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    Per tradurre il tema della radicalità in interventi educativi



    (NPG 1980-10-40)


    FATTI COME «DOMANDE» Dl RADICALITÀ

    Abbiamo progettato questo dossier, perché ci è sembrato di scorgere, nel dialogo attuale della comunità ecclesiale con la condizione giovanile, molte domande di radicalità, molti fatti cioè che, implicitamente o esplicitamente, possono essere interpretati come sollecitazione a ritornare alle radici dell'esperienza cristiana. Elenchiamo alcuni di questi fatti, anche per invitare gli operatori pastorali a verificare quello che sta succedendo.

    Alcuni «fatti»

    È nell'aria il bisogno di ritrovare il senso della propria identità e lo stimolo ad una presenza rinnovata. Per il cristiano e le comunità ecclesiali, questo ritorno significa spesso la rivisitazione della Parola di Dio, nella sua carica profetica e interpellante al di la delle incrostazioni culturali che l'hanno soffocata, la ricerca di una esperienza comunitaria che riproduca l'immagine della prima comunità apostolica.
    Molte realizzazioni dimostrano che questa riscoperta produce frutti copiosi.
    Chi percorre questa via esperimenta la forza della Parola: riesce a comunicare, ha qualcosa da dire, si fa ascoltare. Chi cerca il compromesso o svuota l'evangelo per misurarlo troppo con la sensibilità degli ascoltatori, si ritrova spesso a mani vuote. Qualche volta questo atteggiamento radicale viene però vissuto in termini di scontro e di contrapposizione. La ricerca sull'identità si sposa con il rifiuto netto di tutti coloro che non riescono a condividere questa stessa identità. Si ipotizza persino la necessità di liberare le istituzioni ecclesiali dal peso di coloro che ci stanno dentro senza condividere pienamente significato e obiettivi. Chi è nel gruppo ecclesiale o chi frequenta la scuola cattolica, per esempio, deve fare una chiara opzione pregiudiziale. Un secondo fatto diffuso potrebbe essere intitolato «il bisogno di chiarezza». Abbiamo attraversato un periodo di incertezze e di ricerche troppo affannose. Ha dato i suoi frutti, si dice; ma ora è tempo di rimettere i piedi al sicuro. Giovani e istituzioni hanno bisogno di «verità»: di radicarsi sul solido. E gli educatori ritrovano il coraggio di una proposta dura, precisa, senza troppi tentennamenti e senza inutili addomesticamenti. Anche il Catechismo dei giovani viene visto e proposto, qualche volta, in quest'ottica.
    Coloro che condividono questa ipotesi, trovano spesso le legittimazioni proprio citando quello che capita quando non si fa così. Anzi, molti di loro sono approdati a queste conclusioni dopo aver giocato energie e speranze sul fronte del dialogo a tutti i costi. Gli educatori e le istituzioni che rinunciano ad essere coraggiosamente propositive, con la nascosta pretesa di dialogare più facilmente con i giovani incerti e frammentati del tempo presente, risultano spesso inascoltate e vanificate; restano senza interlocutori, proprio nel momento in cui hanno cercato la formula per averne di più. La conclusione è facile: la ricerca e l'insicurezza, a lungo andare, non paga.
    Ci vuole anche poco a costatare che i gruppi e i movimenti ecclesiali che appaiono in netta ripresa sono proprio quelli a specifica identità, quelli cioè che offrono ai giovani un luogo in cui ricomporre la propria esistenza, in cui ritrovare una identità e maturare un senso di appartenenza.
    Un terzo ordine di fatti può essere raccolto attorno al rapporto tra atteggiamenti e contenuti di radicalità. Molti giovani affermano un bisogno di radicalità, di profezia evangelica. Riesce loro però difficile esprimere questo atteggiamento esistenziale in contenuti precisi. Le ragioni sono molte e si intrecciano.
    Vanno dalla scarsa conoscenza pratica di questi contenuti alla conflittualità respirata nel nostro sistema culturale. Così la radicalità diventa solo un vago atteggiamento generale che non si traduce in prassi coerente.
    Tra atteggiamento e vita pratica fa da ponte la diffusa soggettivizzazione, l'aprogettualità, il presentismo, favorendo cosi ampi scollamenti etici, quasi una doppia moralità. D'altra parte, resta il sogno e la ricerca di un modo nuovo di esistere, di una nuova qualità della vita; e nel nome dell'evangelo, almeno per molti. Un fenomeno simile si manifesta a livello istituzionale. Molte istituzioni recuperano consenso e rilevanza. Ritornano ad essere luoghi di identificazione. Ma questo fatto è dovuto solo all'aria di crisi che si respira, al bisogno di spazi rassicuranti, alla ricerca di rapporti più personalizzanti.
    La ragione di credibilità di queste istituzioni sta quindi nella relazione che esse riescono ad instaurare con i giovani e non sui contenuti che offrono. Avrebbero lo stesso credito anche se facessero circolare contenuti molto diversi, dice qualcuno malignamente.
    Non è facile rendersene conto. E certo non si può generalizzare. Di fatto contenuti e relazione non si incontrano mai allo stato puro, ma si intersecano e si intrecciano in modelli molto differenti.
    Questa situazione però, nella misura in cui è realistica, approfondisce ulteriormente quel pericoloso divario che abbiamo denunciato, tra atteggiamenti e contenuti, allargando così lo scollamento etico.

