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    Giovani, educazione e politica



    (NPG 1977-08-18)


    Temi e problemi come quelli che abbiamo appena ricordato, aprendo il dossier, ce li sentiamo tutti sulla pelle. Non è affatto necessario acutizzare il dramma. Trascriviamo quattro «documenti», di natura diversa. Essi ci aiutano a dare voce, qualche volta a quantificare, quello che ogni giorno viviamo. Ogni lettore può trovare nella sua esperienza «materiale» (prospettive e problemi) simile. Messo in comune e fatto circolare all'interno della comunità educativa, può essere prezioso per «iniziare», dal concreto, una programmazione educativa, urgente e irrinunciabile, verso la maturazione politica dei giovani.

    DOCUMENTO PRIMO
    POLITICA, CHIODO SEMPRE DURO DA BATTERE

    Alcune letture fatte in questi ultimi giorni hanno fatto riaffiorare ancora una volta lo scoglio «politica» che nel nostro Centro giovanile sta sempre sotto il pelo dell'acqua ed emerge molto raramente.
    Ancora una volta la Comunità ha dovuto sbatterci la faccia contro.
    Infatti questo problema non è certamente tra quelli preferiti dai suoi appartenenti. Inoltre nasce sempre il problema se vi può essere una correlazione tra fede cristiana, di cui la nostra Comunità afferma di essere alla ricerca, e l'impegno politico.
    Il tentativo di chiarificare una volta per tutte questo interrogativo, mi ha spinto a ricercare cosa la Comunità aveva già affermato su questo problema. E dopo lunghe ricerche ho trovato i dossier conclusivi dei campi scuola di Arvier '75 e li ho un po' spulciati. E ho trovato quanto segue:
    «Il cristiano vive la sua fede nella vita quotidiana, cercando di cogliere le esigenze storiche del momento per attuare di conseguenza i servizi più opportuni. Il suo è un impegno a vivere non solo con gli altri, ma anche e soprattutto per gli altri».
    «L'esperienza di un cristiano gira attorno ad un fatto strepitoso: la morte e risurrezione di Cristo, il quale è un Dio totalmente inserito nella storia del mondo e concretamente impegnato nell'attuazione del proprio piano di liberazione dell'uomo. Perciò se facciamo questa scelta dobbiamo essere legati contemporaneamente alla storia e al progetto, infatti solo così riusciremo a vivere la nostra dimensione di servizio ai fratelli più poveri».
    Da tutto ciò mi sembra trasparente che la nostra comunità non deve solo educare i giovani al suo interno, chiudendoli all'interno di essa.
    Ma deve essere una comunità aperta al mondo.
    Quindi non possiamo farci la nostra chiesuola, dove tutti vivono felici. Allora, come abbiamo detto al secondo campo scuola A. '75, «non basta un impegno all'interno», che potrebbe divenire alienante, ma bisogna che ci sia un preciso impegno nel proprio quotidiano storico.
    Il Centro giovanile apre sul quartiere, sulla zona di cui è parte per spingere ad una presenza seria lì.
    E da li, negli ambienti normali di vita dei giovani: scuola, lavoro...
    L'eucaristia è trovarsi insieme a Colui che ti ha amato fino alla donazione totale di sé, ma è anche un'utopia che devi cercare di realizzare con il tuo amore, è la tensione che ci spinge a costruire giorno per giorno il modello finale. Proviamo a chiarificarci su cosa significa politica.
    Risalendo alla fonte etimologica della parola, ho sfogliato il vocabolario di greco: ho trovato che ogni vocabolo che riguarda questo tema ha come radice unica il termine «polis», che significa «città», da cui deriva il verbo «politeuo», che significa «essere cittadino, partecipare alla amministrazione della città». Politica non equivale alla lotta tra i partiti, politica «non è solo far carriera», politica non è... ma allora quando facciamo politica?

