quegli adolescenti che affermano di non vedere alcun senso per la loro vita?

    DIFFICOLTÀ NELLA DETERMINAZIONE Dl UN QUADRO Dl VALORI

    A queste difficoltà di ordine pratico si aggiungono difficoltà di ordine teorico conoscitivo.
    I valori non sono situati nei cieli sereni e limpidi delle entità matematiche, dove non soffia il vento delle passioni del tempo e della terra. Non sono staccati dalle speranze, dalle gioie, dalle lotte dell'uomo, dalle vicende della storia e dei processi sociali. Pur trascendendo la singolarità dell'azione e dell'individuo, non si danno senza dei soggetti concreti e fuori della scansione spazio-temporale dell'agire umano.
    Non si tratta di «sguardi eterni sull'essere e sul suo manifestarsi» (Mancini), ma «segni storici» innestati nel mistero di esseri e di esistenze personali e di progetti societari.
    In termini di filosofia ermeneutica si potrebbe dire che la proposizione e la determinazione di un quadro di valori è sempre relativa a precise intenzioni storiche. Non è mai del tutto sciolta da precomprensioni e condizionamenti soggettivi e/o di una determinata epoca, cultura, ideologia.
    I valori sono concretamente «incarnati» in modelli culturali emergenti, in concrete valorizzazioni storiche, nel vivo dei processi di conservazione e di cambio sociale, all'interno di una tradizione e di un sistema di vita particolare: nel caso nostro occidentale, europeo, italiano, cristiano, postconciliare, anni '80.
    Qui, più che altrove, si fa l'esperienza dei limiti e della finitudine della parola e del pensiero umano, che pure cerca di forzare la curva del tempo e di star dietro alla tensione di futuro, di utopia e di speranza che c'è in ogni valorizzazione: la quale per questo rivela il carattere intenzionale del valore. Non si tratta infatti di rilevare un dato di fatto ma cogliere una realtà che è da essere, da fare, da realizzare, dopo averne compreso la dignità che suscita fascino, ammirazione, attrazione, appello di realizzazione.
    Non si tratta di «cose» di poco interesse o di ambiti chiaramente delimitati e circostanziati. Anche quando scendono al particolare, interessano sempre tutto l'uomo, in tutte le sue dimensioni strutturali e dinamico-evolutive.

    L'IPOTESI Dl UN MODELLO Dl QUADRO DEI VALORI

    È stato detto che i valori costituiscono (o tendono a costituire) un sistema, un quadro di valori. Sono interagenti tra loro, sia quando sono oggetto della valorizzazione di una persona singola sia quando costituiscono l'obiettivo della azione collettiva.
    Ne segue che nessun valore può essere colto se non in relazione agli altri con cui fa sistema.
    L'urgenza dei tempi e l'inderogabilità dell'intervento educativo, ci invitano a superare le difficoltà pratiche e teoriche in cui siamo invischiati.
    È impegno di tutti trovare vie nuove, provare e tentare tutti i mezzi per rifare un quadro che dia saldezza alla singola affermazione di valore e sostenga l'atto concreto della valorizzazione.
    Sulla base di queste premesse e precisazioni vengo a proporre un modello di quadro di valori, costruito in base ai fattori che - a mio modo di vedere - intervengono nell'atto della valorizzazione.
    Ogni atto di valorizzazione viene a trovarsi, come risultato, al crocevia di un movimento lungo quattro percorsi di marcia, lungo quattro assi preferenziali, che ne dicono le componenti essenziali.
    Essi sono:
    - il naturale e il vissuto, come base e supporto: non c'è valorizzazione se non sulla base della realtà materiale, biologica, genetica, o del vissuto quotidiano;
    - il razionale come forma organizzante: non c'è valorizzazione senza l'intervento umano che motiva, sceglie, si «decide-per»; - il culturale e storico, come punto d'avvio: la valorizzazione avviene sempre a partire da un contesto socioculturale ben preciso e storicamente datato;
    - il personale, come orizzonte di marcia: ogni valorizzazione avviene sempre nell'orizzonte di senso dell'integralmente umano, del personale individuale e collettivo.
    Volendo ulteriormente condensare le cose, si potrebbe dire che la prima e terza componente (il naturale e il culturale) si pongono piuttosto nell'ordine dei contenuti e che la seconda e la quarta (il razionale e il personale) si pongono piuttosto nell'ordine della forma.
    Ogni valorizzazione concreta partecipa sempre di queste quattro componenti, anche se di fatto si può accentuare ora l'una ora l'altra.
    In ogni caso è chiaro che ogni atto storico di valorizzazione si pone sempre all'interno del divenire personale e di una vicenda storica comune; e costituisce sempre il punto di partenza per successive valorizzazioni.
    Se questo è vero e se è vero che ogni valore particolare fa sistema, allora noi possiamo delineare un certo quadro di valori, inseguendo la dinamica dell'atto del valorizzare. Si potrà delineare una struttura dinamica e interattiva, lungo i cui assi portanti si possono collocare come dei nuclei-gangli di valore, attorno a cui raggruppare i singoli valori particolari. Questo quadro sarà come la serie naturale dei numeri in cui si collocano in un certo ordine i singoli numeri determinati e le loro intersezioni infinite.
    Ogni affermazione di valore avrà il vantaggio di dover essere pensata con il riferimento essenziale al quadro d'insieme e come un qualcosa di dinamico, che nell'azione trova la sua completezza e la risultanza finale che la pone in essere e la qualifica.

