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    Per un uso educativo degli strumenti di comunicazione sociale



    Luigi M. Pignatiello

    (NPG 1976-4-39)

    In questo secondo intervento, l'autore ci guida ad alcune conclusioni importanti per «reinventare», in prospettiva educativa e pastorale, gli strumenti di comunicazione sociale.
    Si tratta di un discorso molto importante. Perché tocca da vicino un problema di fatto ineludibile (TV e cinematografo, per esempio). E perché suggerisce una utilizzazione intelligente di strumenti che abbiamo tra mano e sul cui significato spesso ci interroghiamo (le sale cinematografiche parrocchiali, per esempio).
    Al lettore attento, le conclusioni cui giunge l'autore danno sicuramente da pensare.

    Chi non avesse costante dimestichezza con i problemi affrontati nel precedente articolo potrebbe trovare qualche difficoltà a ricavare dai brevi cenni sulla teologia della comunicazione motivi sufficienti di spinta per una revisione del proprio atteggiamento di sospetto o di rifiuto nei confronti degli strumenti di comunicazione sociale o per una reinvenzione del proprio impegno educativo e pastorale nell'ambito di tali strumenti. Il carattere comunicativo della rivelazione e della fede – si potrebbe obiettare –, in quanto insito nella natura stessa del rapporto liberamente instaurato da Dio, sussisteva anche quando non esistevano gli strumenti di comunicazione sociale e quando non si parlava di comunicazione sociale, anche se la sua evidenziazione fa parte della storia recente. La teologia della comunicazione, perciò, resta valida, come premessa di ogni azione pastorale, anche se si contesta la validità pastorale degli strumenti di comunicazione sociale.
    Converrà, allora, aggiungere qualche altra riflessione a quelle più generali fatte nella prima parte di questa nota.

