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    La storia di un gruppo che è diventato di «riferimento»...



    Gruppo giovanile «S. MARTINO» - Novara

    (NPG 1976-01-32)

    Questa che raccontiamo è una storia vera: la storie di un gruppo parrocchiale, nelle tappe della sua crescita. In cinque anni di vita, ha percorso tutti gli stadi della maturazione di un gruppo.
    Sembra un trattato di dinamica di gruppo, scritto sulla pelle di 50 ragazzi svegli e di un animatore capace e preparato.
    Oggi il gruppo percorre altre direzioni: è di «riferimento «, come essi stessi dicono della loro esperienza, indicando i contenuti che definiscono il termine.
    Questa storia è un contributo prezioso per gli operatori pastorali. Contiene la descrizione minuziose delle tappe di marcia: i sussulti, le crisi e le riprese, gli elementi che hanno aperto in avanti il gruppo e quelli che ne minacciavano la vita.
    Il quadro di riferimento culturale è, inoltre, per molti aspetti il progetto di pastorale giovanile che la rivista propone.
    Dunque il lettore attento può trovare in queste pagine quel discorso concreto, di contenuti e di metodi disseminati a ritmo con la vita che tanto spesso giustamente invoca.

    Redazione di Carlo Bonasio, animatore del gruppo giovanile S. Martino» di Novara.
    Il gruppo ha raccontato la sua storia, con abbondanza di particolari, nel libro UN GRUPPO IN CAMMINO
    (Edizioni Paoline, 1975, pag. 144, L. 900). 

    LA CRESCITA DI UN GRUPPO

    A volte, riflettendo tra di noi abbiamo l'impressione che la nostra storia ripeta in qualche modo quella del popolo ebreo, che, come dice S. Paolo è stata scritta a nostro ammaestramento».
    Anche nella nostra storia scorgiamo la liberazione dalla schiavitù, il periodo di deserto con la nostalgia delle cipolle sempre in agguato, il periodo d'oro che ci ha resi rammolliti, e l'esperienza dell'esilio da cui inizia la lenta e dura purificazione.
    D'altra parte abbiamo anche l'impressione di essere presuntuosi paragonandoci al popolo ebreo, ma è innegabile che la nostra è veramente la storia di un popolo, in cammino.
    Cammino richiama tante cose. Il cammino è fatto di passi veloci o tranquilli, di rallentamenti, di strade sbagliate, di stasi e addirittura di inversioni di marcia.

    1. Rileggendo i documenti degli scorsi anni ci siamo accorti di quante mosse false, cedimenti... siamo stati protagonisti. Eppure anche questi apparenti fallimenti non sono mai stati inutili: crediamo che non saremmo a questo punto (pure con tutte le carenze e deficienze attuali) se non avessimo avuto il coraggio di sperimentare, di abbandonare obiettivi, o metodologie rivelatisi inefficaci, e ricominciare da capo, nuove esperienze, nuovi tentativi. 

    2. Ancora ci siamo accorti di una cosa stranissima: nel nostro cammino abbiamo avuto delle intuizioni che puntualmente hanno incominciato a realizzarsi soltanto qualche mese dopo, o che addirittura ancora non si sono realizzate. Come il seme che, una volta gettato, deve rimanere nascosto lunghi mesi prima di germogliare. Quando gli avvenimenti ci avevano portato in direzioni apparentemente opposte rispetto alle intuizioni, ecco che il seme spuntava quasi per incanto. E le intuizioni incominciavano a farsi strada in modo più completo e a prendere corpo. 

    3. In tutto questo noi crediamo di scorgere la mano di Dio che lentamente e con pazienza ci traccia la pista e ci guida: con pazienza perché accetta l'uomo e i suoi ritmi di crescita. Così le» assemblee» che periodicamente teniamo per verificare e programmare, stanno diventando sempre più lo sforzo per una lettura sapienziale della nostra storia.

    Chi siamo?

    Il gruppo giovanile di cui parliamo è composto di circa 50 persone di età compresa tra i 16 e i 19 anni circa.
    La grandissima parte di noi, purtroppo, sono studenti. Solo alcuni, terminate le scuole superiori, hanno iniziato da qualche mese il lavoro.
    I più frequentano il liceo classico, quello scientifico e le magistrali. Pochissimi gli Istituti Tecnici.
    Tutto questo ci convince ancor di più del grosso limite che la nostra esperienza comporta.
    Il rione in cui abitiamo e operiamo è una zona residenziale della città di Novara. La popolazione sfiora le 20.000 persone, ed è formata da nuclei familiari abbastanza giovani.
    Ci domandiamo spesso che cosa possiamo fare noi, piccolo gruppo di 50 persone, di fronte al migliaio e più di giovani che abitano nel nostro rione.
    Proprio perché zona residenziale, infine, il rione è benestante. Vi sono tuttavia sacche (sia pur piccole) di emarginati. Ci domandiamo spesso: al di là delle parole, che stiamo facendo per loro che, essendo poveri, è necessario siano i nostri preferiti?

