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    La vocazione religiosa nel contesto della vocazione umana e cristiana



    Giorgio Gozzelino

    (NPG 1980-8-3)


    A giudizio di una indagine sociologica condotta da S. Burgalassi a proposito dei problemi di reclutamento dei consacrati,[1] una delle cause di maggiore rilievo della crisi attuale che le vocazioni di consacrati stanno attraversando va individuata nella incertezza di identità e di ruoli introdotta nella loro interpretazione e nella loro vita dal cambio socioculturale in atto nella nostra società. Sembra, in effetti, che le nuove modalità di esistenza che la caratterizzano vadano suscitando nei giovani che si confrontano con una proposta di vita consacrata delle domande, precise e stringenti, di questo tipo: che senso possiede un progetto di vita religiosa, se è sufficiente, per riempire una esistenza, un vero impegno cristiano, od anche semplicemente una scelta di servizio motivata da ragioni umanistiche? Che cosa aggiunge magari, che cosa toglie l'appartenenza ad una istituzione religiosa in senso stretto alla verità di un progetto di vita apostolica o comunque impegnato sul fronte della promozione umana propria ed altrui? A che scopo diventare religiosi quando le medesime attività e finalità perseguite da essi possono essere svolte e raggiunte altrettanto bene qualcuno aggiunge: meglio da semplici laici o da non credenti animati da un amore sincero per l'uomo? In una parola: esiste una vera giustificazione della presenza di consacrati nella Chiesa e nel mondo, distinta da quella dei cristiani laici e dei non credenti, ed in possesso di autentici valori propri? O si tratta di un residuo storico di situazioni di altri tempi, oggi abbondantemente superate dalla maturazione delle coscienze e dalle possibilità operative introdotte dal progresso della società industriale? Quale rapporto definisce la vita consacrata in riferimento alla vita cristiana ed ai valori di una semplice esistenza umana in quanto tale? Evidentemente non si tratta di domande di poco conto, che consentano di sperare in una risposta lucida e lineare di poche righe. Neppure, però, è lecito eluderle in nome della complessità delle questioni che mettono in causa. In questo articolo, G. Gozzelino offre una sua meditata risposta al problema, analizzando due momenti distinti e successivi: il primo dedicato alla chiarificazione dei rapporti dell'essere uomo con l'essere cristiano (vocazione umana e vocazione cristiana); ed il secondo rivolto alla illuminazione dei rapporti dell'essere cristiano con l'essere consacrato (vocazione cristiana e vocazione religiosa).[2]


    UOMO O CRISTIANO?

    «Uomo o cristiano» è il titolo di un documento redatto nel 1975 dall'allora arcivescovo di Torino, card. Michele Pellegrino, sul tema della evangelizzazione e promozione umana, nel quale la conclusione si condensava nella doppia asserzione: uomo perché cristiano, e cristiano perché uomo, sulla scia delle seguenti considerazioni dell'autore:
    Non esistono due qualità di uomini, chiamati gli uni a realizzarsi su di un piano puramente naturale, gli altri ad accogliere il messaggio che annunzia Dio creatore e Gesù portatore della salvezza che si raggiunge pienamente nell'altra vita. Ogni uomo è chiamato a vivere come figlio di Dio, nella conoscenza e nell'amore del Padre, e destinato ad una vita eterna nella quale solamente egli raggiungerà il suo ultimo fine. Perciò si può anche rovesciare il rapporto di cui ci siamo occupati fin qui, affermando che l'uomo (a prescindere dalla coscienza di ciascuno) non può realizzarsi in tutto il suo essere ed il suo destino se non nella risposta al messaggio di Cristo.[3]
    Vocazione umana significa appello - insito nel fatto stesso di esistere, di esserci qui ed ora nel mondo - alla pienezza di una vita realizzata a livello di tutte le dimensioni costitutivamente umane. La natura della vera vocazione umana è comprensibile solo all'interno di una antropologia integra che incorpori la totalità delle dimensioni dell'uomo senza sacrificarne nessuna e senza rovesciarne le proporzioni ed i rapporti; di una antropologia, cioè, che da una parte tenga conto dei valori profani rivalutati dalle prese di coscienza generalizzate della secolarizzazione, e dall'altra conceda il massimo rilievo a quel valore fondante, trascendente ed insieme intimamente immanente all'uomo, che consiste nella comunione con Dio e che si chiama valore religioso.
    Se la considerazione dell'uomo prende atto della compresenza in lui di dimensioni sociali, storiche, culturali, economiche, politiche, tecniche, artistiche, cosmiche e religiose, organizzate entro un complesso di valori distribuiti lungo i due assi portanti del riferimento umano al terreno in quanto tale (ambito del profano) ed al definitivo inaugurato dalla morte (ambito del religioso), la vocazione umana viene giustamente interpretata come un impegno da esercitare su entrambi i fronti del profano e del religioso, nel rispetto del delicato equilibrio che lega la loro vera unità alla loro reale distinzione. Non c'è più posto per concezioni limitanti che riducano l'uomo ad un essere monco costituito da una sola dimensione. E diventa possibile precisare alcuni punti che per la nostra questione del rapporto dell'umano col cristiano rivestono una importanza fondamentale.

