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    La «nuova» cultura e il senso del peccato



    Carmine Di Sante

    (NPG 1980-9-36)


    La teologia, intesa come fides quaerens intellectum, come autocomprensione, da parte del credente, del senso e del contenuto del proprio credere, è sempre, e necessariamente, «invenzione» culturale, cioè elaborazione concettuale realizzata con diversi «materiali», prelogici, logici e alogici, di cui, a seconda dell'epoca storica, di volta in volta si dispone. È chiaro che l'elaborazione teologica non s'identifica con la fede; permane tra i due la stessa differenza che tra il parlare una lingua (linguaggio) e il parlare di una lingua (metalinguaggio): differenza logica sostanziale da non colmare superficialmente.
    Ma differenza non significa indifferenza e tra la fede e la teologia si stabiliscono continui, sottili rapporti per cui la prima influisce e determina la seconda e questa, a sua volta, struttura e condiziona la prima. La interrelazione è così profonda che la fede, quando è percepita, è sempre percepita «teologizzata», cioè non allo stato puro ma attraverso l'elaborazione concettuale, la sola che rende possibile il passaggio dal semplice credere all'autocoscienza del credere.
    Si è già detto che i materiali simbolici, grazie ai quali il credente perviene ad un livello di autocomprensione, derivano dal mondo culturale in cui e di cui si vive. Questo «mondo» costituisce l'humus da cui provengono ipotesi, presupposti, esigenze, valori, credenze, idee, modelli e costrutti con cui si tenta di rappresentarsi e di rendere intelligibile l'esperienza, misteriosa e complessa, della fede.
    Una simile notazione vale non solo per la teologia in genere ma anche per quel particolare settore della teologia tematizzata intorno alla categoria del «peccato». Il peccato, non diversamente da qualsiasi altro «tema» teologico, oltre che dato di fede (raggiungibile solo grazie a quel particolare atteggiamento che è fiducia e abbandono in una Ultimità ultima accogliente e sorridente) è, nello stesso tempo, anche tema culturale (raggiungibile solo grazie ad un processo di analisi, di decomposizione e ricomposizione, dei materiali a disposizione). La consapevolezza lucida di questa distinzione è importante e liberatoria in un momento come l'attuale, almeno per due motivi. Il primo: per restare in atteggiamento intelligente (intus-legens, vedendo dentro, sotto la superficie) di fronte all'attuale crisi del sacramento della penitenza, innegabile non solo presso il mondo giovanile, come registra l'attuale dossier, ma anche presso un numero crescente di persone adulte impegnate responsabilmente nel processo di liberazione del mondo. Lamentarsi che il mondo moderno ha perso il senso del peccato è inconcludente e ipersemplificante e fa solo il vantaggio delle forze reazionarie. Il secondo motivo: per vedere nella nostra cultura, più che una negazione del «peccato» un ulteriore linguaggio a disposizione per meglio individuarlo ed eliminarlo. La cultura, come la lingua, è l'unico strumento per definire la nostra fedeltà e i nostri tradimenti al piano di Dio, e il solo ineludibile, ineliminabile spazio attraverso il quale Dio ci rivela il nostro destino (la salvezza) e i nostri inganni (peccato). Le culture (tutte) non vanno né rinnegate né esaltate, né demonizzate né sacralizzate ma coraggiosamente assunte e, alla luce dell'esperienza di fede, dialetticamente decodificate. La logica dell'assunzione aiuta a scoprire con sorpresa che la dove si pensava crescesse solo l'albero del peccato può germogliare vigoroso anche l'albero della grazia, che sotto le vesti di un Ciro pagano può anche nascondersi il Messia di Dio (cf Is 41 e 45).
    Accenno a tre coordinate della cultura moderna la cui «assunzione» più che alla negazione del peccato, come temerebbero molti, può condurre ad un'ulteriore presa di coscienza del suo spessore e del suo potenziale distruttivo.