    A che punto siamo?

    A questo punto del cammino, il nostro gruppo si pone come gruppo di riferimento.
    Intendiamo indicare con questo termine un gruppo dove non si rimane a lungo, ma dove si torna, dopo aver vissuto nelle normali situazioni della vita, per celebrare insieme la fede, per vivere insieme la fede in modo esplicito.
    Se ciò non avvenisse il gruppo rimarrebbe per sempre una «zona verde» in cui l'individuo può rifugiarsi chiudendo le porte alle interpellanze che Dio ci invia attraverso «le gioie, le ansie, le provocazioni del mondo». Ciò che è importante per noi, quindi, non è che gli incontri siano frequenti (ciò poteva essere fin tanto che eravamo nella adolescenza) ma che siano significativi per la vita.
    Ciò che importa a noi non è «che ci si trovi bene» ma che nel gruppo entri la vita, anche se la vita scotta.
    Ciò che è importante per noi infine non è che i nostri rapporti siano basati sull'amicizia, ma sulla «fraternità», che è qualche cosa di più, perché deriva dal fatto che in Cristo siamo tutti fratelli, al di là delle simpatie o antipatie, e delle sintonie psicologiche e culturali.
    Anzi, più eterogeneo è il gruppo, l'esperienza e il retroterra culturale, ambientale, ideologico dei suoi membri, più ricca e maturante diverrà la vita di gruppo.
    L'obiettivo deve essere unità, nella pluralità.
    Gli strumenti che ìl gruppo di riferimento utilizza in questo momento sono soltanto questi: 
    1. La revisione di vita come primo momento basilare per cogliere le provocazioni di Dio e farle nostre. 
    2. La catechesi per un ulteriore approfondimento della proposta di Dio per la nostra vita. 
    3. La preghiera e il sacramento che trasformino il nostro cuore. 
    4. Una vita impegnata per testimoniare che l'alternativa è possibile.  
    Perché il gruppo di riferimento abbia significato noi crediamo che ogni membro debba tentare di vivere una triplice appartenenza: 
    • Prima di tutto l'appartenenza al quotidiano, inteso come mondo della scuola, la famiglia, il tempo libero... Questo è pregiudiziale per vivere un gruppo di riferimento. Anche perché pensiamo che un cristiano non può sottrarsi all'impegno di vita nel quotidiano. Non partecipare ai collettivi della scuola e alle assemblee con la scusa che sono caotiche è un peccato contro l'incarnazione. 
     In secondo luogo è necessario vivere a fondo l'appartenenza al gruppo, e questo significa ritenere importanti al di sopra di tante altre cose i momenti di vita del gruppo. I momenti del gruppo non sono molti, ma ineliminabili. Perché il gruppo consente un'esperienza di chiesa legata al rapporto a tu per tu. Ciò è importante per celebrare la fede, per viverla esplicitamente (a scuola la si vive solo implicitamente, infatti) cogliendo così i segni di Dio presemi nella storia, e per essere nel quotidiano segno di contraddizione e di promessa. 
    • Un'appartenenza alla chiesa locale: intendiamo per chiesa locale l'insieme dei gruppi di credenti che vivono nello stesso rione e nello stesso territorio. In questa prospettiva si colloca l'esigenza che noi avvertiamo prepotentemente di unirci sempre più agli altri gruppi giovanili presenti nella nostra chiesa diocesana. E a tutte le altre persone (giovani e non) che abitano nel nostro rione e che costituiscono le forze vive della nostra parrocchia. 
    A questo punto si collocano, tra l'altro, i micro-gruppi operativi, o di compito, maturati all'interno del gruppo, dopo un'analisi dei bisogni della comunità e del rione in genere. Poiché non solo di comunità, ma anche di rione si tratta, oltre che l'appartenenza alla chiesa locale, essi manifestano almeno in parte, la nostra appartenenza al quotidiano. In ogni caso sia il quotidiano che gli impegni dei micro-gruppi vanno vissuti secondo una dimensione politica, perché la fede si esprime nell'amore, e l'analisi dell'oggi ci ricorda prepotentemente che amare significa far politica. Il che significa «preparazione seria» per servire, capacità di analizzare la situazione, per intervenire efficacemente. 
    Pensiamo che le tre appartenenze vadano vissute contemporaneamente. A secondo delle attitudini e dei carismi ognuno vivrà in modo più approfondito l'appartenenza al quotidiano o l'appartenenza alla chiesa, si impegnerà cioè di più ad esempio al collettivo studentesco o ad animare i pre-adolescenti della comunità. Ma intanto anche chi si impegna a scuola sa di dover appartenere anche alla chiesa locale, e chi si impegna  nella chiesa locale sa di non potersi disinteressare dei problemi della scuola e del lavoro.