    Uomo: una significazione generale e una settoriale

    Il sostantivo uomo, con l'aggettivo umano, come si usano quando si parla, ad esempio, di vocazione dell'uomo, o di impegno o giustificazione umana, rivestono almeno due significazioni, nettamente distinte ed assieme complementari, una delle quali di portata generale e l'altra settoriale. Nel senso più generale, che a nostro giudizio si qualifica come il migliore tra i due, le due parole connotano la totalità dell'uomo nell'insieme delle sue dimensioni e perciò significano direttamente sia il riferimento profano sia il riferimento religioso. Nel senso settoriale, invece - che, tanto per fare un altro esempio, è poi quello della formula stereotipa «evangelizzazione e promozione umana» - le due parole significano esclusivamente i valori propri dell'ambito della profanità, intesi come tali, ossia come distinti e diversi, in se stessi e nelle loro metodologie di sviluppo, dal valore religioso.

    Quale uomo?

    Un conto è parlare di vocazione, o di essere, o di impegno ed attività umani nel senso settoriale del termine, ben altro servirsi del medesimo aggettivo nel significato generale. Quando l'essere umano viene interpretato solo in quanto si riferisce ai compiti terreni, ed astraendo dalla apertura di questi compiti terreni al trascendente ed al definitivo, la vocazione cristiana rischia di apparire un additivo che si aggiunge dall'esterno ad un umano sostanzialmente completo e concluso in se stesso; e con ciò di essere presa per una realtà superflua, che da qualcuno potrà essere vista positivamente in termini di arricchimento e da altri negativamente in termini di ingombro e di alienazione, ma che resterà, in entrambi i casi, un di più non richiesto dalla integrità dell'uomo.
    Mentre invece, se l'essere umano viene inteso nel senso generale della parola uomo, nella sua accezione entra la dimensione religiosa, e mediante essa si fa strada la piena valorizzazione della vocazione cristiana: che in tal modo, infatti, si impone come un elemento integrante - anzi il più decisivo tra tutti perché fondamento dell'insieme della verità totale dell'uomo, ben oltre il pericolo di una riduzione al superfluo. Non solo. Nel primo caso diventa perfettamente legittimo e naturale chiedersi a che cosa serva una vocazione consacrata, e cioè una modalità della vocazione cristiana, per l'assunzione di sensi e compiti aperti a qualsiasi non credente: perché l'equiparazione dell'umano col terreno o profano finisce col rendere meno giustificato il semplice essere cristiano. Nell'altro caso, viceversa, la legittimazione dell'essere cristiano introduce la possibilità di una legittimazione anche della vita consacrata.

    Il provvisorio «aperto» al definitivo

    A nostro giudizio, una buona percentuale delle obbiezioni, già viste, che si oppongono alla proposta di una vita religiosa, proviene dal restringimento - magari tacito, implicito, persino inconsapevole, ma molto influente - a cui viene sottoposta la concezione generale dell'uomo e dell'umano quando la si limita a quei suoi aspetti e valori che sono propri soltanto della vita terrena, intesa come esistenza che inizia con la concezione e nascita e si conclude con la morte. È un fatto che agli uomini di oggi interessa, nel migliore dei casi, l'uomo, e tanto basta.
    Per sé, come ha ripetuto Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis, quest'ottica antropocentrica non comporta nessuna esclusione pregiudiziale della fede, e perciò neppure lo svuotamento di un progetto, come quello dei consacrati, che intende realizzare una situazione oggettiva di proclamazione della centralità ed assolutezza della fede. Se però il terreno ed il provvisorio sono compresi come realtà che concludono a se stesse; se non si coglie il loro riferimento costitutivo, fondato sulla creaturalità, alla comunione con Dio, ossia ad un valore trascendente che è veramente in loro senza mai ridursi al loro ambito; se non si comprende che la relazione umana a Dio non sta all'uomo come un vestito che può essere indossato e deposto quando meglio si crede, bensì come una spina dorsale che non può essere asportata senza distruggere l'uomo, qualsiasi discorso su di una possibile vocazione alla vita religiosa risulta compromesso in partenza. È necessario quindi che si espliciti il più frequentemente possibile la presenza decisiva della dimensione religiosa all'interno dell'integrità dell'uomo.

    Parole equivoche

    E qui si inserisce una quarta osservazione: giacché l'offuscamento causato dalla sopravvalutazione del terreno e del provvisorio proviene anche dal mantenimento di una terminologia che in altri contesti culturali rispose bene a reali esigenze del momento, ma che oggi pare fatta su misura per sollevare dubbi e suscitare contestazioni. Ci riferiamo all'uso ed abuso dei termini chiave uomo ed umano nel secondo dei due sensi illustrati in precedenza, quello settoriale, che continua a tenere banco malgrado i richiami ai condizionamenti delle parole che provengono dalle filosofie del linguaggio.