    L'IMMAGINE Dl UOMO SOGGIACENTE

    Prima però di passare a determinare alcuni di questi nuclei di valore, vorrei fare ancora una precisazione.
    Come si è accennato ogni valorizzazione avviene sempre nell'orizzonte significativo dell'umano. La domanda: «quali valori?» rimanda previamente alla domanda «quale uomo?». L'uomo è sempre il primo e l'ultimo nella questione del valore: il valore è dall'uomo e per l'uomo.
    La concezione dei valori dipende ultimamente dalla concezione che si ha dell'uomo. Nel nostro mondo occidentale i progetti di valore emergenti, sia quello liberal-borghese sia quello del socialismo scientifico sia quello della società radicale, sono viziati da un intrinseco riduzionismo antropologico: l'uomo è chiuso dentro l'ambito del mondo e del tempo; la sua liberazione è fatta coincidere quasi esclusivamente con gli aspetti economici, sociali e politici; il campo dell'esperienza umana è fissato entro il mondo della natura e della cultura; l'estensione della sua attività giunge quasi solo ai confini individuali e corporei o al massimo a quelli intersoggettivi e inter-umani.
    La ricerca di nuove vie di valorizzazione esige invece che si abbia come termine di riferimento (ma anche come crocevia discriminante e come luogo concreto di valorizzazione) l'integralmente umano.
    A questo scopo non è sufficiente un modello di uomo di tipo speculativo-essenzialista, teso esclusivamente a svelare l'essenza dell'uomo e che parla di lui quasi esclusivamente in termini di qualità costitutive e determinanti (intelligenza, libertà, spiritualità, ecc.) o di dimensioni fondamentali (individualità, socialità, politicità, autotrascendenza, ecc.).
    E neppure è sufficiente, nell'orizzonte del valore, una visione dell'uomo di tipo esperienziale-relazionale, volta a determinare le condizioni di possibilità di una esistenza autentica (= l'uomo visto come realtà misteriosa, soggettività situata, intersoggettiva, libertà condizionata, tesa alla ricerca di senso).
    Occorre piuttosto mettersi in una prospettiva storico-prassica, che privilegia una concezione dell'uomo di tipo dinamico e evolutivo: l'uomo, soggetto e popolo, che è e si fa persona, libertà, storia, cultura, civiltà, attraverso l'attività trasformatrice della realtà concreta in cui si trova a vivere, fatta anch'essa in tal modo partecipe dello stesso processo di emancipazione e di liberazione. In sede educativa è importante ricordare che questa qualità' di soggetto, di persona che si fa e si costruisce nel vivo della vicenda storica comune, è attributo fondamentale del bambino, del ragazzo, dell'adolescente, del giovane. Spesso infatti capita che sono considerati o trattati come «imbuti» da riempire, come passivi recettori di processi di trasmissione di valori.
    Se l'uomo è il primo e l'ultimo nel valore, anch'essi lo sono: certo da far crescere, sviluppare, sostenere, promuovere, arricchire, coltivare, educare. Ma in ogni caso il valore non è una merce di importazione sul loro terreno.

    L'ASSE DEL NATURALE E DEL VISSUTO

    E veniamo alla determinazione di alcuni fondamentali nuclei di valore.
    Sull'asse del naturale e del vissuto vorrei badare a tre di questi nuclei: quello della natura e della corporeità; quello della quotidianità; quello dei valore-bisogni.

