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    Quale Pasqua per i giovani?


    Franco Floris

    (NPG 1978-03-40)


    Le esperienze raccontate sorprendono per la loro originalità e soprattutto per l'enorme mole di attività svolta da questi gruppi nei giorni di Pasqua.
    Non bisogna tuttavia sopravalutare queste esperienze. È importante ricordare la reale situazione di distanza e, quantomeno, di diffidenza dei giovani per la celebrazione della Pasqua. A queste esperienze può essere applicato il proverbio «una rondine non fa primavera».
    L'importanza delle esperienze, prima ancora che dai contenuti singoli, va allora misurata dagli stimoli che esse offrono agli educatori per ripensare la celebrazione della Pasqua nei loro gruppi giovanili. Perché, in altri termini, «fare Pasqua» non si riduca alla messa e alla confessione come biglietto obbligatorio di accesso alla comunione.

    Giorni di intensa attività

    Nelle tre esperienze, le festività pasquali, per essere celebrate adeguatamente, sembrano esigere, entro certi limiti soprattutto di età, la vita di comunità a tempo pieno. Per alcuni giorni si vive «insieme». E così la Pasqua è anzitutto pasqua della comunità. I singoli trovano spazio al suo interno, non come qualcosa a cui demandare la propria responsabilità ma come qualcosa che supera i singoli assumendo e autenticando le loro scelte.
    Occorre chiarire subito un equivoco che nasce dal rilevante numero di attività presentate nelle esperienze. La loro validità non è legata alla quantità delle cose che fanno, né alla stessa vita comunitaria a tempo pieno a cui si è chiamati per vivere insieme nella preghiera, riflessione, incontri di gruppo e così via. Va invece valutata a partire da due criteri, o meglio da due poli entro cui dinamicamente deve situarsi tutto ciò che si fa nei giorni di Pasqua.
    È fondamentale in primo luogo che il gruppo sia cosciente del ruolo specifico delle celebrazioni pasquali rispetto alla vita cristiana e ne rispetti la identità. Questo è il primo criterio.
    Rispettare l'identità di quei giorni, così come la vita della chiesa l'ha precisata lungo i secoli, non è però sufficiente. Occorre valutare le esperienze anche sulla base della assunzione o meno della cultura del gruppo che celebra, sulla base cioè della capacità di collegarsi al vissuto del gruppo, per far emergere la portata pasquale delle sue esperienze, per giudicarle cioè alla luce della morte e risurrezione di Gesù.
    Approfondiamo i due criteri e commentiamo, alla loro luce, le esperienze.

    PASQUA, «GIORNI DI CELEBRAZIONE»

    Giocando un poco sulle parole possiamo dire che Pasqua non è i giorni di Pasqua. La Pasqua è in realtà il «passaggio» lento e faticoso e, allo stesso tempo, sereno e fiducioso, che ogni comunità cristiana e, più in generale, l'umanità tutta, fa dalla sua «schiavitù» alla sua «libertà». Un cammino che si svolge, giorno dopo giorno, in famiglia e a scuola, nella fabbrica e nei gruppi di aggregazione umana. È lì che si gioca la Pasqua. I «giorni di Pasqua» non sono che la celebrazione (e il compimento) di questo passaggio; sono i giorni della «grande celebrazione».
    L'esperienza del popolo ebraico, così come ci viene narrata dal libro dell'Esodo, può chiarire il senso delle affermazioni. La Pasqua del popolo ebraico è il suo «esodo» dall'Egitto, la sua liberazione dalla schiavitù, il suo lento costruirsi una identità di popolo. La celebrazione della Pasqua nasce invece dopo, quando il popolo, illuminato dallo Spirito, ripensa ai grandi fatti della sua storia e li afferra come luogo in cui Dio gli ha manifestato la sua potenza protettrice, lo ha «salvato». A partire da questa «lettura di fede» della storia il popolo sente il bisogno di celebrare la sua storia e, soprattutto, il suo liberatore e lo fa in una grande festa che, nel canto e nell'azione di grazie, culmina nella cena dell'agnello. E poiché, proseguendo nella sua lettura di fede della storia, il popolo si rende conto che la liberazione di Dio lo accompagna sempre, facendogli fare continuamente nuove esperienze di libertà pasquale, ogni anno il popolo si ritrova per la grande celebrazione. Il senso delle festività pasquali non è molto diverso per noi cristiani. Noi sappiamo che, come per il popolo ebraico, Dio combatte a nostro fianco, aiutandoci a «fare Pasqua» nel nostro quotidiano, dando anzi a tutti gli uomini la capacità di fare Pasqua nella loro vita. Giorno per giorno siamo impegnati a vivere il dono della Pasqua e a leggere, nella fede, gli eventi della vita come «storia della salvezza». Una lettura oscura che approfondiamo nei cosiddetti giorni di Pasqua e che ci apre alla celebrazione del senso della nostra vita e della storia e soprattutto alla celebrazione di Cristo liberatore della storia.

