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    Ragazzi al cinema da Maciste all'Arancia Meccanica



    Giuseppe Ghigi

    (NPG 1978-08-75)


    Da sempre si lamenta la mancanza di un vero cinema per ragazzi. Le pellicole destinate in qualche modo a loro, rappresentano facilmente cinema d'evasione, costruito su temi fantasiosi o mitici, falsamente ingenui, che fanno leva su un'immagine di ragazzo ormai sorpassata. Oppure si tratta di cinema didascalico, destinato ad essere consumato nelle scuole, al di fuori dei circuiti normali.
    Sembra questa la prima ingiustizia nei riguardi dei ragazzi, i quali statisticamente rappresentano una parte considerevole della massa degli spettatori.
    È soprattutto in questo senso che il cinema diventa capace di «violenza» nei confronti dei più giovani. Non tanto nel senso immediato del termine, quasi che la visione di sparatorie, torture e scazzottate possa diventare per essi scuola di violenza. Su questa strada pedagogisti e psicologi ci stanno infatti ripensando, non essendo facilmente dimostrabile se una scena di violenza conduca i ragazzi all'imitazione o invece al superamento fantastico e quindi produca un effetto catartico. La vera violenza nasce invece prima di tutto dal non tenere conto che molti film sono anche visti dai più giovani, dal considerare i ragazzi quali semplici consumatori, dall'anticipare per essi problematiche per le quali non sono preparati, in un momento in cui la loro emotività è particolarmente fragile. Sotto questo aspetto la gente di cinema, dal produttore all'esercente, rivela il suo cinismo e le sue vere intenzioni, anche se mascherate talvolta dalla dichiarata volontà di fare opera di promozione culturale, civica o politica.
    È un fatto che molti film finiscono per far parte del clima in cui viviamo, della cultura e della sensibilità della gente, e quindi riflettono o determinano la sensibilità e la cultura dei ragazzi e dei giovani. È per questo che saper andare al cinema, saper leggere un film, significa possedere uno strumento importante non solo per conoscere le problematiche e le tendenze della nostra società, ma anche per porsi criticamente di fronte ad essa. Su questa strada può collocarsi l'impegno degli educatori, nello sforzo di aiutare i ragazzi ad un uso responsabile del mezzo cinematografico, sia offrendo loro in visione pellicole qualitativamente valide ed alla portata dei loro interessi, sia iniziandoli ad una acquisizione sempre più precisa del linguaggio cinematografico e del mondo della produzione.
    La prima e forse la più grave violenza che il cinema compie nei riguardi di un pubblico giovane è quella di considerarlo alla stregua di una massa di compratori. La seconda è quella delle immagini. Il nostro cinema è letteralmente invaso da porno film, scadenti film d'avventura. Oggi l'industria cinematografica punta al rapido sfruttamento del prodotto. L'eroe cinematografico attuale ha ben poco del personaggio: l'accento è posto sull'azione, il sangue, la violenza pura. Non più il buon violento Ercole, l'epico difensore del Bene contro il Male, l'eroe buontempone, ma un uomo che fa della propria violenza una esibizione, che vive in un universo dove la violenza è piacevole per se stessa.