    La natura e la corporeità

    La tradizione occidentale ha definito per secoli la persona umana in termini di razionalità e ha guardato con sospetto tutto ciò che non era inquadrabile dalla razionalità teorico-speculativa o non era regolabile dalla ragion pratica. La terra, il corpo, il divenire, la storia sono state considerate come il non-essere, l'opaco, il buio, la negatività, il disordine, il caos, il male, il peccato.
    La mentalità illuministica moderna non si è distaccata di molto da un tale modo di vedere, anche se ha creduto di superarlo e di vincerlo esaltando le capacità di dominazione, di possesso e di operatività della razionalità umana su tutto ciò che è naturale o comunque nativo, non strutturato: la cultura e la civiltà (e cioè l'azione umana trasformatrice, illuminata dalla ragione e dalle sue mediazioni, la scienza e la tecnica) avrebbero sconfitto le barbarie e fatto arretrare sempre più le forze imprevedibili e incontrollate della natura e dell'uomo stesso.
    Le penose e tragiche esperienze che fanno parte del nostro vissuto, testimoniano a chiare note l'illusorietà e il limite di questi «generosi propositi».
    Influssi di varia provenienza, di natura teorica e pratica, ci stanno aiutando ad uscire dalle angustie dell'intellettualismo e del razionalismo.
    Occorre anzitutto uscire dalla logica della dominazione e della quantitatività possessiva con cui è letto il rapporto uomo-corporeità e uomo-natura; logica che poi continua nella dominazione dell'uomo sull'uomo, dell'uomo sulla donna, delle classi sociali sulle classi sociali, delle società sulle società, fino all'estremo «prometeico» dell'uomo sulla storia e su Dio, di cui si dichiara la «morte».
    Sara necessario uscire anche da una certa visione antropocentristica riduttiva, che non solo pone l'uomo al centro del creato, ma lo fa assoluto e libero creatore di esso, chiudendo gli occhi e gettando nel dimenticatoio i suoi propri limiti e la complessità del reale. Ci viene in soccorso in ciò l'istanza classica che, qualificando a livello trascendentale l'essere come bene, dà a qualsiasi realtà o evento (anche quello di minor consistenza) la possibilità radicale di assurgere a valore nell'incontro valorizzante con l'umanità dell'uomo: prima e oltre ogni eventuale utilizzazione e presa di possesso.
    In questo senso rimane vero che la natura, le cose, la corporeità, nelle loro infinite espressioni, sono valori in quanto e nella misura in cui diventano luogo e momenti di umanizzazione e sono correlate significativamente alla qualità umana della esistenza. Ma comprendiamo pure che più che avere un corpo, siamo corpo, terra, natura, divenire; e che attraverso esse siamo, ci esprimiamo, comunichiamo e ci apriamo alla realtà o operiamo in essa sperimentando e riconoscendo i nostri limiti.
    In ciò mi pare sta l'anima di verità di quei movimenti di controcultura, di ritorno alla natura, che pongono la vita come categoria fondamentale e basilare di valore: anche se non sempre riescono ad evitare il rischio di cadute biologistiche, naturalistiche, spontaneistiche.

    La quotidianità

    Le scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia, linguistica) in questi ultimi anni ci hanno fatti più attenti al quotidiano. Questo ambito dell'esistenza non è più visto soltanto come il luogo della «routine», della ripetitività, della banalità, o come mondo della «folla solitaria» (Riesmann) e del solitario uomo di massa, alienato, espropriato, reificato, eterodiretto, sdoppiato e frazionato come persona, come lavoratore, come cittadino, come soggetto storico.
    Se ne mette in luce invece il carattere (che pure ha) di piattaforma inderogabile dell'intero vivere personale e sociale; di supporto obbligato per ogni cammino in avanti; di disponibilità - almeno allo «stato nascente» - per coraggiosi processi emancipativi alternativi, nella comune opera di costruzione della realtà sociale.

