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    Il «principio dell'incarnazione» nella pastorale giovanile



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1978-06-5)


    Il progetto di pastorale giovanile che stiamo costruendo attorno al problema "condizione giovanile e esperienza cristiana" ha fatto una scelta pregiudiziale: la pastorale giovanile è fedele al progetto di Dio se si articola in una profonda collaborazione tra Dio e l'uomo, se realizza un attento rispetto per i dinamismi di crescita dei giovani. Si tratta di un orientamento molto impegnativo e certamente non tranquillo, soprattutto se paragonato alla prassi pastorale di pochi decenni fa e alla mentalità ad essa collegata.
    La nostra scelta ha una base teologica precisa: il concetto "cristiano" di salvezza.
    La salvezza è radicalmente dono. La persona salvata è costituita in una novità di vita, per un intervento gratuito e sconvolgente di Dio.
    Nella salvezza, però, nulla c'è di automatico, che avvenga senza la risposta, libera e responsabile, dell'uomo. E nessuna risposta sarà per lui autenticamente sua, se non investe la sua piena personalità.
    Il giovane può essere perciò educato a gestire la propria vita per farla una risposta piena, gioiosa, totale alla proposta di salvezza. In questo senso si parla di vera «educazione» alla fede, come intervento sulle dimensioni tipicamente umane dell'esistere personale, per abilitare la persona a coinvolgere tutto se stesso nel progetto d'amore del Padre.
    Possiamo concretizzare il discorso, facendo qualche esempio.
    L'educazione può intervenire per rendere esperienziale la comunità ecclesiale: la mediazione del gruppo per l'appartenenza alla Chiesa è in questa direzione.
    L'educazione può allargare gli interrogativi esistenziali e mettere in crisi le risposte umane sul senso della vita, troppo chiuse, fino a far apparire veramente «la parola di Dio come risposta alle proprie domande».
    Può costruire nei giovani quegli atteggiamenti previ che fanno dei sacramenti un gesto umano autentico: la comunitarietà, la vita come impegno, il senso della conversione permanente, l'apertura alla speranza, il rifiuto dell'efficientismo e il recupero della gratuità.
    Lo stesso si può dire della preghiera: una attenta propedeutica può veramente inserire l'educazione alla preghiera nei dinamismi di crescita della personalità giovanile.
    Troppe volte, però, gli orientamenti pratici, di cui abbiamo fatto qualche esempio, sono scarsamente motivati o sono vissuti soltanto all'insegna dell'ultimo ritrovato metodologico o come reazione a stimoli che provengono dall'ambiente socioculturale. E così il dialogo si fa difficile, perché chi difende la «integrità della fede» accetta poco benevolmente progetti pastorali il cui ordine del giorno sia soltanto antropologico.
    Giustamente si osserva che la pastorale va costruita ascoltando la fede e non per altre strade...
    Anche il principio della doppia fedeltà a Dio e all'uomo, affermato autoritativamente da RdC, può diventare pericoloso. Fino a che punto l'una e l'altra fedeltà? Esistono criteri oggettivi per suggerire confini invalicabili? È possibile un'unica radicale fedeltà? Potremmo facilmente continuare a suggerire problemi. Chi ha le mani in pasta, se li ritrova ogni giorno: nella situazione concreta a cui deve rispondere, nella discussione tra colleghi, nella provocazione di un documento.
    Come uscirne? Esiste una motivazione teologica capace di definire tutta la problematica da una prospettiva diversa?
    Noi abbiamo suggerito una scelta: il principio dell'incarnazione. Crediamo che alla luce dell'evento-Gesù si possano comprendere e risolvere le difficoltà accennate, unificare la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo, superare il verticalismo e l'orizzontalismo, salvando l'armonia tra «natura» e «soprannatura».
    La nostra scelta è fondata sull'orientamento teologico che la comunità ecclesiale italiana ha fatto proprio in RdC. Ha quindi una base di autorevolezza magisteriale che ci stimola e ci conforta. Ci muoviamo, perciò in questa visione pastorale; anche per questo moltiplichiamo le citazioni dal documento che la propone.
    Lo studio di R. Tonelli fa il punto sulla ricerca a cui è giunta la teologia pastorale oggi. L'intervento ha un respiro concreto: sottolinea frequentemente le conseguenze che sorgono per l'educazione dei giovani alla fede. L'articolo serve quindi da verifica della «mentalità» pastorale globale che ci ritroviamo, ciascuno di noi e le nostre comunità.