    Gli elementi costitutivi della celebrazione

    Delineato il senso globale dei giorni di Pasqua, approfondiamo alcuni aspetti relativi al concetto di celebrazione.
    Tutto ciò che si fa e si vive in quei giorni ha senso se letto e collegato correttamente con ciò che è, per così dire, «al di fuori» di quei giorni. In altri termini, tutto ha valore «simbolico», tutto è gesto simbolico. Due esempi.
    La cena del giovedì trova il suo senso profondo in quanto simbolo della liberazione gratuita di Dio e del nostro impegno nella storia come risposta. Allo stesso modo, l'andare a trovare i poveri, in quei giorni, è gesto simbolico perché (se non vuol essere un gesto farisaico) riprende e dà significato a quel servizio ai poveri che si vive giorno dopo giorno.
    I gesti simbolici, nella loro interpretazione pasquale, hanno delle connotazioni che è opportuno ricordare.
    Essi anzitutto nascono da una lettura di fede della storia, dalla consapevolezza cioè che Dio, in forza della morte e risurrezione di Cristo, sta salvando l'uomo e la sua storia. Sono sempre gesti della fede, comprensibili solo nella fede. In secondo luogo sono gesti di un popolo, di una comunità che riconosce nel suo essere popolo e comunità il termine ultimo della liberazione di Dio. Ogni comunità è frutto della Pasqua e la Pasqua celebra la comunità nella sua dimensione di dono e impegno. I gesti simbolici sono allora gesti comunitari perché «parlano» della comunità e perché sono posti da una comunità, che è qualcosa di più e di diverso che non la somma dei suoi membri.
    Nei gesti simbolici è fondamentale il rapporto con la storia: essi sono memoria del passato, significazione del presente, profezia del futuro. In ogni celebrazione si fa memoria del passato, primo fra tutti il passato dell'evento unico e decisivo della morte e risurrezione di Cristo, per cogliere il cammino della storia come storia della salvezza e per proclamare l'evento Cristo che a questa storia dà direzione e spinta. In ogni celebrazione poi ci si immerge in una lettura di fede del presente per cogliere, al di là dei singoli fatti i segni positivi e i segni negativi del regno di Dio che si compie nel tempo. Così facendo la comunità proclama a se stessa e al mondo intero la salvezza e adempie al suo compito di rivelatrice al mondo del senso profondo del cammino della umanità. I gesti simbolici sono infine profezia del futuro: sono l'annuncio di ciò che ancora non è ma sarà, l'annuncio di cieli nuovi e terra nuova, come dono di Dio e frutto della fantasia creatrice dell'uomo.
    Tutto si svolge in un clima di festa, canto, gioia non ingenua. Una gioia che non nasconde i mali del presente ma che è anima della lotta per combattere proprio questi mali. Una «festa nella lotta», per ritrovare la certezza della vittoria e la forza per realizzarla.
    Infine i «gesti», nel senso stretto del termine, attorno a cui la celebrazione trova unità e slancio. Senza i gesti, senza il movimento del corpo, senza la mediazione degli oggetti che ci circondano, i nostri atteggiamenti profondi rischiano di rimanere prigionieri di se stessi, vaghi e poveri.
    Compiere, coscientemente, dei gesti permette alla comunità di celebrare con pienezza e di proclamare, proprio attraverso loro, il senso profondo della storia e del proprio essere popolo di Dio in cammino, in un Regno che è «già ma non ancora».