    Far politica è l'azione che ogni persona compie in favore degli altri

    Politica è educare
    lavorare
    non buttare la carta ovunque
    pagare il biglietto del tram
    parlare
    fare un recital
    aiutarsi e aiutare a riflettere
    organizzare la colonia
    cercare di risolvere alcuni problemi della zona
    pregare
    ... e ancora altro.
    I partiti quindi rappresentano solo un aspetto della politica.
    Il partito è un organismo popolare in cui alcune persone con idee abbastanza affini cercano di realizzarle, credendo che queste idee, una volta realizzate, potranno andare a vantaggio di tutti i cittadini di una città, o di una regione o di una nazione. La formazione di diversi partiti, che hanno matrici ideologiche diverse, ha creato la lotta partitica che è certamente anch'essa politica.
    Ma accanto a questi organismi organizzati, quali sono i partiti, vi sono altre strutture di base, come i Comitati di quartiere, i CSU, i CUB, i CPS, i Sindacati. Ma l'adesione a questi organismi non può essere di tutta la Comunità, ma solo del singolo, poiché la Comunità educa le persone a chiarificare e confrontare alcuni problemi politici tra i più attuali, ma poi spetta al singolo scegliere il mezzo migliore per attuare le scelte fatte sia singolarmente, sia comunitariamente. La Comunità fa una scelta di classe che è ben chiara: tutti noi ci schieriamo con la classe dei più poveri.
    La nostra scelta non vola sui tetti delle nostre case, del nostro quartiere che è un quartiere proletario e sottoproletario. Non facciamo che sposare ciò che ci circonda.
    La Comunità non fa una scelta di partito. Perciò è il singolo componente di essa che si deve prendere tutte le responsabilità che questa scelta comporta.
    Ora dopo queste «sparate» ideologiche, vediamo un po' come noi abbiamo messo in pratica quanto avevamo affermato in quei lontani giorni di settembre. Permettetemi di essere un po' cattivo, perché penso che solo così potremo fare una revisione più seria per tentare di andare più avanti.
    È una riflessione fatta al plurale poiché nessuno si può sentire escluso da questo impegno che non abbiamo portato avanti.
    Ci siamo lasciati a settembre con il motto: dalla crisi ai fatti.
    E da allora quanti «fatti» abbiamo compiuto?
    Chiaramente lo scontro con il «quotidiano» crea molti problemi, che la Comunità alle volte non ci ha aiutato a chiarificare.
    Ma noi questi problemi non li affrontiamo, ma li ignoriamo, e anzi, quando si è nel proprio specifico quotidiano non vediamo l'ora di tornare al Centro giovanile, dove non arrivano questi problemi politici «esterni» (riforma della scuola media superiore, contratti di lavoro, elezioni anticipate...).
    O se giungono sono ricoperti da innumerevoli strati di ovatta, altrimenti ci possono rovinare la digestione del nostro tempo libero, così questi problemi sono ridotti a battute, che alle volte fanno anche ridere.
    Ma oggi la moda vuole che si sia impegnati politicamente, ed anche lo si sia in una certa direzione: allora tutti noi corriamo a comperare l'ultimo L.P. degli Inti Illimani; tutti noi sappiamo l'ultimo slogan gridato all'ultimo corteo. Noi no; ... noi non siamo come quei «cialtroni» che parlano sempre alle assemblee di proletariato, Marx, occupazione... e poi abitano in collina, e hanno la Honda 750 o l'Alfetta dietro l'angolo.
    Invece noi siamo figli di operai,
    noi abitiamo in un quartiere proletario,
    noi sappiamo cantare molto bene «El pueblo unido», e
    noi sappiamo gridare «morte al fascio», soprattutto ai campi scuola, lassù in montagna dove stavamo tanto bene, e la fine di quei bellissimi giorni ci ha fatto tanto piangere, perché bisognava tornare nella solita vita di Valdocco. Noi sì ... che siamo impegnati politicamente, ma sul serio.
    Alle assemblee a scuola, noi... non partecipamo, tanto sono sempre le stesse cose, e poi «quelli» non sono coerenti, meglio andarcene in giro per la città; o rimanere rintanati nelle nostre classi o al fondo dell'aula magna dove si tiene l'assemblea, a parlare dell'ultimo film visto, da notare che era programmato nei cinema d'essai, che sono per la maggior parte films impegnati.
    Il quartiere? Ma noi la politica la facciamo già a scuola, perché partecipiamo a tutti gli scioperi, anche se la maggioranza delle volte non sappiamo nemmeno per quali motivi lo si fa. E poi per certi problemi bisogna essere degli esperti!!! Come ad esempio il problema dell'urbanistica, bisognerebbe almeno essere dei geometri; o quello dei «minori» bisognerebbe almeno essere dei sociologi, inoltre alle riunioni non riesci mai a capire niente! E poi non si conclude mai niente!
    All'oratorio, salutiamo pure con il pugno chiuso, ma poi non disturbateci troppo sovente con i problemi politici, meglio giocare a calcetto, rintanarsi nell'ufficio del prete, stare con gli «amici», a parlare di tutto e di niente, ci meritiamo un po' di pace dopo la fatica dello studio e del mondo.
    Ma allora
    ... il nostro impegno privilegiato nel quotidiano dove va a finire? ... siamo veramente testimoni, coi fatti, del nostro essere cristiani?
    ... e com'è possibile che una forza giovanile come la nostra non si «senta» nel nostro quartiere?
    Noi abbiamo detto che la nostra Comunità era aperta verso il mondo e ci ritroviamo dopo un anno in una Comunità che diventa sempre più una isola, che non solo non è aperta al mondo esterno politico, ma anche alle esperienze delle altre Comunità giovanili, tranne qualche raro caso.
    Questi problemi ancora oggi aperti e così drammatici non devono farci accettare la realtà così com'è fatalisticamente, ma ci devono spronare a ricercare nuove vie, maggior qualificazione, maggior impegno sia individuale sia comunitario. Ora cerchiamo di individuare gli strumenti che ci permettano di recuperare questo impegno nel quotidiano, che noi abbiamo sempre affermato essere quello più importante, poiché in un futuro, poi non tanto lontano, la nostra vita ci porterà, forse, lontano da Valdocco; e allora cosa faremo senza più la Comunità alle spalle che ci sorregge?
    Gli strumenti che ci servono per questo passo in avanti verso l'esterno possono essere di due tipi: individuali e comunitari.

    ESAMINIAMO ORA QUALI POTREBBERO ESSERE GLI STRUMENTI INDIVIDUALI

    1. Il parlare maggiormente di politica al Centro giovanile
    Ciò può essere aiutato con il portare al Centro giovanile quotidiani o riviste a carattere politico/sociale/culturale. Le quali potranno essere di volta in volta appese in sala per consentire una più ampia conoscenza e contemporaneamente ridare vita ai tabelloni rurali, che da troppo tempo sono vuoti e hanno perso il loro primitivo significato.
    Questo materiale potrà poi essere depositato in una saletta, a disposizione di tutti. Tale saletta dovrà configurarsi sempre di più come la biblioteca della Comunità, elemento essenziale per la nostra qualificazione.
    Bisognerà sfruttare sempre di più la sala anche come luogo di ritrovo personale e comunitario e non solo come momento puramente ricreativo, com'è attualmente. Perché oggi la sala favorisce dei modelli che vorrebbero riportare il Centro giovanile al passato, come luogo di puro divertimento.

    2. Maggior qualificazione
    Tutto quello sopra accennato permetterebbe un nuovo scambio di esperienze, che permetterebbero allo stesso tempo una maggior qualificazione. Poiché tutti noi non viviamo le stesse esperienze, ma proveniamo da impegni scolastici e lavorativi ben diversi.
    Ciò ci permetterebbe di trovarci sempre di fronte a nuovi problemi e rimanere sempre al passo con i tempi, mentre noi attualmente siamo ancorati al passato, seppur prossimo, ma pur sempre passato, perché i nostri problemi ed il nostro «linguaggio politico» è già stato superato dai tempi.

    3. Qualificarsi per ributtarsi nel quotidiano
    Ciò ci permetterà di ributtarsi all'esterno in maniera più preparata e potremmo aiutare anche i nostri compagni del «quotidiano» ad arricchirsi delle esperienze di cui siamo venuti a conoscenza frequentando i nostri «fratelli» della Comunità. Questo ci potrà dare una mano, oltre alla nostra volontà personale, ad impegnarci sempre più concretamente nel nostro lavoro quotidiano. Ciò permetterà poi di poter affermare più realisticamente che il Centro giovanile «non è più un'isola».

    E QUELLI COMUNITARI?

