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    Così pregano i giovani animatori



    (1980-03-23)


    Le testimonianze che seguono hanno un punto di partenza in comune. Sono tutte di giovani che nei loro gruppi fanno gli animatori. E quindi di giovani che sentono seriamente la preghiera e, prima ancora, la scelta evangelica.
    Per rendere più agile la lettura abbiamo abbandonato la divisione a punti del questionario, introducendo dei brevi titoli.

    NIENTE È PIÙ ALIENANTE PER LA CONTEMPLAZIONE DI UNA VITA COMODA

    La media dei giovani vive al di sotto della sua capacità di usarsi
    E finalmente si sente parlare di crisi della preghiera, dopo vari anni che si sentiva proclamare questo ritorno improvviso dei giovani alla spiritualità, senza badare spesso alle vere motivazioni di fondo né alla genuinità di certi esperimenti di moda in questo campo. Più che in termini di preghiera metterei la questione in termini di riflessione, in modo da ampliare il discorso anche ai non cristiani e ai non religiosi: mi sembra che la media giovanile viva molto al di sotto delle sue effettive capacità di usarsi al massimo, in tutte le sue dimensioni e capacità: fisicamente (sempre maggior numero di studenti o comunque di lavoratori non manuali), mentalmente (resa di fronte ad un sistema che pensa per te) e spiritualmente (i «valori grandi» sono perlomeno utopici se non inutili, senz'altro riservati a pochi).
    Per poter credere alla preghiera l'unica strada «facile» è sperimentarne la potenza e la modernità» e, mi sembra, per uno che non ha mai pregato, la soluzione sta nel vivere con un testimone della preghiera che sia a servizio completo dell'uomo. Credo che la preghiera non ha bisogno di luoghi (Dio è nell'uomo); per chi inizia è però certamente meglio avere le condizioni più adatte: per evitare successive degenerazioni credo, appunto per questo, che il luogo più adatto sia il proprio ambiente quotidiano, città o paese, quartiere o campagna, il luogo insomma dove Dio ti si vuole rivelare, non dove tu lo vuoi cercare.

    C'è pure il rischio di ritornare ad una religione oppio dei popoli
    Purtroppo sì: se da parte di alcuni ambienti di giovani in particolare c'è un maggiore recupero dello spirituale, è in gran parte figlio del riflusso, più che del crollo delle utopie. È inutile dire che un tale avvio se non viene purificato lungo il cammino come motivazione di base, ricrea la storica situazione di religione come oppio dei popoli. Il pregare come atteggiamento di vita è sempre un tentativo, proporzionale comunque agli spazi di preghiera esplicita, sia qualitativamente che quantitativamente. Direi poi che vivo la presenza del Cristo più nel fratello che nello spirito e nel pensiero. Sto facendo il servizio militare, e, a parte le solite considerazioni su questo, vivo una situazione di comunità permanente, per cui certi atteggiamenti di attenzione all'altro o esistono oppure non è neppure possibile pregare in momenti riservati e personali con Dio... Dove troverei la faccia e la coscienza per operare una scissione così netta tra la vita di comunità in caserma e la preghiera esplicita?

    Ci vuole una grossa esperienza di sofferenza e di lotta
    Prego alla sera, circa per due ore, chiuso nell'ufficio in cui lavoro di giorno. Sto studiando e pregando la Bibbia, dall'inizio, e ora sono ai Numeri. Per ora sto sperimentando la preghiera personale; è ovvio che è maggiormente profonda anche se forse meno ricca come quantità di intuizioni di quella comunitaria.
    Cerco innanzitutto me stesso (in senso intimistico, per cui laico) e di conseguenza Dio (in senso dialogico, che tenta per la sua essenza, di passare per tutte le persone della mia cerchia, militari e amici di casa). Me lo dirà il Signore chi sono davanti a Lui!
    La preghiera del gruppo risente del grosso limite del non pregare prima e dopo personalmente, ed ha il grosso vantaggio di poter essere pedagogica per chi vuole farlo. Personalmente credo si dovrebbe un po' per volta ridurre gli elementi esterni, gli aiuti psicologici, per gustarne comunitariamente l'essenza.
    Senza voler apparire troppo semplicista o riduttivo credo che la scelta di cominciare seriamente a pregare, cioè di tentare di entrare in un rapporto di conoscenza e di scambio vitale con il fine ultimo di ogni uomo, possa avvenire solo in seguito a una grossa esperienza di sofferenza o di lotta aspra per raggiungere un fine molto alto.
    All'opposto il ridurre i propri obiettivi (personali e di gruppo) per poterli raggiungere, o il vivere una vita comoda, credo siano le situazioni più alienanti la contemplazione.
    Giorgio Ferroni, 21 anni Genova