    L'ETÀ ADULTA

    La «nuova» cultura (quel modo di pensare che si è andato costituendo dal Rinascimento in poi) è caratterizzata da una rappresentazione di sé, da parte dell'uomo, come «maggiorenne», in opposizione a quella che si avrebbe avuta precedentemente come minorenne. Cosa caratterizza l'adulto rispetto al bambino?
    In primo luogo l'assunzione della responsabilità: cioè la capacità di agire in prima persona trovando in sé motivazioni, proposte e progetti per rispondere (responsabilità: da respondere, rispondere) e risolvere i problemi che via via si pongono. Ciò esige consapevolezza, capacita di analisi, disponibilità e coraggio.
    In secondo luogo - conseguenza del punto precedente - l'età adulta si caratterizza per il rifiuto della dipendenza e della delega, da non confondere con il rifiuto della collaborazione e della competenza. L'uomo moderno non accetta di stare sotto ma non di stare con, contesta il comando e il dominio ma non la competenza e l'autorevolezza.
    Ma soprattutto - in terzo luogo - l'adulto è caratterizzato dal senso del limite e del realismo. A differenza del bambino, che vive nel mondo fantasmatico e si nutre di sogni di onnipotenza,
    l'adulto, ammaestrato dalle smentite e dalle sconfitte dell'esperienza e della crescita, apprende il linguaggio della fragilità e dell'umiltà: ciò che è possibile da ciò che non lo è, ciò che rientra nelle sue capacità da ciò che è frutto di illusione, le frontiere che è in suo potere abbattere da quelle di fronte alle quali è giocoforza piegarsi. Già da questo punto di vista la pagina della Genesi, che narra miticamente il «grande errore» dell'uomo, rivela la sua dimensione più profonda: il peccato di Adamo ed Eva è il «rifiuto» dello «stato adulto»: non accettare il limite, la creaturalità («del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: " non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare": Gen 3,2) e regredire allo stadio di onnipotenza infantile («non morirete affatto! Dio sa che quando voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio»: Gen 3,45). E una vita motivata dalla dinamica dell'onnipotenza è, contrariamente alle apparenze, segnata dalla «maledizione» (cf Gen 3,1624) e dalla «nudità» (Gen 3,7): perché nutrita dal nulla dell'illusione.
    Infine - in quarto luogo - l'adulto è capace di rispetto e di obbedienza al reale: l'altro, il dolore, la morte, la diversità, ecc., non può manipolarli a piacimento ma deve rispettarne la logica, le esigenze, la volontà, la struttura. Il bambino manipola e pretende, l'adulto ascolta e rispetta.

    Il peccato come irresponsabilità

    Questi tratti dell'uomo contemporaneo costituiscono senz'altro una sfida alla concezione tradizionale del peccato. Sono tratti che contraddicono Dio e il suo piano di salvezza per l'uomo o aiutano meglio a incarnarlo e a definirlo? Queste note credono alla seconda possibilità e sottintendono la convinzione che la «età maggiorenne» kantiana e bonhoefferiana sono un'occasione di grazia per superare una concezione del peccato di sapore infantile e deresponsabilizzante e per collocarlo in terreni nuovi, più vicino non solo alla sensibilità contemporanea, ma anche alla profondità biblica.
    Alla luce della «maggiore età» il peccato, più che come rifiuto di Dio in astratto, si configura come rifiuto di assumersi le proprie responsabilità, come irresponsabilità: di fronte a se stessi, di fronte agli altri, di fronte alle cose, di fronte alla storia.
    Di fronte a se stessi: quando ci si abbandona a prospettive e a scelte che mortificano il proprio potenziale umano e ci trasformano in macchine di produzione, consumo e riproduzione.
    Di fronte agli altri: quando si lascia che si abbrutiscano e si distruggano con i mezzi dell'evasione, dell'alcool e della droga, ecc., ultimo lembo di speranza in un mondo in cui è sempre più difficile la speranza.
    Di fronte alle cose: quando non si reagisce al loro sfruttamento e alla loro manipolazione cannibalesca, in una distruzione progressiva sempre più apocalittica.
    Di fronte alla storia: quando se ne accetta la violenza e le oppressioni come dati metafisicamente immodificabili.
    Peccato come irresponsabilità: che significa: sfiducia in sé, messa in discussione delle proprie possibilità, misconoscenza della propria dignità, negazione di progettualità alternative, obbedienza alla legge della necessita, sottomissione alla violenza della circolarità ripetitiva, dipendenza dall'impero del male. In una parola: rifiuto di inventare il proprio destino e di costruire i propri valori.
    Peccato di irresponsabilità che si riveste di varie forme, anche e soprattutto religiose: come quando, per esempio, si affida alla preghiera ciò che andrebbe chiesto al proprio sforzo e al proprio coraggio o si delega il «sacramento della penitenza» ad operare «cambiamenti» (conversione, in termini biblici) che andrebbero più realisticamente chiesti a se stessi. Ciò non significa mettere in discussione la validità della preghiera o del sacramento della confessione ma richiamare alla loro possibile ambiguità in quanto possono essere sia espressione di responsabilità che di irresponsabilità. La preghiera responsabile e responsabilizzante è quella nella quale l'uomo, invece che delegare a Dio la gestione del mondo, ne invoca lo Spirito per essere fino in fondo fedele, sull'esempio di Gesù, al compito affidatogli di trasformare il caos in kósmos, la terra in giardino, il mondo in Eden (cf Gen 1,28 ss). Mentre confessione «irresponsabile» è quella che, invece di ampliare la coscienza del male presente nel quotidiano e di rendere intolleranti verso il suo potere, lo isola e lo localizza in uno spazio sacrale, indebitamente abilitato ad eliminarlo. Qui è la radice profonda della crisi della confessione tradizionale che da troppo l'idea dell'espropriazione. Perché dire a un altro il proprio «peccato» che immancabilmente si tornerà a commettere? Cosa può farmi un altro se il peccato affonda le radici nella propria volontà e, più realisticamente, nelle strutture inconsce della psiche e in quelle, sempre più sofisticate e anonime, del potere? La categoria della responsabilità non può non costringere ad una ridefinizione coraggiosa di questi ed altri interrogativi.