    Comunitariamente gli strumenti sono molto minori, sia per scelta della Comunità stessa, poiché ha sempre affermato che l'impegno quotidiano era un impegno personale dei partecipanti alla stessa, e quindi essa può solo favorire gli scambi di esperienze tra i suoi componenti, mettendo a disposizione sempre nuovi spazi di informazione e qualificazione: come le bacheche, il collettivo di informazione. Quest'ultimo andrebbe riscoperto e portato avanti da tutti quelli che sentono il bisogno di offrire alla Comunità un momento di confronto sui problemi più scottanti del momento.
    Il collettivo di informazione non dovrebbe avere nessuna gestione privatistica, ma tutti coloro che desiderano mettere a disposizione della Comunità la loro qualificazione su un determinato problema potranno fregiarsi di tale titolo. La Comunità «non potrà» mai condurre in prima persona nei nostri diversi quotidiani la lotta politica.
    La Comunità, potrà, forse, gestire in prima persona alcuni momenti rivendicativi o di qualificazione a livello di quartiere.
    Poiché mi sembra giusto che essa possa mettere a disposizione di tutta la popolazione della zona tutto ciò che essa approfondisce al suo interno. E perché di fatto essa gestisce alcune attività che vanno a beneficio della zona: come la colonia estiva, lo sport, il catechismo...
    Inoltre mi sembra giusto che essa possa offrire alla popolazione anche la «sua» preparazione culturale, per essere educativa anche verso gli adulti.
    Tutto questo potrebbe essere un momento di sensibilizzazione della gente, della quale fanno parte anche i nostri genitori (che noi vorremmo sempre incontrare a livello di Comunità e per ora non l'abbiamo mai fatto) sul nostro lavoro a livello giovanile, che dovrebbe essere controllato dalla popolazione non essendo l'educazione un fatto privatistico ma comunitario. E perché di fatto il nostro Centro giovanile è l'unico polo organizzato per i giovani del nostro quartiere.
    (Uno del Centro giovanile).

    A DUE ANNI DI DISTANZA: OPERAZIONE VERIFICA

    Il documento ha ormai due anni alle spalle. Cosa è capitato in questo tempo? Quali orientamenti sono stati privilegiati? Il chiodo della «politica» ha portato frutto?
    Abbiamo girato questi interrogativi ad un gruppo di protagonisti dell'esperienza, per fare con loro il punto.
    Ecco i risultati dell'operazione-verifica.

    LA SCELTA: IL QUARTIERE COME LUOGO DELL'IMPEGNO
    Abbiamo insistito molto sulla necessità di assumerci, come persone e come centro giovanile, un chiaro impegno politico.
    A due anni di distanza la maturazione più evidente è questa: il centro giovanile ha fatto «saltare» i portoni che lo tenevano chiuso in se stesso e vive un impegno promozionale «di» e «nel» quartiere.
    Ci spieghiamo.
    Anche solo due anni fa, al centro giovanile esisteva un gruppo del quartiere. Uno dei tanti gruppi che trovava accoglienza «dentro». Il suo interesse operativo era l'animazione e il servizio al quartiere. Oggi questo gruppo non esiste più. Tutto il centro giovanile «fa» quartiere. Come sempre, esistono alcuni che tirano di più, ma nei momenti-forti (feste, manifestazioni...) la partecipazione è di tutti.
    Per questo, il centro giovanile si è aperto al quartiere anche nelle manifestazioni culturali, come può essere il cineforum, e in quelle promozionali, come può essere l'organizzazione dell'estate per i ragazzi.
    Una scelta del genere porta altre decisioni. Le ricordiamo, perché sono importanti per noi, anche se tutt'altro che pacifiche.
    L'approfondimento dei problemi, la verifica delle loro soluzioni, lo studio e la progettazione degli interventi, non avvengono più nel centro giovanile, ma nel «quartiere», in un confronto molto ampio con tutte le forze sociali che in esso operano. Una volta noi facevamo i nostri piani al centro e poi, così agguerriti, ci buttavamo nella mischia. Oggi, tutti i problemi li studiamo nello spazio di tutti. Questo ci fa sentire più poveri, ma più autentici. A lungo andare ci ha costretti ad una qualificazione personale molto più attenta. Perché ciascuno gioca le sue scelte e la sua identità cristiana in prima linea, senza potersi trincerare dietro l'argine della decisione comunitaria.
    Facciamo un esempio. Nella nostra città, le forze sociali stanno agitando il «progetto giovani»: una serie di interventi promozionali per superare le difficoltà dell'attuale condizione giovanile. In quartiere se ne parla: è un momento importante di partecipazione di base.
    Noi abbiamo fatto nostro il problema. Come centro giovanile non ci siamo messi a studiarlo, ma partecipiamo tutti (quindi: come centro giovanile) al dibattito che si sta sviluppando nel quartiere.
    Il quartiere oggi è per noi il luogo prioritario del nostro impegno politico.

    LA FORMAZIONE PERSONALE
    Questa scelta ci pone grossi problemi. Lentamente potrebbe «svuotare» la nostra appartenenza al centro giovanile e così anche la nostra esperienza cristiana. Cerchiamo di non rinunciare alla prima senza perdere la seconda.
    Non ci sono momenti «organizzati» di confronto e di dialogo. Ma il tempo trascorso al centro è momento amplissimo di dialogo e di confronto a livello informale. Parliamo spesso di questi problemi, nell'a tu per tu quotidiano: tra noi e con i nostri preti. Non è che si parli sempre di politica... ma se ne parla molto, e con grande arricchimento.
    Nel centro giovanile «celebriamo» poi la nostra fede ed esperienza ecclesiale: nella preghiera, nell'eucaristia, nei momenti di «deserto».
    Un tempo-forte è segnato anche dai «campi-scuola» estivi, nei quali affrontiamo di petto i temi sui quali poi giocheremo tutte le nostre carte.