    PER ME LA PREGHIERA È UN MODO DI VIVERE

    Sì, pregare è difficile. Arriva per tutti, penso, il momento in cui la «voglia» passa e sembra non voler tornare più. È la prima scelta che, forse, si impone al cristiano che cresce anagraficamente. L'unica alternativa che si presenta al non pregare più, è pregare in maniera diversa da quella che ci hanno insegnato. Sono convinta che anche l'azione più banale, se vissuta con il pensiero di Dio, diventa ed è preghiera. Certo, la crisi generale di ogni valore passato non può non colpire anche la preghiera: ma non credo che sia predominante il fattore culturale. L'uomo contemporaneo, se vuole, ha più possibilità e capacità di contemplazione di una volta: e proprio per quei motivi che apparentemente potrebbero distoglierlo. Poiché siamo fatti a Sua immagine, ogni nuova «conquista» umana può essere motivo di meditazione e di riavvicinamento a Lui. Non penso che tra i giovani vi sia una crisi di preghiera, per lo meno nel senso tradizionale del termine. I giovani di oggi, semmai, pregano di più e cercano di farlo in modi e situazioni nuove. Forse mancano oggi all'appello tutti quelli che pregavano non per fede ma per abitudine. Oggi c'è più la ricerca di coerenza tra ciò che si vive e ciò che si crede. Oggi i giovani si accontentano meno delle formule e cercano più autenticità in coloro che vengono proposti come esempi da seguire. I giovani hanno il bisogno di pregare facendo, più che usando modelli tradizionali.

    Un modo diverso di pregare per costruire un mondo migliore
    Non esiste un solo unico modo di pregare, come ho già detto prima: non solo l'educazione e l'ambiente in cui si è vissuti, ma il carattere, il temperamento di ognuno sceglieranno il «modo» di pregare. Madre Teresa di Calcutta ha scelto una strada che non può essere scelta da chi entra in un Carmelo o in un monastero di trappisti: e credo sia sciocco cercare di stabilire in un certo senso dei modi preferenziali. Certo: alcune ingiustizie sociali sembrerebbero preferire un'azione di preghiera con la discesa in campo per «combattere», magari politicamente. Ma non è detto che le coscienze che scoprono le ingiustizie sociali e operano nel concreto per eliminarle non nascano proprio dalle preghiere di chi non è più «nel» mondo. Non credo neppure che fosse il bisogno di fare che qualche anno fa allontanava dalla preghiera: gli esempi non mancano. Un don Milani, un don Mazzolari, etc., era certamente gente che pregava: solo non lo facevano forse nel senso «formula» tradizionale. E i giovani da loro avvicinati certamente avranno imparato a pregare meno misticamente ma più evangelicamente. È proprio attraverso il modo personale e individuale e diverso di pregare che, forse, si riuscirà anche a costruire un mondo migliore.

    Forse non dico «preghiere», ma certamente prego
    Forse non «dico» le preghiere, ma certamente prego. Preghiera è per me il lavoro di ufficio; il guadagnarmi con lealtà ed onestà lo stipendio; l'essere disponibile ad ascoltare anche solo lo sfogo di qualcuno che ha un problema; lo stare in una chiesa deserta senza sentirmi obbligata a ripetere formule o senza sentirmi di «colloquiare» con Dio; parlare con gli amici; fare praticamente tutto, anche... dormire la notte. Tutto può essere preghiera. Vi sono occasioni (incontri di preghiera, ritiri, messa, cene del digiuno, etc.) in cui diventa preghiera quella fatta in comune con formule che tutti siamo in grado di conoscere e che servono solo per sentirci maggiormente in comunione. Ma non è che un modo di pregare possa escludere l'altro. Certamente, per il giovane di oggi è forse più facile incontrare Cristo nel povero, perché è diventato ed è un problema di massa e mondiale, piuttosto che trovarsi ad incontrare Cristo attraverso una modalità più contemplativa. Questo avviene, secondo me, in un secondo tempo. Moltissimi giovani che pregano lavorando per i fratelli più bisognosi non hanno mai avuto un incontro con il Vangelo, se non con quei pochi e spezzettati brani che sentono leggere alla Messa. Man mano che la loro azione va avanti, sentono però il bisogno di approfondire la conoscenza diretta con il Cristo.

