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    Quale pedagogia? Direttività, non-direttività o liberazione?



    Bruno Bellerate

    (NPG 1976-02-34)

    LA PEDAGOGIA DEL CONSENSO

    Parte da certezze, sicurezze teoriche, più o meno ampie e più o meno coscienti e riflesse. È tanto più esigente e dogmatica, quanto più radicate e incontrollabili sono quelle certezze: il richiamo a un certo modello di educazione cristiana tradizionale viene spontaneo.
    Tuttavia se questo tipo di impostazione educativa è stato quello tradizionalmente prevalente, va subito rilevato che non si è affermato soltanto nell'ambito del Cristianesimo, ma di ogni altra religione potremmo dire non critica. Non solo, ma una pedagogia del consenso si ritrova pure tra i non-credenti e tra i materialisti, laddove persista un orientamento dogmatico. Il dogmatismo, da alcuni oggi identificato con l'ideologia, ama seguire una logica ferrea, soprattutto di tipo deduttivo, ma non rifugge dal ricorso anche a quella induttiva, purché sotto il controllo e in subordine alla prima. Avviene così che i punti teorici di partenza e d'arrivo possono divergere e contrapporsi totalmente, mentre la metodologia del processo educativo, proprio perché retta da quel tipo di logica, può svilupparsi in forma praticamente parallela.
    Così il Cristianesimo, per esempio, e il materialismo partono da matrici contrarie (tradizionalmente dualistica la prima e monistica la seconda) e tendono a fini contrapposti (tradizionalmente ultraterreno o terreno, rispettivamente), per quanto entrambi aprioristicamente predeterminati e da raggiungersi secondo modelli e schemi prefissati (da Dio e quindi da «scoprire» in un caso; dall'autorità e quindi da «realizzare» nell'altro).
    Di qui la qualifica di pedagogia del consenso: si fonda su un'etica chiaramente eteronoma nel caso del cristianesimo «tradizionale»; apparentemente autonoma, di fatto però personalmente eteronoma anche nel caso del «materialismo». La norma etica è infatti determinata non dal singolo, sia pure in quanto uomo, ma da chi ha il potere, dal partito, comunque, dall'autorità, sentita effettivamente come estranea al singolo.

    Il punto di vista metodologico

    Dal punto di vista metodologico, dei processi e dei mezzi educativi, l'analogia tra le varie posizioni ideologicamente diverse è anche maggiore. Si parte dall'idea della «trasmissione», che porta all'indottrinamento acritico, favorisce l'autoritarismo, stimola l'emulazione, provoca la selezione nei modi più svariati e con le giustificazioni più disparate, frena e controlla ogni eventuale iniziativa con i mezzi più vari (censure, punizioni, espulsioni, promozioni, graduatorie...). Il rapporto educativo è a senso unico, dall'alto al basso, dall'adulto al giovane, dal passato al presente, dall'educatore (di cui va difeso il ruolo) all'educando: è un rapporto chiuso, senza interferenze e integrazioni lecite, da cui derivano atteggiamenti e comportamenti intransigenti, non flessibili, integristi, ma non da integrare, pienamente integrati nel «sistema» dominante, ma privi di sensibilità di fronte alle nuove esigenze.
    La sicurezza dei supposti «valori» perseguiti e la stabilità delle leggi che vi conducono stanno alla base di questa visione umanamente oppressiva del processo educativo. Storicamente non ne sono esistite forme «pure», ma l'approssimazione è stata, in molti casi, più che rilevante. Anche oggi sopravvivono tentativi integristici e rigurgiti di pedagogie del consenso, che escludono in partenza, con motivazioni varie, una formazione al senso critico e al senso storico.
    Non essendone esistite forme «pure», di fatto sono stati introdotti in queste linee di intervento dei correttivi più o meno efficaci, soprattutto dando più spazio all'esperienza vagliata e preparata più adeguatamente, alla creatività o meglio all'iniziativa, alle riforme richieste da un più funzionale adattamento ai tempi e così via.

    Pedagogia del conformismo?

    Rimane però l'atteggiamento conseguente alla non-problematizzazione, alla sicurezza delle soluzioni previe per cui non si riconosce, né si accetta una situazione di contrasto, di dissenso, di lotta. Tutto deve rientrare nell'ordine, quasi in un'armonia prestabilita, a costo di sacrificare le persone: la priorità è della legge e dell'istituzione, con tutte le strutture, gerarchizzazioni e casistiche che ciò comporta.
    In fondo a questo tipo di impostazione pare che si possa scorgere un peccato di presunzione teorica, che vuol imporsi nella prassi, nonostante un apparente atteggiamento di umiltà. È una linea che esige il conformismo soprattutto degli altri, quasi completamente deresponsabilizzati. Ciò che conta è la disciplina, l'ubbidienza, l'assenso e l'accettazione possibilmente attiva della situazione, che deve mantenersi. L'unico significato rimasto alla «responsabilità» è quello «retrospettivo», quello che deriva dall'esame di coscienza o dall'autocritica non in funzione del futuro, ma rapportati al passato, al proprio adeguamento o meno alle norme, ai modelli, alle leggi. Ne deriva un'etica del «pentimento» più che della «conversione»; della penitenza, del sacrificio, della rinuncia più che dell'impegno, del rischio, dell'iniziativa...

