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    Creatività e adattamento



    Eugenio Costa

    (NPG 1977-06-28)


    Da che cosa nasce la domanda odierna di adattamento e di creatività nella celebrazione liturgica? Terra promessa di sperimentatori spericolati, cavallo di battaglia (o di Troia) agli occhi degli integristi, oggetto di malcelata diffidenza da parte di molte autorità ecclesiastiche, e finalmente pianeta ignorato da chi sbriga velocemente la corvée del culto per passare ad altro, creatività e adattamento sono esigenze maturate da situazioni concrete.

    CREATIVITÀ E ADATTAMENTO, UNA RISPOSTA A NUOVE ESIGENZE

    Assemblee cristiane sempre meno omogenee e sempre più diversificate

    Per ampiezza, composizione culturale e situazioni ecclesiali, le nostre assemblee di culto sono ormai un mosaico complesso. Dal piccolo gruppo ai grandi raduni (ad es. nei luoghi di pellegrinaggio), dai «quattro gatti» spersi in una chiesa in giorno feriale a certe messe domenicali dove molti hanno solo un posto in piedi, da una celebrazione domestica o monastica al rito di un funerale o di un matrimonio «importanti», il numero dei partecipanti può variare di molto e far variare, con questo, molti altri fattori. Non solo: ma lo stesso quadro generale della cultura di oggi, non più unitaria ma spezzettata secondo le età, le condizioni sociali, le appartenenze ideologiche, si riflette nell'assemblea riunita. È raro che si formi, oggi, un'assemblea omogenea, sotto questo aspetto, salvo i gruppi elettivi o di categoria. Più spesso abbiamo a che fare con un insieme diversificato, dove l'apparente disciplina e la rituale inerzia nascondono idee, posizioni, gusti e reazioni molto differenziate. Infine: la situazione personale di chi frequenta le assemblee liturgiche può essere, dal punto di vista della fede, molto diseguale. C'è il frequentatore assiduo e fervente; c'è il medesimo, ma in versione abitudinaria o legalistica; troviamo il saltuario e lo stagionale, il natalizio e il pasqualino; scopriamo che molti sono in ricerca, o in contestazione, o in rigetto dí molti aspetti della vita ecclesiale; senza dimenticare chi è presente per cortesia, amicizia, obbligo sociale, convenienza.
    Non tutti sono sempre presenti in tutte le celebrazioni, è chiaro. Ma il congiungersi, il separarsi e l'intrecciarsi di questi diversi dati di fatto tracciano un quadro dell'assemblea cristiana assai lontano dall'immagine idillica del buon gregge, dei buoni fedeli, della «nostra gente» insomma. I destinatari perciò, anzi i protagonisti, dell'azione liturgica, costituiscono un'entità difficile da catalogare, descrivere, identificare in modo sbrigativo. Se alla sommaria elencazione, fatta qui sopra, dei fattori principali dovessimo aggiungere un'analisi della varietà di comportamenti e di reazioni reciproche che essi comportano, il quadro ne risulterebbe ancora più intricato. E subito, una domanda: è possibile che uno e un solo tipo di rito sia veramente adatto a delle assemblee così disparate?

