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    Perché la nonviolenza



    Jean Marie Muller

    (NPG 1977-09-40)


    LA NONVIOLENZA È LOTTA PER LA GIUSTIZIA

    Storicamente, gli accenti con i quali si è espressa l'esigenza della giustizia sociale sono stati il più delle volte discordanti rispetto a quelli con i quali si è espressa l'esigenza morale, in modo particolare quando questa era fondata su delle convinzioni religiose. Ora, la nonviolenza è stata fino ad oggi più legata ai secondi che ai primi. Essa è apparsa solamente come una fedeltà senza riserve ai comandamenti divini, come una morale che salvaguardia la purezza della coscienza, come una mistica o una filosofia senza rapporto con il reale. In questa prospettiva, la nonviolenza soddisfa le esigenze dell'eternità, ma sembra incapace di soddisfare le esigenze della storia. E benché sia spesso usato in modo disonesto, non potremmo scartare puramente e semplicemente l'argomento che attribuisce valore al fatto che bisogna essere al riparo da ogni bisogno per avere il piacere di dissertare sulla bellezza e la purezza della nonviolenza.

    Nonviolenza = sofferenza?

    Nelle sue formulazioni morali e/o religiose, la nonviolenza è stata spesso presentata come una accettazione paziente della sofferenza, come una non-resistenza alla violenza. Questa non-resistenza è illustrata in modo particolare dal principio evangelico del porgere l'altra guancia. Si tratta in questo caso di testimoniare la verità, senza ricercare un'efficacia immediata in rapporto agli eventi. Nelle sue estreme conseguenze, questo atteggiamento conduce al martirio. In tutte le tradizioni spirituali, questo è giustamente considerato come l'espressione della più alta virtù e del più grande coraggio. Deve essere considerato anche come l'espressione più alta della nonviolenza. Ma conviene distinguere, da una parte il martirio e dall'altra l'azione diretta nonviolenta. Il martirio è l'ultimo ricorso di colui che è stato sconfitto. È l'ultima testimonianza dell'uomo disarmato, ridotto all'impotenza da forze più grandi delle sue, allorché ogni strategia è fallita, allorché ogni lotta è divenuta impossibile. In se stesso allora, il martirio ha il suo senso e la sua efficacia. La sua fecondità non è solamente per l'eternità ma per la storia. Ma prima di pensare al martirio, l'uomo deve riversare nella lotta le sue forze al fine di far valere i propri diritti e sforzarsi di trionfare sulle forze che gli sono ostili. Così, nella prospettiva di una strategia mirante alla più grande efficacia nella ricerca della giustizia, non si può universalizzare in modo puro e semplice il precetto di porgere l'altra guancia. Se la logica della strategia nonviolenta esige di non restituire colpo su colpo e di rifiutare così di impegnarsi nella spirale della violenza, essa esige anche non soltanto di evitare il secondo schiaffo ma di evitare anche il primo. La strategia nonviolenta deve essere una strategia della resistenza. Si tratta soprattutto di non sottomettersi alla volontà del nostro nemico, di non accettare passivamente le sofferenza che ci fa sopportare e di combattere il suo potere fino al suo disfacimento.
    La nonviolenza non fa sua la «spiritualità della sofferenza» che ha avuto seguito poc'anzi in certi ambienti cristiani (e che era d'altronde del tutto estranea al vero cristianesimo). Questa spiritualità era in effetti una spiritualità della rassegnazione: il fallimento su questa terra veniva esaltato come garanzia della salvezza eterna.
    Certo, la nonviolenza esige di essere disposti ad accettare la sofferenza, nel senso che esige di essere liberati dalla paura della sofferenza e di avere il coraggio di sopportarla per far prevalere il diritto e la giustizia. Il vero coraggio dell'eroe, anche del guerriero, è precisamente quello di aver dominato la paura della sofferenza, di osare affrontare i più grandi pericoli e di sfidare la morte per difendere quelli che sono senza difesa, o per ristabilire il diritto degli oppressi. Nella prospettiva della nonviolenza, questa accettazione senza compiacenza della sofferenza, unita al rifiuto di rendere colpo su colpo, acquista :tutto il suo significato e tutto il suo valore. Ma i tratta di accettare la sofferenza lottando per a giustizia, e non rassegnandosi all'ingiustizia.

