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    Prima c'erano case e prati, adesso c'è la scuola e un quartiere



    Germano Proverbio

    (NPG 1976-5-27)

    Questa volta non vogliamo raccontare un'esperienza in tutti i suoi particolari. Quella di «Corea», un quartiere popolare alla periferia di Livorno, è troppo ricca (e, per molti, già conosciuta) da poter essere concentrata nelle poche pagine di una rivista.
    Vogliamo indicare un modello e stimolare il lettore interessato ad approfondire il discorso a titolo personale: in calce all'articolo è indicata tutta la vasta letteratura sull'argomento.
    Segnaliamo questa esperienza perché ci offre la possibilità di riprendere discorsi sulla scuola già fatti in precedenza (cfr. soprattutto 1973 /6-7 e 1974 /2), riaffermando quella scelta di «realismo operativo che tanto caratterizza Corea e che ci pare una condizione intelligente per un cambio di prospettiva, rispettoso della persona concreta dei ragazzi.

    Il quartiere Corea di Livorno può considerarsi il luogo di verifica delle diverse esperienze di scuola alternativa che, singolarmente prese, sono state realizzate in altri contesti ambientali [1]. E ciò per due ragioni, principalmente: la prima riguarda le condizioni socio-economiche della popolazione, che da un'indagine condotta nel 1968 si caratterizza per una prevalente manodopera non qualificata, il 65,0%, contro il 28,0% di manodopera qualificata e 1'8,0% di ceto impiegatizio; ed insieme le condizioni culturali che denunciano una situazione scolastica assai grave: il 41,0% degli adulti è privo di titolo di studio, quelli che sono in possesso della licenza elementare raggiungono il 49,0%, mentre il 40,0% degli alunni in età di scuola media, non ha ancora conseguito la licenza della scuola primaria.

    UNA ESPERIENZA TIPICA

    La seconda ragione, a cui si deve se le condizioni accennate non sono rimaste dei puri rilievi statistici, è che l'arco di tempo nel quale è maturata l'esperienza di Corea, si presenta piuttosto ampio, tanto da consentire un articolato succedersi di interventi – da quelli più informali fino alla istituzionalizzazione – e da assicurare sufficienti garanzie di continuità.
    Un altro dato ancora, che rappresenta lo «specifico» di tutta l'azione culturale e politica svolta in Corea, si ritrova nel coinvolgimento, a diversi livelli, della gente del quartiere: sembra, in molti casi, che l'identità stessa del quartiere coincida con la presenza della scuola e di tutte le iniziative che gravitano attorno ad essa. Non è raro raccogliere dalla gente impressioni come questa sulle trasformazioni avvenute in Corea «Prima c'erano case e prati, adesso c'è la scuola e un quartiere».

    LA STORIA DI COREA

    Gli inizi dell'attività risalgono al 1962, quando arrivarono in Corea due sacerdoti dell'«Opera Madonnina del Grappa» di Firenze – a cui come volontari si unirono alcuni studenti universitari – e nel «Villaggio scolastico», fatto allora delle strutture appena essenziali, diedero l'avvio ad un doposcuola assistenziale e di recupero e ad una scuola materna: oggi le attività del «Villaggio Scolastico» coprono tutto l'arco dell'obbligo, a partire dalla scuola materna, e si estendono agli adulti con corsi serali CRACIS e con un «Centro Sociale di Educazione Permanente» ( C. S .E .P.).
    Il doposcuola, che continuò ad operare fino al 1970, pur non assumendo i toni della contestazione – sarebbe stata un'occasione in più offerta alla scuola pubblica per isolarlo – si costituì tuttavia come un momento del processo di liberazione delle classi subalterne, con l'intento di opporsi all'efficientismo della scuola pubblica (fatto soprattutto di discriminazioni), offrendo a tutti l'occasione di andare e di restare nella scuola, per reagire, con un rapporto di massa, alle sue strutture e alla burocratizzazione. A ciò contribuì il fatto che nel 1967 fu collocata in Corea una succursale della Scuola Media Statale «C. Colombo»: si realizzava così la prima concreta possibilità per entrare come quartiere, come comunità popolare, nella scuola; possibilità che si istituzionalizzava con la gestione sociale della scuola nel 1970-71, quando ebbe inizio la Scuola Media Sperimentale di Stato «N. Pistelli», in una sede costruita dalla comunità e poi ceduta al Comune.
    La sperimentazione fu allargata alla scuola materna e alla scuola elementare [2], e fu affidata alla «normalità» degli operatori scolastici, ritenendo positivo che proprio essi – e non una équipe preordinata e isolata – fossero invitati ed aiutati a compiere cose nuove, ad usare metodi mai usati, a porsi problematiche pedagogiche e sociali di cui, forse, non avevano mai sospettato l'esistenza.