    Libri rituali da poco riformati ma destinati a ulteriori evoluzioni

    Lo sforzo compiuto in questi ultimi dieci anni per riformare i riti cattolici e per tradurli (primissima forma di adattamento) in italiano, è stato senz'altro notevole.
    L'opera, ormai praticamente al suo termine, ha trovato certamente dei tecnici preparati e volonterosi. Non ha invece incontrato un ambiente ecclesiale disposto, nella sua maggioranza, ai necessari tempi lunghi di sperimentazione. Molto è stato fatto soltanto a tavolino. Un tempo di prova accettato, condiviso e messo a frutto (mediante edizioni provvisorie e successivi, pazienti ripensamenti e rifacimenti) non si è, di fatto, verificato nella chiesa italiana, salvo rare eccezioni. Tenendo particolarmente d'occhio le celebrazioni che più spesso vengono attuate in gruppi di adolescenti (liturgie della Parola, cresima, eucaristia, varie forme di penitenza e riconciliazione), osserviamo che si tratta sempre di riti standard, con possibilità ben ridotte di rielaborazione, e rispondenti di fatto a ipotetiche assemblee di «adulti-colti-catechizzati-ferventi». Non si nega che occorresse pur cominciare da modelli ben definiti, rispondenti alle migliori acquisizioni degli studiosi. Rincresce però dover constatare come, a differenza di altre nazioni, si sia cercato di eliminare al più presto il disagio del provvisorio, per garantire subito testi ed edizioni definitive e perciò rassicuranti.
    Una mentalità che sta cambiando e l'emergere di reazioni di fronte ai «nuovi» riti
    In un certo numero di membri del clero e del laicato comincia a farsi luce una mentalità più esigente riguardo alla celebrazione. Lasciando per ora da parte le posizioni «viscerali» di chi si abbarbica al passato o di chi invece fa tabula rasa e inizia in proprio un «anno zero» della liturgia della chiesa, constatiamo che i cristiani più attenti domandano parecchio al momento liturgico. Chiedono di poter essere nutriti e interrogati dalla Parola di Dio. Vorrebbero che questa divenisse fonte di scambio fraterno e di confronto con la realtà. Sono sensibili a un tono di autenticità e a una preoccupazione di legame fra liturgia e impegno in questo mondo. Esigono di trovare dei gesti rituali e un linguaggio di preghiera che corrisponda alla loro propria cultura e manifesti la contemporaneità della chiesa. Si aspettano che il modo di celebrare favorisca la crescita della comunità. Insomma, non si accontentano più di prospettive intimistiche o di abitudini formali. Se essi formano ancora una minoranza – come sembra – la riflessione che essi hanno innescato sta portando alla luce esigenze analoghe in tutte le assemblee: che molti vi siano insensibili, ciò non elimina questa realtà, anzi la rende soltanto più urgente ed esplosiva. Se, a quanto ora detto, aggiungiamo l'evoluzione in atto, che oggi tocca la vita e l'articolazione di molte comunità e gruppi, come anche tutto il vasto settore della pedagogia e in particolare della catechesi, sullo sfondo dei vivissimi problemi posti dall'evangelizzazione, dovremo concludere che celebrare la liturgia, oggi, non è più un semplice affare di correttezza rubricale, ma investe esigenze ben più ampie.
    Le concrete situazioni, che in tal modo si presentano, costituiscono il terreno in cui nasce la domanda di un certo adattamento e in cui si manifestano i tentativi di una certa quale creatività. A tutt'oggi, alcuni elementi già insiti nei libri liturgici, e in alcune disposizioni ecclesiastiche, aprono qualche porta e indicano qualche buona direzione di marcia. D'altra parte, i tentativi di «creare» o ricreare determinati aspetti della celebrazione – specie nel settore dei testi di preghiera e dei canti, meno invece nel campo dei riti come tali, del loro sviluppo e rielaborazione – sono un fatto acquisito. Non è qui il luogo per portare un giudizio su di loro. Il loro stesso esistere, però, contribuisce a precisare il problema e aiuta a intravvedere le soluzioni.

    A SERVIZIO DELLA PREGHIERA DEL POPOLO DI DIO

    Conviene determinare meglio che cosa va adattato, e a chi. Occorre anche domandarsi chi adatta e crea. Non vi è nulla di più controproducente, in questo campo, che un atteggiamento disinvolto e facilone. Se i più vieti conservatori difendono in fondo, con un certo passato, null'altro che se stessi, vi sono degli improvvisati creatori che, con il candore dei neofiti o la sicurezza dei padri fondatori, si fanno responsabili di errori gravi: non si scherza con la preghiera del popolo di Dio. Ma, piuttosto che invocare i fulmini dell'autorità, è più serio tentare di contribuire a una presa di coscienza più profonda e a una formazione più sostanziosa di tutta la comunità cristiana, dell'assemblea e dei suoi ministri, perché l'atto del celebrare sia creativo nella fedeltà, una fedeltà a tutto ciò che è importante.

    CHE COSA ADATTARE E IN CHE SENSO CREARE?