    Il «cine» è, per la grande parte delle masse infantili ed adolescenti, il più compiuto regno onirico delle immagini ed antro fiabesco, orrido e magico. L'infanzia e l'adolescenza sono fasi della vita dell'uomo in cui deve ancora dispiegarsi l'intera ricchezza oggettiva dell'ente umano e dei suoi «sensi sociali»: in cui non si è ancora un «soggetto per l'oggetto», bensì un senso primitivo, fragile e spesso incosciente.
    In questo senso l'industria cinematografica produce soltanto un oggetto per un soggetto che, in quanto tale, è preda facile di questo universo iconografico. È inutile aggiungere, allora, quanto sia importante conoscere gli effetti delle immagini cinematografiche su questo soggetto e soprattutto conoscere il quando queste immagini si situano nell'universo perverso della violenza del forte (come forza dell'establishment culturale) sul debole (come soggetto che è oggetto dell'establishment).
    Bisogna però chiarire anche che il mondo infantile non è rappresentato da una massa compatta ed omogenea, anzi esso si differenzia fortemente non solo nelle diverse età (nel suo progressivo andare verso la ricchezza oggettiva dell'ente umano) ma anche nei diversi sessi.
    Trascuriamo qui il pubblico che ha meno di otto, nove anni che non è ancora importante come pubblico cinematografico dato che va raramente al cinema ed in genere ci va accompagnato dai genitori e prendiamo, invece, in considerazione la fascia d'età immediatamente successiva, diciamo dai nove ai quindici anni. Nei maschi si produce una crescita continua ed aritmetica della loro presenza
    nelle sale cinematografiche, con la tendenza, mano mano che si sale di età, ad avere più di una presenza settimanale.
    In genere tra i tredici e i quattordici anni non è infrequente trovare la doppia presenza settimanale al cinema, mentre nelle femmine, poiché minore è la loro possibilità di uscire da sole o con amiche, questo processo è traslato ad una età più avanzata.
    In genere fino ai dodici anni le ragazzine vanno poco al cinema, quasi sempre accompagnate dai genitori o con amiche. Poi dai tredici in su non mancano quasi mai all'appuntamento domenicale con il cinema, tendono a liberarsi dai genitori e ad andare al cinema non solo con amiche ma in qualche caso anche con amici. I films vietati ai quattordici anni attraggono molto di più i maschi che le femmine; per i primi è una dimostrazione di virilità e dimostrazione che a loro piacciono le donne, anche se per ora quelle di celluloide.
    Le bambine preferiscono generalmente le storie sentimentali, detestate dai bambini che le considerano robe da donne anche se ultimamente i gusti, per ragioni dipendenti dall'industria cinematografica, si sono molto omogeneizzati.
    Il filone catastrofico è, per esempio, seguito da entrambi i sessi e con il medesimo interesse. Ma questo dipende dal fatto che questo filone è a vasta gamma di età, cioè un prodotto costruito e pensato perché possa trovare un pubblico vastissimo e quindi recuperare gli altissimi costi di investimento.
    Comunque il cinema, questa «stupenda frode», è per entrambi i sessi il più importante divertimento in questa età che prelude alle festine da ballo domenicali, primi incerti, collettivi passi verso la maturità sessuale.