    LA MATURAZIONE DEI PIÙ GIOVANI
    La difficoltà più grossa, che mette in crisi (in discussione!) la nostra scelta è la scollatura che avvertiamo tra noi, più «vecchi», e i più giovani (biennio e primi anni del triennio). Essi si interessano molto meno di noi di questi problemi. Secondo noi, il loro livello di maturazione politica (e di riflesso anche ecclesiale) lascia a desiderare. Ci siamo, evidentemente, chiesti il perché.
    Abbiamo varie risposte.
    Prima di tutto costatiamo che la difficoltà è generale: gli adolescenti di oggi sono meno sensibili politicamente di noi che veniamo dal '68. Basta dare un'occhiata a quello che capita nella scuola.
    Ci sono però dei motivi nostri, interni. Questi adolescenti fanno difficoltà a trovare in noi dei modelli di identificazione, perché la scelta di lavorare prevalentemente nel quartiere, spinge il centro giovanile «fuori». Noi, di fatto, siamo poco all'oratorio, anche se ci sentiamo «molto» dell'oratorio. La mancanza di contatto frequente, di tempi di maturazione comune, di discussione sui problemi quotidiani, svuota la forza educatrice del centro giovanile. Non sono i «muri» che educano, ma le persone che ci vivono dentro. Facciamo molti «cartelloni»: ma non basta. Ci vuole un contatto interpersonale.
    Vediamo un'altra difficoltà nel fatto che gli adolescenti hanno bisogno di «gesti grossi», per capire il valore delle cose. Leggono più i «fatti» delle «parole». La scelta di lavorare nel quartiere non permette questi gesti grossi, perché si tratta di attività segnata di pazienza, lentezza, capillarità, contatti personali. Il centro giovanile si fa così troppo adulto, perché ha scelto un impegno «da» adulti. I ragazzi non si ritrovano più.

    POLITICA E RAGAZZE
    Il nostro centro giovanile è misto. In teoria non c'è distinzione tra ragazzi e ragazze nelle attività del centro e quindi anche nella partecipazione al quartiere. Di fatto poi la diversità esiste. Ce lo rimproverano giustamente le ragazze più sensibili e più coscientizzate. La nostra attività politica (anche nel quartiere) è spesso un'attività «maschile».
    Anche su questo fatto abbiamo posto l'interrogativo: perché?
    Nella nostra esperienza, esistono molte risposte.
    Prima di tutto, un ostacolo alla piena «parità» viene dalle famiglie. Molti genitori non sono contenti che le ragazze si buttino in politica. Chiudono un occhio per i maschi... ma le donne, no.
    Difficoltà provengono anche dalle ragazze stesse. Capita spesso che esse siano poco sensibili, abbiano altri problemi. Quelle più convinte, lentamente si staccano dal centro e si inseriscono nei movimenti femministi. C'è, stranamente, quasi un'alternativa tra partecipazione al centro giovanile e coscienza femminista. Forse – ed è l'ultimo motivo – la radice sta proprio nel nostro centro giovanile, nato «maschile» e non ancora sufficientemente maturato sulla linea della parità non formale.
    Non sappiamo bene cosa fare. Per ora ci poniamo il problema. Anche perché sarebbe un grosso guaio impegnarsi per la promozione «verso l'esterno», dimenticando le contraddizioni dell'«interno».

    DOCUMENTO SECONDO
    LA COLLOCAZIONE POLITICA DEI GIOVANI ITALIANI

    Sulla collocazione e sul livello di partecipazione politica dei giovani italiani, se ne dicono tante. Il confronto tra la «maggioranza silenziosa» e i «politicamente attivi» non è facilmente quantificabile. C'è il rischio di utilizzare come unico criterio la propria esperienza o il fiorire degli slogans.
    Dal '68 in poi si sono moltiplicate le ricerche e gli studi sulla condizione giovanile. E la variabile «impegno politico» ha trovato sempre un peso considerevole. Ma si tratta, spesso, di dati di difficile interpretazione, perché molto generalizzati. Normalmente poi hanno qualche anno alle spalle; e nel vortice di questi tempi, due-tre anni sono una generazione.
    Carlo Tullio-Altan ha tentato una interpretazione, in chiave antropologica, dei dati più ricorrenti. Partendo dalla ricerca effettuata dalla ISVET, su un campione nazionale di giovani dai 14 ai 25 anni, ha ricavato un tipologia, incrociando variabili di ordine socioculturale (scolarità, ambiente, professione dei genitori, sesso...) con i gradi di partecipazione politica.
    Ne è risultato un quadro molto stimolante, trascritto in Tullio-Altan C. - Mar-radi A., Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagine sulla gioventù degli anni settanta, Bompiani, Milano 1976.
    Da questo libro riproduciamo i «ritratti», in una nostra sintesi.

    GIOVANI BORGHESI CONSERVATORI

    Chi sono
    Costituiscono il 2.0% dei giovani italiani.
    Essi provengono da famiglie con un livello culturale molto elevato. Sotto il profilo economico (reddito delle famiglie) godono della posizione più elevata in assoluto.
    Oltre la metà di questi giovani studia; il livello di scolarità è superiore a quello di ogni altro gruppo.
    La condizione ambientale di residenza (città-campagna, nord-sud) non esercita alcuna influenza.

    Collocazione politica
    La quasi totalità di questi giovani (83.0%) è collocata a destra. La loro partecipazione politica è bassa. La maggioranza, in tema di interventi politici, ritiene che si debba lasciar fare alle autorità e seguire l'iter delle procedure amministrative.
    Modesto è il numero di questi giovani che legga giornali politici (7.4%).

    GIOVANI BORGHESI LIBERTARI

    Chi sono
    Costituiscono lo 0.7% dei giovani italiani.
    Culturalmente, economicamente e socialmente, essi rappresentano una condizione identica a quella dei giovani borghesi conservatori, descritta sopra. Anche per questa categoria, l'influsso ambientale è quasi nullo.

    Collocazione politica
    Questi giovani danno preferenze alla sinistra nell'ordine del 52.0%.
    La quota di coloro che prendono attivamente parte alla vita politica è relativamente delle più elevate. Essi mostrano preferenza netta per le attività dimostrative e per l'azione diretta. Danno scarso peso all'azione dei partiti. Essi sono i lettori più assidui della stampa politica.

    GIOVANI DEL CETO MEDIO PROGRESSIVO

    Chi sono
    Costituiscono il 5.6% dei giovani italiani.
    Questo gruppo si colloca nella sfera del lavoro indipendente, perché i loro genitori sono generalmente liberi professionisti, artigiani, agricoltori, gestori di servizi pubblici, commercianti.
    Il livello di scolarità di questi giovani è generalmente non troppo elevato: più basso di quello della borghesia nel suo insieme.
    È influente la variabile ambientale. Infatti questi giovani sono maggiormente presenti nelle zone settentrionali e in quelle urbane.