    Valori-bisogni

    A livello di vita personale, si tratterà di dare il giusto risalto a quei bisogni fondamentali che fanno da supporto bio-psicologico-esistenziale a qualsiasi valorizzazione. È su di essi che fioriscono quei valori basilari e fondamentali, che permettono forme più «elevate», più complesse, più personalizzate di valorizzazione.
    Vorrei elencarne alcuni senza pretesa di completezza.
    La voglia di vivere, che nasce come valore sul tronco dell'istinto di conservazione è senza ombra di dubbio uno di questi. Con essa non si intende solo l'accettazione della propria esistenza, ma l'esperienza vissuta e sentita di un positivo rapporto con la realtà e con la vita, con la propria storia presente e futura per cui ci si impegna e si agisce di conseguenza.
    È essa che dà sapore umano a fatti eventi operazioni materiali come il mangiare, il bere, il giocare, il riposare, il sentirsi bene, il godere del proprio corpo e del proprio rapporto «terrestre», fisico, con gli altri e con l'ambiente circostante. E dà il giusto senso alle risposte «culturali», prodotte a questo scopo, pur riconoscendo la loro «artificialità», e il rischio di creare e indurre bisogni e esigenze al limite dell'umano o addirittura disumani e mortificanti la vita per cui furono prodotti.
    Una seconda sfera certamente si costituisce attorno al bisogno di esprimersi e di comunicare senza impedimento e costrizione, secondo le forme appropriate ad ognuno e alle singole stagioni dell'esistenza.
    Una terza è costituita da quello che in termini generali potrebbe essere detto il bisogno di comunità e di comunismo (per dirla in termini marxiani), e cioè l'esigenza e la richiesta di vivere l'umanità non come individuo isolato o solitario, ma come comunità di esseri che si comprendono e si sostengono reciprocamente e danno luogo a forme e strutture e istituzioni societarie, come risultato di opera comune, col risultato di sentirsi tutti un popolo e ognuno cittadino di uno stato.
    Una quarta area è costituita dal bisogno di integrazione universale. Al di là di ogni integrazione fisica e biologica e psicologica, e persino al di là di ogni comunione con i propri simili, l'uomo ha bisogno di sentirsi integrato nella realtà generale, nell'ordine assoluto dell'esistenza, quadro di riferimento e di senso per la singola azione.
    Quando questi bisogni vengono in qualsiasi modo frustrati, sorgono quelle forme di angoscia «metafisica» profonda, quegli stati di insicurezza e di perturbazione psichica, individuale e collettiva, che sono così frequenti nell'uomo contemporaneo. Oppure ci si sente come bloccati o tarpati nella propria azione, o schiacciati e dominati da potenze superiori infra-inter- o sovrumane. O si cercano vie di compensazione o di scarico d'aggressività per potere in qualche modo continuare a vivere. La logica della dominazione, di cui si è detto sopra, sembra avere qui la sua matrice umana.
    Va inoltre notato che spesso tali situazioni umane si trovano a livello molto informe: sono bisogni, situazioni, realtà molto fondamentali e forti, ma richiedono di essere elaborati e integrati in un quadro più ampio per essere vicini a ciò che diciamo valori. Tuttavia già a questo livello è possibile riconoscere il senso umano, il valore della salute (da non mitizzare, ma neppure da sottovalutare); del godere, di quelle manifestazioni senza calcolo e traboccanti di vita che diciamo spontaneità; di quella manifestazione di senso di integrazione e espressione personale e sociale che è il gioco; di quei momenti magici e nuovi che si hanno nella scoperta della natura, della presenza fascinosa dell'altro, del vero, del bello, dell'unità universale, del sacro: momenti che provocano quella meraviglia e quello stupore, troppo rari presso gli adulti del nostro mondo occidentale e a cui invece adolescenti e giovani sembrano essere più disponibili.