    IL CINEMA COME MEZZO DI COMUNICAZIONE E DI APPRENDIMENTO

    Il cinema però non è soltanto fonte di divertimento occasionale è anche la più importante fonte di conoscenza e comunicazione dell'epoca moderna. Si potrebbe dire che la nostra epoca è l'epoca fondata sulle immagini: fumetti, fotografie, televisione, cinema, invadono il nostro universo della conoscenza e della comunicazione tanto che i linguaggi orale e verbale stanno subendo un incredibile abbassamento del livello qualitativo e di ricchezza quantitativa. È stato dimostrato che dopo tre giorni noi ricordiamo di un evento: il venti per cento delle immagini e il dieci per cento delle parole. Se questa percentuale è giusta potremmo dire che le immagini visive rappresentano nella nostra memoria ben il sessanta per cento delle nostre conoscenze.
    Naturalmente prove simili stabiliscono soltanto la quantità di conoscenze, immagini e particolari che si è memorizzata. Dunque una misura di quantità che poco o niente ci dice, invece, a riguardo delle conoscenze memorizzate. Che nulla può dirci, per esempio, sulle trasformazioni che le immagini visive organizzate in una storia filmica inducono sul carattere, nei miti e nei momenti onirici del bambino. Se si potesse semplificare, per rendere più evidente questo discorso, dovremmo stabilire che questa divisione di base tra quantità e qualità delle immagini visive è corrispondente ad un ben preciso modo di avvicinare il bambino al cinema. Avremmo stabilito in questo modo ad esempio il parallelo esistente tra quantità della memorizzazione visiva e films didascalico-scientifici. Ciò è quanto succede a scuola con i films distribuiti dai Centri Sussidi audiovisivi ed in generale con i films distribuiti dai Centri audiovisivi ed in generale con molti films documentari e pseudoscientifici: il film vale soltanto se contiene un numero ben preciso di nozioni che il mezzo visivo aiuterà con più facilità ad incamerare.
    Dai lepidotteri alla battaglia di Canne, dal Canaletto al Vivaldi, tutto è somministrato con la stessa pessima qualità visiva. Il mezzo è solo un tramite alla nozione e quindi poco importa se il cinema è un linguaggio con proprie specifiche connotazioni ed esigenze.
    Anche quando il cinema si esplora, come per esempio in alcuni films dei Centri Sussidi Audiovisivi, è per dirti che cos'è una griffa o un primo piano, che differenza c'è tra una panoramica ed una carrellata, così lo spiegare il senso della comunicazione filmica appare ancora una volta come massa di nozioni. Questo dipende soprattutto dalla mancanza di una vera e propria scuola di produzione per la cinematografia per ragazzi; direi dalla mancanza in assoluto di una qualsiasi politica cinematografica per ragazzi. Solo certe cinematografie dei paesi dell'Est (come per esempio quella polacca o cecoslovacca) hanno sviluppato una produzione specifica per ragazzi che ha raggiunto livelli altissimi. In queste cinematografie si punta soprattutto sulla qualità visiva e del messaggio del film: attraverso la fiaba, il racconto che trasla la realtà più cruda in fantastici Hobbit, ci si accosta alla fantasia del bambino ed attraverso questa si cerca di sviluppare una coscienza morale e civile (ricordiamo film come «War Wizards» di Ralph Bakschi).
    Naturalmente bisogna lo stesso considerare ciò un messaggio violento, poiché sempre, sotto certi aspetti, un'immagine, che si impone ad un pubblico poco preparato a decifrarla, è violenza. Certo però che il fine a cui mira in qualche modo giustifica il fatto che esso si impone, più che si propone, come messaggio visivo da decifrare.
    Il dato positivo è che qui il bambino è considerato come soggetto da educare attraverso la qualità del linguaggio e le sue straordinarie potenzialità fantastiche. Ecco allora che il cinema tende all'Altro attraverso se stesso; non come mero mezzo di trasporto dell'Idea, ma come «persona» con propria individualità.