    LA PEDAGOGIA DELLA LIBERTÀ

    Senza entrare in merito alla problematica che si riferisce alla libertà e che ha costituito uno dei punti cruciali per ogni filosofia «umana», utilizzo qui il termine nella sua doppia accezione, positiva e negativa e cioè come qualità e diritto umano, da un lato, e come esaltazione individualistica di tale qualità e diritto, quasi non fosse consentito individuarne e definirne i limiti.
    In questo caso ci si muove da una sola e decisiva certezza: il valore dell'uomo. Valore indiscutibile e assoluto, almeno dal punto di vista della propria gestione, per quanto ammetta diverse interpretazioni; valore che dev'essere non soltanto rispettato, ma agevolato nel suo sviluppo, se non altro contribuendo all'eliminazione delle difficoltà prevedibili; valore infine autonomo e pressoché imprevedibile in questo suo stesso sviluppo, sicché non ha senso, anzi è controproducente proporgli un modello.
    Anche in questa concezione però le matrici e le finalità possono divergere: con Rousseau e altri si parte dalla idea di una natura umana strutturalmente buona e definita; per molti invece, che prendono lo spunto soprattutto da considerazioni di tipo psicologico o più precisamente psicanalitico, non esiste un previo giudizio morale sulla singola natura, ma si procede nella linea dei decondizionamenti e della liberazione individuale, affinché possa affermarsi e fiorire la libertà. Ci si trova così di fronte a pedagogie prevalentemente «nondirettive», come sono state dette (cf C. Rogers), o di fronte a pedagogie più propriamente libertarie, per le quali non esiste più alcun criterio etico adeguatamente stabilito o meglio identificato su un piano critico (cf A. Neil).
    Le divergenze non sono minori quanto alle finalità: remotamente conformistiche nel primo caso, quando si tratta di rispettare le proprie inclinazioni, tendenze e interessi, sulla base della propria natura; radicalmente innovative, spontaneistiche nel secondo, almeno nella sua espressione più estrema. Nel primo caso Gramsci parlerebbe di «sgomitolamento», mentre il secondo tende verso un incontrollato anarchismo o si illude in una concezione sociale estremamente utopistica, fondata su un'ipotesi di uguali. In realtà entrambi gli orientamenti, sia quello a sfondo deterministico che l'altro, appaiono storicamente e politicamente illusori e dunque utopistici, almeno in Occidente, poiché l'attuale società con le sue strutture e forme di controllo non consente che due atteggiamenti fondamentali: o di consenso o di dissenso e quindi di rivolta, comunque la si conduca. Una riforma non ne cambierebbe la natura, le scelte profonde...

    Il punto di vista metodologico

    Dal punto di vista educativo-metodologico prevale una logica inversa a quella precedente: dal basso, induttiva, secondativa nei confronti dell'educando, che o porta iscritto in sé il suo progetto di sviluppo o se lo va costruendo al di fuori di ogni indicazione orientativa e limitativa e di ogni inibizione. I rapporti educativi, gli strumenti e sussidi si contrappongono decisamente a quelli segnalati nell'altro indirizzo, anzi propriamente non sono in questo caso neppure adeguatamente prevedibili e programmabili, se non in termini assai generali e quindi troppo astratti. Ma una pedagogia della libertà portata al limite diventa contraddittoria, perché non è possibile prescindere da ogni condizionamento esterno. Infatti una logica puramente induttiva non è scientificamente accettabile: la realtà è sempre colta con i propri occhi e dunque con categorie determinate e determinanti, che vanificano un'induzione pura. Per questo è altrettanto inconcepibile un'«autoeducazione» in senso stretto, che supporrebbe un'autonomia totale del singolo individuo. Le forme estreme di pedagogia libertaria si rivelano perciò teoricamente e praticamente inconsistenti e sono interpretabili come pedagogie «reattive», ispirate cioè da una «reazione» più o meno istintiva e incontrollata di fronte a impostazioni e situazioni precedenti.

    Una pedagogia dell'integrazione sociale?