    Ancora qualche altro «fatto».
    Molti gruppi stanno interrogandosi nuovamente sulle problematiche religiose, perché avvertono il bisogno di riscoprire il peso che i valori evangelici hanno sulla quotidianità della vita umana. In questi anni abbiamo giocato troppo sul filo delle contrapposizioni e degli esclusivismi. Per reagire alla vanificazione dell'umano in nome del divino, ci si è ridotti a far coincidere il secondo con il primo. Molti giovani hanno rinunciato così ad una esistenza religiosa nel nome della fede nell'uomo. Oggi sentiamo il bisogno di riaffermare l'alterità della trascendenza, per salvare meglio e più profondamente quest'uomo disperato che ha voluto prendersi troppo presuntuosamente la sua vita tra le mani.
    Un altro problema investe i gruppi. Usando una terminologia classica, lo possiamo chiamare del rapporto tra «appartenenza» e «riferimento». Per evitare l'integrismo, molti gruppi hanno allentato i fili della appartenenza per aprirsi sul vasto mondo, diventando prevalentemente di riferimento: poche attività in proprio, ma solo momenti di celebrazione per comprendere e pregare una prassi vissuta nella storia di tutti. Qualche gruppo ora sta contestando praticamente questa scelta. E non solo sotto la bandiera dello «stare assieme». Ci si è accorti che la troppa diaspora minaccia la capacità formativa e propositiva del gruppo stesso. Nel nome della radicalità, questi gruppi stanno rinchiudendo le porte: si cercano tempi e spazi sempre più ampi di appartenenza, per poter assicurare una reale capacità propositiva. Riaffiora in alcuni gruppi il bisogno di precisare la propria identità: di rafforzarla, di possedere un quadro progettuale ben delineato, fino alla contrapposizione.