    Il peccato come «rifiuto del limite»

    La categoria della responsabilità lascia intravedere ancora un altro aspetto particolarmente importante. Se responsabilità è soprattutto realismo, rifiuto di illusori sogni di onnipotenza, il vero peccato si configura come pretesa di «essere come Dio»: come volontà prometeica, come volere dispotico, come intolleranza, come «certezza» di avere la verità dalla propria parte, come oppressione e sfruttamento: perché sotto ogni violenza, simbolica e storica, politica ed economica, opera sempre un malcelato senso di onnipotenza, l'illusoria convinzione di potere tutto su tutti. Non si rifletterà mai abbastanza che i totalitarismi del nostro secolo, stalinismo e nazismo, sono figli di questo rifiuto del limite, dell'infantilismo non superato. Il peccato inteso come «rifiuto del limite» può attecchire soprattutto entro gli spazi religiosi e può nascondersi sotto le vesti della pietà più pia, della perfezione più ricercata e del sacramento più celebrato. «Essere buoni», «diventare santi», «non commettere peccati», può essere la versione più mostruosa di un infantilismo non superato, del proprio cuore malato di onnipotenza. Si apre qui tutta una sconfitta ricerca, un nuovo «esame di coscienza» da avviare: imparare a smascherare questo «peccato» in tutti gli anfratti delle nostre realizzazioni: nelle istituzioni depersonalizzanti, nelle organizzazioni repressive, nelle strutture macroscopiche, negli stessi «valori» o «principi» eternizzati ai quali si sacrificano i reali bisogni, storicamente, di volta in volta, determinati, delle soggettività e delle collettività. La vera pietà, al contrario, porta all'autoaccettazione, alla meraviglia e alla gioia («eucaristica») per un Dio diverso da noi di fronte al quale si resta in attesa come la terra dell'acqua che l'irriga, come il cielo delle stelle che lo illuminano.

    LA COSCIENZA STORICA

    Un secondo dato della nostra cultura è la storicità di tutti i fenomeni, compreso quello religioso: non nel senso che se ne rinneghi lo spessore trascendente ma in quello della sua ineludibilità per arrivare ad esso. L'acquisizione che il mondo fattuale è il terreno specifico dell'uomo incide notevolmente nella concezione del peccato.
    Innanzitutto la coscienza storica (che K. Löwith non senza significato pone come spartiacque tra il modo di pensare antico e quello moderno) fa cogliere i limiti e la valenza ideologica di una dottrina del peccato unilateralmente spirituale, che pensa miticamente il peccato come inerente all'anima e solo raramente (fatta eccezione per il contra sextum) al «corpo».

