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    Lo «stare assieme» come nuova cultura?



    Mario Pollo

    (NPG 1978-09-34)


    PER COMPRENDERE UN DATO DI FATTO

    Chi sta con gli adolescenti di oggi, si accorge subito di un fatto nuovo: la ricerca del gruppo è legata a modelli culturali diversi da quelli di pochi anni fa. Si sta assieme per stare assieme... Sembra che tutto finisca lì.
    C'è davvero una svolta culturale? Quali ne sono le ragioni?

    Prima di cercare le ragioni di questo fatto, è opportuno ridimensionarlo. È vero che assistiamo ad una grossa ricerca del gruppo primario da parte degli adolescenti. Non credo però che si possa parlare di un fenomeno totalmente tipico di questa generazione. Io parlerei piuttosto di accentuazioni, di tendenze. Quali ragioni spingono gli adolescenti di oggi verso il gruppo? Ne individuo soprattutto due, da aggiungere alle riflessioni psicosociologiche generali.
    Ci troviamo in un tempo di grave disgregazione istituzionale.
    Questa crisi scatena la componente ansiosa degli individui. L'adulto ha possibilità di controllare lo stato di crisi: la vive più all'interno che all' esterno, in uno stadio più interiorizzato.
    La crisi tocca invece profondamente l'adolescente.
    Il gruppo permette di regolare i rapporti interpersonali e quindi di realizzare una esperienza di interscambi, di confronti con gli altri, senza la componente di angoscia che si scatena invece quando i rapporti non sono sufficientemente regolati e codificati dall'istituzione, come capita appunto in questo periodo di disgregazione istituzionale.
    Il gruppo, per gli adolescenti, esercita oggi perciò una funzione di difesa. La crisi istituzionale scatena ansie persecutive, spingendo a recepire l'altro come «oggetto cattivo» da cui difendersi.
    Dentro il gruppo si tenta di recuperare l'altro solo come «oggetto buono». Da qui la paura di perderlo: la ricerca del calore confortante che proviene dall'altro.
    Nella realtà, però, gli altri sono sempre contemporaneamente «oggetto buono» e «minaccia»: una visione realistica e matura dell'altro aiuta a cogliere le cose tranquillamente, neutralizzando gli aspetti negativi e sottolineando quelli positivi.
    Quando invece nel gruppo manca un equilibrio corretto (cosa che capita facilmente a livello adolescenziale), la cosa più importante è di non mettere in crisi il rapporto positivo, la rassicurazione contro l'angoscia, la ricerca dell'oggetto buono. Così il gruppo si ripiega su se stesso. Ha paura di rompere e superare gli equilibri raggiunti. Tutti sono d'accordo, inconsapevolmente, di controllare e rifiutare ogni minaccia alla coesione di gruppo.
    In questo senso ho definito il gruppo come «luogo di difesa»: luogo che serve agli adolescenti per compensare le esperienze di angoscia incontrate nella società. La coesione è assicurata da una forte dipendenza: da un leader carismatico, da un'idea, da un progetto. Oppure, spesso, dal bisogno di stare assieme: si dipende dalla paura di perdere il gruppo.
    Desidero subito mettere le mani avanti. Sto descrivendo e comprendendo la realtà; non la voglio giudicare troppo affrettatamente. Sono convinto che questo gruppo, nonostante i suoi rischi, sia una necessaria valvola di sicurezza per i nostri adolescenti... se non vogliamo perdere un mucchio di giovani, mandati allo sbaraglio in una società disgregata come è la nostra.
