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    Quali valori evangelici con i giovani d'oggi



    Franco Ardusso

    (NPG 1980-10-32)


    VALORI UMANI E VALORI EVANGELICI TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ

    Che senso può avere l'accentuazione della radicalità evangelica nella ricerca di una nuova qualità di vita?
    Per rispondere a questa domanda debbo fare innanzitutto alcune osservazioni. In questa rivista è stato detto ripetutamente che esiste continuità tra valori umani e fede cristiana. In linea di principio non si può non essere d'accordo con tale affermazione che scaturisce dall'Incarnazione di Cristo. I valori umani autentici non possono essere in contraddizione con la verità evangelica che è Cristo stesso il quale, facendosi uomo, ci indica il significato profondo delle nostre esistenze e i valori che bisogna perseguire. Tuttavia mi pare di poter cogliere una nota di ambiguità in tutti questi discorsi. Si parla come se si sapesse con sufficiente precisione quali sono i valori umani autentici. Siamo veramente sicuri di saperlo? Con quali criteri possiamo stabilire, ad esempio, che un bisogno, particolarmente sentito in una data epoca, corrisponde ad un autentico valore? Qui sta infatti il primo grande equivoco: la confusione tra bisogno e valore. L'articolo di G. Piana, comparso sul n. 7/1980 di questa stessa rivista, fa giustamente osservare: «Non tutti i bisogni sono necessariamente valori».

    La ricerca di valori è segnata dal peccato

    Parlando di valori umani si dimentica anche spesso che non è facile scoprire concretamente tali valori, e che soprattutto è molto difficile tradurli nella pratica della vita. Oggi si dà molta importanza alle scienze umane in campo educativo, morale, teologico. Non contesto affatto questo impiego. Ricordo solo che le scienze dell'uomo non propongono dei valori (o lo fanno in maniera molto sommessa), ma descrivono dei fatti e dei fenomeni. Sarebbe fatale scambiare per valori, ad esempio, i risultati di un'indagine statistica sul comportamento umano. La fede cristiana ha da dire, a questo proposito, una parola importante. Essa ricorda che l'uomo non è un essere innocente, ma è segnato dal peccato il quale, pur essendo redento da Cristo, continua ancora a far sentire i suoi effetti negativi. Se l'uomo non è innocente, anche ciò che egli produce sarà in qualche modo segnato dal peccato: la storia, il pensiero, le realizzazioni umane di vario tipo. E poi non basta aver scoperto un valore. Quante volte ammettiamo che sarebbe bello e giusto agire in un determinato modo, ma dobbiamo constatare che non ce la facciamo!
    La Gaudium et Spes del Vaticano II, pur essendo sostanzialmente ottimista in ciò che concerne i rapporti chiesa-mondo, ricorda a più riprese che i valori «che oggi sono in grandissima stima», «in quanto procedono dall'ingegno umano che all'uomo è stato dato da Dio, sono in sé ottimi, ma per effetto della corruzione del cuore umano non raramente vengono distorti dalla loro debita ordinazione, per cui hanno bisogno di essere purificati» (n. 11). Lo stesso Concilio, facendo eco al messaggio biblico, afferma che «tutta intera la storia umana è... pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre», per cui «tutte le attività umane, che sono messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall'amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo» (n. 37).