    Fatti da interpretare

    Abbiamo elencato alcuni fatti, raccogliendoli tra i mille che ogni giorno costatiamo. Questi fatti, come tutti i segmenti della storia personale e collettiva, sono un segno ambivalente. Vanno interpretati: accolti come una proposta che sollecita sempre la propria responsabilità e creatività.
    Una cosa è certa, comunque: questi fatti rappresentano una innegabile domanda di ritorno alla radice dell'esperienza cristiana, al coraggio del suo annuncio, alla esigenza di giocare tutta l'esistenza nella logica della provocante storia del Risorto. E fanno vedere come questo urgente ritorno è difficile e impegnativo, anche per ragioni culturali.
    Il «ritorno alle radici» (in cui ci sembra di poter condensare questa diffusa domanda di radicalità) può essere risolto in due modelli: o come recupero dei contenuti del passato, in termini statici e conflittuali rispetto al presente; o come recupero della memoria del passato, della sua forza creativa anche per il presente.
    Nel primo caso il processo è regressivo e produce facilmente la chiusura autosufficiente, la contrapposizione frontale o la ripetizione stereotipata di formule senza senso. Nel secondo caso il processo è innovativo e promozionale, perché lo spessore del passato viene rielaborato dentro i problemi del presente in dialogo attento con tutti coloro che condividono questo presente, per dare più senso al presente e lanciarlo verso il futuro.
    Nei fatti accennati, queste due tendenze sono spesso contemporaneamente presenti: esprimono le due facce di una stessa medaglia.
    Per questo sono «domande di radicalità» (= di ritorno alle radici), da «rielaborare», per raccoglierne tutta la carica interpellante.

    IL BISOGNO Dl IDENTITÀ IN UN TEMPO Dl CRISI

    Certamente non possiamo risolvere l'ambivalenza dei fatti che abbiamo evidenziato, suggerendo troppo facilmente quello che bisogna fare e quello che bisogna omettere. Non ne siamo capaci. E non faremmo un servizio, se tentassimo di imbarcarci per questa strada.
    La via da percorrere ci sembra diversa, più impegnativa ma più promozionale: svolgere come al rallentatore il processo e smascherare i suoi condizionamenti.

    Identità e rilevanza

    Il bisogno di radicalità rappresenta una esigenza importante e urgente. Chiama in causa profondamente la specificità dell'esistenza cristiana e il dialogo tra fede e cultura.
    Può essere definita come recupero dell'identità, bisogno di chiarezza interiore, definizione concreta e praticabile dei significati fondamentali della propria esistenza e della propria missione.
    Per il cristiano e per le istituzioni ad ispirazione cristiana l'identità è prima di tutto costruita sull'accoglienza di un progetto offerto. È riformulazione storica di un dono che costituisce in essere, che dà novità di vita.
    Per questo essa è sempre un ritorno alle radici, un confronto con il proprio passato.
    Questo ritorno avviene necessariamente sull'onda provocante delle domande che riempiono il presente, perché solo il presente fa domande ineludibili.
    Il presente è quindi il luogo della definizione della propria identità. Per questo, anche il credente si autodefinisce nel crogiolo delle tensioni che attraversano il suo presente. Gli piaccia o meno, non ne può restare estraneo.
    In un tempo in cui i significati dell'identità riscuotono consenso e godono di prestigio, il processo avviene senza troppi scossoni, con un movimento spontaneo che permette facilmente di misurarsi con i problemi reali.
    Quando invece c'è aria di crisi, il processo si sviluppa in modo molto più problematico, con il rischio di lasciarsi condizionare da ragioni non pertinenti.