    Collocazione politica
    Le scelte politiche di questo gruppo si orientano verso la sinistra nell'ordine del 55.0%.
    Esso rappresenta una fascia di soggetti politicamente attivi. Danno il maggior peso all'attività dei partiti, un peso molto scarso all'azione diretta e all'attività di dimostrazione.

    GIOVANI DELLA «CLASSE OPERAIA»

    Chi sono
    Costituiscono il 14.4% dei giovani italiani.
    Questi giovani provengono da famiglie di impiegati e di operai, cioè da lavoratori dipendenti da chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione o dell'organizzazione dei servizi pubblici o privati. Le due categorie di impiegati e operai possono essere assimilate, sia per motivi teorici, sia per il fatto che il sistema produttivo delle cosiddette società avanzate è venuto progressivamente attenuando la storica divisione fra lavoro manuale e intellettuale.
    La scolarità media di questi giovani è molto elevata.
    L'ambiente influisce profondamente: questo gruppo ha le sue sedi privilegiate nelle zone settentrionali e nelle città.

    Collocazione politica
    Le preferenze politiche di questo gruppo vanno per il 64.0% alle sinistre. Sono pochi coloro che si rifiutano di dichiarare la loro scelta politica. La attività politica è elevata. Essi privilegiano le attività dimostrative e l'azione diretta, senza però rifiutare la mediazione dei partiti.
    In questo gruppo è riconoscibile una funzione centrale dell'intero quadro delle forze politiche progressive operanti nella gioventù italiana.

    GIOVANI DELLA CLASSE «LAVORATORI SINDACALIZZATI»

    Chi sono
    Costituiscono il 45.6% dei giovani italiani.
    L'origine socioeconomica di questo gruppo è eguale a quella del precedente. Poche sono le differenze: aumentano gli operai e diminuiscono gli impiegati, rispetto al gruppo precedente; il livello scolare è leggermente inferiore; meno pronunciati sono gli influssi ambientali.

    Collocazione politica
    Questo gruppo dimostra una tendenza moderata, conferendo alla destra il 62.0% delle scelte politiche. La partecipazione politica è molto bassa. La fiducia nei partiti è scarsa e minima appare la disponibilità alla azione diretta. Anche l'indice di lettura di stampa politica è molto basso.
    La caratteristica più significativa di questo gruppo consiste nel fatto di associare una scarsa sensibilità ai problemi politici, così come si concretano nelle diverse forme di rappresentazione politica tradizionale (partito), ad una grande disponibilità all'azione sindacale, a prevalente carattere rivendicativo, anche se non solo corporativa, ma politico-collettiva.

    GIOVANI «SOTTOPROLETARI»

    Chi sono
    Costituiscono il 6.0% dei giovani italiani.
    Rappresentano un «modo di essere» e non sono quindi identificabili con gli abitanti delle periferie e dei suburbi delle grandi città. Si tratta di figli di operai e di impiegati, ma con un indice di scolarità molto basso.
    Quanto alle influenze ambientali, questo gruppo non risente della variabile città-campagna, mentre è maggiormente presente nelle regioni meridionali.

    Collocazione politica
    Le scelte politiche di questo gruppo sono orientate a destra (76.0%). In questo gruppo si riscontra l'indice più elevato di reticenza circa la preferenza politica: quasi il 70.0% dichiara di «non sapere» dove collocarsi politicamente. Il livello di partecipazione politica è il più basso: questi giovani manifestano un atteggiamento passivo. Minima è la fiducia nell'azione dei partiti, ma egualmente minima è la fiducia nelle forme di dimostrazione politica e di azione diretta.

    GIOVANI PICCOLO-BORGHESI

    Chi sono
    Costituiscono il 25.7% dei giovani italiani.
    Questo gruppo è composto da figli di lavoratori indipendenti: liberi professionisti, artigiani, piccoli imprenditori, negozianti, coltivatori agricoli. La scolarità è molto bassa.
    Questo gruppo è rappresentato maggiormente nelle regioni meridionali e in quelle rurali.

    Collocazione politica
    L'orientamento politico di questo gruppo è per il 73.0% a destra. La partecipazione alle attività politiche è molto bassa: prevalgono atteggiamenti passivi.

    IN SINTESI

    Questi dati vanno considerati in termini indicativi. Non possono certo venire assolutizzati.
    Tenendo conto di queste riserve e con cautele, si possono tentare alcune sintesi. Esiste, in primo luogo, un complesso di forze traenti, rappresentato dal 20.0/ 25.0% dei giovani italiani. Esso è composto da giovani assai motivati, adeguatamente informati, con una personalità aperta e con una buona dose di combattività, decisamente orientati verso scelte politiche di sinistra.
    Di fronte, c'è un gruppo tendenzialmente reazionario, molto eterogeneo, rappresentato dal 30.0/35.0% dei giovani italiani. Esso è composto da un ristretto cerchio molto reazionario e da larghe frange di giovani politicamente demotivati e assai più interessati ai problemi privati.
    Al centro dello schieramento, esiste la grande massa dei giovani (40.0/45.0 del campione), formata da quelli che abbiamo definito «lavoratori sindacalizzati», perché più centrati sugli aspetti rivendicazionisti che su quelli squisitamente politici.