    I PRIMI PASSI

    Il gruppo, ci preme dirlo, non spuntò come un fungo, dall'oggi al domani. Ogni fiore che sboccia ha le sue radici nascoste, il suo terreno. Le radici del gruppo attuale vanno ricercate nelle esperienze dei decenni precedenti, lunghe e feconde, anche se ormai bisognose di un ripensamento per una migliore aderenza alle nuove situazioni.
    La nuova situazione fu soprattutto la contestazione studentesca che in quegli anni a Novara assunse proporzioni molto serie.
    Agli scioperi e alle assemblee che in quell'epoca pullulavano, ben pochi, tra quelli che solitamente frequentavano i nostri oratori, vi partecipavano. Anzi, proprio durante gli scioperi e le manifestazioni, le assemblee, l'oratorio si riempiva come per incanto, e i calcio-balilla lavoravano a pieno ritmo. Intanto la contestazione era portata avanti dagli altri! Perplessi incominciammo allora a mettere in dubbio il nostro modo di fare pastorale giovanile.
    A che serviva avere tanti ragazzi tra i piedi se nelle situazioni sfidanti, questi non trovavano di meglio che scantonare ritornando a quella specie di «oasi» dell'oratorio?
    Si iniziò un ripensamento, che venne portato avanti proprio dai più sensibili della «vecchia guardia»; un ripensamento che non poté non tener conto del fenomeno della «secolarizzazione», che incominciava a sconquassare anche la nostra cittadina provinciale. «Oggi non c'è più posto per i cristianoni. Crolla il cristianesimo-alibi. Oggi, poiché siamo una minoranza non è più comprensibile un'azione difensivo-preventiva. L'oratorio allora non dovrebbe essere più, almeno primariamente, un luogo sereno di ritrovo... ma un momento di rifornimento e di qualifica sia sul piano della fede che sul piano umano, se si vuole veramente incidere positivamente sulla realtà... Qualifica sul piano della fede significa adoperarsi per un'esperienza di Cristo, ed essere così"segno di Dio". Colui che abbiamo visto, che abbiamo udito, Gesù Cristo, noi ve l'annunciamo..."(1 Gv 1)». 
    La cosa non fu indolore. 
    Queste premesse determinarono infatti una spaccatura. Alcuni dissero: facciamo in modo che all'oratorio venga più gente possibile. Organizziamo perciò giochi, tornei. Questo anzitutto ci permetterà di dire una buona parola a parecchie persone. Inoltre dal numero sarà possibile fare emergere ragazzi più impegnati. Ma se esageriamo troppo fin dall'inizio non avremo più nessuno. Altri risposero che quella era la metodologia usata da 20 anni a questa parte. E se, inizialmente, aveva dato buoni risultati, ora non più, come si poteva verificare analizzando il comportamento dei nostri ragazzi di fronte alla contestazione studentesca. Inoltre l'importante non era che i ragazzi frequentassero il nostro ambiente, ma che dal nostro ambiente mutuassero la forza per vivere nel mondo (es. nella scuola) in modo diverso. 
    La spaccatura determinò chiarezza e purificazione interiore. Chiarezza perché le difficoltà accrebbero la necessità di un approfondimento più serio. Purificazione interiore perché ci obbligò a scegliere tra il numero e la verità. 
    C'è un rovescio della medaglia: la spaccatura non si sanò! Rimasero soltanto quelle poche persone che avevano voluto e condiviso la svolta, gli altri se ne andarono. Queste scelte nel 1969 contengono in embrione tutti gli sviluppi successivi.I valori forse sono ancora nebulosi, le intuizioni non chiare. Ma dobbiamo molto al coraggio di queste prime persone. La loro azione infatti fu fondamentale perché tra i responsabili della pastorale parrocchiale ci fosse un salto di mentalità: non degli interventi minimisti per raggiungere comunque il maggior numero di persone, ma scelte profondamente caratterizzate in ordine alla fede per poter essere sale della terra e luce del mondo. Queste prime persone non esistono più come gruppo. La loro scelta precisa a livello personale rimane. Ma l'età ormai matura ha fatto spiccare il volo verso impegni più marcati nel quotidiano o in altri settori. Come un fiore che muore dopo aver gettato un seme nuovo.