    Il recupero della concretezza del peccato

    Il peccato, anche se affonda le sue radici nella volontà della persona, in realtà si traduce ed esprime in gesti, comportamenti, pratiche e scelte concrete sempre «storicizzati». Va chiarito a proposito uno dei nodi più centrali, ma anche più equivoci, della dottrina tradizionale: l'offendere Dio. L'avere destoricizzata una simile espressione è una delle mistificazioni più pesanti che il cristianesimo ancora paga per il suo connubio con la cultura ellenistica. Nella Bibbia e nella primitiva esperienza cristiana l'offesa a Dio non è quella che si reca direttamente a Lui (ciò che è impossibile) ma quella che si rivolge direttamente e concretamente all'uomo, sua «immagine e somiglianza». Nei profeti «ignorare Jaweh» è sinonimo di opprimere i poveri e i bisognosi perpetrando a loro danno abusi e misfatti (cf Ger 22,13-16; Os 4,12). E nei 10 notissimi comandamenti il senso dei primi due, relativi a Dio, è dato, esemplificativamente, dai restanti otto, relativi all'uomo; «non nominare il nome di Dio invano» significa «non rubare», «non ammazzare», «non ingannare», ecc. Il lavoro di ristoricizzazione del peccato è uno dei compiti più urgenti da iniziare, ed anche dei più delicati: esso comporta sensibilità al concreto più che all'astratto, preoccupazione per l'uomo che piange e che soffre più che per i principi e le norme, partecipazione alla protesta di un Bonhoeffer il quale angosciosamente si chiedeva come fosse possibile che nelle chiese si cantassero salmi e inni quando milioni di Ebrei morivano nei campi di concentramento.

    Il superamento di una concezione individuale di peccato

    Oltre che la concretizzazione del peccato, la coscienza storica opera anche un secondo recupero: la sua deindividualizzazione. Il peccato non riguarda solo il rapporto individuale tra Dio e l'uomo, ma l'intera storia. Il problema non è di pensare a salvarsi l'anima (come si amava e ancora si ama dire) ma di salvare la storia. Un peccato che non abbia nulla a che fare con quanto avviene con la guerra nell'Afghanistan e con i morti per siccità in Africa, che non abbia niente da spartire con gli armamenti e con le armi atomiche, con il saccheggio e il vilipendio della natura a causa di una pubblicità cieca e bottegaia, è un peccato che interessa sempre meno l'uomo d'oggi. La concezione tradizionale di peccato o assume e rende sensibili a questi aspetti o ha poche speranze di essere presa sul serio. Un simile lavoro di storicizzazione non sembri riduttivo: individuare il peccato nelle ingiustizie e nelle violenze, che mietono vittime, nelle armi che seminano paura e morte, nelle guerre che impongono il potere del più forte, non riduce il peso del peccato ma è l'unico modo per coglierlo nel suo reale spessore di distruttività e di orrore.
    La coscienza storica aiuta così a ritrovare il senso profondo del grande tema della «remissione dei peccati», compito storico oltre che sacramentale. Il potere di rimettere i peccati e certezza che è possibile infrangere le barriere del male, che questo non è un dato metafisico immutabile ma il prodotto di scelte e di errori individuabili. La remissione dei peccati conserva, certo e necessariamente, uno spazio sacramentale, ma questo non è da intendere come spazio sacrale in cui si realizza quello che non si realizza nel profano, ma come spazio simbolico, cioè espressivo e riassuntivo in cui emerge, a livello di massima consapevolezza, ciò che fattivamente e quotidianamente deve essere realizzato nel profano e nel quotidiano.

    L'ESIGENZA SCIENTIFICA

    La nostra cultura è inoltre caratterizzata dalla razionalità. Anche se questa oggi è entrata in crisi e mostra i suoi limiti a causa delle sue eccessive pretese progressivamente smentite, resta comunque una delle conquiste irreversibili della nostra esperienza occidentale. È quindi ovvio che la fede, nelle sue tradizioni non solo dogmatico-rituali ma anche in quelle etico-morali, debba fare i conti con essa. La concezione di peccato può esserne interessata per più motivi.

    La distinzione fra nevrosi e senso del peccato

    Il primo è quello della non facile differenziazione tra nevrosi e senso del peccato. Le scienze psicologiche hanno demistificato azioni e comportamenti tradizionalmente qualificati come peccato e hanno mostrato che spesso là dove si amava chiamare in causa il peccato e l'offesa a Dio, si aveva a che fare, in realtà, con determinati meccanismi percettivi e cognitivi caratterizzati dalla distorsione o, addirittura, dalla negazione del reale. Anche qui c'è da ribadire che l'istanza scientifica non elimina il peccato (pretesa assurda) ma può aiutare a definirlo nella maniera meno equivoca. Ben vengano provocazioni e analisi scientifiche che aiutino a non confondere il peccato a Dio con le nostre ossessioni nevrotiche e difensive.