    Per me la preghiera è una festa, però assai faticosa
    Per me, preghiera è tutto. Ogni volta che intraprendo qualcosa, dalla più abituale alla più eccezionale, cerco di farlo con il pensiero di Dio. In questo senso direi di essere più fedele ad un ritmo che al caso. Certamente per altri modi di pregare mi affido maggiormente al caso: ma mi riferisco a ciò che dall'esterno può giungere a me (incontri di preghiera comunitari, etc.). I momenti privilegiati, per me, sono quelli che sia per l'ambiente sia per coloro che mi sono accanto sia per una certa maggiore disponibilità interiore, riescono a farmi leggere sfumature sconosciute in una pagina di Vangelo magari riletta cento volte. L'ambiente ideale, per una preghiera individuale, è - per ciò che mi riguarda - una chiesa possibilmente piccolissima e deserta. Ma non penso sia indispensabile, anche se riesco a concentrare meglio tutta la mia attenzione in una situazione simile.
    Per me, la preghiera è più una festa, a volte però assai faticosa. Non la riesco a considerare un peso, forse la sento come necessaria conseguenza della mia fede, più che
    un «obbligo» di qualche tipo. Ciò che ricerco nella preghiera, sia di azione che di contemplazione, è più un incontro tra il Padre e me in quanto figlia che altro: mi sento nulla, perché so che «sono» nulla, ma mi sento tutto perché sono convinta dell'amore particolare che ha per me.

    Ho maturato la preghiera proprio nell'azione verso il fratello
    Motivi di preghiera, per chi vuole pregare, la vita quotidiana ne offre parecchi. Per ciò che mi riguarda, la «necessità» e quindi la disponibilità alla preghiera sono maturate proprio dall'azione verso il fratello, e quindi attraverso una preghiera più di fatti che di parole o di concetti. Ho sempre cercato di evitare di ricordarmi di Dio solo nei momenti brutti, per dimenticarmene nei momenti belli. E se ci sono persone che con il loro atteggiamento potevano creare delle fratture con ciò che era preghiera, direi che proprio in quei momenti «riscoprivo» la necessità di pregare. Evidentemente, vedere altri che pregano in maniera profonda e «forte» può invogliarmi nei momenti più faticosi: ma come ho già detto, per me la preghiera è essenzialmente un modo di vivere la vita, più che una formula o un fatto o un ambiente o un comportamento eccezionale.
    Andreina Torino

    NESSUNO CI HA MAI INSEGNATO A VIVERE IL SILENZIO

    Pregare indubbiamente è difficile, mi fa anche paura, soprattutto la preghiera personale, quella a tu per tu con Dio e con me stessa. Nelle tante cose da fare durante il giorno non sempre trovo o voglio trovare lo spazio per un momento di silenzio, se non altro per rivedere la giornata alla luce del Vangelo. Quando sono sola in casa accendo la radio o la tele, il silenzio mi pesa perché mi costringe a pensare e talvolta ho la necessità di eliminare da me stessa ogni vaga possibilità di riflessione. Forse non è ancora preghiera, però è la condizione, il silenzio cioè, per pregare.

