(NPG 1978-06-19)
I Centri giovanili possiedono di fatto molte strutture, tecniche (campi da gioco, sale, cinematografo...) e educative. Il rapporto con il territorio passa necessariamente sul «confronto» con queste strutture. Anche perché i Centri giovanili hanno incominciato a funzionare, quando nessuno parlava ancora di quartiere e di territorio.
Che fare?
Smontare ogni struttura per affermare una partecipazione incondizionata oppure fare di queste strutture un luogo privilegiato di aggregazione e di esperienza partecipativa?
Abbiamo sentito il parere dell'Assessore all'Assistenza della Regione Piemonte e di un responsabile di Centri giovanili.
INTERVISTA A GINO BORGOGNO, RESPONSABILE REGIONALE P.G.S.
Oggi si parla molto di apertura del Centro giovanile al territorio.
Qualche volta il discorso viene fatto con espressioni messianiche, quasi che tutto dovesse incominciare da domani e che il passato fosse tutto da buttare.
Lei ha una grossa conoscenza di Centri giovanili. Come vede il problema?
Devo incominciare a sottolineare una cosa apparentemente strana: di questo problema si parla da pochissimo tempo, in campo civile. I Centri giovanili hanno fatto un servizio al territorio e in particolare ai giovani presenti nel territorio, quando nessuno parlava ancora di queste esigenze. Il problema è diventato acuto oggi perché, nata l'esigenza, la società civile si trova carente di strutture adeguate, dal momento che mai si è posta il problema.
I Centri giovanili hanno comunque anticipato un grosso servizio sociale. D'accordo, oggi il servizio è urgente, per i fatti connessi con l'attuale crisi della nostra società e con l'ampliamento improvviso e incontrollato della popolazione urbana. Questo sottolinea l'ambivalenza dei nostri Centri giovanili. Essi sono nati per una specifica missione di evangelizzazione e quindi la loro responsabilità è fondamentalmente relativa a questa missione. Tradendola, verrebbero meno alla loro stessa natura. Nello stesso tempo, però, in una società in cui i problemi sono sempre problemi di tutti e non di un solo settore, tutti sono interessati a risolvere i problemi comuni. Il Centro giovanile non può estraniarsi dalla problematica complessiva del mondo giovanile.
Noi possiamo e dobbiamo inserirci in questa maturata preoccupazione della società civile.
Dobbiamo sottolineare un'altra cosa. Un Centro giovanile che ha sempre concepito la sua opera di evangelizzazione anche in termini di aderenza al mondo e ai problemi giovanili (oggi diciamo di «promozione umana»), ha sempre considerato gli interessi elementari della gioventù e quindi è sempre stato nel territorio un momento importante di socialità. Non lo deve inventare oggi.
Questo non vuol dire che tutto funzioni e i Centri giovanili non debbano cambiare in qualcosa e aprirsi maggiormente al quartiere. Infatti, quando questa sensibilità era molto più scarsa di oggi, essi erano normalmente chiusi all'interno del loro mondo, diventavano un'isola felice, in un mondo che non si interessava di queste cose. Oggi, in un mondo che ha acquisito questa sensibilità, chi opera in un Centro giovanile deve cambiare mentalità. E non sempre è facile.
Il cambio nella mentalità dell'educatore significa anche cambio operativo: se ieri il Centro giovanile si interessava prevalentemente dei suoi problemi interni, oggi deve aprire la sua sensibilità e la sua operatività verso il territorio, inserendosi nei progetti che esistono, che la comunità sociale mette in cantiere per affrontare questa problematica.
Quali sono le strutture che un Centro giovanile può concretamente mettere a disposizione del territorio, sulle quali cioè può iniziare un reale processo di partecipazione?
Il dialogo con il territorio è legato alla capacità di servire gli interessi concreti, umani, dei ragazzi e dei giovani. E cioè quelli relativi alle loro esigenze di crescita: fisica, psicologica, sociale.
Il Centro giovanile ha sempre avuto attrezzature classiche per questi obiettivi. Penso all'ambito delle attività ricreative, sportive, di tempo libero; e questo con un grosso peso educativo, perché tutti oggi riconoscono la funzione formativa di queste attività. Abbiamo cortile, sale di tempo libero, materiali sportivi.
Un Centro giovanile un po' vivace si è sempre dotato di strutture per la formazione culturale: sale di riunione, piccole biblioteche, sale di audizione, sale cinematografiche (un tempo prevalentemente destinate allo spettacolo domenicale, ma oggi impegnate in cineforum). Qualche volta si hanno attrezzature più preziose, come palestre e piscine. Tutte queste attrezzature sono un punto di aggregazione importante, in una società disaggregante come è la nostra.