    In concreto, i riti così come ci sono presentati nei libri liturgici. Parliamo di questi, anzitutto, perché ogni altra celebrazione che potrà sembrare opportuno «inventare» (tipo incontri di preghiera, celebrazioni di gruppo, domestiche, per circostanze particolari, ecc.) avrà interesse a ispirarsi alle grandi linee dei riti comuni a tutta la chiesa, e ai criteri di adattamento che vanno formandosi.
    Una premessa fondamentale: i riti attuali sono già essi stessi un certo tipo di adattamento, di riformulazione storica e attualizzata dei grandi gesti simbolici, che la chiesa ha da sempre fatto propri per esprimere e rendere presente la salvezza di Dio in Cristo. La recente riforma liturgica rappresenta un tentativo di grande portata, condotto con rigore e con criteri abbastanza precisi, per offrire a ogni comunità linguistica un suo modo di celebrare. All'interno di ogni rito scritto, possiamo distinguere grandi strutture antropologiche (il dialogo, lo scambio, il sacrificio, il pasto, ecc.) e un certo numero di elementi rivelatisi storicamente essenziali (come ad es. quelli che compongono una preghiera eucaristica): sono valori che occorre conoscere, onorare e rispettare. Sarebbe irresponsabile farne tabula rasa. Su di essi porta fondamentalmente l'impegno di chi nella chiesa ha il compito di guidare i fratelli.

    Scegliere tra le possibili alternative

    Ma gli stessi libri rituali prospettano, almeno in alcuni casi, la possibilità di scegliere fra buon numero di alternative, offerte o come equivalenti o come oggetto di scelta pastorale. L'esempio più chiaro, allo stato attuale, è quello del rito della penitenza/riconciliazione. Quattro forme sono possibili: una celebrazione senza rito propriamente sacramentale, una di tipo individuale, un'altra di tipo comunitario, ambedue con assoluzione individuale, un'altra infine con assoluzione collettiva. Motivi pastorali porteranno a preferire, a ragion veduta, l'una o l'altra forma. Nel condurre il rito, poi, vi è da scegliere fra un ampio arco di preghiere, letture bibliche, intercessioni, ecc.: anche qui si tratta di scegliere secondo criteri di adattamento. La prima creatività consiste dunque nel non rifiutare pigramente di scegliere, ma di sfruttare con intelligenza tutte le alternative.
    Questa possibilità si fa luce, del resto, anche in altri riti: particolarmente in molte liturgie della Parola, e ovunque si propongono formule a scelta, interventi «ad libitum», monizioni solo orientative. Non si può dire, tuttavia, che questo principio dell'alternativa sia stato seguito con rigore in tutti i libri liturgici, i quali, da questo punto di vista, si presentano disuguali.

    Appropriarsi dei gesti della celebrazione

    A questo punto, occorre però fare un'osservazione: qualunque sia la forma scelta, l'adattamento compiuto (di cui diremo sotto altri aspetti), rimane pur sempre un problema: quello dell'appropriarsi personalmente il gesto del celebrare, di farlo proprio, invece di restarvi esteriori, come se lo si eseguisse con atteggiamento «estraniato». Ciò vale per tutti i partecipanti, ma in modo particolare per i diversi ministri: chi presiede, chi legge, chi prega, canta, coadiuva in vario modo. Il ricreare dall'interno ogni espressione, rivivendola in modo pienamente cosciente, senza quell'inconfondibile sciatteria che purtroppo qualifica ancora molti ministri di culto: questo è il primo e ineliminabile impegno di chi vuole servire un'assemblea di preghiera nella chiesa.
    Rimane vero, tuttavia, che – dato e concesso («in spe») che quanto detto finora passi nella prassi corrente – i motivi analizzati nel primo paragrafo di questo studio possono esigere ulteriori adattamenti, da realizzare con spirito attento e creativo. In linea generale, vorremmo anzitutto attirare l'attenzione sul fatto che possono darsi ritocchi di dettaglio (e sono spesso quelli più facili, più appariscenti – non sempre i più utili). Possono rivelarsi necessarie, talvolta, revisioni più ampie, che riguardano tutto un insieme rituale, un andamento, una linea: è un lavoro più difficile, rischioso e delicato (non sotto l'aspetto disciplinare, ma sostanziale). Ancora una volta, ciò richiede una preparazione eccellente e una paziente sperimentazione. Non per nulla esistono organismi competenti e, almeno in linea di diritto, in grado di offrire contributi seri. Ma, per evitare che si tratti solo di elucubrazioni a tavolino o di ubbie di addetti ai lavori, occorrerà pur sempre anche il vaglio delle concrete assemblee, al cui servizio tutti devono rimanere.

    A CHI ADATTARE?