    Ciò che è in crisi è la preghiera personale
    Penso che non sia in crisi la preghiera come tale, perché momenti di preghiera comunitaria ci sono e ci sono sempre stati; è in crisi la preghiera individuale, e secondo me lo è sempre stata. Negli anni più politicizzati tutto si faceva insieme, manifestazioni politiche e religiose. Anche i cosiddetti ritiri spirituali si facevano insieme e ho sempre avuto l'impressione di non essere sola; le volte in cui c'era l'obbligo del silenzio la maggior parte di noi andava in crisi. Nessuno, per quel che riguarda l'esperienza mia e dei gruppi in cui ho vissuto, ci ha mai insegnato a vivere il silenzio. Molte volte ci è stato detto che tutto è preghiera, se uno vuole, il lavoro, lo studio, il gioco... la messa è preghiera; l'incontro sul Vangelo è preghiera; giustissimo. Ma quando ho bisogno di fare una seria revisione della mia vita (sottolineo il mia, al di fuori del gruppo, degli schemi, della scuola, insomma mia nella sua incertezza) non ne sono capace: ho bisogno di uno che risponda alle mie domande e a sua volta me ne faccia. Secondo me adesso si sta cercando a tutti i costi di riscoprire il Dio personale, non più il Dio comunitario.
    Personalmente credo sarebbe utile che ci insegnassero a stare soli; non dico che l'uomo deve essere solo, però ha bisogno di momenti di solitudine. I miei problemi li posso discutere con altri, prete, amici, ragazzo ma sono io che li devo risolvere.

    Quando il Leader Dio non soddisferà più
    Penso che ora si sente il bisogno di capirsi dentro. Le cose in cui si credeva fino ad alcuni anni fa, la rivoluzione culturale, il '68 e seguito, adesso non vanno più bene e così cerchi nella preghiera la soluzione al tuo star male nel mondo. Così tra un po' di anni starai male anche nella preghiera perché non ti risolve niente se non la unisci a una attività di cambiamento al di fuori. Sono convinta che pregare può servire a darti la forza per cambiare te stessa e ciò che ti circonda, seguendo l'esempio di Cristo. Prima pensavamo di cambiare solo con le attività, adesso solo con la preghiera, speriamo che si arrivi a un giusto equilibrio tra queste due cose.
    L'esempio di Kattrin è giusto, ma per me pregare è sempre stato valido, anche nel periodo del maggior impegno, del «fare»; quando ci si trovava di fronte a qualcosa di difficile, di cattivo si stava impalati e si subiva, magari facendo manifestazioni che si concludevano nel nulla. Non si agiva ma si pregava, magari non nel senso stretto della parola, cioè rivolgendosi a Dio, ma rivolgendosi ai leaders e per me era un modo di pregare (blasfemo...). Credo che questo valga sempre, in quanto l'uomo si sente incapace di agire, di fare, di lottare a costo della pelle, della carriera, delle cose che adesso sono più importanti degli ideali. In questi ultimi anni è cambiato l'oggetto della preghiera, non ci si rivolge più ai capi, non ci sono, ma a Dio, sperando che usi la bacchetta magica per cambiare le cose che noi non abbiamo la voglia di cambiare. E così ci si chiude nelle chiese, si fanno i ritiri e la maggior parte di tali atti, a mio avviso, sono riflessioni sul sociale, su come si può cambiare la società e noi stessi alla luce del Vangelo, e roba di questo genere. Senza dubbio prima si riflette su se stessi, ma poi inevitabilmente si passa all'impegno nel quotidiano, frase che è ancora di moda.
    Però quando anche il Leader Dio non soddisferà più (dato che non lo cerchiamo come Padre, come Colui che ci ama per sempre, come modello di vita), allora bisognerà cercare qualcosa d'altro per superare la disillusione. Così per esempio, e mi accorgo di essere polemica e mi va di esserlo, è gratificante per un sacerdote avere tante persone attorno dopo un periodo di «abbandono» e non si preoccupa tanto dei motivi per cui uno ritorna e di cosa chiede al Padre eterno, basta che stia sotto nuovamente l'ombra del campanile.