    L'ESIGENZA DI UNA PURIFICAZIONE DEL LINGUAGGIO

    Non si può rovesciare o raddrizzare una mentalità erronea e distorta servendosi di termini che tendono ad insinuarla e favorirla. Se si decide - forse per inerzia o per insufficiente distacco critico - di usare certe parole in un certo senso, è necessario prendere atto delle conseguenze alle quali ci si espone.
    In concreto, bisogna rendersi conto che non è possibile servirsi delle parole uomo, umano, e simili, nel senso nel quale sono praticamente sinonime di profano o terreno, senza confermare la grande maggioranza degli eventuali ascoltatori - sottilmente, e perciò con spiacevole efficacia - nel pregiudizio della interpretazione dell'essere religioso, e conseguentemente dell'essere cristiano, come elemento sopraggiunto all'uomo: instaurando con ciò una base precomprensiva di umanesimo ateo che avrà ben poche probabilità di concludere in qualcosa di diverso da un ateismo esplicito almeno pratico. È vero che per scongiurare un pericolo del genere basta precisare in quale dei due sensi si assumono i termini in questione, richiamando con ciò stesso la verità della compresenza della doppia significazione delle medesime parole e chiarendo che prescindere dal riferimento religioso non significa escluderlo. Non si dovrebbe dimenticare tuttavia che «il significato di una parola è l'uso di tale parola nel contesto in cui essa si trova» (Gilbert Ryle); e dunque che, siccome il contesto culturale odierno è quello di una secolarizzazione ormai abbondantemente degenerata in secolarismo, il miglior correttivo di quei rischi consiste non nel corredare i termini di una serie di precisazioni che sfuggono alla maggior parte dei destinatari, ma nel servirsene in senso opposto a quello riduttivo del secolarismo, e cioè unicamente seguendo l'accezione che abbiamo chiamata generale.
    Questa conclusione potrà apparire drastica, ma è indubbiamente in grado di prestare dei servizi molto preziosi. Anche perché i motivi di equivoco indotti da quel tipo di linguaggio non finiscono qui. Le medesime parole sono notoriamente usate in sensi altrettanto bisognosi di spiegazioni complicate e perciò, praticamente, altrettanto mistificanti. Si parla correntemente di umano per indicare, con una accezione chiaramente peggiorativa, qualcosa di estraneo e distante dalla fede: come quando si dice di un ragionamento o di una reazione che sono troppo umani. Oppure per sottolineare l'impotenza dell'uomo lasciato a se stesso nella lotta contro il peccato e per la salvezza: come quando si afferma la sproporzione dell'umano per questi compiti; nel qual caso umano diventa sinonimo di naturale in quanto contrapposto a soprannaturale, parole, queste ultime, ancora più ambigue di quelle che dovrebbero chiarire[4]. O ancora per designare l'elemento di peccaminosità presente in ogni uomo: come quando si esorta a rinnegare il puramente umano.

    «Dai tetti in su o dai tetti in giù?»

    Certo, tutte queste accezioni godono di un solido retroterra biblico-storico che sembra renderle pienamente legittime in forza dell'uso autorevole e secolare a cui possono richiamarsi. Ma la loro legittimità, a ben vedere, è squisitamente «astratta»: si mantiene, cioè, a condizione di astrarre dal concreto contesto culturale e quindi linguistico - rispetto al passato, per molti versi assolutamente inedito - nel quale oggi debbono per forza di cose inserirsi. Col risultato di alimentare la convinzione, specialmente tra i giovani, che il cristianesimo si oppone all'umanesimo o perlomeno prescinde dai suoi interessi. Quando si tenga conto che in molte istituzioni di vita consacrata, specialmente femminili, questi modi di esprimersi - magari accompagnati da buffe ed ancor più mistificanti frasi fatte, come l'espressione «dai tetti in su, dai tetti in giù» - sono tuttora le più correnti e si accompagnano a comportamenti ottusi, soffocanti, lesivi di autentiche aspirazioni umane, che non hanno nulla da spartire con il vero senso del rinnegamento di sé richiesto dal vangelo, non si fa fatica a capire il perché sia del declino di molte vocazioni sia delle obiezioni di principio sollevate contro il progetto di una vita consacrata.
    Ripetiamo quindi, che a nostro giudizio il rinnovamento della vita religiosa passa anche attraverso una buona ripulitura linguistica, una sciacquata in Arno che concerna non tanto la fosforescenza delle parole quanto la loro correttezza semantica. Evidentemente, il rilancio delle vocazioni esige ben altro: ma non deve prescindere da questo apporto prezioso, ampiamente accreditato dalla crescente consapevolezza dell'interrelazione tra parole e fatti che lo sviluppo della linguistica ha ormai definitivamente assodata.