    Il peccato come incapacità di immaginare un mondo diverso da quello in cui si vive

    Smascherando il peccato da ciò che più propriamente andrebbe chiamato con i termini della regressione e della negazione, la scienza può aiutare a ricollocare la fede nel suo giusto ambito che è quello del mistero, del totalmente Altro: del non dicibile e del non manipolabile: il Regno di Dio, il solo spazio in rapporto al quale il peccato può essere individuato e delimitato. Non è compito della scienza introdurre nel regno del mistero; di questa essa deve essere sempre più consapevole. La scienza opera solo indeterminati spazi e non può pronunciarsi circa la possibilità e l'esistenza di altri. È ciò che ha colto ed espresso con grande chiarezza Wittgenstein quando scrisse che ciò su cui non si può parlare si deve tacere. Tacere con il linguaggio dell'analisi e della descrittività, ma non con quello del desiderio e della poesia. La fede è ipotesi - per il credente certezza - di un mondo «ultrascientifico», il mondo di Dio: che non si può comprendere perché si è da esso compresi, che non si può descrivere perché si è da esso descritti, e abbracciati, di cui non si può parlare perché si è da esso «parlati». In questa prospettiva il peccato si configura come miopia. come cecità, come mancanza di fantasia e di lungimiranza, come incapacità di immaginare un mondo diverso da quello in cui si vive come assolutizzazione del proprio punto di vista, come auto-chiusura (egoismo) che fa del proprio io la misura del reale e impedisce di pensare alla possibilità di «cieli nuovi e terre nuove», cioè di altre «logiche». Non è senza significato che le immagini della cecità, della sordità, del mutismo e del trance sono quelle più usate negli scritti neotestamentari per tradurre la realtà del peccato.

    Il perdono di Dio come accoglienza per quello che si è

    Alla riscoperta di Dio per le vie di una scienza consapevole di sé e dei suoi limiti, del suo spazio operativo e di quello in cui deve tacere, si accompagna un altro grande tema, forse il più grande dell'esperienza di fede e della stessa amartiologia: il tema del perdono di Dio. L'immagine di un Dio che perdona è tra le più equivoche e fraintese. Nell'esperienza più comune il perdono coincide con un gesto di benevolenza con cui ad un individuo si risparmia una punizione che, per giustizia, gli sarebbe dovuta; si tratta perciò di un'idea elaborata all'interno di uno schema di giustizia piuttosto che di amore. Solo la giustizia può perdonare, l'amore no. L'amore vero (l'agape), per definizione, è disinteressato e perciò ama sempre e indipendentemente dall'accettazione e dal rifiuto. In questo senso Dio può solo amare piuttosto che perdonare. Di perdono si può parlare se inteso come sinonimo di amore gratuito, in netto contrasto con l'amore umano sempre minacciato dalla logica del do ut des. In che senso allora Dio perdona? La consapevolezza che il mondo dell'uomo è quello della «scienza», ma che può pur esserci un regno in cui alla scienza non è dato di entrare lascia intravedere l'esistenza di una nuova logica, di una nuova «terra»: dove si è sempre accolti ed amati, dove si è accettati per quello che si è, dove c'è un fondante che fonda, infondato, tutto il resto che è fondato. Il perdono non è che un termine per tradurre la «grammatica» di questa «illogica» logica, di questo diverso mondo in cui all'uomo non è dato d'entrare se non per la via dell'abbandono e della fiducia.

    CONCLUSIONE

    Concludendo. La cultura moderna, segnata dall'antropocentrismo e dalla mentalità storica e scientifica, può sembrare rinnegare Dio, ma può anche essere l'occasione, assunta fino in fondo e coraggiosamente, per riparlare, con nuovi e più accesi accenti, il linguaggio eterno della fede, canto di salvezza e vittoria sul peccato. La nostra cultura, come ogni cultura, non va temuta ed esorcizzata perché essa non è nemica dell'uomo e nemmeno di Dio; essa va assunta per aiutare gli uomini di oggi, pellegrini come quelli di ieri, a scoprire al fondo della loro cultura non il vuoto o il sogghigno del nulla ma la mano accettante e sorridente di Dio: lo stesso Dio di Abramo, di Isacco, di Mosè, di Gesù. Il Dio di tutti che «è stato, è e sarà» (cf Ap 4,8).


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