    La disponibilità a pregare nasce e vive con te stessa
    Penso che la disponibilità a pregare sia un atteggiamento che nasce e vive con te stessa. Non voglio dire che sia un senso innato nell'uomo, solo che per me è stato così: i miei hanno insegnato a ringraziare Gesù per le cose successe durante il giorno, mi hanno fatto capire che quello che ci circonda è opera sua; in definitiva ho imparato ad amare Gesù di Nazareth come ho imparato a stare con gli amichetti prima, con i fratellini e gli altri poi.
    Forse è per questo che quando mi rifiuto di pregare, quasi per far dispetto a Dio, mi sento vuota; è come quando mi accorgo di non aver sfruttato abbastanza la mia giornata, di essere incavolata con qualcuno.
    Questa abitudine però è dovuta diventare una convinzione, se no penso che non lo avrei più fatto, cioè se non mi fossi resa conto che Cristo è realmente importante per me stessa, dopo poco la preghiera fine a se stessa mi avrebbe stufata. La mia convinzione è andata aumentando nelle varie esperienze di gruppo: prima Mani Tese, poi il Movimento Studentesco, e infine il gruppo parrocchiale...
    Qualche periodo è stato un po' grigio, con parecchie difficoltà e non nego che talvolta avrei voluto mandare «sto Cristo alle ortiche», pretendeva troppo da me, testimoniarle nel modo in cui i miei genitori mi avevano insegnato e che realizzavano, era pesante. Ma, con alti e bassi, ho continuato ad aver fiducia in Lui, aiutata moltissimo dai miei che vivevano le mie stesse difficoltà. In quegli anni ho iniziato a pregare da sola per trovare la forza di continuare. Penso che senza la preghiera, senza la Messa quasi quotidiana, senza leggere con i miei il Vangelo per scoprire cosa Lui voleva da me, non ce l'avrei proprio fatta. Sono convinta che quando uno crede è proprio nei momenti difficili che deve rinnovare la sua fiducia e se ci riesce ha già fatto un passo avanti. Finché tutto va bene è facile dire «Signore ti voglio bene», lo facciamo anche con i nostri amici, quando la pensano come noi o ci danno ragione; ma quando ti senti abbandonato, allora puoi incontrarlo veramente, senza maschere, sei solo tu, con le paure, con i dubbi, con la ricerca di Qualcuno che ti ami come sei.
    Donatella, 23 anni, Torino

    SONO ABBASTANZA OTTIMISTA SU UN CERTO «RITORNO» ALLA PREGHIERA

    Indubbiamente si sta vivendo una certa crisi dell'uomo nei confronti della preghiera. I motivi di questa crisi sono svariati, ma credo che soprattutto uno tra i giovani sia stato determinante: il fatto che la preghiera sia stata loro presentata come qualcosa che si riduce alla semplice ripetizione di poche frasi imparate a memoria senza un approfondimento personale e senza un dialogo con Dio. Così concepita, non credo che la preghiera potesse avere una sorte diversa da quella avuta verso il periodo «caldo», alla fine degli anni '60.
    È forse improprio, quindi, parlare di «rifiuto della preghiera» e di crisi, quando forse non si è capito bene cosa sia in realtà la preghiera.
    Certamente alla base vi stanno anche altri problemi più complessi come la crisi della fede, l'attivismo, ecc..., ma personalmente sono abbastanza ottimista su un certo «ritorno» alla preghiera soprattutto tra i giovani che, ormai, credo stiano scoprendone il significato vero.
    In questo senso l'abbandono della preghiera può essere anche stato utile, in quanto mi sembra che vi si stia ritornando forti di un'esperienza e di un arricchimento anche interiore che le rivolte giovanili e il '68 mi pare abbia conferito. La preghiera, insomma, ne esce arricchita e rinvigorita.

    Quando ci si è chiesti: «chi me lo fa fare»
    L'immagine ideale del Cristiano fino a poco tempo fa si riduceva all'individuo casaChiesa-scuola, ligio ai propri doveri e sottomesso all'autorità dei superiori. Un aspetto «politico» della vita spirituale non era nemmeno pensabile. Questa immagine è stata poi fatta a pezzi qualche anno fa ritenendo l'azione politica, l'impegno come l'unica cosa che conti.
    Poi quando ci si è trovati di fronte a momenti di crisi o a difficoltà e ci si è chiesti «chi me lo fa fare», c'è stata un'altra svolta decisiva che ha portato a diverse reazioni: chi si è rassegnato ed è andato in preda alla disperazione, chi piuttosto vigliaccamente è tornato indietro ed ha recuperato la visione unicamente meditativa e passiva della vita di fede, e chi, infine, si è reso conto che «politica» e «preghiera» non sono due scelte antitetiche, ma conciliabilissime in quanto la preghiera responsabilizza, fa maturare l'individuo e soprattutto guida la sua azione che deve mirare all'annuncio del Regno e ciò si compie solo per mezzo dell'impegno politico e sociale.