    Le esperienze alla luce del senso delle celebrazioni pasquali

    Gli accenni appena fatti di teologia della celebrazione permettono una prima valutazione delle esperienze.
    Tutte sembrano evitare il rischio del formalismo di chi vive intensamente le feste senza avere in realtà dei grossi contenuti da celebrare o per scarsità di impegno nel quotidiano o per incapacità di leggere il proprio impegno con quelle categorie pasquali che aprono alla celebrazione. Non solo da tutti i gruppi viene sottolineata la continuità di questi giorni con la vita ordinaria della comunità; ma tutti presentano la Pasqua-festa come punto di arrivo di una intensa Pasqua-vita e come punto di partenza per una nuova qualità di vita.
    Grande spazio viene dato, nella riflessione di gruppo in cui ci si lascia giudicare dalla parola di Dio, nello scambio e nel confronto delle esperienze, nei momenti di silenzio, deserto e adorazione, alla lettura di fede della propria vita, lettura che permette di arrivare in modo corretto a «celebrare nella fede», a porre dei «gesti di fede».
    In primo piano è sempre la comunità. I giorni di Pasqua sono vissuti da tutti come giorni di vita comunitaria. Per favorirla, rompendo gli schemi della vita quotidiana, alcuni, come gli Scout e gli adolescenti di Casa Serena, escono dalla città; altri, come quelli di Bolzaneto, pur rimanendo in città, sembrano inventare di tutto per fare comunità a tempo pieno.
    Tuttavia non si vuole fare «ghetto». Si cerca la gente, la si va a cercare nei paesi e nelle case, la si interroga sul «perché vivere o non vivere», la si disturba con i canti nelle strade, i recital in piazza. Si va a trovare gli ammalati, si passano alcune ore in fabbrica per manifestare solidarietà con degli operai in sciopero.
    Gli altri sono, in particolare, i cristiani. Si va nei paesi per incontrare la chiesa reale, per pregare e celebrare con gente fino ad allora sconosciuta ma con cui ci si ritrova nella confessione del Cristo risorto, in uno stile di vita, in un fascio. di valori.
    La carica utopica, verso una nuova qualità di vita, già evidente nella vita comunitaria di quei giorni, viene accentuata dal clima di festa. Si esprime nel canto e nel falò, nell'happening nella piazza del quartiere e nella animazione dei giochi dei bambini in un paese. La festa diventa speranza, annuncio che è possibile un mondo nuovo, una vita diversa, assumendo, fin d'ora, come logica di vita, la logica della croce e della risurrezione.
    Dentro la nuova logica di vita assumono volto i numerosi gesti di servizio che, prolungando l'immagine di Cristo servo-liberatore, celebrano la vita di servizio in cui ci si ritrova e perciò la forza rivoluzionaria di chi dimentica se stesso per servire gli altri.
    Andare a trovare i malati, manifestare la propria solidarietà con gli operai in sciopero sono presentati come gesti simbolici, proprio perché fanno rivivere quello che è, per tutti i gruppi, un costante impegno di vita.
    Non meno caratteristico è lo spazio dato ai momenti di silenzio, deserto, interiorizzazione in cui filtrare con calma la propria vita e in cui rendersi padroni di tutti i momenti della grande celebrazione pasquale. Ciò lascia supporre nei gruppi un giusto equilibrio tra Pasqua di gruppo e pasqua personale, tra ricerca di identità di gruppo e risposta personale al senso della vita in Cristo.