    Secondo me, inoltre, esiste una ulteriore ragione che spiega l'attuale evoluzione dei gruppi giovanili e permette di coglierne la valenza positiva e innovativa.
    Negli anni caldi della contestazione sessantottesca e della scoperta del politico, si è spesso cre-
    duto che la salvezza dell'uomo, della sua individualità e dei suoi valori, dipendesse esclusivamente dai progetti che si riusciva a realizzare nella sfera collettiva e strutturale. In questo senso, nel politico c'era la risposta a tutti i bisogni dell'uomo.
    Questa visione ha segnato l'esperienza di gruppo di quegli anni. Il gruppo aveva una funzione fortemente strumentale: esisteva (o doveva esistere) solo in funzione degli obiettivi da raggiungere e non come luogo della propria gratificazione e compensazione.
    Lo «stare assieme» era considerato non come valore in sé, ma subordinatamente al «fare assieme». Se il gruppo non era costruito attorno ad obiettivi operativi precisi, non era gruppo.
    Si noti: sono cose molto giuste e importanti. In quegli anni, però, erano accentuate al massimo, quasi estremizzate.
    Alla radice vi era una visione antropologica di questo tipo: tutta la realtà umana è riconducibile alla politica e quindi è salvata dalla politica. C'era una fede diffusa che la costruzione dell' uomo nuovo e la trasformazione sociale passasse attraverso un cambio strutturale...
    Lentamente ci si è accorti che questo non era vero. O, meglio, non bastava.
    Con i cambi strutturali e con la politica si riusciva a trasformare molte cose. Non tutte, però. Grosse fette della vita umana e della realtà sociale era impossibile trasformarle, se prima non avveniva un cambio a livello umano, personale. Questa costatazione, oggi, la chiamiamo «scoperta del personale». Non crediamo più al primato delle strutture sulle persone, ma alla reciproca interazione. Da qui la necessità di lavorare, parallelamente, sulle strutture e sui rapporti interpersonali.
    Una delle scoperte più affascinanti di oggi è proprio questa: può essere un grosso fatto rivoluzionario anche il vivere intensamente sentimenti e esperienze interiori; almeno tanto quanto vivere una esperienza di lotta in piazza.
    Per riuscire ad ottenere un cambio sociale vero, globale, consistente, si richiede un cambio nel rapporto interpersonale e, soprattutto, un cambio di intimità, del rapporto di ciascuno con se stesso e con gli altri.
    Fin qui, il discorso del dover essere.
    Purtroppo le cose stanno andando meno poeticamente. Il fallimento della generazione del politico, invece di favorire la maturazione equili-
    brata del difficile rapporto personale-politico, porta la nuova generazione all'esperienza della privatizzazione. Gli adolescenti di oggi sono spinti, anche nella realizzazione del gruppo, a dimenticare il polo del politico, per accentuare solo quello del personale. E, così, siamo da capo...
    I bisogni di interiorità, di relazioni umane, di affettività, frustrati perché subordinati al sociale e quindi compressi (i sentimenti personali erano spesso secondari rispetto all'impegno politico), esplodono, con gravi esagerazioni.