    L'INCARNAZIONE COME EVENTO E COME METODO

    Ogni modello di pastorale giovanile deve fare i conti con i «valori umani» che descrivono la maturazione personale e sociale dei giovani. Non può ignorarli. Perché qualsiasi tentativo di non interrogarsi sulla loro collocazione nell'educazione alla fede o la pretesa di trascurare il condizionamento dei dinamismi antropologici nei processi pastorali, corrispondono ad un giudizio (implicito, ma reale) sulla loro irrilevanza nell'esperienza cristiana. La neutralità, in questo come negli altri campi educativi, è impossibile. Significa concludere per una soluzione negativa.
    D'altra parte, i giovani sono molto sensibili ai valori che caratterizzano la loro crescita in umanità.[1] Vogliono sapere cosa c'entra l'esperienza cristiana con il desiderio di autenticità, di liberazione, di giustizia, di realizzazione, di promozione globale dell'umanità. La risposta è urgente, perché coloro che pongono la domanda non sanno più aspettare. Lo dimostrano i fatti di ogni giorno. Se ne rende conto molto chiaramente RdC che, a proposito dell'opportunità di svolgere nella catechesi «i temi che le condizioni storiche e ambientali rendono particolarmente attuali e urgenti», costata: "Si tratta di un vasto impegno di coerenza al Vangelo, dalla cui attuazione dipende la sorte stessa del cristianesimo, particolarmente presso le generazioni dei giovani".[2] L'affermazione di RdC sottolinea la drammaticità del problema e lascia intravedere una prospettiva di soluzione: il rapporto tra esperienza umana e fede va risolto, rivisitando l'evento evangelico. In questa direzione si muove la nostra ricerca.
    Il problema ha un doppio versante. Il primo ruota attorno ai contenuti. Contenuti dell'esperienza cristiana sono soltanto i temi della fede, quelli che «scaturiscono in ogni tempo e luogo da una meditazione attenta del mistero di Cristo», oppure bisogna interessarsi anche dei valori umani ed accoglierli nell'educazione della fede? Il secondo interrogativo è molto più profondo e, di fatto, più recente: l'educazione alla fede deve fare i conti anche con le esigenze che scaturiscono dai dinamismi antropologici? La fede è ancorata a processi di crescita, collocati fuori dai problemi quotidiani, oppure esiste un riflusso dalla vita alla fede, che la costringe nell'intreccio dello svolgersi faticoso della storia personale e collettiva? O, in altre parole, si può parlare di «educazione» alla fede? E in che senso e con quali limiti?
    Le domande sono inquietanti, cariche di pesanti conseguenze operative. Non basta una risposta affrettata, perché è in causa, in ogni caso, la specificità costitutiva della fede. E neppure è sufficiente una generica decisione positiva. Fino a che punto aprire la pastorale giovanile a questo dialogo e a questa accoglienza? Questo processo non porterà ad un pericoloso riduzionismo antropocentrico?
    La storia della teologia pastorale è tutta segnata da questi interrogativi. Purtroppo le soluzioni date hanno oscillato tra i due estremi del problema, senza trovare un equilibrio corretto e motivato. E questo ha acuito le distanze e reso più complicato il dialogo. «Nella teologia pastorale come nella teologia fondamentale e nell'ambito dogmatico della dottrina sulla giustificazione, esiste una tendenza esclusivamente antropocentrica. Questa tendenza si è infiltrata nella catechesi, nella predicazione, nella liturgia e nell'educazione, dall'illuminismo ad oggi, causando un torto immenso alla corretta comprensione dell'apostolato. Come reazione, è nato un altro eccesso: un teocentrismo teologico e pastorale che, tutto attento al mistero, ha perso il senso dei valori umani. Queste due concezioni, proprio perché sono estremizzate, si richiamano l'una l'altra, si rinforzano e si condizionano reciprocamente. Percorrono le stesse linee di sviluppo, perché ciascuna delle due posizioni non esisterebbe se non ci fosse l'altra. Anche in questo caso, gli estremi si toccano e si influenzano».[3]
    Il futuro della teologia pastorale dipende invece dalla sua capacità di superare queste antinomie, integrando in modo corretto la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo.
    Per evitare che questo sembri uno sfruttamento degli interessi giovanili per far accettare la fede, ma soprattutto per fondare teologicamente il metodo, è importante giustificare in termini oggettivi, con il peso di fatti reali, questo orientamento pastorale.
    La riflessione teologica attuale propone nel principio dell'Incarnazione la radice e la giustificazione di questa scelta. "Tutto l'annuncio e la comunicazione della salvezza si ispira ad un unico principio, quello dell'incarnazione. Quasi oseremmo dire che l'incarnazione è il principio che guida ogni sforzo di cristianizzazione, il principio di una teologia della pastorale. Tanto la teoria della pastorale come le direttive della concreta azione apostolica dovrebbero dunque ispirarsi al principio dell'incarnazione".[4]
    La comunità ecclesiale italiana ha fatto questa scelta ne "Il rinnovamento della catechesi" (Roma 1970). Anche la nostra rivista si muove in questa visione teologica.
    Accenniamo ad alcuni aspetti che completino le riflessioni già fatte in altri contesti.