    L'INFLUSSO DEI MODELLI E LA ASSUNZIONE DELLA CULTURA GIOVANILE

    Come si sia giunti a questo modo di celebrare la Pasqua è difficile dirlo.
    Grande importanza sembra aver avuto il contatto con modelli di «Pasqua giovane» già realizzati; soprattutto quelli di Taizè, Bose, Spello, tanto per citare i più conosciuti.
    I gruppi, per apprendere cosa vuol dire fare Pasqua, hanno dovuto uscire dai loro ambienti e recarsi nei nuovi «santuari» della spiritualità giovanile, la cui originalità sta soprattutto nell'aver tentato una integrazione fra la celebrazione della Pasqua come si è venuta strutturando, lungo i secoli, nella chiesa e la nuova cultura giovanile.
    A Taizè e Bose molti hanno imparato a fare Pasqua e tornati a casa hanno provato a inventare un modo di fare Pasqua a misura del proprio gruppo e della propria comunità cristiana. Questo sforzo di creatività per molti gruppi si è spento rapidamente, sia per non aver saputo decantare la emotività con cui si vive in luoghi come Taizè, sia perché l'ambiente, soprattutto i sacerdoti responsabili della liturgia, non hanno accolto il bisogno dei giovani di celebrare Pasqua in modo nuovo. Per altri poi tutto si è risolto nella ripetizione, spesso sterile, di ciò che avevano visto a Taizè o Bose, dimenticando che l'importante non era ciò che si faceva, ma' il come si arrivava a decidere che cosa fare. Altri infine hanno proseguito idealmente il cammino iniziato a Taizè o Rose e si sono impegnati a ripensare la celebrazione della Pasqua dentro la cultura, lo stile di vita, i valori emergenti nel proprio gruppo e comunità.

    CELEBRARE «DENTRO» LA CULTURA GIOVANILE

    Da rapidi cenni ad esperienze come quelle di Taizè è emersa l'importanza della attenzione alla cultura giovanile.
    Se pensiamo un attimo alla estraneità che tanti giovani, coscienti della loro identità cristiana, provano nel partecipare alla liturgia dei giorni di Pasqua ci rendiamo conto della serietà del problema. Il fatto che i giovani non si sentano interpretati dalle feste pasquali è certo da attribuire alla scarsa evangelizzazione e alla scarsa comprensione del ruolo della celebrazione nella celebrazione nella vita, ma, quando sono soprattutto i giovani più sensibili a sentirsi estranei, bisogna cercarne le ragioni anche in un certo modo di celebrare la Pasqua che non riesce più ad integrarsi con la cultura giovanile. E questo è facile non solo quando la celebrazione della Pasqua è ridotta ad una liturgia il cui unico criterio è la fedeltà alle rubriche ma anche nel caso in cui, superata la identificazione fra fare Pasqua e liturgia, è l'adulto (l'animatore del gruppo) che decide che cosa fare e lo propone in modo più o meno direttivo.
    Il secondo criterio, annunciato fin dall'inizio, con cui valutare le esperienze è proprio la capacità o meno della celebrazione della Pasqua nel suo insieme, di assumere la visione della realtà che hanno i giovani, il loro progetto di vita, le loro attese e delusioni, i valori in cui credono. Di questa integrazione possiamo avere degli indici nel linguaggio che si adopera nella liturgia, nel tipo di musica e nelle parole dei canti, nella conduzione più o meno democratica, più o meno decentrata della liturgia, nel ritmo con cui si procede, nella possibilità data a tutti di prendere la parola, nella attenzione ai fatti sociali e politici. Ma non basta. Tutti questi indici possono denotare un certo livello di integrazione positiva, ma non ancora sufficiente. In fondo quanto detto può andare bene per ogni celebrazione con giovani e anche con adulti.
    Occorre un passo successivo. Lo spieghiamo rifacendoci alle esperienze. Se confrontiamo la Pasqua degli Scout e quella di Bolzaneto ci accorgiamo che sono due modi diversi di celebrare la Pasqua. Gli Scout sono riusciti a ricreare dal di dentro i giorni della Pasqua, vivificando e unificando tutto dentro la loro «spiritualità della strada», fatta di «uscite» fuori, contatto con la natura, cammino in gruppo, deserto, comunità e servizio. Quelli di Bolzaneto, a loro volta, impegnati soprattutto nella vita di quartiere e nella animazione degli adolescenti e ragazzi della parrocchia, hanno inventato un modo di vivere la Pasqua che, pur fedele agli stessi temi di fondo che si ritrovano nella Pasqua Scout, ruota intorno ad intuizioni tipiche del loro gruppo come quella della identità cristiana come servizio, i cristiani come anima del quartiere, la fede come rottura con certi schemi di vita più o meno borghesi e conformisti, la festa nella lotta come esistenziale cristiano, l'impegno politico come allargamento dei confini del regno di Dio...
    La validità delle due esperienze sta proprio nel fatto che, attraverso intuizioni maturate in anni di vita di gruppo, esperimenti più o meno riusciti, partecipazione ad esperienze diverse dalla loro e ripensate su misura delle loro esigenze, hanno dato origine ad un certo modo di fare pasqua.