    COMUNICAZIONE PERSONALE E COMUNICAZIONE SOCIALE

    Tra le intuizioni fondamentali scaturite dal messaggio cristiano trova un posto di spicco quella della nuova affermazione della personalità umana, che influirà profondamente sulla storia successiva a Cristo. Il salto qualitativo dall'uomo-soggetto della migliore speculazione greca all'uomo-persona dell'antropologia cristiana è nettissimo. Libertà ed interiorità sono le nuove, grandi scoperte che proietteranno la loro luce sui secoli. L'incarnazione, però, delle grandi intuizioni nella concretezza della condizione umana non avviene mai subito e perfettamente. L'impatto con le culture e con le strutture sociali è sempre, almeno inizialmente, riduttivo, sia per la carica conservatrice delle strutture sociali, sia per la carica difensiva che accompagna ogni nuova intuizione.
    Forse si spiega così l'accentuazione del carattere individualistico della libertà e della interiorità e la concezione interpersonale del rapporto io-tu, ampiamente prevalente, tanto nell'esercizio della fede quanto nell'esercizio della carità, sul rapporto io-voi e noi-voi. J.B. Metz ha parlato giustamente di privatizzazione della fede, che, a mio avviso, è frutto della degradazione della originaria intuizione della nuova antropologia cristiana.
    La comunicazione non poteva non seguirne le sorti, qualificandosi essa stessa come fatto individuale e privato: solo con Dio, appariva come un traguardo superiore di perfezione cristiana; carità nascosta, era la formula della donazione pura.
    Formule, beninteso, storicamente e culturalmente giustificate, così come storicamente e culturalmente giustificata l'accentuazione di quest'escatologismo che faceva scrivere a J. Rivière, con una punta di ironica amarezza: «Il cristiano vive naturalmente dal punto di vista dell'eternità... Di qui una prima impressione che lo spinge nella via dell'indifferenza sociale... nulla di meglio da fede, per lui, che sottrarsi al tempo».
    Il mondo contemporaneo ha scoperto la socialità in dimensioni ignote ai secoli passati, stimolando i cristiani a riscoprire quella dimensione storica e sociale della personalità umana che, pur essendo insita nella antropologia cristiana originaria, era rimasta occultata come l'altra faccia della luna. Il viaggio intorno all'uomo, pur fatto tra mille difficoltà ed ambiguità, ha aperto così orizzonti nuovi, ormai imprescindibili, consentendo di rinvenire quegli aspetti relazionali della personalità che, sul piano della esistenza storica, costituiscono una fonte inesauribile
    In questo contesto, la comunicazione individuale e privata non perde I suo valore ed il suo significato, ma denuncia chiaramente il suo bimbe e la persona umana avverte l'esigenza di un altro tipo di comunicazione, complementare ed integrativo, a copertura di un'altra fascia vastissima di interessi: l'esigenza di una comunicazione socializzata, socializzante, esplosiva ed implosiva allo stesso tempo.
    Non è senza significato che, proprio quando la dimensione sociale dell'esistenza umana ha raggiunto un alto grado ed una notevole ampiezza di consapevolezza nella coscienza degli uomini, la tecnologia ha offerto gli strumenti per la più vasta socializzazione della comunicazione. Se è vero che gli uomini scrivono liberamente ed autonomamente la storia, è altresì vero che, come osserva F. van Steemberghen, ciò avviene sotto lo sguardo provvidente di Dio: «benché frutto dell'ingegno umano – diceva Pio XII nell'enciclica Miranda prorsus – le meravigliose invenzioni della tecnica sono dono di Dio».
    Ben limitata, infatti, sarebbe stata l'area della comunicazione sociale, e cioè della socializzazione della comunicazione, se essa non avesse avuto la disponibilità degli strumenti tecnici.
    L'applicazione all'area dell'azione pastorale mi pare chiara e legittima, tanto da far cadere l'obiezione da cui ho preso le mosse.
    L'azione pastorale, infatti, mira all'attuazione del piano di salvezza predisposto da Dio per l'uomo; e il Concilio Vaticano II ha affermato che, sebbene «in ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme ed opera la giustizia; tuttavia, Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse» (cfr. Lumen Gentium, 9).
    La storia della salvezza non è quindi soltanto la storia della comunicazione tra Dio e gli uomini, ma è anche la storia della comunicazione tra gli uomini, realizzata nella concretezza delle situazioni e potenziata dagli strumenti disponibili.

    LA TECNICA GEME E SOFFRE LE DOGLIE DEL PARTO

    Non ritengo irriverente parafrasare così il noto testo paolino (cfr. Rom 8,22). Mi pare che esso esprima bene la condizione di fatto in cui si trovano gli strumenti di comunicazione sociale, come del resto la grande maggioranza dei ritrovati della tecnologia, costretti, non per loro natura, ma per la violenza ad essi fatta, ad esercitare un ruolo prevalentemente negativo.
    La tecnica aspetta di essere «liberata dalla servitù della corruzione» (cfr. ivi, 21) per partecipare, con maggiore ampiezza e con maggiore evidenza, alla promozione della comunicazione tra gli uomini e tra gli uomini e Dio.
    Lo spazio concesso a questa nota non consente di affrontare tutti gli aspetti di cotesta liberazione. Indulgeremo, perciò, soltanto su quello relativo alle possibilità degli operatori educativi e pastorali, aspetto non di poco conto, anzi capace di influire anche su altri aspetti del problema.