    DOCUMENTO TERZO
    PERCHÉ IL 1977 NON È UN NUOVO '68

    Non è un nuovo Sessantotto. Lo dimostrano, prima di tutto, le manifestazioni esteriori. Questa rivolta studentesca del 1977 mostra un viso torvo e disperato, gli spettatori hanno l'impressione di assistere ad uno show tragico anche se sono di scena gli «Indiani metropolitani» con le loro filastrocche irridenti e provocatorie. Senza leader, senza programmi, senza una ideologia, fuori dalle mura di un mercato del lavoro che ormai non ha più posti comodi e ben pagati da offrire, gli arrabbiati degli atenei non credono in niente e vogliono travolgere tutto: i contestatori del '68 rivendicavano «l'immaginazione al potere», loro scherniscono con rabbia la stessa idea di potere («siamo realisti, chiediamo l'impossibile») e spezzano le gambe a qualsiasi dialogo con le istituzioni.
    Durante il maggio francese ci capitò di vedere alla TV uno spettacolo insolito per quei tempi: studenti e attivisti sindacali che si guardavano in cagnesco. Fu quando gli universitari di Parigi marciarono sulle fabbriche della banlieue per indurre gli operai a scioperare. Di fronte ai cancelli degli stabilimenti volò anche qualche pugno. Qualche scaramuccia non mancò neanche da noi. Ma poi l'«autunno caldo», portando una ventata di maggio francese nel sindacato, gettava le basi di una convivenza che sarebbe durata sette anni, nonostante í contrasti.
    Troppe cose sono cambiate. Nel 1977 le beffe dei freak e la furia dei «collettivi autonomi» non hanno risparmiato nulla e nessuno. Chi più si è esposto, più ha pagato. Luciano Lama, frettolosamente portato dalla federazione comunista romana a rimettere ordine nell'ateneo della capitale, non si sa se in nome del sindacato o del Pci, ha vissuto la sgradevolissima esperienza di essere contestato, aggredito e costretto a trovare scampo nella fuga. Molti si sono domandati se sia stato giusto e opportuno mandare allo sbaraglio il sindacato sotto la sassaiola del piazzale della Minerva, ma resta il fatto che stavolta lo scontro ha lasciato sul terreno un mucchio di cocci: il rapporto di sopportazione, sia pure faticosa, tra le organizzazioni sindacali (meglio sarebbe dire: la maggioranza comunista della Cgil) e la protesta giovanile, è andata in frantumi.
    Divampata in un ateneo del Centro-Sud più che in quelli del Nord, questa rivolta studentesca ha mostrato subito il carattere di jacquerie violenta e irrazionale. Ma con una vivace memoria politica. Questa volta bisognava regolare i conti con la sinistra istituzionale. I primi a fare le spese di questo risentimento sono stati i «baroni rossi». Rappresentavano «la nuova polizia». Asor Rosa e Ferrarotti hanno subito aggressioni. Perfino i vecchi leader del '68 sono stati liquidati con l'epiteto di «tromboni». I «lotta continua» e compagni sono stati zittiti.
    Ma i protagonisti di questa battaglia lasciano intendere apertamente che essa è senza speranza. Il carattere tragico della vicenda è tutto qui. Nell'assurdo di una rivoluzione contro tutti, che non ha possibilità di riuscita e che può soltanto aggravare la situazione del Paese, gli oltranzisti non nascondono una specie di smania distruttiva, che nel '68 non c'era. Qualche slogan coniato in queste settimane («non perdere tempo, sdraiati sul prato») potrebbe trarre in inganno. In mesi e mesi di occupazione, di scontri con la polizia, gli studenti di nove anni fa trovarono il tempo e il modo di far arrivare il loro messaggio. Allora era difficile capire perché protestassero, dal momento che avevano tutto (o almeno così credevano gli anziani).
    Oggi, dai bivacchi di desperados che hanno messo a ferro e fuoco le università non ci vengono richieste esplicite e intellegibili. È una difesa, si dice, temono di essere incanalati dai partiti nel bla-bla del «nuovo modello di sviluppo», dei «problemi a monte» ecc. Fatto sta che le loro assemblee, spesso veri misteri orfici, non consentono di capire granché dei problemi dei giovani. Si intuiscono alcune ragioni della crisi (la gravissima crisi economica e sociale del Paese). Ma, paradossalmente, queste ragioni finiscono per essere abilmente mimetizzate da loro stessi nelle tiritere ironiche e minacciose contro la società organizzata. Perciò, per non correre il rischio di dare giudizi approssimativi, abbiamo raccolto il pensiero di alcuni esperti che da decenni analizzano da vicino la condizione giovanile.
    Il sociologo Franco Ferrarotti individua una differenza oggettiva rispetto al 1968: «Prescindendo da come sono mutati gli studenti e da come è cambiata l'università, il fatto nuovo è la crisi economica. Nove anni fa, i giovani non erano destinati alla inoccupazione. I bisogni primari di sussistenza non erano problemi. Questo spiega perché la piattaforma ideologica fosse allora proiettata verso obiettivi a lungo raggio: cambiare la vita e le istituzioni. È ormai una verità storica che le rivoluzioni avvengono quando i popoli stanno bene. Quella francese, per esempio, fu preceduta da uno dei periodi più prosperi della storia di Francia. Nei periodi di depressione acuta non si guarda a orizzonti lontani, la prospettiva è a brevissimo raggio».
    Giuseppe De Rita, direttore del Censis, definisce questa protesta «più piatta, più squallida, più terra terra» di quella del '68. «Allora anche noi spettatori fummo coinvolti in una profonda emozione collettiva. Quello era il primo movimento " orizzontale " della storia: per la prima volta grandi forze si aggregavano non in base alla classe ma per movimento generazionale. Fu la rottura storica di certi schemi. Oggi il movimento non c'è».
    Giovanni Gozzer la chiama «guerra rustica» come quelle del Medio Evo, e la considera un boomerang per le forze della sinistra. «Dietro il '68 c'era una grande elaborazione culturale: il neoriformismo sociale, il radicalismo della sociologia post-marxista, il libertarismo delle rivendicazioni civili che emergevano. Dietro il '77 c'è solo emarginazione di massa, degradazione e disperazione. Che cosa se ne può ricavare?».
    Perché i ribelli del '77 ce l'hanno con la sinistra? «Perché le rimproverano di averli spinti in fondo al pozzo». E hanno ragione? «Penso proprio di sì. Se oggi questi ragazzi non trovano lavoro e intasano le facoltà sovraffollate, la responsabilità va fatta risalire in buona parte a certe politiche scolastiche e sociali che si ritenevano molto avanzate. La crisi dell'università sarebbe esplosa comunque. Ma avrebbe fatto assai meno danni».
    Il dramma sociale che preme dietro i sinistri falò e le devastazioni dell'ateneo di Roma è comunque assai più complesso di quanto si creda. Primo dato di fatto: la scuola e l'università sono un canale che porta diritto alla disoccupazione perpetua se viene percorso con la speranza di ottenere un lavoro «intellettuale» e perciò ben retribuito. L'Istituto di studi sulla formazione professionale ha accertato che più del cinquanta per cento dei giovani in cerca di impiego hanno la laurea o il diploma ma che soltanto il dieci per cento dei posti disponibili sul mercato del lavoro sono per diplomati o laureati. Masse di disoccupati intellettuali, «traditi» dalla società capitalistica, ingrossano le file della protesta, mentre molte imprese del Nord debbono rivolgersi al consolato di Turchia per trovare lavoratori da assumere.
    Il secondo dato di fato è un nuovo atteggiamento psicologico dei giovani «Questa fiammata di ribellione, dice Gozzer, più che a Nanterre e a Berkeley, si richiama al fenomeno dell'autoriduzione. La società è venuta meno alle sue promesse e loro reclamano allora una contropartita gratuita: biglietto scontato a teatro e titolo di studio senza pedaggio». Insomma in questa guerra senza quartiere nelle università i «ribelli» del '77 non mostrano di volere né di sapere analizzare i grandi squilibri sociali e psicologici che li hanno condotti a lanciare una sfida senza sbocchi. Dice Gozzer: «Sono proletari e nel loro subconscio rimproverano ai sindacati e ai partiti di sinistra qualcosa di più della pretesa arrendevolezza nei confronti della DC. Li accusano, in cuor loro, di essere una classe organizzata. La disperazione nasce dal fatto che gli emarginati non possono attendersi nulla da una classe organizzata. Forse questa demistificazione gioverà un po' a tutti».
    Anche Ferrarotti mette l'accento sugli «autoriduttori dell'esame». stato malmenato e minacciato proprio per aver rifiutato un esame con il «voto politico». «Contrariamente alla regola per cui il reazionario è un rivoluzionario al quale hanno spaccato la testa il giorno prima, non passerò nelle schiere della reazione. Ma voglio dire che deploro quei colleghi che in nome di una strana " pace " universitaria (che poi non esiste, come si è visto) sottostanno a condizioni umilianti accettando di svolgere attività che non hanno nulla a che vedere con l'insegnamento e con lo studio. Cedere significa dare un colpo di grazia all'università e alla cultura italiana».
    La laurea è già una moneta priva di corso legale nell'industria. Il ministro del lavoro Tina Anselmi vuole addirittura toglierle valore giuridico. De Rita non è d'accordo: «non aiuteremo i giovani in questo modo. Se la pallina rotola in discesa, è meglio non toccarla, c'è rischio di fermarla. Si potrebbe creare un fronte antistorico, a difesa del valore della laurea. Questi ragazzi stanno comprendendo che la laurea non è un salvacondotto che può far dire: ora lo Stato deve pensare a me». E senza salvacondotto che faranno? «Capiranno che la scuola è una canna d'organo dalla quale si deve uscire prima, appena se ne ha l'occasione, per mettersi a lavorare. A ventisei anni è troppo tardi» (da Tutto-scuola 3 [1977] 29).