Moltissimi giovani che sono passati attraverso i Centri giovanili hanno inoltre fatto una reale esperienza socializzante, anche in senso tecnico, con larga esperienza partecipativa, nella gestione per esempio della vita associativa. Tutte queste strutture sono dimensioni sulle quali si può e si deve stabilire un rapporto e un servizio per il territorio: una collaborazione sul piano educativo e sociale.
In questi ultimi anni abbiamo visto aperture al quartiere in modo incondizionato o chiusure emotive e integriste. Qualcuno avanza anche l'ipotesi educativa, per motivare una posizione o l'altra.
Secondo la sua esperienza, quando si può parlare di «apertura» in modo corretto? Quali condizioni vanno rispettate?
Le posizioni correnti sono due. Le presento in modo un po' estremizzato Qualcuno dice: noi al Centro giovanile «prepariamo», poi i giovani si impegneranno nel quartiere. Questa è una posizione limitata e riduttiva, perché i Centro giovanile è nel suo essere una parte viva del territorio: la partecipazioni è un dato di fatto, da ricomprendere e vivere.
Un Centro giovanile che oggi si estraniasse dalla dinamica operativa del quartiere, sarebbe sicuramente poco educativo. Non parlerei mai di «preparazione in vista del domani», ma di presente attivo e partecipato, nella istituzione in quanto tale. In questo senso parliamo di pluralismo di istituzioni che collaborano verso un unico fondamentale obiettivo promozionale.
La posizione opposta è quella che apre talmente il Centro giovanile da costringerlo a perdere la propria identità. Anche questa posizione io rifiuto come non corretta, perché, nel pluralismo, ogni istituzione deve portare la propria specificità, in un dialogo reciprocamente arricchente.
Dobbiamo inventare una posizione intermedia tra le due estreme che ho denunciato. Più uno è se stesso, più approfondisce la propria identità, meglio sa collaborare. Io non vedo contraddizione tra l'essere veramente se stessi e il partecipare profondamente alla vita del territorio.
Questo è il punto fondamentale.
Faccio esempi. Noi non siamo disponibili ad una collaborazione che ci svuoti; non siamo disponibili ad accogliere qualsiasi proposta, a prescindere da criteri valutativi. Rifiutiamo l'abitudine di un affitto puro e semplice dei locali, perché non ha senso: o c'è una presenza attiva, portatrice di idee o non si può parlare di collaborazione. Se le strutture fossero totalmente superflue, penso che si dovrebbe arrivare a cederle.
Un secondo esempio lo faccio pensando ai teatri. I Centri giovanili possiedono teatri. E oggi vanno a ruba, perché si è ritrovato la portata educativa del teatro. Ce li richiedono. E noi li mettiamo a disposizione. Ad una condizione: quale cultura viene fatta circolare attraverso l'azione teatrale? Possiamo mettere a disposizione strutture per far circolare una cultura radicalmente opposta a quella in cui ci riconosciamo? Al massimo, possiamo consentire a questo uso, purché ci sia un momento di revisione critica, che aiuti a prendere posizione di fronte alle proposte. Altrimenti rinunciamo veramente ad una fondamentale funzione educativa.
INTERVISTA A MARIO VECCHIONE, ASSESSORE PER L'ASSISTENZA DELLA REGIONE PIEMONTE
Le parrocchie e i centri giovanili possiedono molte strutture: sale da gioco, attrezzature sportive, sale per incontri, per cineforum, biblioteche..., chiediamo il senso e l'uso di queste strutture.
Come vede lei il problema?
Queste strutture sono oggettivamente un punto di incontro importante, soprattutto per città disaggregate come è Torino.
L'apertura di queste strutture al territorio e cioè l'integrazione di queste strutture e delle persone che in esse operano nella realtà circostante, è un fatto che noi vediamo molto positivo. Esiste anzi una esperienza già realizzata nella nostra Regione, in modo particolare per quanto riguarda la preparazione degli animatori e la conduzione dell'«Estate ragazzi».
Crediamo che la testimonianza ideologica o quella a carattere religioso-confessionale non debbano risultare una imposizione di formule ma la manifestazione del modo con cui si affronta la vita e quindi del modo con cui ci si rapporta al territorio e alla popolazione, dell'impegno con cui si riesce a stare assieme alla gente, per offrire momenti di vita partecipata. Quando la testimonianza è vissuta in questi termini, emerge più facilmente il significato di quello che uno fa e quindi una motivazione più spontanea per la maturazione di ogni persona. Questa è, secondo me, la strada migliore.