    L'importante è trasmettere uno spirito di preghiera a tutto cid che facciamo
    Credo che il significato di preghiera sia molto più complesso di quello comunemente inteso. Anch'io sono convinto che essa non si esaurisce nel momento in cui ci si isola e si rimane soli con Dio, ma assume significato nel momento in cui riusciamo a trasmettere uno spirito di preghiera a tutto ciò che facciamo. Personalmente io cerco di vivere questo duplice aspetto della preghiera ma non sempre vi riesco; spesso, anzi, nel fare un'azione utile o nell'aiutare qualcuno non sono capace di vedere l'immagine di Cristo in quella persona e penso che il bene che posso fargli non sia agevolato o valorizzato dal fatto che io faccia o meno tutto ciò con spirito cristiano. Forse questo è un errore e me ne accorgo nel momento in cui non riesco ad accettare la persona che mi si presenta davanti con i suoi limiti e i suoi difetti, comportandomi quasi con l'impotenza e la limitazione di vedute di chi osserva la vita con un'ottica puramente materialistica.

    Non sempre nella mia preghiera sento la presenza di Dio
    Personalmente ho dei momenti fissi della giornata in cui prego e lo faccio dove capita, cercando di trovare un po' di concentrazione. Nei momenti di preghiera cerco innanzitutto me stesso e chiedo a Dio l'aiuto per determinate situazioni; cerco in ogni caso di esaminare la possibilità di vivere il messaggio di Dio per ciascuno di noi.
    Cerco di capire il perché di certe cose e chiedo aiuto per chi mi circonda e per chi ne ha bisogno. Certo, non sempre nella mia preghiera sento la presenza di Dio ed in certi frangenti - forse per colpa mia - ho quasi l'impressione di girare a vuoto. Ma continuo a farlo perché so che questo momento è importante anche se non riesco a vederne l'utilità o non riesco a renderlo più vivo e sincero.
    Anche la preghiera in comunità è importante, ma secondo me non esclude certo quella individuale: pregare insieme mette dentro gioia, fa sentire tutti più utili e dà il senso della comunità.
    Ma la preghiera rimane comunque un fatto essenzialmente personale: il rapporto che ogni singolo uomo ha con Dio è diverso da individuo a individuo, c'è sempre una parte intima di sé stessi di cui solo Dio può essere fatto partecipe. Perciò credo che pregare in gruppo sia sì molto bello, ma non sia sufficiente a porre se stessi e la propria coscienza in rapporto diretto, intimo con Dio.
    Bruno Grilli Perugia

    HO CAPITO CHE INVECE DI DIRE «DOVE SEI» DOVEVO DIRE «ECCOMI»

    Quando ci riesco prego per un'ora e mezzo al giorno. Cerco, per quanto mi è possibile, di seguire un certo schema, che a grandi linee comprende: un primo momento di silenzio per riuscire a concentrarmi; poi di solito passo alla invocazione dello Spirito; seguono un momento penitenziale, un altro spazio di silenzio abbastanza prolungato, lettura e preghiera della Parola, momento di ringraziamento.

    Ho scoperto che la preghiera è silenzio e amore
    Ho iniziato questo cammino di preghiera da più di un anno. Dopo un anno, quest'estate mi sono resa conto della importanza che ha nella mia vita il confronto con la parola. Ho sperimentato il vuoto di una vita passata senza Dio. Mi sono accorta che la parola aveva una incidenza profonda nella mia vita e che, anche se a me non sembrava che cambiasse niente, lo Spirito lavorava in me.
    Ci sono stati momenti di difficoltà (pregare non è facile), momenti di pigrizia, momenti in cui stavo delle ore in chiesa e mi chiedevo «cosa ci sto a fare, se non dico niente?».
    Poi ho scoperto che non serve parlare, che la preghiera è silenzio e amore. Ed allora ho continuato a restare li in silenzio, senza dire nulla, convinta che ascoltare è amore. Poi ho scoperto anche che non siamo noi che amiamo nella preghiera; diamo solo il permesso a Dio di amarci. Prima cercavo Dio, poi ho capito che più che dire «dove sei» dovevo dire «eccomi».
    Da quando ho scoperto che la preghiera è amore ho fatto un altro passetto in avanti: la preghiera è amore a Dio nei fratelli.