    Un modo nuovo di celebrare la Pasqua

    La direzione che la creatività di questi gruppi ha assunto merita ulteriore attenzione perché, nell'insieme, hanno spostato i termini del come celebrare Pasqua.
    Essi sembrano in effetti aver superato l'identificazione tra fare pasqua e partecipare alla liturgia, nel senso che non riducono più il fare Pasqua alla liturgia, a quello che si fa in chiesa. Neppure in passato tutto si riduceva alla liturgia. Ma allora ciò che non era liturgia era solo preparazione o contorno al «fare Pasqua» nella liturgia.
    Qui sembra invece che sia stato allargato il concetto stesso di celebrazione. Tutto quello che si vive in quei giorni è parte integrante ed ha un suo ruolo preciso nella «grande celebrazione». Per loro non ha senso chiedersi qual è l'elemento più importante, ma se l'insieme assicura o meno una convincente celebrazione della Pasqua. Del resto, senza negare il posto centrale della liturgia nella celebrazione della Pasqua c'è da chiedersi fino a che punto essa sia in grado di esaurire ciò che si vuol celebrare.
    La liturgia, per la concisione, essenzialità e complessità che le sono caratteristiche, non sembra in grado di soddisfare certe esigenze. Così, per fare un esempio, la lavanda dei piedi come celebrazione del servizio e impegno di liberazione non è un gesto simbolico sufficiente e adeguato. Il gesto di spazzare una parte del quartiere è invece, per i giovani, un gesto simbolico molto più provocante e incisivo. Un altro esempio è quello della comunità. Fino a che punto la comunione che si realizza tra le persone nella liturgia è un gesto simbolico che permette di cogliere la ricchezza dell'essere comunità e può dare spazio ad una adeguata celebrazione?
    La vita di comunità invece a cui, simbolicamente, ci si impegna tutti per alcuni giorni è un gesto molto più carico di significato che permette di godere l'essere comunità nella sua dimensione di dono e impegno.
    È come risposta a questo bisogno di celebrare la salvezza attraverso segni più comprensibili e provocanti che sono da interpretare i diversi modi di fare Pasqua presentati nelle esperienze.
    I gesti di servizio, i momenti di contemplazione (soprattutto nella liturgia) dei momenti salienti della vita di Cristo, gli incontri di riflessione in gruppo illuminati dalla parola di Dio, i momenti di silenzio e deserto per ritrovare se stessi dentro il mistero della Pasqua, l'uscire dalla città per alcuni giorni, la celebrazione della riconciliazione, le attività organizzate per incontrare la gente, la vita di comunità in un clima di correzione fraterna, attenzione reciproca, festa: tutto questo, in un insieme organico che rispetta lo specifico del gruppo, fa parte integrante della celebrazione della Pasqua.