    Siamo in un tempo di scarsa rilevanza religiosa

    Come vanno le cose oggi?
    È innegabile che ci troviamo in un tempo in cui lo specifico cristiano, attorno cui costruire l'identità e giocare la radicalità, soffre di notevole irrilevanza. Non c'è bisogno di spendere parole per dimostrarlo, perché si tratta di quotidiana esperienza. Le ragioni sono molte. In un lucido articolo, F. Garelli ne ricorda fondamentalmente tre: - «C'è anzitutto da osservare che, in una società a forte accentuazione pluralistica (rispetto invece a un sistema sociale - proprio di un recente passato - più monolitico), la prospettiva di fede appare ai giovani (si potrebbe dire all'uomo contemporaneo) come una delle tante proposte che si offrono come risposta al problema del senso della vita, del male, dell'ingiustizia. Nel contesto contemporaneo infatti sono molteplici e di diversa natura le istanze, i progetti, i sistemi di significato che si presenta no come totalizzanti per l'uomo, che si propongono cioè di rispondere alla globalità dei suoi bisogni o perlomeno a quelli più significativi».
    - «Il giovane d'oggi sembra immerso in un contesto sociale caratterizzato da istanze che non sono in sintonia con la proposta religiosa. Si produce quindi uno scollamento tra sensibilità, condizione di vita, esperienza del giovane e possibilità di accettazione del messaggio religioso. Sembrano, in altri termini, venir meno le condizioni che predispongono i giovani all'ascolto e alla interiorizzazione del messaggio religioso, e prevalere quelle che favoriscono l'incomunicabilità e la non sintonia tra i due poli (i giovani e la proposta religiosa)».
    - Il giovane oggi non usufruisce più di una copertura sociale nel suo porsi di fronte al fatto religioso. Infatti egli in genere non trova nella famiglia un ambiente particolarmente attivo dal punto di vista religioso, nel quale cioè possa incontrare e interiorizzare in modo approfondito il valore di un riferimento al sacro» (Garelli F., Giovani e fenomeno religioso in una società complessa, in Aggiornamenti sociali 31 (1980) n. 1, 7-20).

    Come si reagisce

    Questi fatti provocano l'identità e la mettono in crisi.
    Qualcuno (persone e istituzioni) è tentato di difendersi in modo reattivo: definisce la propria identità cristiana o in termini riduttivi o in termini integristi.
    Si scivola verso l'integrismo quando ci si arrocca sulle difese, assumendo come specificità cristiana non solo quello che lo è di fatto, ma anche quanto è solo un fatto culturale del passato; e giocando poi il tutto in modo aggressivo nei confronti delle posizioni diverse.
    Si raggiunge il limite del riduttivismo e dello svuotamento, quando invece si diventa disposti a lasciar cadere dimensioni costitutive dell'esistenza cristiana, solo perché non riscuotono peso sociale, per assumere nella definizione della propria identità quei valori che hanno consenso e prestigio e assicurano cosi rilevanza.
    Nel primo caso la rilevanza è comprata nella contrapposizione frontale; nel secondo nella accoglienza acritica della logica mondana.
    È facile costatare che in tutti e due i casi si vive un rapporto scorretto tra fede e storia.
    Il modello riduttivo riduce la storia a storicismo, a presentismo, rinunciando alla radicazione nel trascendente. Ci si dimentica che la verità cristiana è nella storia, ma allo stesso tempo supera la storia. Non basta quindi assumere l'immanente quotidiano, perché questo presente va illuminato e giudicato in una prospettiva storica che faccia spazio al suo senso ultimo e definitivo, riconoscendo la trasparenza del mistero della storia, nel cuore stesso degli avvenimenti storici.
    Il modello integrista dimentica la storicità dell'esperienza cristiana e quindi la relatività delle sue espressioni. Non si crede sufficientemente che la fede, se è rivelazione, ha luogo nella storia e dalla storia viene continuamente segnata e condizionata. Facendo coincidere fede e cultura, si colloca l'esperienza cristiana fuori dalla storia, senza nessun contatto con essa, quasi abitasse «dove abita la razza degli dei» (per dirla con Platone), fino a farla diventare assoluta e immutabile.

    UNA PROPOSTA

    Come si vede, l'argomento si allarga a ventaglio.
    Sono coinvolti tanti problemi che si potrebbe scrivere un trattato di pastorale giovanile. Ci limitiamo a suggerire solo alcuni spunti, dettati da una preoccupazione operativa, le cui giustificazioni teoriche vanno riprese nelle «prospettive» di questo dossier.