    IL CINEMA INDUSTRIALE

    Nel cinema industriale ciò è comune, con la sola differenza che il bambino, l'adolescente, non è considerato un soggetto da educare, bensì un oggetto: è trasformato alla pari di semplice compratore di un prodotto. Il denaro di un compratore non ha età: l'importante è che venga speso, poco importa le reazioni del prodotto venduto sul compratore. Naturalmente ciò non ci può scandalizzare in una società mercantile, ma se ciò è comprensibile per quanto riguarda un pubblico adulto, è aberrante se il pubblico è infantile.
    Direi che la prima e forse anche la più grave violenza che il cinema compie nei riguardi di un pubblico giovane è quella di considerarlo alla stregua di una massa di compratori.
    Non importa cosa si vende, l'importante è che si venda e se questo provoca danni nel carattere e nella formazione psichica dei propri fruitori questa non è cosa che riguardi il produttore.
    Il ciclo, così violento di per se stesso, del denaro che si trasforma in merce e quindi di nuovo in denaro, mostra qui tutta la sua cinicità e violenza proprio perché così anonimo, freddo, disumano è il disprezzo e l'indifferenza mostrati verso colui che tradurrà la merce di nuovo in denaro.
    Il dato che discende da questo, poco esemplare, rapporto tra cinematografia industriale e pubblico giovane è che esiste (in quanto non è profittevole che esista) una specifica produzione cinematografica per i giovani. Un prodotto che ha una vastissima gamma di compratori è sempre preferibile ad uno che invece restringe il suo campo ad un pubblico con ristretta gamma di età: così come non esiste una cinematografia per ragazzi non esiste neppure una cinematografia per anziani.
    Il prodotto ideale è quello che raccoglie in sé le caratteristiche di fruibilità più estese, non solo relativamente all'età, ma anche alle classi sociali. La cinematografia industriale ricerca un prodotto medio che possa andar bene per le classi medio-borghesi e popolari, per gli adulti come per i giovani. In questo senso la commedia all'italiana rappresenta per la nostra cinematografia una sorta di prodotto medio. Se continuiamo a prendere in considerazione la nostra cinematografia nazionale, per esempio negli anni sessanta, notiamo come nei generi, che in questo periodo essa sviluppò, vi sia come costante riferimento il pubblico di profondità, di provincia e delle sale parrocchiali. Sia il basso costo di produzione come l'estesa rete distributiva delle sale permetteva ed imponeva un prodotto medio che riusciva in qualche modo a trovare una sua interna differenziazione. Mentre oggi l'alto costo di produzione e l'altissimo costo del denaro impone un rapido sfruttamento del prodotto; ciò è raggiungibile solo puntando sul pubblico delle prime e del proseguimento prime.
    Tutto ciò ha imposto (e non solo alla nostra cinematografia) un cambiamento strutturale nella costruzione del linguaggio cinematografico. L'industria italiana che ha sempre avuto come riferimento il pubblico popolare e medio-borghese assieme (ad esclusione delle produzioni d'autore che invece puntavano ad un pubblico essenzialmente borghese) ha avuto grosse difficoltà a trasformare una linea produttiva consolidatasi su una produzione destinata alla distribuzione di profondità in una produzione destinata soprattutto alle prime visioni.
    Ciò non ha portato ad un elevamento del gusto, com'era prevedibile, del vecchio prodotto medio italiano, bensì un abbassamento del prodotto diciamo di qualità. Il nostro cinema è letteralmente invaso da porno film, scadenti film d'avventura con qualche poliziotto, privato e non, come interprete, violentissimi karatè di importazione giapponese. Mentre negli anni sessanta il prodotto medio che arrivava in profondità (sino alle sale parrocchiali e quindi ai ragazzi) viveva una stagione di genere tutto sommato molto meno scadente; a cominciare dai films mitologici-fantastorici, al western all'italiana, ai Franchi ed Ingrassia (che si possono considerare un vero e proprio filone).