    Il servizio della radicalità evangelica

    Tutto questo per dire che l'accentuazione della radicalità della proposta cristiana con i giovani d'oggi è semplicemente necessaria e urgente. Non per un rifiuto manicheo della cultura moderna, né in virtù di una teologia del fallimento umano, e neppure con l'intento di ritrovare il «puro progetto» evangelico. È invece la verità delle cose, viste alla luce della fede, che ci impone di accentuare la radicalità evangelica come correttivo critico nei confronti di ciò che può essere scambiato per un valore umano autentico, mentre potrebbe essere benissimo il frutto del peccato, della pigrizia, del conformismo, ecc.
    È urgente la sottolineatura della radicalità cristiana anche per un altro motivo: la necessità di non indugiare eternamente sui preamboli, senza giungere mai alla proposta di Cristo, o meglio, a quella proposta che è Cristo stesso. Perché, in ultima analisi, la radicalità cristiana non è un discorso morale, ma un discorso cristologico. È l'annuncio di Cristo, vero Dio e vero uomo, Salvatore e Redentore, che chiama l'uomo non a perseguire astratti valori e ideali, ma a seguire lui, diventando suoi discepoli. Credo di poter sottoscrivere la diagnosi fatta recentemente da E. Bianchi secondo il quale «la crisi attuale... non è più ecclesiologica, e neppure facilmente leggibile sul piano etico: essa appare sempre più quale crisi cristologica essendo avanzato il depauperamento di Gesù Signore e il conseguente disfacimento dell'identità cristiana, semmai solo recuperata qua e là attraverso pericolosi integrismi più morali che rivelativi» (E. Bianchi, Il radicalismo cristiano, Gribaudi, Torino 1980, p. 8).
    Se la pastorale, compresa quella giovanile, mira a fare dei «discepoli del Signore» («Fate miei discepoli tutte le genti...»: Mt 28,19), è ovvio che il primo valore da evidenziare nella pastorale, giovanile e non, è il Cristo stesso, perché è proprio lui che spesso è trascurato dalle chiacchiere senza fine che si fanno nei nostri ambienti cristiani.

    QUALI VALORI EVANGELICI PER UN NUOVO STILE DI VITA

    Dicendo questo, ho già in parte risposto alla seconda domanda che chiedeva quali valori evangelici fossero oggi da sottolineare perché inspiegabili come valori umani. Il primo valore è dunque Cristo stesso, ma nella sua integralità, senza tutte quelle indebite riduzioni e camuffamenti che ai nostri giorni hanno libero corso. Il Cristo si rivela una sorgente inesauribile di valori. Lui solo infatti è l'uomo perfetto, oltre che vero Dio.

    La logica della gratuità-dono

    Molti aspetti del Cristo autentico sono però uno scandalo e una provocazione per la saggezza umana. E in primo luogo il suo vivere e morire secondo la logica del dono, che ha nella croce la sua massima espressione. Il Cristianesimo ha il suo centro luminoso nella grazia (la comunicazione di se stesso fatta da Dio agli uomini), che significa tutto ricevere per poter donare. Gesù è il dono del Padre («Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito...»: Gv 3,10), che fa della sua stessa vita un dono continuo («Non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato»: Gv 5,30), ed insegna ed aiuta gli uomini a donarsi a vicenda («Ama il prossimo tuo come te stesso»: Mt 22,39).
    Facendo eco al discorso di G. Piana il quale condensava, nel numero già citato di questa rivista, una fascia di valori da proporre ai giovani d'oggi nella frase «dall'illusione all'attesa impegnata», mi pare che il valore evangelico della gratuità-dono sia quello che esprime meglio questa esigenza. Ciò equivale a mettere alla base del proprio impegno non già un mondo illusorio, con i suoi esiti frustranti, e neppure soltanto le proprie capacità e vedute, ma Dio stesso che si dona agli uomini in Cristo per trasformarli col suo amore, facendone delle creature nuove, perdonate, amate, consapevoli dei loro limiti, ma certe di poter contare sulla forza stessa di Dio. Bisogna ricuperare tutti i grandi valori evangelici racchiusi nel concetto di «grazia» e la grande idea di S. Paolo della «giustificazione mediante la fede».
    Il mondo ha bisogno di speranza, non di sogni utopistici che ingenerano pericolose fughe dalla realtà, oppure approdano agli esiti distruttivi della violenza e della droga. Il Cristianesimo offre al mondo la speranza. Non una qualsiasi speranza, ma quella fondata sulla risurrezione di Cristo e sulla forza stessa di Dio che lo ha risuscitato dai morti. Si tratta quindi di una speranza che non si arrende agli scacchi, anzi li assume come momenti necessari di un processo che, attraverso l'oscurità della croce, giunge alla luce radiosa della risurrezione. È in sostanza una speranza fondata sul fatto che Dio dirà l'ultima parola sulla storia umana, e non permetterà che nulla vada perduto di quanto è stato fatto per amore.