    DOCUMENTO QUARTO
    L'IMPEGNO POLITICO TRA «PRIVATO» E «PUBBLICO»

    Tra i fatti più significativi dell'attuale dibattito sull'impegno politico, emerge la polemica circa il rapporto tra pubblico e privato. L'orizzonte del problema è stato tracciato soprattutto dai movimenti femministi, che hanno scoperto l'accumulazione dell'ingiustizia sociale proprio nella dimensione del personale-individuale. Ma il tema si è allargato presto a tutta la condizione giovanile.
    Qualcuno afferma che l'idea della assoluta identità di pubblico e di privato, di personale e di politico, è una delle matrici del processo di spoliticizzazione. Quando si afferma che il politico, il socialmente rilevante è solo ciò che si riferisce alla sfera della felicità personale, si perde il senso della politica come impegno civile, come razionalità, come progetto storico. Come si vede, il tema ha grossi riflessi educativi.
    Con alcune citazioni riprese da «I giovani e la crisi della società» (Editori Riuniti, Roma 1977), indichiamo i termini del problema, per stimolare la riflessione degli educatori.

    I TERMINI DEL PROBLEMA: PRIVATO E PUBBLICO

    I giovani, oltre ad essere stati espropriati del lavoro, soffrono di una espropriazione forse anche più grave: l'espropriazione di valori in cui credere, di certezze ideali e morali. Ricomporre una gerarchia di valori partendo dalla sfera del «personale» può dunque essere estremamente utile e significativo. Oggi, però, cominciamo ad assistere ad una tendenza che definirei di riprivatizzazione del privato; una tendenza per la quale si è indotti a cercare, oggi e subito, una soluzione personale ai propri problemi. Si tratta di una nuova scissione tra personale e politico. Al motto sessantottesco, sicuramente soffocante e totalizzante, secondo il quale ogni cosa si risolve nella politica, finisce col subentrare un nuovo motto, assai più riduttivo ma non meno totalizzante, che tende a ricondurre, fino a dissolverlo, il politico nel personale. Potremmo definirla anche noi una forma di neoedonismo, se non fossimo consapevoli del travaglio che è dietro a quella «riduzione» e che essa stessa contribuisce ad acuire (Gianni Borgna).