    A bene di chi, a vantaggio di che cosa operare gli adattamenti? In una parola sola: all'assemblea hic et nunc, alla gente così com'è in concreto. In modo che i riti raggiungano il loro scopo, diano il loro frutto. Più chiaramente: in modo che vi sia una buona comunicazione fra i partecipanti, mediante i segni rituali. È evidente che, sul piano profondo – l'unico veramente importante, ma anche il più incontrollabile e il meno manipolabile –, la celebrazione mira a essere un autentico momento di salvezza, di conversione, di passaggio a Dio in Gesù Cristo. Ma a questa profondità contano soltanto le disposizioni interiori di ciascuno e l'opera dello Spirito di Dio. Sul piano dei segni liturgici, tutto quel che si può fare è di renderli il più espressivi e comunicativi possibile. Nella persuasione che, al di là di ogni dualismo (come se questi due piani fossero slegati fra di loro), una «buona» celebrazione è anche, normalmente, un'offerta efficace di salvezza.
    Qui intervengono allora i punti di riferimento che abbiamo elencato più sopra: il tipo di assemblea, lo stato attuale dei libri ufficiali, le esigenze emergenti nelle comunità cristiane.

    Il tipo di assemblea

    Parlando dell'assemblea abbiamo distinto le sue dimensioni, la sua composizione culturale e la situazione di fede dei partecipanti. Le sue dimensioni: l'esperienza dimostra che un piccolo gruppo celebra con un ritmo suo, semplifica certi dettagli e per contro ne amplifica altri, è sensibile alla partecipazione personale e quindi tende a ridistribuire i compiti e i ministeri, corre anche qualche rischio (manipolazione troppo disinvolta dei riti, pressione talvolta eccessiva sui singoli che finiscono, paradossalmente, per pagare una più umana intimità con pesanti condizionamenti). Una assemblea pubblica richiede adattamenti opposti: ha bisogno di riti chiari, conosciuti, semplici e senza dettagli barocchi, gesti e movimenti evidenti, ruoli precisi e riconoscibili, andamento senza lungaggini. Il raduno di massa acuisce ulteriormente queste esigenze, mentre amplifica anche i rischi (anonimato, ritualismo esasperato). Ci si può domandare a quale tipo di dimensioni abbia pensato il legislatore e autore dei libri liturgici. Salvo le norme per le messe di gruppo, si direbbe che i libri si pongano soprattutto nell'ottica del celebrante, e nella semplice continuità con la tradizione storica dei documenti rituali antecedenti. La nostra preoccupazione sembra francamente assente. Al di là dei libri, si è condotti a pensare che, in realtà, non tutte le celebrazioni siano possibili con qualsiasi assemblea. Mentre ad esempio una liturgia della Parola, basata soprattutto sull'ascolto e la risposta, «passa» bene anche con grandi folle – così pure una liturgia di lode, di benedizione –, vi sono altri riti che difficilmente si adattano a grandi dimensioni: sono in genere i gesti strettamente sacramentali, l'eucaristia compresa. Nella misura in cui un gesto è personale e partecipato, difficilmente può essere vissuto su vasta scala.

    La composizione culturale dell'assemblea

    Diciamo subito che il problema della composizione culturale dell'assemblea è troppo complesso per poter essere risolto qui in poche righe. Se per cultura intendiamo un insieme di visioni del mondo, di valori predominanti, di veicoli di espressione, di maniere di vivere – ciò che forma in sostanza l'universo vitale, il «mondo» di ciascuno, e del gruppo a cui si trova ad appartenere –, ci rendiamo presto conto che un'uniformità liturgica non può esistere, a meno di non accettare un ritualismo muto e sterile. I libri di cui ogni gruppo linguistico, ad es. Vita liano, dispone, hanno provato a realizzare un primo, timido adattamento a un supposto mondo culturale comune a tutti noi. L'esperienza dimostra che occorre andare ben più avanti: linguaggio della preghiera, dei testi di canto, gesti, sequenze rituali, disposizione dell'assemblea, oggetti e arredi, stile musicale e architettonico, rappresentano un campo aperto, in parte ancora «sotto dogana» e ufficialmente intangibile, in parte invece «sdoganato» e fin d'ora oggetto di esperimenti. A livello delle singole celebrazioni nelle singole assemblee, bisogna tener conto dei punti fermi (grandi strutture rituali, elementi essenziali) e dei punti flessibili (tutto il resto, a condizione di aver ben percepito la «funzione» di ogni singola «forma» rituale, ad es. il senso di un'azione come il celebrare la Parola, di un gesto come l'iniziare l'eucaristia portando i doni). La «messa con i fanciulli», ancora una volta, è il primo meditato sforzo di adattare un rito a un particolare tipo di cultura. Per questo assume un'importanza formidabile e rappresenta un modello da esaminare bene e a cui ispirarsi.