    La fedeltà all'Incarnazione

    Non parleremo quindi di ragionamenti troppo umani, ma al contrario, di ragionamenti troppo poco umani: per dire che se fossero veramente umani lo sarebbero integralmente, ossia si fonderebbero su quella dimensione di fede che nell'uomo costituisce il livello più decisivo e portante dell'uomo.
    Al fine di mettere in evidenza l'assoluta necessità del sostentamento di Dio per la salvezza cristiana concreta, faremo riferimento alla sproporzione per questi compiti non dell'umano semplicemente, ma di un umano che tradisce se stesso chiudendosi al meglio di sé: mostrando, così, che il sostegno salvifico di Dio non si incontra fuori dell'uomo, ma bene addentro di lui.
    Denunceremo la peccaminosità di un atteggiamento o di una scelta contraria al vangelo non invitando a rinnegare l'umano, ma a fare il contrario: a rinnegare, cioè, quegli elementi chiaramente anti-umani, e però purtroppo ben radicati nell'uomo, che sono il peccato, la concupiscenza, gli spiriti di male che fanno loro corteggio. E lasceremo il mondo dei tetti in su agli abitanti dei tetti, e cioè nel migliore dei casi ai gatti romantici che amano fare la serenata alla luna; per restare ben bene nello spazio esistenziale che va dai tetti in giù, perché questo è il posto nel quale il nostro Dio, il Dio degli uomini, ha ormai fissato in forza della incarnazione la sua stabile dimora. Tutto questo contribuirà a sottrarre terreno alle obiezioni con le quali ci stiamo confrontando, e costituirà una importante applicazione pratica del grande principio sostenuto da Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis là dove scrive:
    L'uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale, ed insieme del suo essere comunitario e sociale... quest'uomo, è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero della Incarnazione e della Redenzione (RH, n. 14).

    UMANO PERCHÉ CRISTIANO, CRISTIANO PERCHÉ UMANO

    Servendoci, allora, del termine «vocazione umana» esclusivamente nel suo significato generale e non settoriale, e mantenendo aperta al suo interno la complessa problematica dei rapporti della dimensione religiosa della vita umana con la sua correlativa dimensione profana, senza addentrarci in ulteriori specificazioni, che ci obbligherebbero a ripetere tematiche già ampiamente trattate nelle pagine di questa rivista:
    - riaffermiamo la intrinseca continuità che lega la vocazione umana alla vocazione cristiana, e, attraverso quest'ultima, alla vocazione consacrata;
    - la specifichiamo come una continuità interna nella quale l'umano risulta di raggio più largo della dimensione religiosa della vita, perché si estende anche alla sfera del profano, e però appunto la include, quale dimensione portante ed in strettissima correlazione con l'altra;
    - prendiamo atto della indissolubilità della creazione con l'alleanza, e con ciò della impossibilita di una autentica dimensione religiosa della vita che non si strutturi ultimamente, in modo conscio ed esplicito oppure inconsapevole ed implicito, sulla radicazione in Gesù Cristo, che cioè non sia ultimamente cristiana;[5]
    - e concludiamo riaffermando che l'uomo si giustifica sul cristiano ed il cristiano sull'umano.
    L'umano si giustifica sul cristiano nel senso che la destinazione ultima della vita umana consiste nella realizzazione del Regno inaugurato dal Cristo; nel senso che l'umano comprende la dimensione del rapporto con Dio, il quale ha luogo solo in Gesù risorto; nel senso che il mondo della profanità, pur nella netta distinzione dei propri contenuti e dei propri metodi dal rapporto trascendentale dell'uomo con Dio, si vincola ad esso in forza di una insuperabile unità che si traduce in una fitta rete di rimandi reciproci; e nel senso che l'umano trova solo nel Cristo, con la liberazione dal peccato, la possibilità del superamento completo dei propri mali individuali e strutturali. Da questo punto di vista bisogna concludere che non si può essere uomini autentici ed integri senza la libera appropriazione, almeno implicita (propria, ad esempio, di chi segue con rettitudine i dettami della coscienza) della parola definitiva di salvezza che Dio ha pronunciato in Gesù, ossia senza essere in qualche modo cristiani.
    Il cristiano si giustifica sull'umano nel senso che esso non sopraggiunge come dall'esterno ad un umano precostituito, ma si trova al suo interno, come unica dimensione religiosa concreta, quale suo asse portante; nel senso che pur nella differenza di contenuti e di metodi, è legato indisgiungibilmente ai valori ed ai compiti della dimensione profana dell'umano; e nel senso che si pone come antidoto totale del male dell'uomo. Da questo altro punto di vista occorre affermare correlativamente che non si può essere cristiani integri senza essere uomini autentici impegnati su tutta l'ampiezza del fronte della vera consistenza umana.
    Facciamo nostra, quindi, la conclusione del libro che H. Küng ha dedicato precisamente al rapporto dell'essere uomo con l'essere cristiano, là dove scrive:
    Una domanda diretta: Perché si deve essere cristiani? Cosi avevamo cominciato questo libro. Ecco ora una risposta altrettanto diretta: Per essere veramente uomini. Che cosa si intende dire? Non si può essere cristiani rinunciando in qualche misura ad essere uomini. E viceversa: non si può essere uomini rinunciando in qualche misura ad essere cristiani. Non è concepibile un essere cristiani accanto, sopra, o sotto l'essere uomini: il cristiano non deve essere un uomo scisso.[6]
    Se la circolarità dell'essere uomo con l'essere cristiano riuscirà ad entrare nel linguaggio, e quindi nelle convinzioni e nella prassi dei cristiani e dei consacrati, la prima parte della obiezione giovanile alla vita consacrata, quella concernente la giustificazione dell'essere cristiano nei compiti umani, cadrà da sola.
    Resta da considerare la seconda parte, quella nella quale si deve capire quale sia la giustificazione dell'essere consacrato all'interno dell'essere cristiano.