    Riconversione del soggetto

    Il primo passo da fare, secondo me, è quello della riconversione del soggetto recettore. Dirò subito che averlo chiamato recettore forse ha contribuito a radicalizzarne la posizione passiva e ad accreditare la concezione del rapporto strumentale come rapporto di trasmissione anziché di comunicazione.
    L'azione educativa deve mirare al superamento della condizione psicologica dello spettatore e del lettore, in cui praticamente termina il rapporto di trasmissione anche quando si verificano reazioni emotive o razionali di accettazione o di rifiuto, che si esauriscono nel soggetto stesso.
    Per definire il meccanismo di superamento di cotesta condizione vorrei ricorrere ad un paragone, fermo restando che i paragoni hanno sempre dei limiti.
    La comunicazione strumentale va considerata alla stregua di una lettera, di cui si è destinatari, ma alla quale occorre rispondere poiché nei suoi contenuti si è coinvolti.
    È, in un certo senso, lo stesso discorso che si fa per l'atteggiamento da assumere – se è lecito il confronto – verso la S. Scrittura, detta, con bella immagine, la lettera di Dio all'uomo. La S. Scrittura non è un libro che si legge, ma è una voce che si ascolta con una grande carica di presenzialità del mittente; una voce alla quale occorre dare un riscontro. È chiaro che la parola di ritorno alla lettera di Dio trova canali immediati di inoltro, mentre, almeno per il momento, i canali di inoltro della risposta alla comunicazione strumentale sono scarsi ed intasati. Lo sono, però, a mio avviso, anche perché la condizione psicologica dell'utente è una condizione pacificamente passiva, perché l'utente si considera recettore e, come tale, non ha stimolato la riconversione del rapporto, la quale, prima ancora che costituire problema tecnico, costituisce problema psicologico e politico, e, per il cristiano, anche problema religioso e pastorale.

    Reinterpretazione dell'oggetto

    Il secondo ed importante passo educativo da promuovere è quello della reinterpretazione dell'oggetto, cioè dei contenuti veicolati dagli strumenti di comunicazione sociale.
    La condizione psicologica di recettore, cioè di spettatore o lettore, ha limitato la portata del significato dei contenuti trasmessi a livello di pura informazione di cui prendere atto o di racconto grafico o visivo per il godimento dello spirito, per l'evasione dalle pene quotidiane, per lo sfogo più o meno grossolano degli istinti repressi. Il tutto a livello strettamente individualistico.
    Va detto subito che cotesta valenza dei contenuti trasmessi corrisponde, il più delle volte, alle stesse intenzioni dei trasmittenti, siano essi giornalisti o scrittori o cineasti o agenti radio-televisivi. È insito nella logica del potere, della persuasione e del profitto.
    L'azione educativa deve mirare al superamento di coteste intenzioni e di quei meccanismi, tanto sottili da fare apparire reale l'immaginario ed immaginario il reale e da isterilire tutti i potenziali processi positivi che potrebbero, invece, essere messi in moto.
    L'azione educativa deve mirare a far reinterpretare i contenuti trasmessi, quali che siano, così che essi appaiano, quali in realtà sono, come «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi», di fronte alle quali non si può semplicemente prendere atto, oppure divertirsi, ovvero irritarsi, ma, almeno a livello dei cristiani, bisogna convenire che esse «sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (cfr. Gaudium et spes, 1).
    Cotesta reinterpretazione deve investire tutti i contenuti, quali che siano: le espressioni della più alta poesia come le manifestazioni della peggiore degradazione, l'omaggio reso alla verità dalla informazione onesta ed obiettiva come le manipolazioni più meschine dei fatti e delle idee. Tutto, infatti, è rivelatore di una condizione umana, fatta di gioie e di speranze, ma fatta anche di tristezze e di angosce, illuminata da altissimi valori, ma anche abbrutita da violenze, degenerazioni, tragedie del corpo e dello spirito.
    Come sarebbe falsa una immagine dell'umanità tutta impastata nel male, così sarebbe falsa l'altra immagine, tutta acqua e sapone.
    Con siffatta umanità bisogna entrare in comunicazione, e la comunicazione sarà tanto più possibile e tanto più fruttuosa quanto più realistica sarà la conoscenza che se ne sarà acquisita non con la mentalità del giudice o del fariseo scandalizzato, bensì con quella del samaritano premuroso e comprensivo, la cui pietà, che non teorizza ma interviene concretamente, è plasticamente contrapposta, nella parabola evangelica, al comportamento impietoso dei rappresentanti del pubblico moralismo.
    A scanso di ogni possibile equivoco devo dire che non sto facendo l'apologia della stampa, dei film e delle trasmissioni pornografiche, violente, degradanti e devianti, né sto suggerendo una sorta di istigazione al consumo di tali prodotti. Meno ancora sto cercando di presentare gli ideatori ed i produttori di essi come benefattori dell'umanità. Sto cercando soltanto di opporre al moralismo improduttivo e al velleitarismo pedagogico del divieto una ipotesi educativa che, nonché chiudere gli occhi sulla realtà, cerchi di capirne la tragicità per evangelizzare non un mondo qualsiasi, ma il mondo in situazione.
    Specchio della realtà, cotesta tragicità deve diventare anche spinta per la verifica del ruolo del cristiano, in quanto singolo e in quanto membro di una comunità, di essere segno della salvezza posto da Dio in un mondo che ha appunto bisogno di essere salvato perché è così come è.