    VERSO NUOVI MODELLI CULTURALI

    Queste osservazioni ci portano a concludere con un punto-fermo: non possiamo interpretare e valutare le attuali esperienze di gruppo con il metro culturale con cui abbiamo vissuto queste stesse esperienze, pochi anni fa. È giusto? Non c'è il rischio di avallare tutto, troppo alla svelta? D'altra parte, l'educatore accorto sente di non possedere strumenti di analisi adeguati...

    Sono d'accordo nell'affermazione generale: sta emergendo un nuovo modello culturale. Ne abbiamo già parlato anche in un numero precedente di questa rivista. Devo però aggiungere subito: questo modello è ancora molto informe, possiede caratteri tutt'altro che delineati. E, soprattutto, è aperto ad esiti diversi.
    Ho però una mia precisa convinzione, giustificata dai rilievi precedenti. Questo fatto sta preparando una rivoluzione culturale, forse più silenziosa di quella del '68, ma non meno profonda.
    Per capirci, per cogliere questi dati, devo abbandonare gli schemi interpretativi del passato. Se, infatti, valuto i gruppi giovanili di oggi con il metro culturale sessantottesco, dico che si tratta di gruppi di evasione, che sfuggono la realtà, incapaci di impegno politico.
    Ciò che non funziona sono proprio le mie categorie interpretative: invece di confrontarmi con la realtà, la filtro della mia ottica ideologica precostituita.
    Faccio un esempio, raccontando esperienze che conosco, per contatto professionale.
    C'è oggi un notevole ritorno di giovani alla campagna, in cooperative agricole. La cosa interessante in questi fatti è offerta dal tentativo di raggiungere obiettivi qualificati, utilizzando strumenti scientifici e acquisizioni culturali assodate, ma rifiutando ogni tecnologia sofisticata. Si rifiuta un modello che pochi anni fa sembrava invece affermato. Si diceva (e lo si ripete ancora oggi) che non si può raggiungere un modello di giustizia sociale consistente senza strumentazioni complesse e elaboratissime. Tant'è vero che un posto di lavoro costa oggi 10, 100 volte di più di quanto costava quindici anni fa, perché ogni mansione richiede macchine sofisticate e quindi costosissime.
    Questi giovani tornano alla campagna per produrre in modo nuovo.
    Se valuto il fatto con categorie del passato dico che si tratta di un tentativo di ritornare a modelli economici arcaici. Mentre non è affatto vero.
    Si tratta di un'esperienza radicalmente diversa anche da quella realizzata dagli hippies. Essi rifiutavano la società industriale. Oggi si ritorna alla campagna con mezzi poveri (anche perché non ci sono molti altri mezzi), accettando però tutto quello che può risultare utile per migliorare il prodotto. Unico rifiuto: i processi degenerativi... quelli, per intenderci, che per ottenere un chilo in più di prodotto distruggono la salute del consumatore o degradano l'ambiente.
    Come si vede, l'esperienza va colta nella sua originalità.
    Non ci sono solo dati strutturali diversi (è infatti la disoccupazione che spinge alla campagna, come unico sbocco lavorativo... e non la scelta volontaria, come capitava per gli hippies), ma anche atteggiamenti umani fondamentalmente diversi.

    Questi esempi possono essere riferiti anche ai gruppi giovanili? O, in altre parole, con quale modello culturale nuovo dobbiamo metterci ad analizzare queste situazioni, visto che il modello precedente risulta inadeguato?

    Credo che si debba dire, sinteticamente: questi gruppi, quelli concreti di cui stiamo parlando, noci, sono prima di tutto gruppi di evasione (anche se lo possono diventare, degenerando), ma sono gruppi in cui gli adolescenti e i giovani vanno a cercare la loro identità perduta.
    Mi spiego, mettendo in risalto due novità rispetto al '68.
    Nella prima contestazione giovanile, si cercava gruppo per inventare un'alternativa al sistema. Il sistema non piaceva, non dava cose gradite (si noti: ne dava, ma non erano gradite...) e si cercava l'alternativa nel gruppo.
    L'attuale sfacelo istituzionale con tutte le contraddizioni che ne scaturiscono, non dà ciò di cui si ha bisogno, non offre contributi per definire la propria identità. Si va in gruppo a cercare ciò di cui si ha bisogno e che non viene offerto altrove. Si va in gruppo non per sfuggire dal sistema, ma per «capirci» e per «capirsi». Questa non si può chiamare evasione...
    C'è poi un secondo fatto nuovo, da sottolineare anche se solo a veloci accenni. Va tenuto presente per comprendere la situazione giovanile attuale.
    La rivoluzione del '68 era una rivoluzione culturalmente evoluta, perché i giovani di allora vivevano all'interno di un sistema culturale funzionante, dotato di efficaci meccanismi di trasmissione. I valori culturali sono stati rifiutati dopo essere stati acquisiti. La rivoluzione era sul merito dei contenuti.
    Il frutto di quella contestazione è però lo sfascio dei meccanismi di trasmissione culturale. Oggi questi sono in profonda crisi. I giovani di oggi, a differenza dei loro coetanei del '68, non hanno ricevuto valori culturali. E questo fatto, prima di ogni giudizio di valore, ha come conseguenza l'anomia, la perdita di integrazione sociale, la crisi di identità.
    In questi processi, c'è però un aspetto interessante da ricordare.
    La scuola ha trasmesso meno informazioni culturali, ma ha socializzato molto di più i giovani, li ha abilitati al confronto, allo stare assieme, alla dialettica politica.
    E entrato in crisi il meccanismo di trasmissione culturale sui contenuti, ma ha funzionato, molto di più che nel passato, il meccanismo di trasmissione esperienziale.
    In parole povere, i giovani di oggi sanno disquisire molto meno dei loro coetanei del '68 su questioni filosofiche, su problemi teorici; ma , sanno affrontare con maggior competenza i pro- r blemi sociali ed esistenziali.
    Il gruppo si capisce in quest'ottica. Sono in crisi di identità, ma ne hanno bisogno. La cercano nel gruppo, perché il gruppo offre quel sustrato di trasmissione esperienziale a cui sono stati abilitati.