    LEGITTIMAZIONE DELLA ESISTENZA CONSACRATA ED EFFICIENZA DEL FARE

    A questo secondo livello le domande-obiezioni dei giovani non suonano diverse da quelle formulate per il rapporto vocazione umana e vocazione cristiana: a quale scopo professare i consigli evangelici in una istituzione religiosa o di consacrati secolari, se i compiti che contraddistinguono tali istituzioni (contemplazione, azione apostolica pubblica, azione apostolica nascosta) risultano interamente accessibili, ed anzi altrettanto necessari, a qualunque vero cristiano?
    Una soluzione potrebbe essere trovata, rimanendo nell'ambito (che, come vedremo, è molto limitante) della obiezione, con l'osservare semplicemente che la professione dei consigli evangelici si mostra significativa e valida sempre, in quanto consente a quei compiti una realizzazione molto stabile, sicura e profonda. E si tratterebbe, tutto sommato, di una risposta che possiede indubbi aspetti di verità. Se è vero che non occorre diventare religiosi per creare le condizioni di una vita contemplativa o per impegnarsi a fondo in un progetto apostolico, è innegabile che l'appartenenza ad una famiglia di vincoli ed interessi direttamente spirituali, consistenti nella assunzione e nella messa in opera di un progetto di indole appunto contemplativa, od apostolica, stabilisce delle condizioni di attuazione di quei medesimi intenti che, quanto meno, sembrano eccellenti.
    Resterebbero però da chiarire due punti:
    a) Se la motivazione della vita consacrata stia veramente in quei particolari progetti di preghiera o di apostolato pubblico o nascosto che si osservano immediatamente in essa, o non consista magari in qualche cosa di più profondo che si cerca di raggiungere mediante tali progetti: dunque, se l'essere consacrato si giustifichi rispettivamente sulla decisione di fare della preghiera esplicita o della azione apostolica pubblica e nascosta l'orizzonte definiente della propria vita (si giustifichi, in una parola, sulla missione), o non si fondi su qualcosa di diverso che si esprime e si attua in quelle scelte.
    b) Se è proprio vero che sempre, in ogni epoca e momento storico, anche quello odierno, la professione dei consigli evangelici rappresenti un contesto della traduzione in atto di quei progetti tale da poter essere preferito a quello indotto dal semplice essere cristiano.

    Per comprendere meglio il testo del problema

    Cominciamo dal secondo punto, il più semplice, perché rimane nell'ottica piena della domanda. E riconosciamo onestamente che oggi in molti casi la risposta positiva non risulta più così evidente come in passato. Nel nostro tempo si va maturando, sia pure faticosamente, il progressivo superamento di un clericalismo e di una conseguente emarginazione del laicato che hanno caratterizzato una grossa parte della vita della Chiesa nell'età medievale e moderna. Parallelamente gli sviluppi inediti della società vanno conferendo alla vita ecclesiale dei contorni che nella Chiesa dei primi secoli erano semplicemente impensabili.
    Si pensi alle possibilità originali di eremitismo e di vita contemplativa attuati nel vivo delle grandi città, introdotte dall'anonimato crescente dei grandi agglomerati urbani; od alle occasioni nuove di vita apostolica inaugurate dall'ipotesi dell'associazionismo a tutti i livelli. Se alla fine del III secolo il monaco, per fuggire il mondo e seppellirsi nella preghiera, dovesse ritirarsi nell'anonimato del deserto di sabbia, oggi il credente animato dagli stessi istinti spirituali non ha che da immergersi nella solitudine del deserto di cemento delle grandi città. Se nella età moderna non si dava consistenza ad un progetto apostolico d'una qualche proporzione senza garantirgli una base istituzionale di tipo giuridico che corrispondesse al rapporto, in quel tempo vigente, di soggezione passiva del laicato al clero, oggi la piena riassunzione del ruolo attivo di questo medesimo laicato scavalca di colpo tutte le dipendenze che non si mostrano strettamente essenziali.
    Di conseguenza, chi ritiene che la vita consacrata si legittimi sulla ella maggiore efficienza contemplativa od apostolica deve fare i conti con le eccellenti realizzazioni talora superiori a quelle di molte istituzioni religiose tradizionali, attardate da pesanti condizionamenti storico culturali compiute da istituzioni o da gruppi fondamentalmente od esclusivamente laicali: ai quali non di rado, come succede per esempio nel caso dei focolarini, si aggregano significativamente dei veri e propri religiosi. Chi invece, accorgendosi di queste difficoltà, si accontenta di sostenere che la vita consacrata rappresenta pur sempre un eccellente mezzo di contemplazione o di azione apostolica, deve spiegare per quale ragione essa dovrebbe essere preferita a quell'altra strumentazione, altrettanto eccellente ed anzi in molti casi, almeno apparentemente, più duttile, che consiste nella semplice esistenza cristiana, e cioè nella vita laicale.
    Per dirla in una parola: nella impostazione che concede il primato al fare determinate cose o all'espletare determinati incarichi, una risposta veramente soddisfacente alle obiezioni dei giovani risulta quanto meno problematica.