    L'ASSE DEL RAZIONALE-ORGANIZZATO

    Sull'asse del razionale-organizzato baderò soprattutto ai due nuclei di valori della scienza e della tecnologia.
    La scienza e la tecnologia contemporanea segnano profondamente e caratterizzano il nostro tempo.
    La vita sociale e personale, la cultura generale nei suoi vari settori e aspetti sono obbligate a fare i conti, a reintegrarsi (se non addirittura a rimettersi globalmente in questione) a seguito dell'impatto con esse.
    Quella che E. Fromm ha chiamato «Grande Promessa» illuministica trova in esse le mediazioni fondamentali.
    La razionalità scientifica e l'operazionalità tecnologica sono la molla del progresso ma anche la via che conduce alla liberazione dell'uomo da ogni feudalesimo interiore e esteriore, e che porta ad una nuova cultura e ad una nuova società finalmente a misura d'uomo.
    Scienza e tecnologia sono assunti così a valori strumentali e formali per eccellenza. Anzi a criterio di giudizio di ogni manifestazione e comportamento umano.
    Oggi tale preminenza è piuttosto in crisi. Tutti siamo consapevoli, almeno a livelli nominali, del potenziale di distruttività, di alienazione, di possibile e effettiva strumentalizzazione, cui scienza e tecnologia prestano il fianco.
    Ad esse si dà la colpa principale di quel culto per l'efficienza, per la produttività, che inficiano la vita e i rapporti umani e impediscono la comunicazione, la comunione, l'affettività, la creatività, la semplicità e la spontaneità, un vero e autentico accordo con se stessi, la natura, gli altri. E diventano invece coperture a imprese di dominio economico o di egemonia politica, autoritaria burocratica anonima e alienante.
    Ma, come capita spesso, con l'acqua sporca si butta via anche il bambino.
    Scienza e tecnologia offrono possibilità di valore inderogabili, sia nell'ordine della conoscenza sia nell'ordine dell'azione; e danno sbocco e realizzazione a gran parte dei bisogni fondamentali di cui sopra si è parlato.
    Vorrei citare tra essi: i valori della oggettività, criticità, operazionalità, progettualità, che corrispondono all'esigenza di dar ordine e comprendere noi stessi, la vita che ci è attorno, l'universo che ci circonda, la storia che viviamo.
    Da esse discende il valore della competenza, sintesi unitaria e rigorosa di conoscere, di sapere e di operare, manovrando sui materiali appresi. Potenza e stile personale sono strettamente congiunti. Saper gustare e apprezzare va di pari passo con il servirsi del sapere per agire e operare.
    È pure di scienza e di tecnologia, divenuta competenza, che si alimenta quel sentimento di efficacia della propria azione e del proprio essere al mondo, che rinsalda la voglia di vivere, di esprimersi, di comunicare, di collaborare alla costruzione di opere storiche.
    Non sono quindi la scienza e la tecnologia a dover essere rigettate o da tenere lontano o da rifuggire inseguendo mondi mistici o georgici di idilliaca purezza, non meno facilmente strumentalizzabili oltre che ultimamente impossibili concretamente. È la mitizzazione e l'assolutizzazione di esse che va combattuta. Il loro abuso e la loro subdola utilizzazione.
    Ma è pure necessario superare una loro falsata comprensione e collocazione nel quadro dell'esistenza. Esse non sono mondi a sé, anche se possono giungere a superare le forze dei singoli e hanno la tendenza ad un loro sviluppo autonomo. Né sono fuori o al di sopra delle responsabilità umane individuali e collettive.
    È qui che si apre l'opera educativa e l'azione schiettamente politica riguardante problemi relativi all'educazione scientifica, alla ricerca e allo sviluppo scientifico-tecnologico, alla utilizzazione dei loro risultati, ecc.
    Abbiamo bisogno per lo sviluppo umano personale e per quello collettivo storico di una razionalità scientifica e tecnologica che ritorni alla sua ragion d'essere profonda; a servizio dell'uomo, del suo agire e del suo operare nel mondo con gli altri. Anzi c'è bisogno di riscoprire scienza e tecnologia come aspetto intrinseco dell'azione umana che ricerca il suo senso; che cerca di ordinare e armonizzare il suo rapporto con la natura, gli altri; che cerca di dar completezza e forma rigorosa ai suoi progetti, ai suoi sogni utopici di un mondo umanizzato e di una comunione integrale.
    D'altra parte è necessario essere (e rendere) consci dei limiti strutturali di scienza e tecnologia. Nella ricerca dell'universale esse «sorvolano» il particolare concreto e tendono a «sradicare» i pensieri e l'azione dal vissuto storico per collocarsi al di sopra di ogni particolarità locale e culturale.