    LE BATTAGLIE EPICHE DI MACISTE ED ERCOLE

    Abbiamo detto che la prima violenza, la più cinica, che il cinema compie nei confronti di un pubblico giovane è quella mercantile. La seconda (e questa più sottile ed infida) deriva dalla struttura stessa delle immagini. Questa sottile violenza è insita non solo sul ciò che le immagini mostrano, ma soprattutto anche sul come certe immagini vengono mostrate. Spesso, anzi, è attraverso immagini violente o sulla violenza che si riesce a generare ed indurre una coscienza contraria alla violenza.
    Negli anni sessanta, per esempio, si sviluppò un filone generalmente definito genere «pepla» (plurale latino di peplum, l'indumento della romanità). Decine e decine di films del genere pepla vennero girati pensando e tenendo conto del pubblico infantile (il quale, è chiaro, elevò Ercole e Maciste al rango dei suoi più beneamati eroi). Che i registi pensassero al pubblico infantile appare, anche in un'analisi sommaria, per esempio nelle battaglie e nei corpo a corpo. Questi in genere erano lunghissimi e spesso spropositati (vedi i films di Mala-testa), la gesticolazione era stereotipata, i finali scontati, ecc. Tutto ciò, più che cattivo gusto del regista, rappresenta proprio la necessità mercantile di costruire un prodotto vendibile e godibile dal pubblico infantile.
    Tale pubblico riconosce nelle battaglie e nei corpo a corpo di Ercole e Maciste la propria realtà ludica ed arriva all'esaltazione dell'eroe cinematografico nel momento in cui dà il massimo di se stesso, la sua qualità più importante: la forza. Tutto ciò ad una analisi sommaria e superficiale potrebbe sembrare un'esaltazione della violenza fisica, della forza bruta e dunque un esempio negativo per il pubblico infantile. Ma così non è. In primo luogo Ercole non uccide mai in modo evidente e brutale: stordisce, getta qua e là i propri nemici, scaraventa enormi massi facendo cadere interi battaglioni di soldati, lotta insomma alla maniera di molti eroi del muto o anche degli attuali Bud Spencer e Terence Hill. Vi è quindi nella sua lotta l'aspetto del gioco e delle mosse di lotta, più finzione che realtà violenta.
    Ma vi è un secondo aspetto molto più importante di questo: ed è che Ercole (o Maciste, è lo stesso) agisce soltanto per necessità ed in genere per aiutare i deboli contro i tiranni, per aiutare chi sta dalla parte del Bene contro il Male. La sua lotta è lotta per la vittoria ed il trionfo della pace, della giustizia, dell'ordine. La dimensione di tale lotta è epica ed avventurosa e la lotta tra Bene e Male è trascinata in una fantastica immanenza: «In essi, qualsiasi fosse il contesto storico in cui le vicende erano collocate, prendeva corpo una singolare idealizzazione assoluta dell'eroe positivo che, senza riferirsi in alcun modo (come invece facevano i fumetti) alla trascendentalità del Bene, trasferiva in una fantastica immanenza il suo conflitto con il Male, affidando non più o non solo a pure istanze morali il dovere e la certezza della vittoria, ma fondando quest'ultima sulle concrete condizioni di superiorità del Bene, viste come forza fisica o coraggio o tenacia o intelligenza» (L. Miccichè, Il cinema italiano degli anni sessanta, ERI).
    Dunque, se in apparenza le immagini richiamano alla violenza della forza bruta, si ricompongono in tutt'altro aspetto: la propria forza (gioco) è al servizio del Bene: dunque casomai in una comunicazione positiva. Alcuni pensano che potrebbe essere una comunicazione negativa il fatto che il personaggio di Ercole potrebbe indurre un atteggiamento rinunciatario nei confronti della realtà: cioè Ercole è fortissimo, quindi può battersi per il Bene, Io non lo sono quindi non posso battermi, dunque lascio ad altri la battaglia per il Bene.
    Questo ragionamento ha però il vizio di essere un discorso da adulto che non tiene conto che quando un bambino gioca ad essere Ercole e Maciste, egli è veramente Ercole e Maciste, la sua immedesimazione ludica impedisce il richiamo al confronto con la realtà. Tutto ciò è più probabile trovi una sua sedimentazione nel carattere del bambino come ricordo di una battaglia epica per il bene. Se confrontiamo questi epici eroi degli anni sessanta con quelli degli anni '70 dobbiamo per forza riconoscere che quegli eroi erano tutto sommato positivi. Negli anni '70 l'industria, soprattutto quella italiana, punta al rapido sfruttamento del suo prodotto: sfrutta il pubblico delle prime visioni le quali, come ben sappiamo, sono molto meno alla portata delle tasche infantili. Quindi il riferimento ad un pubblico infantile si fa più blando e meno riconoscibile, mentre i nostri films assumono sempre più un'aria generica (ad esclusione del filone commedia all'italiana dove invece vi è un'aria casereccia dato soprattutto la presenza dei soliti tre, forse quattro, onnipresenti e sempre eguali attori). L'eroe cinematografico moderno ha ben poco del personaggio, l'accento si è spostato su ciò che una persona o macchina sociale può generare.
    Il feticcio iconografico è l'azione, la violenza, il sangue, il catastrofismo. Ciò che assurge ad interprete principale nella maggior parte dei films del genere Karatè, o super-poliziotto privato, è la violenza pura. Non è più il buon violento Ercole, l'epico e buon tempone eroe, bensì è un qualunque poliziotto, karateka, bandito che sfoggia le sue proprie capacità per il puro gusto dell'esibizione. Qui la violenza nelle immagini si trasforma in violenza delle immagini. Non solo perché qui le immagini della violenza sono mostrate senza che abbiamo un valore ludico, ma perché in quanto generalmente rapportate alla realtà corrente, mostrano come comportarsi in questa realtà. Anzi è proprio abbandonando l'aspetto fiabesco, magico ed epico ed entrando nella realtà contemporanea che queste immagini trasportano i loro fruitori in un universo in cui la violenza è piacevole di per se stessa.
    Kubrick, da geniale uomo di cinema qual è, è riuscito a comprendere ed interpretare questo futuro prossimo del cinema molto prima che il cinema iniziasse a percorrere questa strada (nel film Arancia Meccanica).