    La persona come valore: sempre un fine mai un mezzo

    G. Piana indicava una seconda fascia di valori partendo dalla ricerca, oggi in atto soprattutto nel mondo giovanile, dell'identità personale, e della propria soggettività libera e creativa. Anche a questo proposito Gesù Cristo ha qualcosa da dire. Egli infatti è stato costantemente attento alle persone, soprattutto agli ultimi, ai senza dignità, ha dialogato con esse partendo dalla loro situazione (Samaritana, Zaccheo, i pubblicani e i peccatori, ecc.), ha insistito sulla necessità della conversione (si tratta evidentemente di un evento personale al cento per cento), e ha indicato nel cuore dell'uomo la radice profonda da cui scaturiscono «fornicazione, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,21-22). Gesù ha insegnato e praticato il principio secondo il quale il sabato (la legge, le istituzioni, le cose) sono per l'uomo, cioè per la persona, e non viceversa. La persona è sempre un fine, mai un mezzo.
    Il personalismo cristiano non ha nulla da spartire con l'individualismo, col rifugio nel privato, col qualunquismo. Il «personale» si intreccia necessariamente col «sociale», perché la persona è un fascio di relazioni. Valorizzando al massimo la persona, il cristianesimo pone le basi per un discorso e una prassi sociale che devono rifuggire da ogni massificazione che sacrifichi la persona umana, subordinandola ad altri valori. Ogni persona, compreso il nemico, dev'essere amata come si ama se stessi. Ogni uomo è «un fratello per il quale Cristo è morto» (1 Cor 8,11). Qui sta il contrasto profondo tra il cristianesimo da un lato, e il marxismo e il capitalismo dall'altro lato. Questi ultimi non riconoscono infatti il primato della persona e la sua dignità inalienabile.

    La logica della croce come strada alla riconciliazione

    Rifacendomi ancora all'articolo di G. Piana che ravvisa una terza area di valori morali, che necessitano di un'urgente proposta, nel «passaggio dall'ostilità all'ospitalità», ritengo che anche su questo punto la radicalità evangelica abbia molto da dire. Il Vangelo è infatti la buona novella che annuncia la pace e la riconciliazione (degli uomini con Dio, e degli uomini tra di loro). Gesù indica agli uomini la strada della condivisione («Va' vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri»), del perdono senza limiti («settanta volte sette»), della riconciliazione col fratello prima ancora del culto da rendere a Dio (Mt 5,23). Non si passa però «dall'ostilità all'ospitalità» se non si accetta la spogliazione di sé, se non si «perde la propria vita» (Mt 16,25), se non ci si sottopone alla sorte del grano di frumento il quale deve «morire per portare molto frutto» (Gv 12,24). Il Crocifisso, la cui croce il credente deve prendere su di sé «ogni giorno» (Lc 9,23), resta il grande avvenimento e il grande paradigma della riconciliazione e del superamento delle ostilità (cf Ef 2,11-18). È una riconciliazione pagata a caro prezzo dal Cristo il quale «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini... umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,7-8). A questo riguardo e da questo punto di vista il cristianesimo non può non apparire «stoltezza» e «scandalo) per la saggezza umana. E tuttavia è queste scandalo la condizione essenziale per un lavoro fecondo. Non dipenderà forse dall'aver «svuotato la croce del Cristo» (1 Co, 1,17) la mancanza di fecondità in larghi set tori del cristianesimo contemporaneo?


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