    Pregare non è solo implorare, è collaborare con Dio
    Se la preghiera si esaurisse tra le mura di una chiesa non sarebbe preghiera, perché la preghiera cambia, converte, coinvolge interamente la vita... Pregare non è solo implorare, è collaborare con Dio.
    Ho scoperto la preghiera anche per merito delle persone che mi circondano e in particolare a convertirmi alla preghiera è stato un ragazzo della mia comunità, non perché lo vedevo spesso in chiesa, ma perché mi testimoniava quello che diceva, perché mi faceva toccare con mano la potenza della preghiera.
    Davanti a Dio sono un nulla; più ti avvicini a Lui e più ti rendi conto della tua debolezza, della tua piccolezza. Ma allo stesso tempo mi sento «importante» agli occhi del Signore, perché mi sento (non solo a livello razionale) amata da Lui.
    Maria Luisa Bartolini Genova

    VERSO NUOVI MODELLI CULTURALI SENZA DIMENTICARE IL '68

    Ventun anni: terzo anno della facoltà di matematica. Impegni vari in gruppi giovanili. Interessi culturali e politici di un certo tipo. Figlio della generazione del post-68, ma che di quegli anni ha sentito tutte le problematiche e le contraddizioni.

    Lo spazio dato alla preghiera è sempre maggiore: ma quale tipo di preghiera?
    Che senso ha la preghiera? Quando, come e perché pregare?
    Non mi sento di tentare una risposta sia pure problematica, senza prima prendere in considerazione elementi che trascendono la singola situazione personale. Il problema diviene quindi del significato e della modalità della preghiera nella società in cui viviamo, nella cultura in cui siamo immersi.
    Dati di vario ordine, da quelli di tipo antropologico a quelli di tipo sociologico, mettono in evidenza un fenomeno di ritorno ad una dimensione carica di sacralità o persino misticismo, in cui si cerca la salvezza ed il senso della propria esistenza in un ente superiore, in un'essenza divina non ben identificata e non per tutti uguale.
    Basta girare un attimo per i gruppi per rendersi conto di come lo spazio dato a quella che viene definita preghiera sia sempre maggiore.
    Ma quale tipo di preghiera? Quello che si ricerca è un incontro personale e privato con la divinità che si muove nella direzione dell'intimismo e della problematica esistenziale.
    Lo stesso Cristo diviene l'amico, il confidente, l'ancora di salvezza nel momento di crisi, crisi che per altro diviene sempre più macerazione interiore di stampo esistenzialista.
    La dimensione storica ed oggettiva della figura del Cristo, di colui che sconfitto dalla storia, ne distrugge le regole e le leggi per iniziarne un nuovo corso, di colui che condannato dal potere politico e religioso, è scelto da Dio a dispetto delle categorie culturali e delle gerarchie sociali dell'uomo, non è quasi più presente nelle riflessioni singole o di gruppo.
    Pregare significa sempre più dimenticare la realtà, chiudersi per un attimo in se stessi dimenticando il mondo, lasciarsi alle spalle la propria esistenza quotidiana densa di cose troppo materiali, per cercare rifugio e pace in una dimensione ultraterrena: quella in cui viviamo torna ancora una volta ad essere una valle di lacrime.

    Le ceneri dell'impegno politico e di molte altre cose
    È sulle ceneri dell'impegno politico e dell'utopia che sta rinascendo la contemplazione (già, ma una contemplazione completamente caratterizzata dal soggettivo nel rifiuto della dimensione oggettiva e, oserei dire, politica, che pure è necessario riscoprire e che le compete di diritto), dentro e fuori del cristianesimo?
    Forse, ma anche sulle ceneri di molte altre cose che hanno spinto l'uomo in una direzione che non era la sua: il mito del '68, del «tutto è politico» degenerato in «la politica è tutto», utopia della possibilità immediata del cambiamento sociale; l'assunzione acritica e banalizzante di un marxismo meccanicista e determinista; la cieca fiducia in una scienza che aveva la pretesa di salvare l'uomo disprezzando tutto ciò che scientifico non può e non deve essere. Tutto ciò ormai è crollato o sta crollando, lasciando l'uomo, ed i giovani in particolare, incapace di proseguire se non in termini di negazione di ciò che è stato.
    Ed ancora più ardua si fa la via per coloro che, rendendosi conto di tale situazione, rifiutano di marciare in questa direzione. Non si può fermare la storia; non ha alcun significato elaborare modelli e proposte che ci riportino ad una non ben precisata età dell'oro: ciò significa una reale alienazione dell'uomo.
    È assurdo pensare di poter dimenticare o negare ciò che è stato un '68 o cosa hanno significato le grandi lotte operaie di quegli anni.