    L'ASSE CULTURALE E STORICO

    Di fronte alla «folle corsa» tecnocratica negli anni immediatamente trascorsi c'è stato un movimento all'indietro alla ricerca del tempo perduto, al recupero di realtà, valori, brani di storia, lasciati lungo il percorso.
    Oppure in una sorta di «archeologia» personale si è riandati a scandagliare nelle profondità dei bisogni radicali del soggetto. Ma ad evitare cadute individualistiche, psicologistiche, privatistiche, a questo movimento è necessario accoppiare un altro movimento di valorizzazione, rivolto al mondo delle oggettivazioni storiche di valore: quello che per intenderci chiameremo patrimonio culturale.
    Trascurarlo sarebbe deprivarsi non solo di un utile termine di confronto, ma costituirebbe pure un cieco e stolto tentativo di ricominciare da capo a partire dallo zero assoluto; e infine sarebbe uno sciocco dimenticare le «radici» sottese al fondo di ogni nuova progettazione.
    Un tale tipo di condotta, individualistica e carente di senso storico, - che rassomiglia tanto al comportamento adolescenziale ai primi tentativi di «desatellizzazione» dall'ambiente che gli era prima familiare - è stata tipica di gran parte delle ideologie e filosofie dell'età moderna, da Cartesio in poi: «Io, il tutto», è stato il loro motto inconscio. I guasti li stiamo tuttora pagando.
    Ora, la cultura nelle sue forme e nei suoi aspetti contenutistici (linguaggio, letteratura, ideologie, filosofie, forme religiose, arte, folklore, codici comportamentali, tecniche espressive e operative, strumenti), può invece ovviare a queste deficienze e dare consistenza a quanto, sia a livello individuale sia a livello comunitario, si intende ricercare in vista della propria e altrui promozione umana.
    E ciò in un doppio senso.
    Anzitutto come memoria sociale, collettiva e concreta, la cultura permette di radicarsi nel proprio vissuto e nella vicenda storica del gruppo di cui si è membri. E anche di collegare la propria umanità con quella di coloro che ci hanno preceduto nel tempo; e, in qualche modo, porsi in continuità con l'umanità del futuro e con i suoi progetti.
    Sorge quel sentimento di inserimento e di compagnia storica che rafforza i bisogni radicali che rispondono alla ricerca di senso e di valore.
    In secondo luogo come patrimonio sociale e eredità comune la cultura viene ad essere il «codice» comune, offerto a tutti, per interpretare fatti e eventi, esprimersi e comunicare, agire e lavorare, camminando nel mondo e nella storia, poggiando sulla terraferma e lungo percorsi già tracciati, che possono alleviare o togliere di molto la pena e l'insicurezza di andare nel buio e senza alcuna indicazione o sentiero. Certo, come si è detto per i bisogni fondamentali, anche la cultura, in quanto segnata da un tempo e da un luogo particolare, ha sempre bisogno di una presa di posizione critica, che può condurre ad una sua assunzione o ad un suo rigetto, parziale o totale. Ma non senza prima averne fatto i conti. In questo senso, nel caso più comune costituisce piuttosto il punto di avvio che abbisogna di un «decidersi per», come avviene per ogni atto di valorizzazione. Ma è indubbio che attraverso la cultura è reso possibile quel processo di valorizzazione di sé, che è l'identità e la partecipazione solidale, in qualità di soggetti (e non di oggetti e sudditi passivi), al comune progetto storico di umanizzazione, variamente ideologizzato, nella concretezza obbligante e stringente, dell'azione.
    Una particolare attenzione mi pare che sia da rivolgersi a quella forma omogeneizzata di cultura che è la cultura di massa, che costituisce gran parte del tessuto della cultura quotidiana e senza dubbio il nutrimento fondamentale delle nuove generazioni: cercando di andare oltre le sbrigative condanne o le facili esorcizzazioni, per approfondirne invece il linguaggio e i contenuti concreti.

    L'ASSE DEL PERSONALE

    Assumo personale non nel senso che oggi è più comune, per cui è sinonimo di individuale, privato, ma come suprema componente della condizione umana, in quanto dotata di unità interiore e di un autonomo principio d'azione, ma insieme radicalmente aperta alla vita di relazione, che si dispiega nell'opera comune di interazione e di trasformazione del proprio ambiente.
    In questo senso il personale fa da cerniera tra l'individuale e il collettivo, tra il privato e il pubblico; e permette con ciò di superare lo scoglio tipico della cultura occidentale moderna, sbattuta o insabbiata tra l'affermazione unilaterale e polarizzata del privato, dell'individuale, del singolare e l'affermazione opposta del pubblico, del collettivo, dello specifico.
    È questo certamente il guadagno più significativo della contestazione del '68 e della ideologia radicale.
    In precedenza era piuttosto sotto l'aureola della libertà, che almeno nella nostra cultura, avveniva il coagulo di ogni valore. Ma nell'arco dell'ultima generazione, la nostra comprensione della libertà ha subito una serie di spostamenti di accento, proprio a seguito dell'emergenza del personale.