    IL PRINCIPIO DELL'INCARNAZIONE NELLA PASTORALE GIOVANILE

    Quando l'accento è posto sul principio dell'Incarnazione, risulta di immediata evidenza che ogni innesto della fede nella vita e della vita nella fede, non è un metodo assunto arbitrariamente dall'operatore di pastorale giovanile, una sua tattica accattivante. Non siamo noi che per convincere i giovani incarniamo la fede nella vita. Dio stesso ha instaurato un movimento d'incarnazione, per allacciare relazioni con gli uomini. Dio che avrebbe potuto imporsi come Dio nel peso della sua trascendenza, ha preferito farsi ricevere dall'uomo, rivolgendosi a lui in modo umano. Questo processo d'incarnazione si condensa in Gesù. Egli è tutta l'incarnazione. Egli assomma in sé e causa il lungo dialogo tra Dio e l'uomo. Il "metodo" dell'incarnazione nasce dall'«evento» che è Gesù stesso.

    L'evento Gesù Cristo

    L'"evento-Gesù"[5] è prima di tutto Gesù stesso, la sua persona, la sua dottrina, la sua vita trascinata fino a sperimentare la morte umana, proposta di una speranza stabile alla vita nella sua vittoria contro la morte.
    Noi sappiamo, però, che le parole e le azioni di Gesù non ci sono giunte direttamente, allo stato puro. Esse sono state trasmesse attraverso la testimonianza apostolica.
    I discepoli e le prime comunità cristiane, animate dallo Spirito, hanno colto il senso del mistero di Gesù. «Evento-Gesù» è anche questa comprensione della Chiesa primitiva, espressa nella proposta scritta (i testi scritturistici) e nella sua prassi (le strutture della comunità ecclesiale). Per cogliere il significato salvifico del mistero di Gesù, dobbiamo perciò orientare la nostra ricerca nella direzione della comunità apostolica.
    I discepoli di Gesù avevano capito di essere amati e pensati da lui. Essi sperimentarono che in Gesù la vita umana trovava un senso: la loro situazione senza speranza e senza sbocco, carica di problemi, diventava in Gesù importante, interessante, affascinante. Era «parte» del Gesù storico con cui dialogavano. Assunta in Gesù, la vita umana era restituita ai discepoli piena di significato. Essi poi compresero che tutto ciò Gesù lo diceva e lo faceva nel nome di quel Dio che chiamava «Padre». Nella bontà che gli uomini sperimentavano in Gesù, nel suo perdono, nella sua proposta di libertà e di gioia, di senso alla vita, c'era il Padre.
    In Gesù, Dio era accanto all'uomo.
    I discepoli poi sono testimoni della morte e risurrezione di Gesù. Questi sconvolgenti avvenimenti dilatano l'esperienza che essi hanno avuto di Gesù. Si opera il passaggio dal Gesù della storia al Cristo glorificato nella fede, in una identità che implica anche una novità.
    La comunità ecclesiale si raccoglie attorno alla persona del Signore risorto, ora presente in un modo nuovo. Animata dal suo Spirito, essa si costituisce, agisce e proclama l'evento di salvezza che ha esperimentato. Fonda così una sua prassi pastorale.
    Rileggendo il suo oggi storico alla luce del mistero di Gesù, ha trovato una risposta ai problemi che il quotidiano le rilanciava. Ha colto l'unità dell'amore a Dio e dell'amore all'uomo, nella consapevolezza che la radice del problema «uomo», la sua fondazione costitutiva, è Dio stesso, colui che Gesù chiama suo Padre. Tra le tante alternative possibili con cui rispondere agli interrogativi della storia, essa ha sempre cercato quelle decisioni che permettevano ad ogni uomo di sentirsi amato da Dio; quelle capaci di consolidare la speranza e la fiducia nella vita oltre la morte; quelle che realizzavano la promozione dei poveri, dei piccoli, di quelli che «non contano», per ricordare loro che di essi è il Regno dei cieli.
    La comunità ecclesiale ha fatto questo, perché ha capito e annunciato che Gesù stesso aveva vissuto tutto ciò in modo radicale.