    UNA SCELTA SEGNATA DAL REALISMO

    La scelta della istituzione scolastica, sia pure di carattere sperimentale, rientra in una logica di cui abbiamo già indicato alcuni aspetti, ma che richiede un maggior approfondimento onde evitare interpretazioni affrettate ed equivoche. Il rifiuto della scuola di classe, selettiva e repressiva, quando non è accompagnato da una proposta costruttiva – come è avvenuto nel caso di gruppi politicizzati più estrinsecamente che culturalmente – crea un vuoto che consente il sorgere di un altro tipo di scuola altrettanto di classe, la scuola della smobilitazione e della dequalificazione: «La scuola che non boccia, non strilla e non punisce, ma fa passare sotto la cortina fumogena della scelta formativa e non informativa, una abdicazione pressoché totale al suo più elementare compito di fornire alcune abilità basilari a tutti» [3]. A Livorno, nel quartiere di Corea, si è voluto attaccare anche questa scuola, che finisce per essere selettiva e repressiva, benché meno visibilmente dell'altra: è l'essersi messi nell'«occhio del ciclone», come dice don Nesi, direttore del «Villaggio Scolastico».
    Ciò ha comportato forse l'assunzione di un discorso apparentemente riduttivo, una scelta più realistica, che permette però di combattere l'idiozia dequalificante, offrendo strumenti di lettura dell'esperienza e di comunicazione di essa, di decodificazione dei messaggi di cui è piena l'esperienza dei ragazzi, messaggi non solo verbali, ma anche visivi e auditivi. Questa analisi può indurre a concludere forse che è inutile e ingenuo pretendere la coerenza limpida e pulita di una esperienza integralmente alternativa: «Se così fosse si potrebbe avere la certezza di trovarsi di fronte o a una mistificazione o ad una felice isola di sinistra. Si è già constatato questo tipo di approdo in diversi casi. E c'è anche la constatazione di un fatto noto, ma da riscoprire in tutte le sue implicazioni: che anche nell'occhio del ciclone, nella scuola istituzionale, passa la lotta di classe...» [4]. D'altra parte con la gente di Corea, con i poveri, con quelli che «non contano», non si può sperimentare passando sulla loro testa: per essi la scuola rimane l'unica frontiera di una speranza vaga che si riaccende dinanzi al destino di ogni figlio, che si vorrebbe «farlo andare avanti». Per questo la responsabilità di chi offre la scuola qui, dirà un osservatore, è più pesante che altrove: anche una cosa giusta, come può essere un modo diverso di fare scuola, diventa una cosa inutile se chi la propone non ha la forza di vincere, o la volontà di vincere [5].

    NOTE

    [1] Cfr. G. PROVERBIO e M. SQUILLACCIOTTI, Sistema scolastico ed esperienze alternative in Italia, in «Orientamenti Pedagogici», XXII (1975), 6, pp. 1067-1105.
    [2] Il Decreto del Ministro della Pubblica Istruzione in data 15 ottobre 1974 riconosce il «Villaggio Scolastico» come «un'unica "Istituzione Sperimentale", comprensiva delle attività di Scuola Materna, Elementare e Media e del C.S.E.P.».
    [3] G. ROSSETTI PEPE, Le settecento parole, Milano, Franco Angeli Editore, 1973, p. 242.
    [4] Ibidem, p. 245.
    [5] Le attività svolte nella Corea di Livorno sono ampiamente documentate in una serie di volumi, i «Quaderni di Corea», editi a Firenze dalla Libreria Editrice Fiorentina.


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