    Creazione di uno spazio educativo

    L'azione educativa descritta, mirante alla riconversione del soggetto, alla reinterpretazione dell'oggetto, al recupero della trasmissione al ruolo di comunicazione, con i riflessi pastorali che ne derivano, suppone la creazione di uno spazio educativo, cioè di promozione della crescita umana e cristiana, in cui i processi auspicati siano messi in moto e siano sviluppati non solo in termini di indirizzi teoretici, ma anche in termini di esercitazione pratica in un quadro comunitario.
    Le istituzioni pastorali ed educative cattoliche hanno sottovalutato ed utilizzato in modo estremamente marginale uno strumento pur largamente diffuso in esse: la sala cinematografica. Al punto che questa ha acquisito, all'interno e all'esterno del mondo cattolico, una estimazione ben misera. Sala parrocchiale e sala dell'oratorio sono diventate sinonimi di sottocultura o, nella migliore delle ipotesi, di parcheggio economico per bambini, fanciulli e ragazzini. Tralascio la citazione delle molteplici variazioni sul tema.
    Né sono valse, né onestamente valgono al riscatto le iniziative culturali dei circoli di cultura cinematografica, parentesi brevi di prestigio – quando lo sono – in un lungo discorso insignificante, fiore all'occhiello su di un abito liso. Neppure servono molto, salve fatte le ottime intenzioni, le pretese educative di filodrammatiche, di gruppi musicali e cose simili. Si tratta di briciole disperse, di segmenti senza continuità, di predicati senza soggetto.
    Affinché assumano una valenza educativa è necessario che quelle strutture diventino spazio educativo globale e costante, in cui si coniughino con continuità i motivi della crescita umana e cristiana nell'impatto coraggioso con la realtà umana, nel confronto attento e premuroso sui problemi dell'uomo e della società, nell'incontro e nel dialogo, da parte di una comunità che, approssimativa all'inizio, diventi sempre maggiormente consapevole e responsabile, mettendo in esercizio effettivo e produttivo la sua fede, la sua speranza e la sua carità.
    In queste condizioni sarà possibile capire che cosa è la comunicazione, apprezzare quei meravigliosi doni di Dio che sono gli strumenti di comunicazione sociale, scoprire le vastissime possibilità di un serio impegno pastorale ed accorgersi, al di là dell'abitudine di tradizione, che c'è un tempio, una liturgia, dei sacramenti, che non sono un altro mondo, ma sono il punto di riferimento e di rifornimento per dare la forza necessaria con cui affrontare i problemi scoperti nella sala.
    Allora, i segmenti si riuniscono a formare una linea, le briciole diventano pane, i predicati sono coniugati con i loro rispettivi soggetti, e, di fronte ad un mondo in crisi drammatica, invece di abbandonarsi a sterili lamentele, ci si impegnerà in fiduciosa azione missionaria poiché, in questa ottica diversa, dilatantur spatia caritatis.


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