    Fedeltà a Dio e fedeltà all'uomo: una pastorale senza dualismi

    La comunità ecclesiale trova nel principio teologico dell'Incarnazione una riformulazione dei suoi compiti pastorali che la spinge a superare i dualismi e le false contrapposizioni. Per essere, in Gesù, la presenza del Padre accanto all'uomo. Per essere la salvezza dell'uomo.
    L'evento-Gesù, infatti, propone l'obiettivo, suggerendo il metodo con cui attuarlo. Chi ha incontrato Gesù, ha esperimentato in lui di essere amato da Dio, ha compreso che la propria vita ha un senso e si colloca in un grande progetto. In questo ha incontrato la salvezza e ha potuto pronunciare la propria decisione, provocata e sostenuta dalla profonda e sconvolgente esperienza fatta. Per costui accettare la salvezza di Gesù voleva dire scegliere la pienezza di vita, la libertà, la vittoria definitiva contro l'angoscia, la paura, la morte.
    Fare pastorale significa ripetere oggi lo stesso itinerario: provocare e sostenere l'incontro con Dio che salva, facendo prima di tutto toccare con mano la presenza amorosa di Dio che in Gesù Cristo si è chinato sull'uomo; aiutare a scoprire la salvezza come un dono che si innesta nell'esistenza quotidiana e la fa nuova. Approfondiamo queste sottolineature.
    Per l'Incarnazione, il processo ascendente (l'uomo verso Dio) è superato e reso possibile da quello discendente (Dio verso l'uomo). Si realizza un capovolgimento di prospettive, che inverte l'ordine degli interventi e la concatenazione delle cause: non è l'uomo che si autoperfeziona, per poter raggiungere la vita divina; ma è Dio che in Gesù si fa dei nostri, per renderci figli suoi.
    Nella struttura ascendente l'umanità era svalutata, il mondo soltanto una sala d'aspetto e di prova, nella quale si deve dimostrare con i fatti di meritarsi la gloria del cielo. L'azione pastorale consisteva soprattutto nell'offerta di mezzi adeguati, per attivare il passaggio dal basso all'alto: dal materiale allo spirituale fino a Dio. «Secondo lo schema discensionale», invece, «Dio scende e prende dimora nell'uomo che si dischiude a lui nell'amore. Essere al servizio della fede dell'uomo significa in questo contesto aprire ed appianare la via dell'incarnazione di Cristo nella creatura, perché essa "si rivesta del Signore Gesù Cristo" (Rom 13,14)».[6] L'Incarnazione instaura una relazione tra Dio e l'uomo, nuova e insperata, le cui note caratteristiche sono «l'orizzontalismo, orizzontalismo sovranamente istituito dal Dio trascendente; l'accessibilità, attraverso la quale Dio entra in dialogo con gli uomini fino al punto di riconoscere loro un diritto su di lui; la collaborazione richiesta all'uomo nello sviluppo delle relazioni; la responsabilità lasciata all'uomo, che osservando i suoi obblighi deve provvedere al mantenimento dell'alleanza e raggiungere gli scopi».[7]
    L'Incarnazione ci rivela che la salvezza si opera unicamente in modo dialogico: Dio tende la mano all'uomo e, per questo dono, l'uomo diventa capace di accogliere Dio, con decisione libera e responsabile. Perciò, alla luce dell'Incarnazione, «questa è la vera pastorale: preparare la materia umana perché sia pronta a ricevere la vita divina, aiutare la vita di Dio ad incarnarsi nella materia dell'uomo».[8]
    Il principio dell'Incarnazione motiva la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo nell'azione pastorale, perché manifesta quella profonda collaborazione tra Dio e l'uomo che determina il processo di salvezza.
    La fedeltà a questo evento spinge a definire i compiti pastorali come attivizzazione di questa collaborazione, «come una vera collaborazione attiva, una reale sinergia del divino e dell'umano. E non vi si giunge se non nella misura in cui non si considerano l'uno o ]'altro di questi due fattori come un elemento unico, ma si prende invece seriamente la loro reciproca azione».[9]

