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    Tra silenzio e turpiloquio... L'insegnante imbarazzata


    (NPG 1978-04-19)

    Apriamo la rubrica «fatti» con questa relazione di Giorgio Rifelli, tratta dalla rivista «Problemi di educazione sessuale». Il racconto, presentato con vivacità e con uno stile sottilmente ironico, offre un quadro realistico di alcune situazioni (1).

    In quella scuola come in molte altre, «l'ora di educazione sessuale» era stata scelta nel pomeriggio per non intralciare le lezioni.
    I ragazzi (di terza media, ndr) aspettavano in strada. Il gruppo si stava infittendo ed ogni nuovo arrivo era contrassegnato da saluti, grida e scoppi di risa. Le ragazze giungevano in piccoli gruppi di due tre alla volta ed erano spesso accolte dai compagni con osservazioni che alludevano alla «figura» o al fare altezzoso. Ma i ragazzi con questi interessi erano pochi, i più vista l'indifferenza delle ragazze trovavano soluzione alla loro esuberanza rincorrendosi o lottando per un cappello strappato o per una frase di scherno.
    La confusione che avevano creato andava sempre crescendo e con difficoltà riuscivo a farmi sentire dall'insegnante che era stata la promotrice degli incontri e che attendeva con me di poter entrare. D'altra parte mi sentivo quasi in dovere di impegnarla in una conversazione come se volessi stornare la sua attenzione dalle frasi pronunciate ora da uno ora dall'altro del gruppo; frasi tutte composte di termini che sembra solo gli adolescenti riescano a dire con tanta profusione; «coglioni» «cazzo» «busone» «puttana» e altre parole del genere affioravano e si distinguevano nettamente nel vociare generale. Non era la prima volta che nei corridoi o davanti alle scuole, mi capitava di ascoltare quel gergo scurrile che piace tanto ostentare quando ancora si crede che il proprio essere adulto sia definito dal numero delle parolacce che si riesce a dire e dalla sfrontatezza con la quale vengono pronunciate.

    UN PESANTE SILENZIO

    Intanto il bidello aveva aperto e il gruppo era rapidamente scomparso dietro il portone portando con sé tutto il chiasso.
    Ebbi cura di entrare in aula dopo qualche momento, necessario perché ciascuno decidesse il proprio posto e perché si acquietasse il rumore nella curiosità dell'attesa.
    Entrando li vidi alzarsi in piedi rispettosi, alcuni erano ancora affannati per la corsa fatta ed altri facevano sforzi per concellare il riso smesso da poco. L'insegnante soddisfatta palesemente per «l'educazione» mostrata dai suoi allievi mi guardò vittoriosa come se dicesse «ha visto? in classe sono proprio bravi». Si diresse poi rapidamente in fondo all'aula rinunciando almeno per quella volta alla cattedra.
    Iniziai come d'abitudine dicendo che non volevo fare una vera e propria lezione, preferivo che fossero loro a pormi le domande e a proporre gli argomenti; la cosa sembrò disorientarli erano così ben abituati a stare zitti e ad ascoltare, se ne avevano voglia, che non riuscivano a capacitarsi di quel capovolgimento di regole. Il silenzio si fece sempre più pesante e i visi sempre più perplessi, solo nell'angolo in fondo a destra si avvertiva un brusio fatto di sommesse risate e di parole sussurrate, ma non ci detti peso e attesi le domande che cominciarono ad opera di una ragazza la quale con titubanza e dopo essersi consultata con l'amica vicina, mi chiese: «come nascono i gemelli?» a questa seguirono altre domande «cos'è l'RH» «la pillola fa male?» «è bene allattare?» ecc.
    Nonostante le incertezze iniziali sembrava che gli interventi non dovessero finire, tutti sembravano attenti e partecipi. Solo i due ragazzi dell'angolo in fondo a destra facevano di tutto per disturbare me e i compagni tanto che dovetti intervenire più di una volta con modesti e passeggeri risultati.
    Dietro a tutti l'insegnante di lettere sembrava ogni momento più soddisfatta: la sua classe reagiva bene e proprio mentre osservavo il suo volto interessato e compiaciuto dall'angolo in fondo a destra sento: «metterlo nel culo si piglia lo scolo?»... in quel momento forse l'insegnante decise chi avrebbe bocciato! Prima di voltarmi verso il mio interlocutore notai il rapido mutare di espressione della professoressa, si era irrigidita e arrossiva, mentre gli occhi che si giravano verso la sua sinistra si erano fatti minacciosi. Anch'io guardai nella stessa direzione e forse mi appoggiai con maggior forza alla cattedra, uno dei ragazzi si era alzato e stava 1ì in piedi cosciente di aver attirato su di sé critica e ammirazione, con un'aria lievemente impertinente, spettinato, sorridente, non aspettava nessuna risposta stava in piedi per farsi vedere, per far capire alla classe, a me e all'insegnante che il più svelto lì dentro era lui.
    Il silenzio che seguì la domanda durò un attimo subito interrotto da una generale, fragorosa risata che io accompagnai con un sorrisino che voleva forse nascondere l'imbarazzo, trascorse qualche tempo e quando ricominciai a parlare il volto dell'insegnante aveva ripreso la sua compostezza: sembrava aver deciso che dopotutto il responsabile della risposta ero io.
    Confesso che prima di allora non mi era mai capitata una domanda così formulata, era una chiara aggressione e istintivamente sentivo di dovermi difendere forse e me lo auguro, riuscii a non essere altrettanto aggressivo nella risposta, ma in seguito mi sono chiesto perché mai dovevo sentire il bisogno di difendermi e da cosa. Il gergo usato dal ragazzo era del tutto simile a quello ascoltato in strada prima dell'ingresso.
    Fortunatamente riuscii ad accantonare in fretta il primo moto reattivo e non tanto per le mie convinzioni pedagogiche o per le mie conoscenze psicologiche quanto per la schiettezza del ragazzo stesso che mi guardava franco e sicuro come per ricordarmi che quella sua domanda non esprimeva solo il suo bisogno di farsi notare, ma soprattutto metteva in luce la realtà nella quale viveva, nella quale forse vivevano la maggior parte dei suoi compagni. Una realtà nella quale il sesso sembrava essere affrontato solo attraverso le parolacce e le confidenze irripetibili una realtà in cui i termini educati e corretti non sembravano avere alcun significato, una realtà che scompariva nella falsa atmosfera imposta dall'ambiente scolastico.