    OGNI AZIONE POLITICA VA ORIENTATA DALLA «MORALE»

    L'azione politica non può sprezzare le esigenze della morale, ed è precisamente una delle caratteristiche essenziali della nonviolenza quella di affermarle. Non può esserci autonomia della politica rispetto alla morale. Questa tesi è stata sostenuta, ma è insostenibile. Se la politica deve essere al servizio dell'uomo e se la morale dà fondamento al rispetto dell'uomo, allora è proprio compito della morale valutare e giudicare la politica sia nei fini che persegue, sia nei mezzi che adopera. Non solamente è legittimo ma è necessario affrontare ogni riflessione sulla politica a partire dalle conclusioni di una riflessione preliminare sulla morale.
    L'azione politica non potrebbe sottrarsi alla ricerca dell'efficacia, ma quali sono i criteri dell'efficacia? L'efficacia stessa non è che un mezzo al servizio dell'uomo e non può dunque essere definita che in funzione delle esigenze di questo, le quali sono, in fondo, le esigenze della morale. Allora una efficacia che non soddisfi a queste esigenze è veramente efficace? Così pure lasciare intendere che noi non abbiamo scelta che tra mezzi morali ma inefficaci, e mezzi efficaci ma immorali, significa far perdere fiducia sia nella politica che nella morale, ossia, nell'uno e nell'altro caso, far disperare dell'uomo e rifiutare ogni senso della storia. L'efficacia ricercata con l'azione deve restituire all'uomo il suo vero significato, e questo sfugge ad ogni pragmatismo che si preoccupi soltanto di ottenere «risultati concreti». Ora, precisamente, la crisi profonda della nostra società è una crisi di significato.

    Stretto rapporto tra fini e mezzi

    C'è da meravigliarsi davanti all'assenza di riflessioni sul problema dei mezzi adoperati nell'azione, e questo qualunque sia il riferimento culturale rispetto al quale ci si pone. Tutte le ideologie sono scivolate immediatamente dalla giustificazione del fine che intendevano perseguire alla giustificazione dei mezzi che mettevano in opera. Tutte sono arrivate a lasciare intendere che «il fine giustifica i mezzi», vale a dire che il fine giustifica qualsiasi mezzo. Si sa come, in numerose circostanze storiche, l'esaltazione fanatica del fine ha condotto gli uomini a commettere le peggiori atrocità con la convinzione di essere nel loro buon diritto.
    Ogni discussione su questo problema dei mezzi si svolge come se l'importanza data alla scelta dei mezzi sia in qualche modo sottratta all'importanza che conviene accordare al fine, come se l'attenzione prestata ai mezzi divenga un disturbo per l'azione. L'errore non è d'altronde di dare il primato al fine rispetto ai mezzi, l'errore è di lasciare al caso la scelta dei mezzi, e di non comprendere che esiste un legame organico tra i fini e i mezzi. È vero che ciò che deve essere primo nell'azione, è il fine ricercato. È deplorevole che certe presentazioni della nonviolenza abbiano lasciato intendere che la scelta dei mezzi sia più importante della scelta del fine. Infatti allora gli oppressori che difendessero i loro privilegi con mezzi nonviolenti sarebbero più degni della nostra stima e della nostra solidarietà che gli oppressi che lottassero con mezzi violenti perché si dia loro giustizia. A forza di insistere sulla purezza dei mezzi, si finisce col dimenticare quali siano i fini ricercati dalla nonviolenza, e questa finirebbe con l'apparire fine a se stessa. Prima di proporre tali o talaltri mezzi è ancora necessario proporre fini concreti che si integrano con una strategia globale. Come ha sottolineato Nehru, «in mancanza di una concezione chiara del fine, non si può che errare a caso e sciupare le energie nel lusso di spese secondarie». Non serve a nulla affermare che si ricerca la giustizia e la pace, se non si precisa quale giustizia e quale pace sono ricercate. La scelta dei mezzi buoni non può da sola garantire la fondatezza di una azione. «Negli ultimi anni - scrive Martin Luther King nella sua lettera dalla prigione di Birminghan - ho costantemente predicato che la nonviolenza esige mezzi tanto puri quanto il fine per cui lottiamo; ho cercato di spiegare che è sbagliato usare mezzi immorali per ottenere fini morali. Ma adesso debbo ammettere che è altrettanto sbagliato, e forse ancora più sbagliato, usare mezzi morali per perseguire fini immorali».
    Così la scelta dei mezzi è di secondo piano rispetto alla scelta del fine; è seconda, ma non è secondaria. «Chi vuole il fine, si dice, vuole i mezzi». Ma questo deve voler dire appunto: chi vuole il fine non deve volere qualsiasi mezzo, ma deve ricercare i mezzi che gli permetteranno di conseguire effettivamente il fine ricercato. È proprio l'importanza che noi dobbiamo attribuire al fine perseguito che ci deve portare a considerare come essenziale la scelta dei mezzi. Questa coerenza tra il fine e i mezzi deve essere ricercata sia come un'esigenza della moralità dell'azione, sia come un'esigenza della sua efficacia. Infatti l'uso dei mezzi non solamente condiziona ma determina nei fatti la realizzazione effettiva del fine. «I mezzi - scrive Gandhi - possono essere paragonati al seme, e il fine all'albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l'albero».