    La posizione dei partecipanti nei confronti della fede

    Anche questo è un fattore discriminante. In breve, la nostra liturgia è fatta per credenti e catechizzati, per chi cioè tutto sommato è nella pienezza della fede. È chiaro che nessuno è mai «perfetto» e che tutti siamo «in via». È evidente che il grado di fede non si misura con un metro preciso. Rimane però che i sacramenti sono, per loro natura, un gesto di fede, anche se offrono il dono di Dio, che aumenta la nostra fede. Insomma, la liturgia è fatta per la chiesa e per i suoi membri vivi. Ora, riandando alla descrizione tentata all'inizio di questo studio, non possiamo dimenticare che, con frequenza molto variabile, ma con presenza certa, ai riti cristiani finiscono per partecipare persone in atteggiamento molto diverso nei riguardi della fede e della vita ecclesiale. Basti pensare alle assemblee che si formano in occasione di prime comunioni e cresime, di matrimoni, di battesimi, di funerali, ovunque cioè il rito ha preso – e mantiene, per ora – anche una rilevanza sociale. D'altra parte, ci possiamo chiedere che cosa offre la nostra consueta prassi pastorale a tanti che, sinceri ma marginali rispetto a una vita nella chiesa, avrebbero bisogno di qualche cosa di solido, ma adatto alla loro condizione. Qui l'adattamento non comporta più ritocchi o modifiche. Si tratta di scelte decise, e, a loro modo, creative. La chiesa dei primi quattro/ cinque secoli aveva dato prova di vera creatività in questo campo: proponeva modi e momenti di celebrazione diversi ai catecumeni, ai penitenti, ai «diversi» (per motivi, pare, soprattutto psichici). Al giorno d'oggi, lo sforzo maggiore è quello di preparare il meglio possibile, e Dio sa a prezzo di quale fatica, e con quali imbarazzanti risultati, i candidati ai sacramenti come il matrimonio, talora la cresima (degli adulti), oppure al battesimo (e prima comunione) dei figli. Ci possiamo domandare se non si debba tentare anche altre vie. In ogni caso, l'attenzione portata a questo aspetto delle cose porta già alcuni pastori a non insistere, ad esempio, nel celebrare a tutti i costi l'eucaristia nel caso di un funerale, o a preparare più a lungo i genitori, non solo con incontri di riflessione ma anche con tappe di vera e propria preghiera, ai sacramenti dei figli. Altri tentativi (ad es. riguardo al battesimo dei piccoli) sono troppo in fase sperimentale per poterne ancora trarre delle conclusioni. Ma è certo che rimane un enorme lavoro da compiere.

    COME ADATTARE?

    Da quanto detto finora, parecchi dei criteri importanti sono già stati delineati. Possiamo però ancora aggiungere qualche proposta. La prima attenzione dovrebbe essere quella di non confondere le proprie idiosincrasie (o, fuori dai denti, le proprie ignoranze) con presunti difetti dei libri liturgici. La seconda, quella di non perdere il senso dell'autocritica: quanti improvvisati creatori finiscono per cadere in strane forme di ritualismo nuova maniera, come se le loro trovate fossero il non-plus-ultra e, come tali, naturalmente irreformabili. Direi ancora che occorre guardarsi dallo scaricare interamente sullo stato attuale dei riti le difficoltà che onestamente non possiamo scavalcare, quelle cioè derivanti dall'assenza pressoché completa di formazione alle celebrazioni della chiesa. I nostri riti sono come una lingua: una lingua, s'impara. Un rito ha un suo certo mondo, al limite una sua propria cultura. Vi è un universo biblico che non può essere ignorato, e tanto meno depauperato, col pretesto che «la gente non capisce». Vi è soprattutto il «registro» caratteristico dell'azione liturgica, che è quello simbolico. Celebrare non è fare della catechesi, almeno direttamente. Non è comunicare idee o trasmettere messaggi, almeno primariamente. È vivere, per un po' di tempo (quanto basta) su un piano diverso da quello quotidiano, produttivo, pratico, realizzativo. È compiere quelle azioni, quei gesti che riesprimono i grandi movimenti, le grandi direzioni, i grandi passaggi della salvezza in Gesù Cristo, formalizzati in un rito, condensati in un atteggiamento: l'ascolto, la preghiera, l'offerta, il patto, l'impegno, la lode, la profezia. Viverli, cioè accettarne l'impatto, accoglierne la carica di salvezza, la forza sacramentale. Ora, questa modalità dell'esistenza, assolutamente fondamentale, richiede un'iniziazione, una pedagogia paziente e continua – e non certo limitata agli anni della fanciullezza. Se parliamo di adattamento, parliamo anche di aiutare i cristiani ad adattarsi ai valori propri del culto nella chiesa. Adattare i riti alle persone esige anche il movimento uguale e contrario, che consiste nell'adattare le persone ai riti.