    Fedeltà a Dio nella fedeltà all'uomo: la «svolta antropologica»

    Mediante un approfondimento teologico abbiamo fondato la necessità di accogliere i dinamismi umani nell'educazione alla fede. Ma le riflessioni precedenti non ci permettono ancora di stabilire fino a che punto questo debba realizzarsi.
    Nello schema che presenta sullo stesso piano la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo, manca un criterio per decidere fin dove giungere nella fedeltà all'uomo: il rischio di un certo dualismo non è ancora pienamente risolto.
    La meditazione dell'evento-Gesù ci permette di andare oltre, verso una visione pastorale più unificante, nell'unica fedeltà a Cristo, che giustifica l'assunzione vera e profonda di tutto l'umano.
    Nell'Incarnazione Dio si è rivelato all'uomo in modo umano, il suo ineffabile mistero è diventato comprensibile ed esperimentabile, perché espresso in mediazioni umane. In Gesù di Nazareth Dio ha assunto un volto umano non come ci si serve di uno strumento esterno (che in nulla modifica ciò che uno è), per comunicare qualcosa di sé quando si è nella impossibilità di farlo personalmente e direttamente. L'umanità di Gesù è invece ciò che Dio stesso, rimanendo Dio, ha voluto diventare per incontrare e salvare l'uomo. La sorprendente novità, testimoniata da Fil 2,6-8, sta proprio in questo: Dio non ha abbandonato la «forma di Dio» per prendere quella di «servo», ma ha preso la forma di uomo sussistendo in quella di Dio.[10]
    Per questo, l'Incarnazione definisce la dimensione costitutiva della comprensibilità storica del mistero di Dio: Gesù manifesta, nella sua umanità, gli aspetti invisibili del Dio vivente. Ormai la mediazione umana di Gesù di Nazareth è determinante per conoscere ed esperimentare chi è Dio per noi, anche se, come ogni mediazione, essa è manifestazione e svuotamento nello stesso tempo. In Gesù, definitivamente, Dio si manifesta, si fa conoscibile: è il Dio-con-noi, «il Dio nella realtà della sua carità con la quale dona se stesso per poter essere Dio degli abbandonati, Padre dei rinunciatari e Liberatore di coloro che si dichiarano colpevoli».[11]
    La costituzione dogmatica Dei Verbum ricorda una considerazione molto importante, che scaturisce come logica conseguenza di queste affermazioni: anche nell'economia della Rivelazione è stato anticipato l'antropocentrismo dell'Incarnazione. «Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all'uomo».[12]
    L'Incarnazione non è solo questo: proprio perché manifestazione di Dio nell'umanità di Gesù, essa è anche la rivelazione più piena sull'uomo. L'Incarnazione definisce chi è l'uomo, «questa natura indefinibile, il cui limite- la cui "definizione" - è l'orientamento illimitato al mistero infinito della pienezza, che perviene, quando è assunta da Dio come sua propria realtà, là dove essa tende sempre in forza della sua essenza».[13]
    Gesù è uomo, di una umanità come la nostra: è uomo come lo siamo tutti noi. La sua umanità manifesta ed esprime Dio, perché l'umanità dell'uomo è stata fatta (per il dono salvifico della creazione) radicalmente capace di essere manifestazione di Dio. Se l'uomo non fosse l'essere capace di trascendenza, l'essere così aperto da poter essere l'altro-da-sé, Gesù di Nazareth non potrebbe essere Dio-con-noi. E se lo fosse, non potrebbe essere uomo come noi. Poiché la fede ci assicura che egli è uomo, profondamente e veramente uomo e, nello stesso tempo, Dio-con-noi, la nostra umanità è almeno potenzialmente autoespressione di Dio, «la proposizione in cui Dio potrebbe esporre, potrebbe esprimere se stesso».[14]
    Gesù è il caso supremo, unico e irrepetibile, dell'attuazione della natura umana. Egli è colui che realizza tutte le potenzialità dell'uomo, raggiungendo in pienezza l'abbandono totale al mistero di Dio.
    Gesù lo è di fatto; noi lo siamo solo potenzialmente (anche se troppe volte realizziamo la nostra capacità negando ciò che dovremmo esprimere). In questo sta la diversità abissale tra noi e Gesù.
    Ma la natura umana, che esprime questa possibile manifestazione di Dio, è la stessa, per noi e per Gesù, perché la capacità di essere autoespressione di Dio «non può essere una singola facoltà accanto ad altre possibilità dell'essere umano, ma è oggettivamente identica all'essenza dell'uomo».[15]
    La conclusione pastorale è immediata e concretissima: «l'uomo è radicalmente convalidato e con ciò assolutamente autorizzato ad assumere la sua natura con tutto ciò che essa racchiude, perché se essa è assunta così incondizionatamente, così come esiste in realtà, allora Dio stesso viene accolto».[16]
    Non solo non ci può essere conflittualità tra la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo; ma, in Gesù Cristo, la fedeltà all'uomo (quella fedeltà che opera per fare meno opaca la capacità di essere autoespressione di Dio, quella cioè che salva l'umanità dell'uomo e lo libera dall'alienazione del peccato) è sempre fedeltà a Dio. Le azioni dell'uomo (lavorare, mangiare, affrontare le difficoltà quotidiane...) hanno acquistato definitivamente un valore supremo e una dignità trascendente, proprio nella loro apparente banalità.
    Esprime molto bene questa coscienza della nostra comunità ecclesiale, un passo di RdC: «Amare Dio significa trovare e servire l'uomo, l'uomo vero, l'uomo integrale; amare l'uomo e fare il cammino con lui significa trovare Dio, termine trascendente, principio e ragione di ogni amore».[17]
    In questo senso oggi si parla di «svolta» antropologica nella teologia [18] e, di riflesso, nella pastorale. Con questo termine si indica non tanto l'attenzione rivolta all'uomo, un fatto questo abbastanza normale anche nella teologia classica. «Il fenomeno designato come "svolta antropologica della teologia" implica un cambiamento assai più profondo. Per esso non si considera l'antropologia come un settore particolarmente attuale della teologia dogmatica, ma come una dimensione di tutta la teologia, anzi, come l'aspetto più importante nella scienza della fede, non soltanto dal punto di vista delle esigenze esistenziali dell'umanità attuale, ma anche da quello della stessa rivelazione».[19]
    Per superare i possibili equivoci che tale affermazione potrebbe indurre, abbiamo collocato l'argomento a conclusione delle riflessioni sull'Incarnazione. Lo richiama con molta incisività anche RdC: "Chiunque voglia fare all'uomo d'oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il "Dio con noi", il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata a irrompere nella storia, per rivelare ad ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla".[20]
    l collegamento tra principio dell'Incarnazione e svolta antropologica ci permette di comprendere meglio e l'uno e l'altra: la svolta antropologica è motivata ed esigita dall'Incarnazione; l'Incarnazione passa da mistero contemplato a progetto normativo, sia nell'impegno di attuare la salvezza nella storia, sia nel definire gli orientamenti decisivi di ogni processo di umanizzazione.