    UN GIUDIZIO E UNA PROPOSTA EDUCATIVA

    Tra le righe stanno emergendo molte valutazioni. Ci pare di cogliere un giudizio fondamentalmente positivo. Almeno molto interlocutorio...

    Proprio così. Sono convinto che i giovani di oggi ci aiutino a recuperare molti valori che il '68 aveva rifiutato con la faciloneria e l'entusiasmo dell'adolescente. E, nello stesso tempo, ci permettono di non disperdere le preziose conquiste del '68.
    Si dovrebbe fare un lungo discorso. Sottolineo, invece, solo un aspetto, in sintonia con le cose dette precedentemente.
    Oggi siamo nella possibilità di rivisitare tutti i valori «tradizionali» legati alla riscoperta del personale. Non per ripetere oggi le stesse cose Tran tempo, ritornando al passato. Ma per reinterpretarle dando un senso, una dimensione culturale seria, alla luce e nella prospettiva dei molti innegabili valori apportati dalla contestazione. Penso, per esempio, ad una cultura che saldi maggiormente il collettivo con il personale, il razionale con l'irrazionale, lo scientifico con il poetico. Insomma, l'uomo nella sua intierezza. Questo è molto importante per scoprire come il religioso non sia una sovrastruttura, ma una dimensione fondamentale dell'uomo. Questo ridà dignità» alla riflessione religiosa. La stessa dignità che possiede la scienza e la poesia, per comprendere la realtà e procedere ad un cambio profondo e radicale.
    Qualche volta mi dico: per fortuna che non ha funzionato il modello di trasmissione culturale.
    Se esso non- fosse entrato in crisi, i giovani di oggi avrebbero la sola cultura del '68, perché spesso in quel periodo si è operato un rifiuto acritico di molti valori tradizionali. Con processi di trasmissione efficienti, questa sarebbe la cultura di oggi. Una ben povera cultura, davvero.

    Come riuscire a far emergere gli aspetti positivi dell'attuale modello culturale, controllando ed eliminando i rischi e i possibili esiti negativi?

    Io parlo di crisi. La crisi è sempre un fatto ambivalente. Essa è segno di un organismo che sta cambiando: o esce dalla malattia per ritrovare la salute o viceversa.
    La crisi sociale significa che il modello precedente non funziona e se ne sta preparando uno di nuovo. Quale? Vedo due esiti egualmente aperti: o la barbarie culturale o l'invenzione e il consolidamento di un nuovo modello cill. La crisi del meccanismo di trasmissione culturale può portare i giovani a rinchiudersi nei propri bisogni individuali. Questo è «morte»: sistema chiuso, che non comunica più con il resto. È involuzione, «implosione».
    Oppure si possono tentare vie nuove.
    La soluzione non piove dal cielo. È nelle mani di tutti. Con una responsabilità notevole, nelle mani degli educatori. Essi sono chiamati ad una programmazione educativa che parta coraggiosamente da questa realtà, ne costati gli esiti e progetti obiettivi precisi in questa logica, con profondo e coraggioso realismo.
    Ma qui, per mia fortuna, la fatica è sulle spalle di tutti.


    T e r z a
    p a g i n A


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