    Quale «ritorno al passato»

    Radicalità dice ritorno alle radici, rivisitazione del proprio passato.
    Su questa esigenza siamo tutti d'accordo; essa è costitutiva del nostro esistere cristiano e fondamentale per una prassi e una proposta cristiana.
    Il problema è un altro: come riandare al passato, per realizzare un processo innovativo e non regressivo? Su quali parametri verificare se il ritorno al passato esprime nostalgia o profezia?
    Il ritorno al passato avviene in modo cristiano, quando si realizza in un profondo intreccio con il presente e il futuro. In concreto, secondo queste esigenze:
    - Interpretare il passato perché lo si valuta importante per il presente. Anche per un cristiano, il tempo che conta è quello del suo presente: l'oggi, ogni oggi, è sempre per noi oggi della salvezza, tempo in cui giochiamo la nostra decisione fondamentale per Dio e per il suo progetto.
    Quando si vive in modo attento il presente, ci si accorge che esso fa domande, diventa problema. Siamo consapevoli nella fede che non riusciamo a rispondere a queste domande e a risolvere questi problemi se non ritornando alle radici, ritrovando nel passato le ragioni per comprendere il presente.
    In questa logica, il passato va interpretato alla luce del presente, non ripetuto passivamente nel presente.
    - Interpretare il passato da figli gli affezionati. Il ritorno al passato può essere vissuto in modo saccente e autosufficiente o in modo freddo e distaccato. In questo caso si ritorna al passato solo per raccogliere informazioni e con un atteggiamento prevalentemente critico. È importante, invece, rivisitare il passato da «credenti», da figli affezionati che vogliono comprendere quello che nel passato «dà da pensare», perché «sentono» che questo ha grossa importanza per l'oggi.
    - Interpretare il passato verso il futuro. L'attenzione è sempre sul presente. Il presente, pero, è esso pure relativo. Va trasformato: proiettato verso il futuro.
    Il futuro è esperimentabile solo come promessa e speranza; si fa «presente» nell'impegno di chi opera sull'oggi per renderlo meno dissimile dal futuro che è promesso. Il ritorno al passato ha quindi necessariamente una valenza «politica»: è impegno a trasformare, è fatica di produrre il futuro.
    Fuori da questa logica, la rivisitazione dal passato resta sempre regressiva e alienante.
    - Interpretare il passato nella comunità che è garante della correttezza del processo. L'ultima condizione ripete un tema sul quale siamo ormai molto sensibili. Ogni processo storico è sempre a risonanza collettiva. Non può quindi essere monopolizzato da nessun «libero battitore». Nella comunità ecclesiale, poi, che ritorna alle sue radici per essere fedele al suo Signore, la dimensione comunitaria resta una condizione di autenticità, sempre.
    Comunità come garanzia significa almeno due cose: il respiro collettivo del ritorno al passato e il confronto allargato con «la» comunità ecclesiale come fatto istituzionale.

    Radicalità tra atteggiamento e contenuto

    Da questi veloci accenni si conclude facilmente che la radicalità è fatta di atteggiamenti e di contenuti. Consiste in una serie di contenuti oggettivi e normativi (almeno in fase provvisoria) che diventano stili di esistenza, disposizioni abituali all'azione (e cioè atteggiamenti).
    Anche da questa indicazione riemerge la necessità di elaborare in modo corretto il rapporto tra fede e storia, superando i limiti ricordati nelle pagine precedenti.
    Raggiungiamo la verità dell'evento della fede solo se ce lo riappropriamo, se lo viviamo. Non conta tanto l'oggetto della nostra fede, quanto il modo con cui si vive, perché si crede a questo evento. Questa appropriazione soggettiva si fa nella storia, mediante un processo storico. Non è però soggettivizzazione di un dato oggettivo, ma interiorizzazione personale di un evento esistente e consistente (dotato quindi di «contenuti» precisi).
    L'atteggiamento radicale, per un cristiano, è accoglienza nella storia personale e collettiva di una «verità» (espressa in contenuti) che ci trasforma progressivamente in uomini nuovi (atteggiamenti radicali), proprio perché è dono che viene dall'alto.
    Sul piano della prassi pastorale, se vogliamo rispettare e promuovere la sensibilità giovanile, dobbiamo prendere atto dell'atteggiamento di radicalità già presente in molti giovani. Partendo di là, possiamo operare per consolidare e autenticare questo atteggiamento, riempiendolo dei contenuti di questa radicalità evangelica.
    L'operazione va condotta su diversi fronti e con una progressività molto attenta e rispettosa, perché si tratta di fare i conti con la larga soggettivizzazione che attraversa l'attuale condizione giovanile, con il facile scollamento etico di cui abbiamo già parlato, da non colpevolizzare troppo affrettatamente, con la complessità e conflittualità che segna il nostro modello sociale.