    Libertà come responsabilità

    In primo luogo si è passati dalla libertà come autonomia alla libertà come responsabilità e (tendenzialmente almeno) come comunione.
    I pensatori del secolo scorso raccogliendo l'affermazione storica rivendicativa, di libertà, di difesa della singolarità e della capacità di iniziativa del singolo, della sua radicale «privacy», hanno parlato di autonomia dell'uomo: l'uomo che è legge per se stesso, che ritrova nella sua interiorità la norma dell'agire.
    Ma la storia ci ha insegnato pure che spesso queste sacrosante affermazioni contro ogni forma di totalitarismo e di oppressione tirannica, sono finite per consacrare le posizioni di forza di nuovi potenti, creando nuove forme di dominazione e di oppressione, impedendo in un gretto conservatorismo qualsiasi apertura sociale e democratica.
    Oggi si è sempre più consapevoli, almeno a livello aurorale e intuitivo, che la libertà ci coinvolge in una avventura a più largo respiro che l'autonomia.
    Soprattutto l'esperienza religiosa e l'esperienza dell'amicizia e dell'amore ci dicono a chiare note che la libertà esalta se stessa nella dedizione senza misura e nella fedeltà all'impegno assunto. La libertà riesce persino ad assumere e sopportare le parti dell'umiliato, dell'offeso, della «rinuncia totale e dolce» (Pascal), come Francesco d'Assisi, come l'Idiota della grande letteratura russa, come il Servo di Yahvè della Bibbia che si carica del peso delle nazioni e dei peccati del popolo per la loro universale liberazione, come Martin Luther King, Gandhi, Teresa di Calcutta, grandi testimoni della libertà del nostro tempo.
    La libertà umana si sente allo stesso modo esaltata quando si getta con passione nella lotta e nell'impegno di liberazione sociale, politica, religiosa, costi quel che costi.
    I nostri tempi sperimentano una caduta delle grandi «idealità» che muovevano all'impegno politico, sociale. Ma forse non è caduta l'esigenza di una libertà che si impegna. Forse c'è solo un ritirarsi indietro, un fermarsi per riflettere, un ritornare alle fonti dell'impegno. L'arretramento nel prepolitico, nel personale, nell'intersoggettivo e nel privato, può essere considerato non una fuga o la ricerca sicura dell'ultima spiaggia, ma l'occasione per la presa di coscienza di ciò che fonda è giustifica ogni impegno storico (forse un po' sbrigativamente scavalcando nel recente passato): e cioè la capacità di rispondere al mondo umano concreto, fatto di persone concrete, con le loro aspirazioni, le loro sofferenze, i loro bisogni fondamentali, le loro utopie, ecc. Non per idee o i valori in astratto.
    Infatti è nella capacità di sentire l'appello che viene dallo altro, come singolo e come comunità impegnata nella costruzione della propria storia, che sorge la libertà. E nel rispondere ad esso, la libertà si attua, assumendo le configurazioni della responsabilità.
    Responsabilità è infatti capacità di presenza personale, capacità di rendere conto a sé, agli altri, al mondo, alla storia, a Dio, per ciò che si è e ciò che si fa. È farsi carico degli impegni che ci si assume e delle conseguenze di ciò che si mette in opera.
    Ma sempre nell'orizzonte dell'altro, scoperto non tanto come avversario o nemico o come oggetto di possesso, ma come compagno come appello vivente che chiama ad essere e comportarsi umanamente.
    In questa luce si può arrivare a vederlo come dono, anche quando per altri versi è dato, posto di fronte in tutta la sua diversità e irriducibilità.
    Quando si arriva a questi livelli la responsabilità stessa, misurata sulle dimensioni della realtà totale dell'uomo e dei suoi progetti storici di liberazione, non rimane solo qualcosa di mentale o di volitivo, «freddo», ma qualcosa che coinvolge tutta la persona, fino ad assumere le vesti della tenerezza di fronte alla scoperta dell'altro e del suo appello di liberazione e di comunione.

    Libertà come solidarietà e partecipazione

    Un secondo grande spostamento d'accento, ancora in atto, è quello che, nel recupero del personale, ha portato a concepire la libertà come solidarietà, come partecipazione, come impegno comune di promozione umana. Incamminarsi lungo le strade della libertà è infatti partecipare ad una lunga marcia, in cui si è coinvolti tutti, sia come singoli individui sia come società nel suo insieme, nel corso della comune vicenda storica, in una sorte di apprendistato permanente ad essere liberi.
    Ciò comporta in primo luogo una sollecitudine attiva a dare «qualità umana» alle singole azioni, per non lasciare l'individuale e il sociale in balìa dell'istinto, del capriccio, della immediatezza, dell'ambigua spontaneità, oppure in balìa del consumismo e del conformismo, negatori delle capacita costruttive e creative, individuali e sociali.
    In secondo luogo questo apprendistato è rivolto a dare individualmente forma, struttura e continuità personale ai singoli atti, all'interno di un proprio progetto di vita fondato su valori autenticamente umani. A dare solidità, permanenza alle disponibilità e capacità positive, riducendo le inadeguatezze e le sproporzioni. E collettivamente esso diventa sollecitudine comune per dare spessore umano e solidità alla vicenda storica e alle istituzioni comunitarie: facendo opera di cultura e storia in ciò che è natura e divenire mutevole; impegnandosi, in un comune sforzo organizzativo e partecipativo, a superare le fissazioni e le sclerotizzazioni funzionali delle istituzioni e di ogni conquista storica. Il che comporta a sua volta riconoscere e dar valore al fatto che non senza sforzo, non senza disciplina si diventa liberi. L'educazione acquista qui tutto il suo senso. Ma insieme è prendere coscienza che la libertà è sempre con-libertà.
    In questo senso oggi si mette in crisi un certo tipo di soggettività illuministico-borghese e si ricercano le categorie di una nuova soggettività, fondata non solo sui bisogni radicali dell'uomo, ma anche sul «camminare insieme», sulla «compagnia», sulla «solidarietà».
    Come recenti documenti della Chiesa hanno insinuato (Sinodo dei vescovi sulla catechesi, Puebla) si cerca di superare le angustie individualistiche storicamente collegate all'immagine dell'uomo, proprie delle culture occidentali, aprendole alle categorie di «comunità» e a quelle di «popolo», non immediatamente identificabili con «massa», come succede spesso in una logica euro-occidentale.
    È in questo orizzonte di senso che oggi tendiamo ad esaltare il valore della festa.
    In una società urbana e anonima come la nostra, essa ha indubbiamente anche una funzione gratificante e rassicurante: è fare l'esperienza di stare di nuovo tutti insieme, di essere aggregati, non isolati e solitari. È sicurezza che uno è con gli altri e ci sarà anche in futuro.
    Ma in primo luogo festa è celebrazione del proprio appartenere e essere popolo. È dar risalto e rinforzare l'impegno comune a costruire la propria storia, non solo negli eventi straordinari e eccezionali, che interessano solo alcuni, ma anche nella componente quotidiana, che riguarda tutti in ogni momento. È ripagare lo sforzo umile e non vistoso, come quello eroico e eclatante. È partecipare alla gioia della stessa mensa e dello stesso pasto, che accomuna e fraternizza. È sentirsi uguali nei diritti e nei doveri, nel ricevere e nell'impegno di dare. È sentirsi solidali, con coloro che appartengono alla storia trascorsa. È segno di quella partecipazione totale di un paese che cammina e fa storia.
    Per questo è vero che ad una festa non si assiste ma si partecipa; è vero che solo una comunità e un popolo può far festa, perché protagonista è il «popolo», in cui ognuno si sente «cittadino» e soggetto storico.