    GLI ANIMALI

    Negli anni '60 la televisione proponeva nel suo spazio dedicato ai ragazzi figure di animali come Rin-Tin-Tin, Lassie, le quali erano bestie amiche dell'uomo ed a lui alleate per aiutarlo a riportare il Bene.
    L'animale antropomorfo assumeva la funzione di subalterno fedele in genere di un bambino (ed è l'unico subalterno che un bambino possa avere) un compagno di giochi ideale perché passivo, ma non inanimato come una bambola. Questi animali ricercavano la mimesi con il proprio padrone umano il quale era buono, eternamente alla ricerca di compiere buone azioni; dunque se questi animali morsicavano ed assalivano un uomo lo facevano solo a fin di bene.
    Ma nel cinema vi è anche un'altra tendenza che solo oggi è arrivata al suo compimento. Se la prima tendenza ci mostra degli animali fedeli all'uomo e suoi alleati nella ricerca del Bene, la seconda tendenza fa leva sulla paura sempre latente in noi che gli animali si rivoltino all'uomo.
    «La presunzione che una qualche legge divina (oltre che naturale) ci abbia resi padroni della vita e della morte sul regno animale, lascia il posto al terrore quando ci assale il pensiero che le bestie possano capovolgere l'attuale equilibrio a nostro svantaggio» (Massimo Moscati).
    Questa tendenza cinematografica si può far risalire al vecchio Kong (a dire il vero il più antico bestione è quella specie di Gorgo del film di Harry Hoyott del 1925: The Lost World, tratto da un racconto di A. Conan Doyle) un povero gorilla, una specie di enfant sauvage disturbato dalla società industriale, che rifiuterà di essere integrato nel sistema. «Se Kong viene ucciso (prima di una scimmia esso è una fiera), in ultima istanza a causa dell'impossibilità ad addomesticarlo, a contenerlo nella misura dello spettacolo (cose che del resto il film iscrive anche nella finzione: è proprio quando si libera a teatro e fa fuggire il pubblico che la scimmia segna la sua condanna a morte). L'eccesso di imitazione, come nel caso di Kong, o l'incompatibilità di quest'ultima, come nel caso della fiera tradizionale, ne decretano l'esclusione. I danni che la bestia provoca devono essere accuratamente preordinati: bisogna assolutamente che il loro spettacolo abbia una misura. La bestia esercita così una minaccia che non è soltanto quella iscritta nella finzione (invasione dello spazio urbano e quotidiano che nel caso del mostro, diventa anche intrusione dell'irrazionalità): essa minaccia lo spettacolo con la sua eterogeneità e la sua differenza. Quando non può essere addomesticata, la bestia deve morire» (E. Ungari).
    Oggi la tendenza è diventata più raffinata e pericolosa poiché punta sulle angosce più inquietanti della nostra epoca moderna.
    Lo psichiatra Alfred Messer ha scritto a proposito di Jaws: «Il pescecane è l'incarnazione delle forze mostruose ed implacabili che agiscono all'interno della società moderna. Strapotere dei gruppi economici, lotte politiche sotterranee, urto di interessi occulti all'interno delle nazioni e fra le nazioni, col rischio di catastrofi mondiali».
    Jaws (Lo squalo) e films similari come Tentacoli, Tintorera eccitano nel pubblico il suo sadismo anche quando le immagini non sono eccessivamente violente: la loro violenza è sotterranea e micidiale ed alimenta nel pubblico infantile paure ed angosce che provocano danni molto gravi.
    «In una fase storica come quella attuale in cui in realtà è l'uomo a costituire un pericolo per la natura e non viceversa, il riferirsi ad un concetto di natura come minaccia vuol dire, – oggettivamente – (cioè al di là delle migliori intenzioni " soggettive "), riproporre posizioni mistificanti ed ideologicamente inaccettabili, tanto più quanto esse sono lo strumento per instaurare un rapporto alienante con il pubblico» (Vittorio Giacci).