    L'INCARNAZIONE PER LA PASQUA E LA PENTECOSTE

    Abbiamo messo l'accento sul principio dell'Incarnazione, per le conseguenze che da esso scaturíscono alla pastorale giovanile. L'Incarnazione richiama però radicalmente la salvezza di Gesù Cristo: la novità della vita divina da «incarnare» nella quotidianità dell'esperienza umana. Per questo parliamo del principio dell'Incarnazione come evento che fonda un metodo pastorale. Non lo consideriamo in sé, ma come progetto costitutivo per l'attuazione della salvezza nella storia, come sorgente degli imperativi per l'azione pastorale. Dal principio dell'Incarnazione la pastorale ritrova il suo obiettivo (attuare la salvezza) e l'orientamento metodologico fondamentale (attuare la salvezza, «incarnandosi» nella vita quotidana, accogliendo cioè i valori umani e facendo i conti, nell'educazione alla fede, con i dinamismi antropologi che descrivono ogni crescita personale).
    Questo riferire l'Incarnazione alla salvezza ci ricorda una affermazione importante e pregiudiziale: non possiamo ridurre l'approccio cristologico alla sola Incarnazione, né concludere ad essa l'attuazione della salvezza. L'Incarnazione suggerisce il metodo pastorale, mediante cui aprire l'uomo all'autocomunicazione di Dio, nello Spirito Santo; rende l'uomo capace di accogliere questo dono. Ma la vita divina è il dono della morte e risurrezione di Cristo: essa va attesa ed accolta sempre come dono.
    L'Incarnazione prende consistenza di salvezza nella Pasqua e nella Pentecoste. In caso contrario si vanificherebbe la centralità della croce e della risurrezione nella cristologia, e l'animazione santificatrice dello Spirito Santo nell'ecclesiologia.
    Questo richiamo dilata l'Incarnazione verso una interpretazione globale della storia e del destino di Gesù, «nel senso che Dio non ha assunto soltanto una natura umana, ma anche una storia umana e così ha inaugurato pure il compimento definitivo della stessa storia».[21]
    E questo introduce nel progetto pastorale la prospettiva escatologica, in tensione dialettica perenne con quella incarnazionistica. La critica escatologica, infatti, contesta la radicale provvisorietà e insufficienza di ogni realizzazione, svuota la pretesa risolutiva delle mediazioni pastorali, stempera le pianificazioni troppo sapienti, nel nome di un appuntamento con il Regno di Dio, unico approdo di definitività, e nel ricordo della sconvolgente creatività di ogni dono dello Spirito.