    La serietà dell'adattamento

    Più concretamente, precisiamo che l'azione rituale, in qualunque circostanza e qualunque siano le variabili che intervengono a modificare la situazione, ha bisogno di alcuni elementi sicuri e dal «funzionamento» impeccabile. Ciò non significa che essi non si possano modificare. Vuol dire soltanto che occorre farli assimilare perfettamente dall'assemblea, in modo che essa possa celebrare con tranquillità. Ricordiamo: le grandi linee dello svolgimento di un rito (un battesimo, una preghiera delle ore, un'eucaristia), alcuni meccanismi standard che consentano l'alternanza e il dialogo fra i ministri e l'assemblea (clausole finali, acclamazioni, risposte, ecc.), qualche canto ben conosciuto, un luogo familiare o comunque accogliente. Non si può giocare tutta una celebrazione sull'ignoto, sull'inaspettato. Sarebbe una prepotenza.
    Vi sono poi tutta una serie di interventi dei ministri, e anche di azioni dell'assemblea, che sono il terreno migliore per un adattamento sensato. Disponendoli in ordine dal meno flessibile al più malleabile, ricordiamo: il testo delle letture bibliche (la traduzione perfetta non esiste, ma il miglioramento che si intende apportare, salvo ritocchi di buon senso, dovrebbe essere fondato su un'oculata coscienza dei valori in gioco) – il dettato delle orazioni, benedizioni, testi di lode, invocazione, preghiera, intercessione (sapendo però che su alcuni, come le formule sacramentali, la chiesa intera impegna la propria fede) – l'utilizzazione di nuovi testi specie per il canto o la meditazione. Per un'esemplificazione più tecnica, rimandiamo ad altri lavori (1).
    Non è intenzione di queste riflessioni scoraggiare i tentativi di adattamento, o dileggiare le cattive riuscite. Si intende soltanto contribuire a una coscienza più acuta delle grosse poste in gioco. Ed è per questo che, per concludere, vorrei ricordare ancora due esigenze, già in parte accennate.

    LA COMUNITÀ, SOGGETTO E NON OGGETTO DELL'ADATTAMENTO

    Autori degli adattamenti sono molto spesso i «leaders» di un gruppo o comunità, preti o laici che siano. Ma è l'assemblea che li attua, o – alla peggio – li subisce. Una corretta ecclesiologia richiede che non si compiano esperimenti «in corpore vili», ma che ogni tentativo parta da un'analisi onesta e sbocchi in una verifica accurata, direi spietata. Non è detto che ogni reazione negativa vada subito accolta come decisiva. Bisogna chiedere all'assemblea di saper pazientemente provare. Ma neppure si possono chiudere gli occhi di fronte a tentativi manifestamente falliti, o comunque da rivedere.
    Infine, quando si percepisce che occorrerebbero riforme più profonde e radicali – oppure quando sembra di poter trarre delle conclusioni solide e positive da esperienze ben condotte –, bisogna uscire dalla propria ristretta cerchia e comunicare con altri: sia con chi si trova in situazioni analoghe, sia con gli organismi o le persone che nella chiesa curano particolarmente questo settore. In ultima istanza, le stesse autorità ecclesiali. Questa raccomandazione non nasce da scrupoli legalistici, ma da una preoccupazione di comunione, e, diciamolo pure, da un briciolo di modestia. Adattare, modificare, creare, saranno così un gesto di autentica e matura fedeltà.

    NOTE

    (1) Cfr. il nostro studio Procedimenti e condizioni per un adattamento, in Rivista Liturgica, 1976/1, pp. 77-86.


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