    LEGITTIMAZIONE DELLA ESISTENZA CONSACRATA ED ESIGENZA DELL'ESSERE

    Questa conclusione ci permette di ritornare all'altro punto che dovevamo chiarire, il primo tra i due enunciati in partenza: che infatti si differenzia dal secondo precisamente perché anziché accettare pacificamente la prospettiva della efficienza dell'agire, che anima le domande dei giovani, la contesta a fondo. È proprio vero che la giustificazione della vita consacrata deve essere ricercata sul piano del fare (preghiera od apostolato)? Non potrebbe trovarsi invece sul piano dell'essere, di un essere che si traduce in preghiera ed apostolato, ma non si riduce alla loro consistenza, bensì conferisce loro una connotazione originale che diversamente non possederebbero affatto? La risposta, trattandosi di problemi interni dell'esistenza cristiana come tale, può essere data solo dalla Tradizione cristiana, a partire da quel suo momento fondante che è costituito dal Nuovo Testamento. E risulta, a ben vedere, abbastanza perentoria.

    La prassi apostolica

    Fin dalle sue prime manifestazioni, che sono quelle del discepolato suscitato da Gesù nel tempo della Sua esistenza terrena, l'essere cristiano ha conosciuto due modalità di attuazione diverse e complementari, caratterizzate specificamente dal tipo di rapporto che ciascuna stabiliva con Gesù medesimo e la sua causa.
    Una prima forma potrebbe chiamarsi modalità del discepolato itinerante: è quella del gruppo dei dodici, e dei discepoli e delle donne, che dietro esplicito appello di Gesù hanno lasciato i propri averi (povertà), la propria famiglia (castità), ed i propri progetti (obbedienza) per andargli dietro in totale condivisione di vita, di interessi e di impegni (vita comune).
    Una seconda forma potrebbe essere descritta come modalità del discepolato secolare: ed è quella del folto gruppo di seguaci, alcuni dei quali - come Lazzaro, Marta e Maria - singolarmente amati da Gesù, che viceversa hanno mantenuto il genere di vita di sempre, lievitandolo dall'interno col fermento della piena accettazione della persona e del messaggio di Gesù. In seguito alla morte e risurrezione di Gesù, il discepolato itinerante non poté più tradursi in un andarGli dietro inteso in senso spazio temporale: e si definì stabilmente per la concentrazione del tutto di se stessi sulla persona e sulla causa del Risorto; mentre l'altra forma confermò il proprio statuto di integra appartenenza al mondo vissuta in nome della fedeltà al medesimo Cristo. Cosi, la storia conobbe - e conosce tuttora[7] - dei cristiani (una minoranza) che conducono una vera esistenza credente nel modulo del discepolato itinerante in versione postpasquale; e degli altri cristiani (la grande maggioranza) che attuano la medesima esistenza nel modulo del discepolato secolare.
    Prendiamo atto che le due forme sono precisamente modalità di esistenza; naturalmente di esistenza cristiana. Nel modo in cui, per intenderci, costituiscono rispettivamente due moduli di esistenza umana la formalità maschile e la formalità femminile dell'unico uomo: le quali, infatti, non si definiscono né per i ruoli che ricoprono ne per i compiti che risultano esclusivi solo dell'una o dell'altra, bensì per la misteriosa, indefinibile e però categorica diversità complementare con la quale incarnano la medesima consistenza umana. Questo ci porta alla conclusione che la legittimazione della vita consacrata va rintracciata non sul piano delle cose che si fanno, ma su quello delle modalità di un medesimo essere cristiano.