In questo senso apprezzo molto l'apertura al territorio delle istituzioni cristiane. Esse del resto possiedono un'esperienza che affonda le sue radici nel tempo. Queste stesse istituzioni sono realtà che fanno parte del contesto sociale; in esse si riconoscono molte persone, anche di diversa estrazione. La loro apertura al territorio significa perciò presa di coscienza di un rapporto che comunque già esiste.
Ho già detto che ci sono realizzazioni in atto. Non pongo cioè il problema in termini teorici e astratti e neppure faccio una proposta politica su cose che non si sa come e quando si potranno realizzare. La tendenza in cui si riconosce il mio Assessorato, in questa materia, è quella non solo di riconoscere le esperienze originarie che ci sono sul territorio, non solo di non mortificarle, ma soprattutto di chiamarle alla collaborazione.
Faccio un esempio concreto. Abbiamo varato in questi giorni tre grosse commissioni su problemi molto importanti. In esse sono presenti tutte le forze. La proposta è sempre la stessa: mettiamo assieme le esperienze che ciascuno possiede. Ragionando sulle cose fatte da tutti, nasce la delibera di Giunta. Di fronte a questa deliberazione i singoli, i gruppi, le comunità, le organizzazioni sindacali sono invitati ad esprimere il proprio parere. E, si noti, con la costituzione ampia delle commissioni io non cerco una copertura di carattere politico all'operato della Giunta, ma un aiuto di carattere tecnico dal quale trarre poi le conclusioni per definire l'intervento deliberativo.
Ho fatto un esempio di carattere istituzionale. Sono convinto che sul territorio, nelle esperienze di base, questa collaborazione si può realizzare in termini molto più immediati e freschi.
Normalmente si danno due soluzioni: vengono accettate le strutture delle Istituzioni cristiane, ma si cerca di farne luogo di educazione e di riflessione in vista di una presenza matura nel territorio; oppure vengono rifiutate e qualche volta cedute all'Ente locale, per favorire totalmente la partecipazione.
A quali condizioni lei vede possibile parlare di «luoghi di educazione alla partecipazione», nel primo caso?
O, nel secondo caso, con quali garanzie potremmo rinunciare alle varie strutture? Quale ipotesi preferisce?
Devo dire francamente che non preferisco una ipotesi contro l'altra. Le due posizioni mi sembrano egualmente corrette e interessanti.
Nel primo caso l'istituzione esercita un ruolo attivo negli impegni partecipativi del territorio, mettendo in gioco, con serietà e onestà, le proprie concezioni. Si richiede, evidentemente, una presenza non come componente separata, ma come componente chiaramente integrata con la vita del territorio. Penso, per esempio a quanto fate voi salesiani. Una dimensione importante del vostro essere si è costituita attorno all'educazione dei giovani. Questa capacità viene mantenuta e viene rapportata con le esigenze e le esperienze dei diversi Comuni.
In altri casi, invece, esiste il tentativo di liberarsi dalle strutture, perché così ci si libera dai problemi e dal peso del ruolo. Questo fatto ha origine diversa. Qualche volta dipende dall'aver avvertito le difficoltà di seguire i tempi e di intessere i rapporti necessari (magari per difficoltà originate da amministratori fermi su posizioni ideologiche). Altre volte si tratta di una scelta. Conosco una parrocchia in cui il responsabile ha messo a disposizione del Comune tutta la sua struttura. Si è detto: questa è una esperienza di territorio, dunque è giusto che la conduca l'Ente locale. La parrocchia solleciterà la realizzazione, anche dal pulpito alla domenica. Non è una sollecitazione concorrenziale, ma a forma di stimolo, vissuta da tutta la popolazione.
Purtroppo esistono anche altre situazioni, preoccupanti e gravi. Ci sono strutture che non perseguono più le loro finalità assistenziali e che quindi potrebbero e dovrebbero essere sciolte. Esse hanno come unico scopo quello di affittare i propri locali al Comune. In questo caso, un ragionamento semplice farebbe concludere: se questa struttura ha l'unico scopo di prendere quattrini dal Comune, la si chiuda e basta. E invece ci sono levate di scudi, che fanno un certo polverone. Questo preoccupa un poco: sono le posizioni più arretrate.
La conclusione è semplice: verifichiamoci e confrontiamoci nel merito dei problemi. Solo così nascono reali esperienze, modi e rapporti con cui si intrecciano gli interventi. Parliamo meno di «pluralismo», perché è una parola tanto facile da pronunciare quanto difficile da realizzare da tutte le parti; e facciamo più fatti.