    IL FILONE CATASTROFICO

    La violenza dell'industria cinematografica si esercita anche quando, per produrre un oggetto che renda sul mercato, si punta sulle angosce sotterranee dei fruitori. L'angoscia più comune delle masse dei paesi occidentali industrializzati è quella di essere colpite da un black-out tecnologico oppure da un disastro ecologico, ma soprattutto da una guerra atomica. L'industria cinematografica statunitense ne ha fatto buon uso («In ogni film inserisco elementi per far presa su qualsiasi settore del pubblico. Towering inferno ha cinque storie d'amore per i sentimentali, favolose avventure per i bambini un tocco di filosofia per gli anziani e un messaggio di speranza per i ragazzi e le coppie di giovani sposi» (Irwin Allen).
    ) sfornando una serie di films che, come ha scritto lo psicanalista Ignazio Majore: «Sfruttano un'esigenza molto diffusa nell'uomo contemporaneo: rappresentano uno stato di pericolo analogo a quello della guerra totale, che le armi nucleari e la loro capacità distruttiva hanno reso praticamente possibile. Questi films danno la rappresentazione della fine del mondo e del suo superamento. Mobilitano, per così dire, un meccanismo d'assaggio e di difesa».
    Stabilire un preciso nesso di causalità tra films del tipo: Towering inferno (L'inferno di cristallo), Earthquake (Terremoto), Airport 75, The Day the World Ended e le reazioni degli abitanti di New York nel recente black-out è imprudente. Tuttavia non si va molto lontani dalla realtà affermando che tra i due vi è un certo rapporto di causalità reciproca. Certo che l'elemento primario è la civiltà disumana, alienante, tecnocratica, di una megalopoli quale New York dove l'eccessiva dipendenza umana da ciò che l'uomo ha prodotto rende i rapporti umani labili e latentemente violenti.
    «Èproprio lo sviluppo tecnologico, e il conseguente fondarsi della vita collettiva su strutture altamente raffinate, ad introdurre nella vita delle società industrialmente sviluppate un elemento profondo di fragilità interna» (A. Gambino). Tant'è vero, come risulta dal rapporto di John Siegal che dirige il centro di studio sulla violenza urbana della Brandeis University, che nei quartieri poveri di Harlem e Brooklyn molti individui nell'atto di saccheggiare i negozi «quasi dimenticavano se stessi, passavano minuti preziosi a distribuire merci ai nuovi venuti, o addirittura scaraventavano tutto sui marciapiedi, a disposizione dei passanti». Il saccheggio dunque supera la sua dimensione di appropriazione indebita per entrare a far parte di quella violenza fine a se stessa. Ad alimentare questo universo latente della violenza urbana oltre ai problemi specifici della megalopoli sono anche i mass-media:
    «Un'altra origine della violenza collettiva va ricercata nel sistema pubblicitario, che del consumismo è uno dei pilastri fondamentali. La pubblicità, in modo al tempo stesso martellante e persuasivo, presenta infatti modelli di realtà che rimangono poi costantemente, ed inevitabilmente, non realizzati: le bevande che tolgono di colpo il caldo e la sete, le medicine che eliminano subito tutti i malanni, l'automobile che non si rompe mai, le vacanze esotiche ricche di scoperte ed avventure (invece che di polvere, di mosche, di attese in aeroporti sgangherati). L'accumulazione di una enorme carica sotterranea di rancore e di rabbia è il risultato sicuro di questo sballottamento tra le illusioni collettive, insinuate sottilmente nella mente di ognuno, e le delusioni individuali» (A. Gambino). Ora, la realtà italiana non è ancora arrivata ai grandi livelli della società statunitense e dunque questi films potrebbero sembrare legati soltanto alla specifica realtà U.S.A. Questa affermazione però non tiene conto che nella nostra era i sistemi di comunicazione sono raffinati, veloci ed internazionali. La dimensione dell'interscambio internazionale è a livelli talmente alti che non si possono più ignorare gli effetti, per esempio, di una guerra nel Medio Oriente o nell'Africa, o della crisi energetica sulla psicologia delle masse dei paesi industrializzati. L'Italia infine vive delle realtà megalopoliche, non soltanto come presenze urbane, ma anche come presenze extra urbane: i rapimenti, gli attentati terroristici, i disastri ecologici.
    È chiaro così perché questi «mostri del consumismo» (come chiama Massimo Moscati i films catastrofici) riescono a sfondare anche sul pubblico più casereccio italiano. In un sondaggio da me effettuato su un campione di circa quattrocento ragazzi di scuola media risulta che la stragrande maggioranza di questi ha visto i films del genere catastrofico (con straordinaria omogeneità tra maschi e femmine) e tutti ne sono rimasti profondamente impressionati.
    A questo punto ci mancano delle ulteriori indagini sia di tipo sociologico e psicologico le quali ci permettano di stabilire gli effetti a breve e lungo termine; si possono per ora tentare solo delle ipotesi. In primo luogo quella che il genere catastrofico spinga su posizioni di estremo individualismo, in quanto in questi films l'individuo spesso riesce dove invece una collettività angosciata e confusionaria fallisce. Oppure anche in una posizione tipo il «si salvi chi può», dunque quel chi può sono IO e degli altri chi se ne importa: perciò egoismo, scarso senso della collettività, paura regressiva dello sviluppo della civiltà.
    Questi films sono troppo pericolosi perché noi li si possa trascurare: devono essere studiati a fondo, visti ed analizzati assieme ai ragazzi cercando con loro di formulare un preciso intervento decodificante.