    Se queste forme appaiono eticamente indefinibili, sono invece più equilibrate e per ciò stesso più diffuse le pedagogie di tipo non-direttivo, che riconoscono una notevole autonomia etica al soggetto, ma non disconoscono le limitazioni effettive che provengono dalle società. Infatti puntano a un inserimento del soggetto in essa e talora a un suo adattamento, pur difendendo e battendosi per ampliare gli spazi della sua autonomia e creatività, dei cui limiti reali tuttavia lo stesso soggetto dev'essere cosciente. Donde un ampio margine per l'invenzione e la libera espressione di ognuno, ma non senza argini: e in questi termini tali posizioni diventano più realistiche, ma al tempo stesso più conformistiche: la non-direttività come la libertà non si estendono alla società.
    Le sicurezze di questo orientamento sono dunque notevolmente minori, possono sorgere dubbi e dissensi, ci sono rischi e problemi, ma soprattutto a livello individuale: è il soggetto che preme maggiormente, si devono creare condizioni di vita possibili e facili, stimolanti e soddisfacenti per l'individuo e la società stessa ne beneficerà. Da un punto di vista storico-sociologico non sarebbe difficile vedere in questa impostazione educativa il prodotto di una società capitalistica, che, di fatto, favorirà sempre più il già favorito ed emarginerà ulteriormente l'emarginato, nonostante le proclamazioni contrarie. Alla sua base sta fondamentalmente un'etica di tipo individualistico, che confina con l'egoismo. Alla morale istituzionale si sostituisce quella «personale» o, forse meglio, individuale con un tentativo di capovolgere apparentemente l'atteggiamento oppressivo (non più dall'alto, ma al basso!): in realtà tuttavia non essendo possibile generalizzare tale atteggiamento, sarà privilegio di alcuni, dei «big», dei «supermen»...
    La tentazione di questa impostazione educativa è presente e forte anche all'interno del Cristianesimo: si tende a passare da un indottrinamento di massa, da una produzione standardizzata di cristiani a una «cura personalizzata» di tipo élitistico, a una progettazione artigianale differenziata, ma pur sempre controllata. Né manca una facile razionalizzazione interna: il buon Dio non lavora in serie; ognuno è e dev'essere se stesso...
    In fondo riemerge in questa visione, come nella precedente anche se con diversa origine e matrice, una radicale deresponsabilizzazione, che era già presente nella tradizionale «rassegnazione». La realtà è e resta sempre immutabile o a livello sociale o a livello individuale e non vale la pena scontrarvisi. Di qui un doppio atteggiamento educativo e una doppia risposta: il massimo impegno per gli «eletti» e da parte loro, un giustificato assenteismo nei confronti delle masse e da parte loro.
    Due orientamenti dunque e due impostazioni contrarie, ma imparentate, criticamente non accettabili, per quanto variamente camuffabili. È pensabile e possibile un'alternativa?