    Definire l'identità tra fede e cultura

    Anche il recupero e la riaffermazione dell'identità (personale e collettiva) è cosa urgente e indilazionabile.
    Senza identità forte nessuno riesce a sopravvivere «da uomo», in un tempo di crisi e di accesa conflittualità.
    L'urgenza non giustifica però l'arrembaggio scorretto e pressappochista, né tanto meno può servire a motivare rigurgiti di integrismo.
    Si tratta invece di realizzare quel corretto rapporto tra fede e cultura di cui tanto abbiamo già parlato. E questo vuol dire unità e fermezza sulla fede e «compagnia» (come la chiama Ruggieri nell'articolo contenuto nel dossier) con tutti gli uomini che hanno qualcosa di importante e serio da offrire.
    La definizione dell'identità è raggiunta solo quando fede e cultura si integrano in un unico progetto operativo, radicato nella fede e attento alle problematiche del presente storico.
    Non si tratta di una integrazione a formula fissa, dove il prodotto è assicurato se gli ingredienti sono nella dose giusta. La ridefinizione dell'identità è frutto di fantasia e di coraggio: di attenzione all'oggi e di distacco critico, per essere «dentro» e nello stesso tempo tanto «fuori» da contestarne la logica e da poter sollecitare il presente verso un futuro nuovo, diverso, tutto da inventare.
    Cosa non facile né per gli individui, né, tanto meno, per le istituzioni.
    Questo progetto ha quindi bisogno di radicalità: bisogno di risultare così vicino alle radici dell'esistenza cristiana da diventare profezia, risposta interpellante e liberatrice alle attese più significative dell'uomo di oggi. Non basta perciò raccomandare il recupero dell'identità ed è scontato anche il suggerimento di vivere questo in termini provvisori e dinamici. Quello che conta è l'invito a cercare mediazioni tra fede e cultura capaci di rielaborare la profezia dell'evangelo in modo salvifico anche oggi, in questa concreta situazione.
    La strada da percorrere è ancora lunga.
    La ricerca fatta dalla rivista attorno alle problematiche della nuova qualità della vita («giovani e valori», l'abbiamo intitolata: si veda NPG 1980/7) è un timido, iniziale tentativo di percorrere questa pista.