    Libertà e dimensione trascendente della vita

    Infine c'è un terzo spostamento di accento che discende dal recupero del personale, portato fino all sue ultime conseguenze.
    Soprattutto a seguito del contributo di intellettuali e pensatori cristiani, oggi si fa strada sempre più chiaramente la necessità di doversi portare ad un livello di vita più alto di quello pensato entro le categorie immanentistiche e antropocentriche del pensiero moderno, se si vuole far salva ultimamente la libertà dell'uomo.
    Se non si vuol ridurre la libertà ad una «passione inutile» (Sartre), se non si vuole che la «libertà sotto condizione» (Mounier) diventi puro condizionamento e «scacco» (Jaspers) personale e comunitario, bisogna elevarsi ad una nuova altezza di vedute: solo cogliendo la dimensione trascendente della vita (dell'uomo nei confronti della temporalità e del cosmo da una parte, e di Dio nei confronti dell'uomo e della sua storia dall'altra) è possibile cogliere una fondata speranza di libertà.
    Solo se l'umanità non è ridotta entro la «curva dei giorni» (Camus) e del mondo, solo se l'io riesce ad uscire dal guscio di se stesso e ad aprirsi agli altri, all'universo e a Dio, allora ci sarà ancora spazio per la libertà e si potrà affermare che non tutto muore. Solo se Dio non è visto come un concorrente dell'uomo nella libertà; se la creazione non è vista come l'opera di un ingegnere o di un architetto, nelle cui mani l'uomo è ridotto ad un manichino; solo se Dio non è ridotto al «tappabuchi» di ciò che all'uomo non riesce, solo allora sarà salva la libertà dell'uomo.

    CONCLUSIONE

    È qui che il discorso filosofico fa l'esperienza del suo limite e partecipa del «senso di vertigine» che piglia l'uomo di fronte alle «realtà ultime» che pure lo toccano, anzi lo stringono da ogni parte.
    Di fronte ad esse la filosofia non sa che balbettare. Anzi secondo alcuni onestamente deve tacere (Wittgenstein).
    Ma non senza prima aver rivolto quell'invocazione di salvezza, che mette in luce il carattere fondamentale di dono che percorre tutta l'esistenza (Marcel).
    Sarà competenza di altri, utilizzando altri registri e altre procedure, dare luce e dispiegare la grandezza e l'origine di questo dono. Come in altri casi, anche qui sul tema della scoperta e della fondazione ultima dei valori, la filosofia non va molto più in là della problematizzazione o delle ipotesi o delle indicazioni di «dover essere» da realizzare con interventi educativi e politici.
    Ma l'esigenza di andare oltre è facile scoprirla già nell'impegno concreto di valorizzazione, in cui ben presto viene a galla la dialettica ideale-reale e la contingenza radicale dell'azione umana, prima ancora che dell'essere umano. Ma a saper ben vedere appare pure la fondamentale autotrascendenza dell'uomo e la presenza e la «compagnia cifrata» del Trascendente.


    T e r z a
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