    LA PEDAGOGIA DELLA LIBERAZIONE

    «Liberazione» è oggi un concetto e un termine ricorrente, ma non per questo privo di ambiguità. Come per altri utilizzo anche questo perché mi pare che possa esprimere meglio l'alternativa verso cui ci si va orientando in molti ai nostri giorni, anche e direi soprattutto a livello educativo. E qui va immediatamente eliminato un equivoco: «soprattutto a livello educativo» non perché si ritenga possibile cambiare le cose puntando esclusivamente sull'educazione (come più propriamente si addice al precedente orientamento), ma perché anche far politica è educazione, rientra cioè nel processo educativo sia di chi la fa, sia di chi eventualmente la subisce, certo, in questo caso, con segno contrario.
    Una pedagogia della liberazione, intendendo per liberazione non solo quella individuale, ma anche quella sociopolitica, ancora non esiste, né forse lo potrà mai a livello di indicazioni operative concrete, adatte al singolo caso. Ma una tale pedagogia va costruita di volta in volta in una logica di globalità, di reciprocità e di convergenza. Di reciprocità perché si superano i sensi unici (dall'alto o dal basso) e si entra, allargando gli spazi, in una visione di continua interazione, nella linea di quella che recentemente è stata chiamata educazione permanente; di convergenza, perché il rapporto è di tutti a uno e di ognuno a tutti, come singoli e come massa.
    Anche in questo caso si parte da alcune convinzioni più che sicurezze: convinzioni che sono maturate da un'analisi storica e della situazione concreta in cui l'uomo vive; convinzioni peraltro che non sono in contrasto con la Rivelazione e cioè con quelle certezze che hanno una loro origine meta-storica, ma la cui acquisizione è pur sempre progressiva e dunque storica. Ora è proprio questa «storicizzazione» e «storicità», messa in primo piano, che relativizza le sicurezze, che problematizza i progetti e le programmazioni, che lascia spazi all'inventiva e alla creazione: la storia infatti è opera umana e dunque a dimensione d'uomo. Non importa, per il momento e a livello d'impegno, se quest'uomo agisce del tutto in proprio o grazie ad altri; rimane però certo che agisce sotto la sua responsabilità «prospettica» oltre che retrospettiva o, più precisamente, che così può agire e con un impegno totale, sebbene a misura d'uomo. La Rivelazione e la presenza immanente-trascendente di un Dio non può che dare ulteriori stimoli per un intervento deciso e impegnato. L'aspetto più interessante di questa alternativa sta appunto nella sua globalità e per ciò stesso nel superamento dei compartimenti-stagno, nel coinvolgimento senza riserve su tutti i piani e a tutti i livelli. Globalità tuttavia che non è totalità e che non comporta perciò dogmatizzazione e assolutezza, ma che si sviluppa progressivamente, dinamicizza e mette in causa ogni momento pur rimanendo sempre al di là: è la tensione permanente verso la perfezione, cui tutti e tutto devono contribuire. Restano indubbiamente delle indicazioni significative, delle leggi, la cui falsificazione è come l'aspirazione e l'espressione matura della libertà, laddove sia realizzabile. Intanto rimangono e valgono finché non risultino effettivamente superate: la legge è per l'uomo, non l'uomo per la legge. L'etica e la formazione morale conseguentemente non sono né propriamente eteronome, né autonome in senso stretto, ma autonome in quanto al limite valicabili, eteronome in quanto continuamente riproposte più in là; autonome, in quanto riproponibili dal singolo, ma non in quanto tale, bensì in quanto membro della società umana, che lo ha posto in quelle condizioni di superamento; eteronome, in quanto il singolo come tale non può che subirle.
    In questa prospettiva perciò il processo educativo è un processo aperto in vari sensi: in quello della globalità in primo luogo, in quello della collaborazione, in quello della conservazione critica e del rinnovamento anche rivoluzionario, laddove sia richiesto, in quello della creatività più ampia e così via.

    Una pedagogia da inventare

    Dal punto di vista metodologico non si possono dare che indicazioni di principio, in base alla logica portante: solo un'analisi concreta della situazione storica reale può permettere l'individuazione delle priorità e delle spinte operative verso quella globalità d'intervento, che deve caratterizzare questa impostazione, protesa verso l'avvenire pur guardando al passato. Una cosa è certa e cioè che si deve lavorare soprattutto in prospettiva e che a tal fine tutto va posto in luce nell'ambito delle possibilità, senza raggiri, occultazioni, infingimenti o manipolazioni. La realtà va analizzata per quello che si dimostra, senza evasioni o razionalizzazioni: ogni cosa va indicata con il proprio nome e ogni termine va chiarito nel suo significato reale. La lotta è lotta e richiede un coinvolgimento; l'oppressione, comunque sia, è oppressione ed esige una liberazione; l'assenteismo e la irresponsabilità sono tali in ogni caso e vanno corretti... Certo si ripropone il problema della chiave di lettura della realtà e si è già detto che non se ne può prescindere: è questione di scelta. «L'uomo può cambiare metafisica, ma non ne può fare a meno», dice Bachelard. E il criterio di scelta? La storia aiuta, la scienza suggerisce, la vita decide... e la vita è di tutti, non solo mia o di pochi.
    Non voglio cadere in una facile contraddizione tentando una descrizione di ciò che ancora non è, né, in certo senso, può essere: sarebbe ideologia. Mi basta aver dato qualche indicazione, che mi auguro stimolante, e prima di concludere, ricordo ancora che un'alternativa scientifica si costruisce sugli errori delle precedenti linee, che hanno una loro storia. A noi tutti il compito di concretizzare e perfezionare in ogni momento questo tipo di intervento educativo, che richiede ovviamente una coscientizzazione e responsabilizzazione generalizzata e personale, diretta cioè ed effettiva, nei limiti delle reali possibilità, che vanno verificate.
    In questa prospettiva pedagogia della liberazione è pedagogia o meglio processo educativo globale, continuo e critico, che sfrutta l'errore piuttosto che le certezze illusorie, che scavalca le settorializzazioni in una ricerca impegnata e impegnativa e in una collaborazione di tutti e di ognuno da costruire e da ricostruire ogni giorno. Una prospettiva che è teorica, ma di una teoreticità che è operativa, che assume dalla prassi tutto il suo significato e la sua validità. Teoria insomma che deve e vuole diventare azione per contribuire non a una contemplazione del reale, ma a un suo miglioramento.


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