    L'ESEMPIO DI GANDHI

    Gandhi è un personaggio molto complesso e talvolta assai sconcertante. Nehru, che sapeva di chi parlava, non si sbagliava certamente quando diceva di lui che era «uno straordinario paradosso». Il suo pensiero disperso in molti scritti di circostanza, non è facile a cogliere e colui che vuole sforzarsi di farlo deve imporsi un lungo e paziente approccio. Inoltre è vero che Gandhi si è espresso il più delle volte da uomo religioso che invita alla conversione, piuttosto che da uomo politico che espone un metodo d'azione. Per Gandhi, solo colui che si abbandona a Dio è in grado di mettere in opera nell'azione tutta la forza della nonviolenza. Per lui la nonviolenza è prima di tutto una fede: «Esattamente come noi crediamo in Dio con la fede - afferma - noi dobbiamo credere nella nonviolenza con la fede». Leggendo numerosi scritti di Gandhi, si può dunque arrivare a concludere che la sua nonviolenza «consisteva effettivamente nel ristabilire una' base spiritualista e religiosa alla lotta degli uomini per la loro liberazione». Ma non sarebbe giusto fermarci a questo giudizio. Infatti l'analisi rigorosa delle azioni di cui è stato il promotore, ci mostra chiaramente che egli propone dei metodi che non sono di uso esclusivo di quelli che condividono la sua fede nella nonviolenza. Quando si rivolgeva ai membri del Congresso dell'India, «egli non chiedeva che lo si seguisse perché predicava l'amore e la verità. Egli chiedeva che lo si seguisse perché la nonviolenza era la migliore politica». Si esprimeva allora in questi termini: «La nonviolenza è per me un credo, il respiro della mia vita. Ma io non l'ho mai presentata come un credo. L'ho presentata come un metodo politico destinato a risolvere dei problemi politici. È possibile che il metodo sia nuovo, ma esso non perde per questo il suo carattere politico. [...] In quanto metodo politico, esso può sempre essere cambiato, modificato, trasformato, anche abbandonato per un altro. Se dunque io vi dico di non abbandonare la nostra politica di oggi, parlo con saggezza politica. [...] Se ho trascinato il Congresso dietro di me per tutti questi anni, l'ho fatto nella mia qualità di politico». Fin dal 9 marzo 1920, Gandhi aveva precisato molto chiaramente il suo pensiero su questo argomento in un articolo apparso nel suo giornale «La Giovane India (Young India)»: «Finché dura - scriveva - l'onestà come politica non differisce in nulla dall'onestà per credenza. La differenza che esiste tra le due è che il mercante che crede alla politica dell'onestà non accetterà più l'ingombro della sua onestà quando non ne ricaverà nulla, mentre colui per il quale essa è una convinzione continuerà ad essere onesto, anche se debba perdere tutto».
    Da parte sua, J. Nehru conferma le affermazioni di Gandhi: «Per noi e per il Congresso nel suo insieme, la nonviolenza non era, e non poteva essere, una religione, una fede o un dogma infallibile. Essa non poteva essere che una politica, una tattica promettente certi risultati; ed era in base a questi risultati che si doveva alla fine giudicarla». Altrove Nehru precisa: «Si è detto che l'azione nonviolenta era una chimera; essa è stata, qui, il solo metodo reale di azione politica». Inoltre è interessante sottolineare che al momento della lotta degli Indiani per l'indipendenza del loro paese, gli Inglesi rimproveravano a Gandhi di essere un uomo politico, mentre si aspettavano da lui che fosse un santo, e che oggi noi siamo tentati di rimproverargli di essere un santo mentre ci aspettiamo da lui che sia un uomo politico.