    DAL PRINCIPIO DELL'INCARNAZIONE AGLI IMPERATIVI PASTORALI

    Queste riflessioni sul «principio dell'Incarnazione» hanno conseguenze molto stimolanti per la pastorale giovanile: fondano un metodo e determinano una reinterpretazione dei temi teologici fondamentali (salvezza e peccato, grazia, fede e vita...).
    Non possiamo condurre la nostra ricerca fino a questi particolari, perché dovremmo scrivere un trattato di pastorale giovanile. Vogliamo, invece, suggerire soltanto alcuni spunti. Confrontati con la prassi quotidiana, possono diventare orientamenti molto concreti.

    Le esperienze quotidiane hanno un significato che le supera

    Il principio dell'Incarnazione ci spinge ad una pastorale "fedele all'uomo": una pastorale che assuma come suo spazio privilegiato di azione la vita quotidiana dei giovani, le loro esperienze umane, nella concretezza e problematicità di cui sono cariche. Queste esperienze hanno un significato che le supera: sono il luogo storico dell'autocomunicazione di Dio, della sua rivelazione e della nostra risposta. Utilizzando un linguaggio abbastanza espressivo e teologicamente fondato, possiamo dire che la vita di ogni uomo è segnata, contemporaneamente, di «provvisorio» e di «definitivo». Il provvisorio consiste nelle modalità concrete dell'esistenza quotidiana, in quanto profana. La formula non esprime un giudizio di non-valore, quasi che provvisorio significasse irrilevante, vuoto, di poco conto. Indica solo una costatazione, in rapporto all'altra dimensione costitutiva dell'uomo: la sua vocazione alla definitività. Il definitivo consiste nelle modalità proprie della vita di Dio, partecipata agli uomini in Cristo.
    Non basta affermare l'esistenza di questo rapporto. Dobbiamo interrogarci sulla sua radice e sulla sua consistenza.
    Un oggetto che due amici si scambiano, assume un valore che va oltre il fatto in sé. Non è legato alla cosa donata, ma all'atto del donare. C'è qualcosa che supera l'oggetto stesso e lo costituisce in un orizzonte diverso. Ma è un semplice passaggio di intenzioni, che non cambia l'oggetto. Per la circostanza speciale in cui è utilizzato, l'oggetto esprime simbolicamente un rapporto interpersonale; assume così un significato ulteriore, quasi esterno, che non gli compete.
    Tra esperienza umana e salvezza siamo solo a questo livello? La nuova significatività è una realtà che non dipende dall'intenzionalità dell'operatore umano, non è un salto di senso legato ad una convenzione logica. Non si tratta di un rapporto, ma di un dato ontologico.
    Perché? Cosa permette all'esperienza umana di transignificarsi? Di assumere una rilevanza sul piano della salvezza che non le compete? L'esperienza umana diventa esperienza di salvezza, segmento concreto della storia della salvezza, in Gesù Cristo.
    Gesù Cristo, infatti, è l'evento più radicale della volontà salvifica universale di Dio, perché in Gesù Cristo la salvezza di Dio si è realizzata efficacemente per tutti gli uomini. In Gesù Cristo la salvezza è diventata un «esistenziale» di ogni uomo, nella prospettiva di una offerta-dono che preesiste alla sua libertà e alla sua comprensione riflessa, anche se chiede la risposta personale di una vita vissuta nell'impegno serio e promozionale.
    Come la Pasqua è ormai un fatto nella storia dell'uomo, così le esperienze quotidiane sono già collocate definitivamente in questo orizzonte di salvezza.
    Questo è un fatto oggettivo, che ha peso, consistenza ed efficacia indipendentemente dalla sua tematizzazione nella coscienza dei singoli uomini.
    Si raggiunge la pienezza dell'espressività cristiana, quando l'implicito viene anche tematizzato, si fa consapevolezza riflessa ed esperienza quotidiana della salvezza in Gesù Cristo.
    La crescita è sul piano della intenzionalità: dal vissuto alla sua tematizzazione, dall'implicito alla coscienza riflessa ed esperienziale. Ma è una crescita fondamentale: perché permette alla persona di comprendersi in ciò che le è costitutivo: la sua capacità di essere «altro da sé», la definitività della sua esistenza, la gioiosa consapevolezza di essere figlio di Dio, nel suo quotidiano esistere come uomo.