    La liturgia nella celebrazione della Pasqua

    L'aver allargato di fatto il concetto di celebrazione non vuol dire non riconoscere il posto specifico della liturgia nell'insieme delle celebrazioni.
    Dalle relazioni dei gruppi filtrano tuttavia in mezzo ai molti aspetti positivi, a proposito della liturgia, alcune ombre.
    Incominciamo da tre rilievi positivi. Significativo 'è il rifiuto di celebrare in quei giorni delle liturgie di gruppo. Anche chi, come gli Scout e gli adolescenti di Casa Serena, vive una esperienza per così dire, «fuori» della città, sente l'esigenza, soprattutto per la veglia pasquale, di celebrare con un'assemblea più vasta, anche per mettere a disposizione della comunità in preghiera la propria sensibilità religiosa e le proprie capacità di animazione.
    Da rilevare positivamente anche la celebrazione comunitaria della riconciliazione, nell'arco delle feste pasquali, non più come un passaporto per la eucaristia ma come un gesto coraggioso di speranza. Specialmente per quelli di Bolzaneto la riconciliazione è vissuta come momento comunitario di largo respiro. È il rifondare con una coraggiosa decisione, carica di speranza, la propria vita.
    Positiva infine la riscoperta di altri momenti di preghiera comunitaria, soprattutto al mattino, e di tempi di contemplazione personale, soprattutto la notte.
    Forse però traspare un eccessivo moltiplicarsi di momenti di preghiera senza che ne venga giustificata la presenza nell'arco dei tre giorni. A volte poi sembra di trovarsi di fronte ad una doppia liturgia, come nel caso della cena dell'agnello e della eucaristia al giovedì santo e nel caso della celebrazione della croce e della Via Crucis al venerdì. Tanto più che la vitalità con cui vengono vissuti momenti come la cena dell'agnello e la Via Crucis sembrano sottintendere una certa opposizione fra una liturgia ufficiale a cui si riconosce di dover partecipare ed una liturgia di base che realizza con più evidenza le aspirazioni del gruppo, in quanto permette un aggancio più esplicito con il suo vissuto.
    Dall'insieme delle relazioni non risulta poi che la creatività dei gruppi abbia trasformato di molto la liturgia pasquale. Risulta anzi uno squilibrio tra la creatività che i gruppi manifestano in altri momenti come i gesti simbolici di servizio e i gesti di annuncio della risurrezione alla gente e la staticità della liturgia a cui prendono parte. Solo gli scout, forse proprio perché in alcuni giorni, ad esempio al giovedì, celebrano da soli, durante una sosta del loro cammino, lasciano intravedere una certa creatività. Purtroppo non si soffermano a descrivere lo stile, i gesti e i contenuti di queste celebrazioni.

    Lo «specifico» della liturgia pasquale

    L'allargamento del concetto di «celebrazione» ripropone in modo nuovo una domanda, quella dello «specifico» della liturgia rispetto alle altre forme di celebrazione.
    Se la celebrazione della Pasqua è data dall'insieme delle attività simboliche che si compiono in quei giorni, qual è il ruolo della liturgia? Una risposta va cercata in tre ordini di riflessioni.
    Il primo è relativo al ruolo unico e determinante della morte e risurrezione di Cristo nella storia. Se è vero che la liturgia celebra la storia in quanto è storia della salvezza non è meno vero che celebra anzitutto la vita, la passione, la morte e la risurrezione dell'uomo Gesù che ha fatto sì che la storia diventasse luogo della salvezza. La liturgia dentro le celebrazioni pasquali ha soprattutto il compito, rispetto ad altri momenti, di contemplare il Cristo come centro di tutta la storia e di celebrarlo come «gesto di Dio» per noi.
    Il secondo ordine di riflessione riguarda il rapporto tra la storia e la liturgia. Della liberazione che si compie, giorno dopo giorno, nella storia la liturgia accentua soprattutto, anche se non unicamente, l'aspetto del «dono», della gratuità della salvezza. Anche quando chiede all'uomo di fare memoria della storia come frutto del suo impegno, la liturgia lo fa per trovare motivo per rendere grazie al Padre, in Cristo.
    Il terzo ordine di riflessioni riguarda infine il rapporto diretto tra la liturgia e le altre celebrazioni. La liturgia in questo rapporto emerge come «celebrazione delle celebrazioni», momento simbolico supremo e riassuntivo di tutti gli altri momenti simbolici che, come abbiamo visto, possono e devono caratterizzare la Pasqua dei giovani. Non c'è opposizione ma complementarietà. I gesti simbolici permettono di vivere, amplificandole, tutte quelle dimensioni della vita che nella liturgia sono celebrate in modo per così dire globale. L'importante è che la liturgia «riprenda», nel suo svolgersi, tutti questi momenti. Che ci sia cioè una significazione reale di tutto nella Pasqua di Cristo.


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