    Verso nuovi modelli
    Molto più difficile è però indubbiamente proseguire su questa strada nel tentativo di inventare realmente nuovi modelli culturali in cui esprimere la nostra fede. Non so se tale situazione rispecchia una crisi od una rinascita della fede: indubbiamente ci manifesta una crisi culturale di grande portata.
    L'uomo ha perso quasi del tutto il suo quadro culturale nel quale solo è possibile esprimere il proprio essere.
    E tutto ciò si sente in modo particolare nel momento in cui si tenta di pregare. Che senso può mai avere il rivolgersi alla divinità; ma ancora di più il come mettersi in ascolto, il cosa dire, diviene il problema fondamentale.

    Come rivolgermi a Dio, con quali parole?
    Siamo stati cresciuti da una chiesa ancorata al passato, le cui incrostazioni di una cultura che era e che non è più, le impediscono a volte persino di capire il mondo. La nostra è stata in gran parte un'educazione religiosa ricca di termini, similitudini, fatti che vengono da una realtà ormai morta per sempre.
    Che significato può avere per l'uomo moderno di questa civiltà già definita postindustriale, il sentirsi parlare di chicchi di frumento, di tralci, di viti? Come rivolgermi a Dio, con quali parole, io che vivo parte della mia esistenza tra gli spazi metrici e le varietà topologiche? Come ritrovare Dio in una città che porta l'impronta della morte?
    Eppure è proprio in questa direzione che ci si deve muovere, nel tentativo di incontro con la divinità nel quotidiano, nelle cose che facciamo ogni giorno siano esse il nostro lavoro alla fabbrica o lo studio della meccanica quantistica.
    Solo in questo modo è possibile trasformare la preghiera in una realtà oggettiva cosciente di tutte le sue dimensioni, da quella spirituale e quella politica, che sia una reale forza di trasformazione della storia.
    11 deserto dobbiamo trovarlo nella realtà di ogni giorno tra il rumore dei tram, le manifestazioni degli operai, la rabbia dei disoccupati, la bellezza di una sinfonia di Beethoven o l'eleganza di una formula matematica.
    Cristo non ha infatti piantato una tenda nel deserto aspettando che andassero a cercarlo, ma ha scelto di essere uomo tra gli uomini, povero tra i poveri, perché ogni uomo lo potesse trovare nel fratello che gli sta accanto.

    È la tentazione di trasformare l'uomo in una divinità che ci perseguita
    Sull'altra strada ci aspetta solamente l'incontro con un Dio che non è il Dio della Bibbia, ma il prodotto dei nostri desideri e delle nostre paure; un Dio che è veramente quell'alienazione feuerbachiana presente alla base di una religione che è di fatto «oppio dei popoli». Si tratta dunque di inventare un nuovo modo di pregare che sappia veramente esprimere più che delle preghiere, un nostro atteggiamento di preghiera. Atteggiamento che esprime la nostra continua lode a colui che è il nostro Padre. Com'è facile infatti per l'uomo credere di essere cresciuto abbastanza per fare a meno di Dio!
    Di fronte alla grandezza dei sistemi filosofici o alla razionalità perfetta delle teorie matematiche, alla vista di un'opera d'arte o di fronte all'esecuzione di una creazione musicale, com'è facile chiederci cosa ci sta a fare Dio in questa realtà! Più aumenta la nostra conoscenza e più ci sentiamo in grado di sostituirci a Lui; la tentazione di trasformare l'uomo in una divinità ci perseguita costantemente.
    Nicky Sardi, Torino


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