    Le ragioni di una distinzione

    Allora:
    a) La legittimazione della vita consacrata è messa al sicuro una volta per tutte dal suo provenire da una libera insindacabile iniziativa di Gesù in persona, garantita nel suo carattere di scelta permanente e non solo transitoria, dal mantenimento e dallo sviluppo che le sono state assicurate dalla attualizzazione costante dello Spirito di Gesù verificabile nella storia. In certe epoche si potranno e si dovranno mettere in discussione le maniere concrete della sua incarnazione storica, o si constaterà, come succede precisamente oggi, un clima culturale meno idoneo alla percezione dei suoi valori, che rende più difficile la comprensione della sua logica. Ma questo concluderà in un impegno di rinnovamento delle forme di vita che la caratterizzano, o di contestazione delle ideologie che ne offuscano i significati: non affatto nella messa in dubbio della validità del suo esserci.
    b) La comprensione della logica della vita consacrata viene raggiunta solo da coloro che collocandosi sul piano dell'essere si domandano che senso abbia la concentrazione su Dio e sulla sua causa che la professione dei consigli evangelici rende possibile.
    La castità consacrata sottrae al consacrato la possibilità di una famiglia propria di carne e di sangue per farlo entrare nella appartenenza di un Istituto generato dal carisma spirituale di un santo Fondatore al servizio del quale si sente chiamato. La povertà consacrata fa si che egli metta tutti i suoi beni e le sue ricchezze - comprendenti non solo i valori di indole economica ma anche le energie e risorse di mente, di cuore, di tempo, di salute, di cui è dotato - al servizio del carisma che definisce la sua particolare famiglia religiosa. L'obbedienza consacrata fa passare la progettazione del presente e dell'avvenire del consacrato da moduli e criteri rivolti al vantaggio individuale o di profitto profano, e comunque svincolati dagli intenti della propria famiglia religiosa, ad una sua gestione interamente rivolta alla promozione di quel suo carisma. Tutto si compie nell'ambito della famiglia religiosa, ossia nella sfera della vita comune, intesa in senso stretto (convivenza sotto un medesimo tetto) od in senso largo (riferimento alla stessa Istituzione).
    Grazie a questa strumentazione, il soggetto viene abilitato non tanto ad una preghiera più stabile od ad un apostolato, pubblico o nascosto, più efficiente, quanto piuttosto al modo di essere cristiano proprio di chi, appartenendo anima e corpo ad una famiglia di natura interamente spirituale e carismatica, vive interamente dei problemi, degli interessi e dei progetti propri della dimensione religiosa della vita. I consacrati inverano l'accezione più immediata e larga della parola «religiosi»: sono gli esperti del valore religioso, come gli economisti lo sono del valore della economia, o gli scienziati del valore della scienza. Sono i periti di Dio e della comunione con Lui instaurata dalla consacrazione battesimale; e perciò vengono giustamente chiamati «religiosi» o «consacrati», come per eccellenza. Si collocano sul versante della Chiesa comunione, ossia della Chiesa che risponde alla azione salvifica di Dio attraverso la crescita nel valore supremo della santità: diversificandosi dai laici, all'interno di tale versante, per il fatto di realizzare la vocazione alla santità, comune a tutti, mediante una dedizione direttamente specificata dal riferimento al valore religioso in quanto tale.
    Ebbene, a che cosa si deve questa diversificazione dell'essere cristiano nelle due forme di vita, consacrata e laica? Perché esiste una simile dedizione, diretta al valore religioso in quanto religioso? Ecco il punto centrale della questione sollevata dalle difficoltà dei giovani di oggi.

    SPUNTI DI CHIARIFICAZIONE SULLA LOGICA DELLA VITA CONSACRATA

    Si potrebbe rispondere che la ragione della diversificazione si trova in quella libera insindacabile iniziativa di Gesù, e quindi di Dio, alla quale ci siamo appellati per mettere al sicuro la legittimità della vocazione consacrata. E si tratterebbe di una risposta che avrebbe il gran merito di ricordare come la validità dei carismi dello Spirito di Gesù non dipenda dalla capacita o meno degli uomini di trovare le ragioni della loro esistenza: perché essi sono misteri come ed in quanto è mistero per eccellenza il loro autore. Ma il mistero non risulta tale per il fatto di essere privo di razionalità, bensì per il fatto di essere animato da una logica che supera qualunque possibilità di comprensione umana, estendendosi ben oltre l'ambito ristretto delle realtà che la mente umana arriva ad intendere. Dunque, è lecito e necessario non solo emettere un atto di fede, ma anche abbozzare una investigazione dei dati di fede che metta in luce la parte, per piccola che sia, che risulta accessibile alla luce della ragione.
    Supponendo una congrua analisi di questi dati, per la quale rimandiamo a qualche opera specialistica[8], riassumiamo in poche parole le conclusioni che se ne possono trarre.
    La logica della vita consacrata si chiarisce a partire all'accertamento del rapporto della vocazione umana con la vocazione cristiana illustrato nella prima parte. L'essere cristiano è stato detto, in quanto coincide con la dimensione religiosa della vita appartiene all'essere umano quale sua componente interna fondamentale ed inalienabile. Di conseguenza, l'essere umano, pur rivelandosi più largo dell'essere cristiano, in quanto include i riferimenti concernenti i valori profani, annovera tra i propri elementi costitutivi questo essere cristiano medesimo. Allora, esiste all'interno della complessità dell'uomo una precisa dialettica dell'umano col cristiano che si modula sulla compresenza di una valenza di unità con una valenza di distinzione.
    L'umano va oltre il cristiano ed il cristiano non esaurisce l'umano. L'umano non esiste senza il cristiano, ed il cristiano non esiste se non nell'umano, sicché non è possibile toccare l'umano senza toccare il cristiano e viceversa. L'umano, inoltre, si allarga all'ambito del profano. Dunque, l'essere cristiano, in forza della sua autentica qualificazione umana e nel mantenimento della più rigorosa distinzione dal profano, è legato da una strettissima unità con le dimensioni del terreno e del provvisorio. Se vorrà rimanere nella verità del proprio statuto, dovrà vivere la propria singolarità in modo da non comprometterne l'unità col profano all'interno dell'umano; e dovrà mantenere tale unità in modo da non dissolvere la propria irriducibilità.