    Quali mediazioni

    Il problema è dunque sempre questo: quali mediazioni, o, meglio, quali condizioni assicurare perché le mediazioni risultino concrete, corrette e praticabili.
    Parliamo di mediazioni nel senso più ampio del termine: mediazione è tutto ciò che permette di approdare per via esperienziale all'obiettivo proposto.
    Facciamo degli esempi, ripetendo cose già dette.
    È importante aiutare i giovani a possedere il senso di appartenenza ecclesiale. Ma questo si realizza solo «facendo esperienza» di Chiesa. Il gruppo, per la sua carica esperienziale, può diventare mediazione, rispetto al senso di appartenenza ecclesiale. L'annuncio di Gesù Cristo si conclude nell'incontro con lui, nella sua sequela. Per evitare che questa esigenza sia troppo soggettivizzata e l'incontro con Cristo si riduca all'incontro con una nostra proiezione fantastica, abbiamo parlato di «passione per il Regno» come mediazione, concreta e verificabile, dell'incontro personale con Gesù Cristo.
    Anche i sacramenti e la vita liturgica sono «mediazioni» in ordine al processo salvifico. La salvezza è data dal dialogo, immediato e diretto (al di fuori dunque di mediazioni) tra Dio e la libertà dell'uomo. Ma questo dialogo si svolge sempre con parole umane, nella logica dell'Incarnazione. Queste parole umane (Gesù di Nazareth, per esempio, la Chiesa e i sacramenti...) sono «mediazione», perché realizzano qui-ora l'incontro tra Dio e l'uomo, in vista della salvezza.
    In un tempo di crisi di valori, l'adulto significativo, il leader di gruppo, l'amico rappresentano per molti giovani la mediazione attraverso cui passano i valori e le proposte educative.
    E gli esempi potrebbero essere moltiplicati.
    Nelle mediazioni si richiede sempre una doppia fedeltà: all'evento che si vuole mediare e a coloro a cui si intende mediare questo evento, all'oggetto cioè e ai destinatari.
    Non tutte le mediazioni sono fedeli all'evento; ma non tutte le mediazioni fedeli all'evento risultano significative (e dunque mediative) per i destinatari.
    Per elaborare mediazioni di radicalità, fedeli all'evento e ai destinatari, pensiamo che gli operatori e le comunità educative debbano seriamente interrogarsi a tre livelli:
    - Quali mediazioni rappresentano un contributo concreto per i giovani d'oggi? Certo, molte di quelle possedute e utilizzate nelle comunità ecclesiali, anche per affermare e praticare la radicalità evangelica, dicono ormai poco ai giovani d'oggi...
    - In quali spazi esistenziali è possibile progettare mediazioni significative e praticabili?
    Abbiamo sempre detto che il gruppo è uno dei luoghi privilegiati perché li si può esperimentare nuova qualità di vita. È possibile andare oltre? Inventare qualcosa di nuovo?
    Soprattutto quali condizioni vanno rispettate perché il gruppo sia davvero «mondo vitale», quell'ambito di relazioni intersoggettive che genera la vita e aiuta a coglierne e a produrne il senso, per persone che devono necessariamente fare i conti con un più vasto sistema sociale, per viverci dentro e trasformarlo progressivamente?
    - Come devono modificarsi le grosse istituzioni per saper accogliere un po' di più la funzione delle mediazioni e le concrete mediazioni che permettono di esperimentare questa importante costatazione: «Se io riesco a trovare degli amici, a fondare un rapporto non oppressivo o regressivo di coppia, tali che mi consentano di crescere e di far crescere nella fiducia reciproca, di produrre e di riprodurre senso e vita, allora io non ho più quei tremendi problemi di solitudine e d'incertezza che mi portano a privilegiare le componenti del carisma narcisistico o del sacro privatizzato e pagano» (A. Ardigò)?

    CONCLUSIONE

    Su queste domande si conclude la nostra ricerca.
    Forse abbiamo aumentato i problemi, invece di risolvere quelli da cui siamo partiti. D'altra parte, è proprio la radicalità un grosso problema. Chi cerca modelli praticabili e si guarda d'attorno, resta spesso deluso. Si parla molto di radicalità. Ma di «evangelica» non ce n'è troppa nel tessuto vivo della prassi.
    Questa almeno, è stata la nostra impressione, quando ci siamo messi a studiare il tema.
    Dobbiamo lavorare ancora molto e più seriamente.
    Tutti: comunità e singoli. Accontentandoci meno delle grosse affermazioni di principio o delle parole che mascherano i problemi. Perché si è radicali solo dando la vita per amore, nel nome di Gesù, il crocifisso-per-amore risorto.


    T e r z a
    p a g i n A


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