    I compiti della pastorale giovanile

    Riferire le esperienze umane all'evento di salvezza che è Cristo, significa annunciare, «evangelizzare» questo significato misterioso, nuovo, trascendente, definitivo. Una evangelizzazione irrinunciabile, per rispetto alla stessa serietà umana dell'esperienza e per aprire alla verità di se stesso colui che ne è protagonista. Senza questo sguardo di fede, le esperienze restano prive di senso: del loro senso ultimo e più vero, normativo di tutti gli altri sensi. Interpretate invece alla luce della fede rivelano le dimensioni fondamentali dell'esistenza e conferiscono ad essa una pienezza di definitività, anche se in forma iniziale.
    Stiamo ritrovando il compito della pastorale. Educare alla fede significa rivelare l'orizzonte nuovo in cui la vita viene collocata, per la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Significa far scoprire che la verità più vera del proprio quotidiano è offerta da una comprensione di fede. Da un riferimento a Cristo da cui emergono una dimensione di definitività che trascende l'esperienza proprio mentre la assume, e la vocazione ad una coerente novità di vita. In questa prospettiva si realizza l'annuncio di fede.

    NOTE

    [1] Le ricerche sui valori e le attese dei giovani d'oggi sono molto eloquenti al riguardo. Si veda, per esempio, una sintesi in MILANESI GC., Ipotesi sulla religiosità dei giovani, in «Orientamenti pedagogici» 25 (1978) 82-98.
    [2] RdC 97. Si veda anche RdC 96 che fa da contesto a questa affermazione e da cui sono tratte le due citazioni riportate in questa pagina.
    [3] ARNOLD F.X., Pour une théologie de l'apostolat. Principes et histoire (Tournai 1961 ) 77.
    [4] GOLDBRUNNER J., Cristo nostra realizzazione. Antropologia pastorale sulla linea dell'incarnazione (Torino-Leumann 1971) 29-30.
    [5] Per le riflessioni sull'evento-Gesù si veda SCHILLEBEECKX E., Gesù. La storia di un vivente (Brescia 1976) 37-110.
    [6] GOLDBRUNNER J., Cristo 29.
    [7] GALOT J., Chi sei tu, o Cristo? (Firenze 1977) 189. Altrove l'a. precisa meglio quello che intende esprimere con "orizzontalismo": "Dio si mette al livello dell'uomo per poter dialogare amichevolmente con lui" (50).
    [8] GOLDBRUNNER J., Cristo 29.
    [9] ARNOLD F.X., Pour une théologie 76.
    [10] RAHNER K., Antropologia teologica, in Sacramentum mundi, vol. 1 (Brescia 1974), col 282. Si veda anche GALOT J., Chi sei 241-242.
    [11] MOLTMANN J., Uomo. L'antropologia cristiana tra i conflitti del presente (Brescia 1973) 42. Nella visione di Moltmann l'atto più elevato della manifestazione di Dio è l'"Ecce homo" del Dio Crocifisso.
    [12] DV 13.
    [13] RAHNER K., Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo (Alba 1977) 284.
    [14] RAHNER K., Corso 292.
    [15] RAHNER K., Corso 285.
    [16] RAHNER K., Considerazioni fondamentali per l'antropologia e la protologia nell'ambito della teologia, in Mysterium salutis 4. La storia della salvezza prima di Cristo (Brescia 1970) 26.
    [17] RdC 161.
    [18] ANGELINI G., Quale "svolta antropologica" e perché?, in Teologia del presente 3 (1973) 4-20. ANGELINI G., La svolta antropologica: orientamenti bibliografici, ivi 221-239.
    [19] FLICK M., La svolta antropologica in teologia, in La civiltà cattolica 121 (1970) IV, 215-224.
    [20] RdC 77.
    [21] KASPER W., Gesù il Cristo (Brescia 1975) 44.


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