    PER LA NONVIOLENZA: UNA STRATEGIA DA INVENTARE

    Uomo d'azione, Gandhi non ci ha lasciato la teoria delle sue azioni che ci avrebbe permesso di comprendere direttamente quanto il suo apporto fosse considerevole e in che cosa potesse essere decisivo per la soluzione dei problemi ai quali noi dobbiamo far fronte qui e ora. Tocca a noi elaborare questa teoria. All'opposto di un atteggiamento negativo riguardo a Gandhi, è reale il pericolo per alcuni dei suoi «discepoli» di essere affascinati dalla sua vita e di accontentarsi di ammirare le sue opere celebrando la nonviolenza come l'unico rimedio a tutti i problemi d'oggi. Di fronte ad ogni situazione si cita allora Gandhi come altri citerebbero Marx e si crede così di avere la soluzione. Non ci sarebbe che da applicare in modo puro e semplice la dottrina di Gandhi per far fronte a tutte le difficoltà attuali. Si creano allora formule di catechismo che saranno ripetute per abitudine, senza che si sappia molto bene ciò che esse significhino. Così la nonviolenza sarà definita come «la forza dell'amore e della verità», ma una simile espressione non vuole nello stesso tempo dire tutto e non dire niente? Bisogna ancora mostrare come, con quali mezzi concreti, è possibile mettere in opera questa forza per risolvere tale o talaltro problema concreto. È lontano da noi il pensiero che verità e amore, giustizia e pace non sono che delle parole, ma bisogna diffidare dal metterle avanti al solo fine di riempire un vuoto di immaginazione che sarebbe una reale impotenza. Noi abbiamo la convinzione che, all'infuori dell'amore e della verità, non possiamo fondare alcuna speranza di una società più giusta e più libera; inoltre, sarebbe illusorio lasciare intendere che una azione nonviolenta, capace di aver ragione di una ingiustizia radicata negli animi e nelle strutture, possa ridursi al puro ragionamento della verità e dell'amore. Certo, non si tratta di ridurre la nonviolenza ad una tecnica; i metodi proposti dalla strategia della nonviolenza potrebbero allora essere utilizzati per una causa ingiusta e divenire a loro volta una nuova forma di violenza. Ma sarebbe anche grave ridurre la nonviolenza a una «mentalità». Bisogna riaffermare qui che la fedeltà alla legge morale non potrebbe essere il solo criterio necessario per colui che intende agire efficacemente nella storia. Conviene non soltanto non disinteressarsi dell'efficacia della nonviolenza, ma ancora sforzarsi costantemente di ricercarla.
    A rigore, l'amore non può essere presentato come un'alternativa alla violenza. La violenza non è un vizio, essa è una tecnica d'azione. Allora, per farla cessare, non basta esaltare una virtù, bisogna proporre un'altra tecnica d'azione. Non è vero che «basta l'amore», perché la giustizia e la pace possano prevalere. Si tratta di sapere come amare, con quali metodi, con quali tecniche, affinché l'amore sia efficace e realizzi effettivamente la giustizia e la pace. Nella realtà, la sola generosità è inoperante; essa deve essere al servizio della competenza. L'intelligenza, qui, non è un lusso, è una necessità. Si parla volentieri della «potenza dell'amore», ma questa espressione è ingannevole. Molti, nelle situazioni più diverse, hanno, al contrario, sperimentato fino alla disperazione l'impotenza dell'amore a realizzare il proprio progetto. L'amore è, per se stesso, disarmato per dominare gli avvenimenti secondo i suoi desideri e le sue aspirazioni. Come il disprezzo e l'odio sono inoperanti se non hanno i mezzi della potenza, così l'amore. Anch'esso deve darsi questi mezzi senza, per questo, contraddirsi.
    L'azione nonviolenta non è dunque la pura testimonianza morale. «Non basta avere ragione contro l'errore - scriveva Bernanos - bisogna averne ragione». Ecco perché l'azione nonviolenta esige una strategia capace di darle un'efficacia reale. Di fronte ad ogni situazione di ingiustizia, le esigenze richieste dal rispetto dell'avversario non devono affatto essere formulate soltanto in termini di morale, esse devono essere formulate, in riferimento ai dati concreti di questa situazione, anche in termini di strategia. A tal fine, la strategia nonviolenta si sforza di mettere al servizio dell'azione non solamente «la purezza della colomba» ma anche «l'astuzia del serpente». L'astuzia: non certo la menzogna, la furbizia o la frode, ma la lucidità, la chiaroveggenza, l'opportunità, l'audacia, l'immaginazione e l'abilità.

    (Queste pagine sono tratte, in modo antologico, da J.M. Muller, Strategia della nonviolenza, Venezia 1975).


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