    Concentrati nel religioso

    Questo compito spetta a tutti i cristiani ed a ciascuno di essi. Ogni vero credente deve assumersi il carico dello sviluppo, nel rispetto del loro rapporto reciproco, di tutte le dimensioni umane autentiche, sia di quelle profane che di quelle religiose; tanto in lui medesimo quanto negli altri. Va da sé che non può farlo in maniera ugualmente piena per ciascuna di esse, perché la possibilità di una assunzione completa delle responsabilità che concernono l'intero fronte dei valori umani si trova soltanto nella unità delle forze di tutti, cioè nella globalità della comunità credente. Ci sono allora all'interno di tale comunità alcuni cristiani che si impegnano in particolare su di un valore, allargandosi agli altri valori a partire da quello e per tornare a quello; ed altri che seguono la medesima strada in relazione agli altri valori.
    Se si tiene conto della distinzione fondamentale dei valori profani dal valore religioso, già più volte richiamata, questa conclusione ci consente di arrivare finalmente ad una determinazione abbastanza rigorosa della originalità e legittimità della vita consacrata. Come nel settore della vita civile nessun valore primario si regge senza la concentrazione di un gruppo di persone che, pur aprendosi alla totalità delle esigenze e dei valori della società, si dedicano in particolare al suo sostegno e sviluppo, così nella globalità dei valori umani tanto l'insieme dei valori profani quanto quello del valore religioso fanno capo a uomini e donne che senza rinnegare nulla dell'insieme si qualificano specificamente sul rimando all'uno od all'altro ambito.
    I primi, definiti dal rapporto all'area della profanità, sono i credenti secolari o laici: i quali, evidentemente, non trascurano il valore cristiano, ché anzi operano anche in nome delle sue necessarie connessioni col profano, ed ultimamente concludono essi pure in tale valore.
    Ma appunto vivono la loro fede muovendosi direttamente entro l'area della dimensione profana anziché religiosa, e servendo e promovendo, con il loro essere ed il loro agire, anzitutto e soprattutto i valori distinti dalla fede ai quali la fede rimanda i credenti.
    Gli altri, definiti dal rapporto con l'ambito religioso, sono i consacrati: i quali a pari non trascurano i valori profani, ed anzi operano costantemente, sia pure in maniere e con intensità diverse, in essi. Ma appunto vivono la fede muovendosi direttamente nell'area della dimensione religiosa anziché profana; e servono e promuovono, con il loro essere ed il loro agire, anzitutto e soprattutto i valori specifici della fede.
    Così, mentre i secolari proclamano l'unità del valore religioso con la totalità dell'orizzonte umano, i consacrati annunciano la sua singolarità. Gli uni e gli altri, insieme, complementariamente, reggono e promuovono le dimensioni della realtà umana tanto nella loro distinzione che nella loro unita.
    Diciamo dunque che ha senso professare una vita regolata sui consigli evangelici, anche quando si traduce in attività ed opere per sé aperte a qualunque credente o non credente, perché è necessario che esistano uomini e donne che con il loro modo di essere proclamano e sostentano l'indispensabilità della comunione con Dio per la verità dell'uomo; che ha senso essere consacrati perché ha senso essere cristiani in una forma diversa da quella laicale e l'essere cristiano esige questa altra forma. Cosi come ha senso essere cristiani perché ed in quanto ha senso essere uomini. La continuità dell'uno con gli altri non esclude il primo né cancella gli altri. Al contrario, da una parte esige la modulazione della esistenza umana in esistenza cristiana; e dall'altra postula l'apertura di quest'ultima, oltre che alla formalità laica, anche a quella religiosa.


    NOTE

    [1] S. Burgalassi, Atteggiamenti nei riguardi del «problema dei consacrati», in «La Rivista del Clero Italiano», 60 (1979) 20-35.
    [2] Consacrati e religiosi non sono termini sinonimi: i primi infatti designano tanto i membri degli Istituti Secolari quanto i religiosi in senso proprio; i secondi, invece, includono solo i membri degli Istituti di vita contemplativa e quelli delle congregazioni di vita apostolica attiva. Siccome pero la problematica rispetto alle questioni che ci proponiamo è identica per tutti, useremo le due parole in maniera indifferenziata.
    [3] Card. M. Pellegrino, Uomo o cristiano?, LDC, Torino Leumann, 1975, p. 10.
    [4] Si veda a questo proposito G. Colombo, Soprannaturale, in «Dizionario Teologico Interdisciplinare», vol. III, Marietti, Torino, 1977, vol. III, pp. 293-301.
    [5] Cf G. Colzani, Creazione, in «Dizionario Teologico Interdisciplinare», Marietti, Torino, 1977, vol. I, pp. 601-614.
    [6] H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano, 1976, pp. 687-688.
    [7] Per una rapida documentazione, cf G. Gozzelino, Vita consacrata, in «Dizionario Teologico Interdisciplinare», Marietti, Torino, 1978, supplemento, pp. 25-48.
    [8] Per es. J.M. Tillard, Davanti a Dio e per il mondo. Il progetto dei religiosi, Ed. Paoline, Alba, 1975; G. Gozzelino, Una vita che si raccoglie su Dio, LDC, Torino Leumann, 1978.


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