    L'USO DEL TURPILOQUIO

    Per questo forse rispondendo ripetei la domanda, questa volta non ci furono risa e anche nell'angolo in fondo a destra si era fatto il silenzio. Ebbi modo anche di tradurre l'espressione con quei termini tecnici che però non usavo come arma difensiva, ma come mezzo per suggerire un approccio diverso come se la sessualità potesse essere raccontata anche in maniera tale da non degradarla.
    Il turpiloquio infatti pur essendo usato dai giovanissimi per millanteria lascia in essi la convinzione che le cose del sesso siano da disprezzare; sembra che con le parolacce non si butti via solo ciò che esse significano, ma tutta la sessualità. A seguito di questo intervento i ragazzi compresero che si poteva parlare come era loro abitudine e cominciarono a voler sapere quali erano le espressioni «corrette», quale era l'altra faccia delle «brutte parole». Fu proprio una ragazza a continuare in quella direzione e facendo eco alla prima domanda chiese: «e quando lo si piglia in bocca come si dice?».
    Mano a mano che continuava il nostro colloquio avevo sempre più netta la certezza di quanto ingenui e irreali fossero stati i miei precedenti incontri con altre classi. Indubbiamente non tutti i giovani vivono in un contesto tale per cui sono abituati ad usare con facilità il turpiloquio e forse il fatto che quella scuola si trovasse in uno dei quartieri più problematici e più poveri della città poteva essere significativo, tuttavia mi resi conto in seguito che anche in altre scuole, magari in quelle che raccoglievano i figli del mondo «bene», se sapevo sollecitare le domande in modo che corrispondessero al vocabolario comunemente usato dai ragazzi, esse venivano formulate con termini analoghi.
    Per l'insegnante di quella terza media i suoi alunni avevano senz'altro dato prova di estrema maleducazione e quando al termine dell'incontro scambiammo le nostre impressioni sembrava volersi mettere al sicuro inveendo contro questo o quell'alunno, contro i loro genitori, contro le loro amicizie e contro la strada nella quale passavano buona parte della giornata.

    L'INSEGNANTE IMBARAZZATA

    Eppure era stata proprio lei a sollecitare gli incontri chiedendo che nella sua classe si facesse dell'educazione sessuale: come spiegare ciò se non pensando che aveva male interpretato la parola «educazione» la quale una volta aggettivata
    i con «sessuale» diventava il modo migliore per rinnovare la repressione che ha fino ad oggi subito il problema del sesso. Per l'insegnante infatti parlare di sessualità significava fare un discorso edulcorato e mistificante che ignorasse volutamente le problematiche dei suoi allievi e infatti l'ultima parte del nostro colloquio e lo dimostrò:
    «sono rimasta esterrefatta, ha sentito che roba?»
    «forse non dovremmo meravigliarci, per strada parlavano così»,«si ma per strada però, me lo dovevo aspettare, quei tre o quattro ragazzacci non dovevo farli venire»
    «a me sono sembrati molto di più di tre o quattro»
    «si ma perché sono stati portati, altrimenti in classe si sono sempre comportati bene»
    «penso comunque che poter parlare in quel modo possa essere stato positivo»
    «si, ma il sesso, poi lei professore lo sa meglio di me, è una cosa bella, pulita, io credo nell'educazione sessuale perché fa capire, il sesso non è solo nei genitali, c'è anche lo spirito, l'amore; e quelle domande... su cose così animalesche!»
    «per questi ragazzi però prima di tutto ci sono le parolacce, le distorsioni, gli insulti che imparano dai film, dai fumetti, dai grandi e spesso dagli stessi genitori»

    «si, capisco però vorrei che quest'altra volta parlasse dello spirito, dell'amore...».

    NOTA

    (1) Di questa relazione invitiamo i lettori a sottolineare:
    – la spontaneità dei ragazzi, che manifestano tra di loro un linguaggio facilmente spregiudicato, probabilmente ben lontano dal loro modo di vivere;
    – l'atteggiamento «accademico» dell'insegnante, che concretamente non sa adeguarsi alla personalità reale dei ragazzi;
    – il modo di condurre l'esperienza. Affidarla all'esperto esterno, sconosciuto ai ragazzi, riteniamo sia una delle modalità meno raccomandabili per condurre delle lezioni di educazione all'amore.


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