    UN MODO NUOVO DI FARE POLITICA: «RECUPERARE» IL PRIVATO

    In che cosa consiste la novità? Siamo stati abituati da una lunghissima tradizione a diffidare, se non a condannare, ogni accenno ad una considerazione autonoma dell'individuo. La critica marxiana della società borghese ci ha mostrato la connessione strutturale tra i rapporti sociali di produzione capitalistici (lo scambio di merci, la compravendita della libera forza-lavoro, la separazione tra società civile e Stato) e l'atomizzazione individualistica, tanto che l'individuo e la sua libera volontà sono alla base di tutte le ricostruzioni degli ideologi borghesi, dagli economisti, ai giuristi, ai moralisti.
    Ma la stessa critica marxiana ha messo in luce come l'individuo borghese classico, esaltato dalla tradizione liberal-democratica, sia semplicemente l'agente dei processi di scambio e produzione capitalistici che trova nel cielo separato della sfera giuridica la dignità di persona. Individuo quindi non solo scisso, necessitato e determinato nella sua vita concreta tanto da essere semplice «personificazione di categorie economiche» ed astrattamente libero (giuridicamente) nei suoi rapporti con la «comunità illusoria», ma dotato di individualità soltanto formale. Insisto su questo volto formalistico con cui l'individuo calca la scena della società borghese, proprio perché viene espunto dalla sua considerazione tutto ciò che determina il suo essere empirico, la sua particolarità individuale, la sua vita, che cade fuori, nella zona oscura del «privato». Una contraddizione, dunque, dentro cui si sono mosse la cultura e le istituzioni borghesi, riproducendola mediante la repressione o la sublimazione (pensiamo al ruolo svolto, nell'amministrare questa «zona oscura», dalle religioni o da certe concezioni sulla funzione dell'arte), ma che hanno contribuito anche a far esplodere.
    La ripresa del tema dell'individuo da parte delle nuove generazioni, che rapporto ha con questo ruolo ed immagine dell'individuo borghese classico? Direi che ne è la critica radicale, nella misura in cui ne rimette in discusione sia il carattere scisso sia il formalismo. Viene qui avanzata la rivendicazione di una individualità concreta, che cioè abbracci la totalità delle sue manifestazioni e che in questa pienezza sia cellula di una società che rompa gli steccati che irrigidiscono in una netta separazione ciò che è «pubblico» da ciò che è «privato». Come si vede, dietro alla richiesta di un privilegiamento dell'individuo appare un bisogno di socializzazione, di costruzione di una comunità reale, fondata sulla partecipazione degli individui in quanto tali, sulla trasparenza delle relazioni sociali ed intersoggettive.
    Una questione in particolare credo vada sottolineata. Si tratta di come l'esigenza di immissione del privato nella storia, che ha un carattere di progetto, addirittura di anticipazione sul futuro, si coniughi con i tempi e le forme della politica. È in gioco, qui, il rapporto, diventato così problematico, delle nuove generazioni con la politica. Appare riduttivo e non coglie il senso dei processi parlare genericamente di tendenza alla spoliticizzazione, se è vero che i motivi che ne sarebbero alla base risultano essere quegli stessi che definiscono i tratti peculiari e nuovi delle masse giovanili oggi, sebbene resti aperto – ed è bene dirlo chiaramente –lo sbocco finale di questi processi: progressivo o di arretramento.
    Parole d'ordine come «il personale è politico» o «nuovo modo di far politica», inizialmente patrimonio esclusivo del movimento femminista, cominciano a circolare con raggi sempre più ampi di diffusione tra le masse giovanili, anche tra quelle organizzate in movimenti politici tradizionali. Ma il dato più significativo del disagio si rileva proprio in quello scarto tra un'adesione elettorale sempre più massiccia dei giovani ai partiti di sinistra, soprattutto al PCI, e una crisi di militanza, di identificazione con le forme organizzative e di attività delle forze politiche giovanili.
    Certo, la risposta più facile è quella che indica nella spoliticizzazione la matrice di questi fenomeni. Ma si può chiedere: si parla di spoliticizzazione rispetto a quale modello? E il modello, io credo, consapevole o inconscio che sia, si rifà, per quello che ci riguarda, alla figura del «rivoluzionario di professione», e per suo tramite alle forme organizzative ed ideali del partito leniniano e bolscevico (Francesca Izzo).

    LA POLITICA SI FA NEL SACRIFICIO

    Sono un vecchio, ho 69 anni. Da più di 50 sono impegnato, senza interruzioni, nella lotta politica. Ed è la partecipazione alla lotta che mi ha permesso di migliorarmi. Il «pubblico» non mi ha mai mortificato, ha certamente esaltato le mie possibilità. E come trascorrerei tristemente la mia vecchiaia, se ancora una volta il «pubblico», l'interesse politico, non mi spingesse a tuffarmi nelle polemiche, nelle forme consentite dalla mia educazione comunista e dalle regole di vita del mio partito?
    In questo ininterrotto impegno politico ho trovato anche quel po' di umana felicità (ma sarebbe meglio dire serenità) che la vita può concedere, pur con le sue amare vicende ed i suoi atroci dolori. Vicende e dolori che non derivano tutti dal «pubblico» (il fascismo, la guerra, i lunghi e difficili anni della repubblica), ma che derivano dall'imprevedibile ed insopprimibile corso della vita, da quella parte segreta ed intima dell'individuo, mai pienamente chiarita ma che mi rifiuto di chiamare «inconscio» ed «irrazionale», perché la mia laica ragione mi aiuta a comprendere i motivi della insopprimibilità dell'individuale dolore, della impossibilità di una universale felicità e di una generale uguaglianza (anche quando ci fossero condizioni di partenza uguali per tutti). La generale felicità è veramente una utopia. E come potrebbero esserci momenti di felicità, senza dolore, senza sforzo, senza sacrificio, senza lotta? Alla «gioia attraverso il dolore», diceva Beethoven. E come eliminare dalla vita il senso della morte?
    Ogni rivoluzione è un fatto di volontà, esige uno sforzo di volontà, una concentrazione di volontà e non solo contro gli altri, contro il nemico, ma anche su se stessi, per non disperdersi, per rafforzarsi, per porre tutte le energie in moto al fine di raggiungere certi obiettivi.
    Questi obiettivi non sono soltanto quelli di una rivoluzione giacobina – la conquista immediata del potere – ma anche quelli di una rivoluzione attuata attraverso una trasformazione della società e dello Stato. Direi che una rivoluzione attuata nel tempo lungo richiede una maggiore volontà individuale e collettiva, perché la massima concentrazione possibile non deve essere attuata in un tempo breve, per un obiettivo ravvicinato e ben visibile, ma deve durare senza allentarsi mai per tempi lunghi, interminabili, come stiamo facendo da trent'anni. Per combattere nella Resistenza ci voleva una grande volontà, ma l'obiettivo, la liberazione, era vicino. Per combattere nella repubblica ci è voluta, e ci vuole, una volontà ancora maggiore, perché lo sforzo dura da trent'anni e basterebbe un momento di distrazione, un attimo di stanchezza, per perdere molto del terreno conquistato passo a passo.
    Se il «pubblico», l'impegno politico, la partecipazione alla lotta richiede che sia evitata ogni dispersione di energie, ogni dissipazione, ciò non significa compressione dell'individuo nella sua personale concretezza, ma esaltazione della sua forza. Perciò non credo che i problemi centrali per i giovani di oggi siano quelli posti da una tematica dell'individuo, del «privato», contrapposta ad una inesistente tematica del collettivo, quanto di liberare le individualità dei giovani di oggi dai lacci di una umiliante e compassionevole permissività, che scoraggia il necessario sforzo personale, l'inevitabile fatica, l'impegno politico, e incoraggia, invece, devianti ignoranze.
    Sono i giovani che si creano il loro avvenire, sono essi responsabili del futuro. Il primo modo per rispettare l'autonomia dei giovani è di liberarli del peso del vano e soffocante riconoscimento delle loro difficoltà. Troppo comodo! E spesso è un discorso ambiguo, venato di demagogia e ipocrisia (Giorgio Amendola).


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