    VIETATO AI MINORI DI...

    Un ultimo esempio di come il cinema possa esercitare violenza nei confronti dei «minori di...» sono i films del genere pornografico. Certo questo non direttamente come immagini e nemmeno come prodotto, visto che i pomo-films sono quasi tutti vietati ai minori di anni 18. Come si esercita allora la loro violenza? Personalmente credo proprio nel loro divieto: paradossalmente è proprio la presenza negata di films sul sesso ad indurre nei ragazzi una curiosità morbosa, sessualmente negativa. I quattordicenni più sviluppati che magari riescono a passare anche in visioni vietate ai 18 usano raccontare, con dovizia di particolari, i films ai loro amici più giovani (naturalmente questo per farsi belli ed adulti). Questi si creano delle stranissime ansie di crescita per raggiungere così i fatidici quattordici, sedici, diciotto anni.
    Non credo perciò che il divieto protegga in questo modo i minori, ma anzi li danneggi. Credo che il problema della iconografia erotica e pomo vada risolto con mezzi pedagogicamente più intelligenti e moderni che il vecchio, quanto inutile metodo, di nascondere la marmellata.

    CHE FARE?

    Sarebbe utopistico, se non addirittura sciocco, che noi pensassimo che l'industria del cinema possa redimersi a breve termine dai propri peccati. Il profitto è il suo scopo e tale rimarrà ancora per molto; quindi ancora per molto dovremo fare i conti con un prodotto cinematografico che esercita su di noi la sua violenza sia come merce che come iconografia organizzata. Parimenti serve poco anche l'educare lo spettatore ed in particolare i ragazzi, ad uno spettacolo di qualità e di stile.
    Dobbiamo invece prendere in considerazione il cinema così com'è, dando ai ragazzi gli strumenti necessari per la lettura, la decodificazione del linguaggio e dei messaggi cinematografici.
    Sicuramente il mezzo migliore per non essere violentati dallo establishment culturale è avere coscienza della sua struttura interna e dalla sua conoscenza, probabilmente, potranno nascere le possibilità di un suo ribaltamento.


    T e r z a
    p a g i n A


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