    LE PRIME ESPERIENZE CHE AVVIANO IL CAMMINO

    Così nell'ottobre del 1969 si iniziò il lavoro con il gruppo attuale. Erano ragazzi di prima superiore (14 anni) ereditati dal settore delle medie: non più di 25 persone.
    Per un anno andammo avanti con una riunione settimanale affrontando i problemi dell'adolescenza: la solitudine, rapporti con i genitori, con i compagni, tra ragazzi e ragazze, il senso della vita...
    L'adolescenza, infatti, è il momento in cui si cerca l'altro più che cercare insieme con l'altro.
    C'era perciò una mentalità intimistica e una problematica molto personale. Non cedemmo mai alla tentazione di assecondare certe loro esigenze chiaramente superficiali per avere un maggior numero di ragazzi.
    Le parole chiare fanno i buoni amici! La chiarezza dell'impostazione ci sembra essenziale.
    Per la verità i valori evangelici furono portati avanti in modo molto tenue e occasionale. La situazione non ci consentiva di più! Ma sui valori umani non ci sono state tergiversazioni di sorta.
    Certo per quei 25 ragazzi si trattava di ingaggiare un duello tra la morte e la vita. Lasciare le cipolle d'Egitto, la cui nostalgia si faceva sentire molto forte (l'ambiente e le festicciole con i compagni di scuola, la vita comoda...) , per camminare verso la libertà che per ora si identificava con il deserto.
    Fu un anno di tira e molla, di speranze e delusioni, sia per loro che per gli animatori, tanto più che, davanti a loro, non c'era alcun gruppo che potesse in qualche modo stimolarli. La qualcosa, tuttavia, fu anche un bene: non essendo condizionati da nessuno, il cammino era libero e creativo, ed ogni piccolo passo in avanti era considerato una scoperta, una conquista.
    Fu un anno dove il prete-animatore si fece venire il fondo-schiena quadro a furia di ascoltare e parlare seduto nella sua tana, questi lattanzoli e queste ragazzine che andavano da lui a raccontare le loro cose, banali per lui, importantissime per loro.
    Le richieste dei ragazzi erano molto disparate e generiche: chiedevano consigli su problemi psicologici, morali, di comportamento con la ragazza o con il ragazzo; chiedevano un parere sui fatti del giorno, e si facevano consigliare persino sulla scelta delle letture, di qualsiasi genere.
    Se da un lato queste ore spese con i ragazzi furono essenziali, d'altro canto furono un notevole handicap per i tempi successivi. Quando cioè, crescendo in età, i ragazzi incominciarono a risolvere da soli alcuni problemi, non riuscirono più a capire che cosa si dovesse andare a fare dal prete: il problema della direzione spirituale non era progredito in modo corretto, quindi appariva non più comprensibile. Al termine dell'anno ci sembrava di non aver raggiunto gran che. Qualcuno già se n'era andato. La coesione di gruppo era abbastanza fragile. Ma qualcosa si incominciava a notare.

    Il campo-scuola diocesano

    A giugno, 15 di loro parteciparono al campo-scuola diocesano e, successivamente, 5 di loro aderirono al campo di lavoro diocesano. Noi ritenevamo molto importante la partecipazione ai campi-scuola. Sia il prete che gli animatori ne avevano fatto esperienza personale quando, più giovani, vi avevano perso parte.
    Allargare gli orizzonti mentali, conoscere altre persone, far vita comunitaria, sperimentare la durezza del lavoro, soprattutto ascoltare un primo enuncio di fede organico e non solo occasionale, in una situazione favorevole. Questo significò la partecipazione a quei campi.
    I campi-scuola venivano infatti chiamati: campi di iniziazione cristiana. E non lo nascondemmo affatto. Anzi lo mettemmo in evidenza, buttandoci a pesce per farne comprendere il valore.

    10 minuti a Dio...

    Frattanto incominciarono le vacanze.
    Giorgio, Luisa e d. Carlo, prepararono un ciclostilato intitolato: «10 minuti al giorno per pensare a te e a Dio». «Tra pochi giorni, forse, partirai per il mare e i monti. Ma anche se rimarrai a casa non ti mancheranno certo 10 minuti al giorno (su 1.440 esattamente) per pensare a te stesso e a Dio. Abbiamo pensato di aiutarti preparandoti sei brevi commenti a 5 brani di vangelo. Perché lo abbiamo fatto? Sappiamo bene che non è facile comprendere cosa significhi il vangelo per la tua vita, e così sovente lo trovi noioso e inutile. Allora abbiamo scelto 5 brani che ci sono sembrati più significativi, abbiamo meditato su di essi in relazione alla nostra vita; ora desideriamo esporti ad alta voce quello che abbiamo pensato per conto nostro». 
    Oggi non diremmo più di dare 10 minuti al giorno a Dio, perché crediamo che tutta la vita è di Dio e per Dio. Ma quel ciclostilato ebbe la sua importanza. Incominciammo a capire che il vangelo non era solo da conoscere ma da vivere, e Dio non era solo qualcuno a cui biascicare chissà che cosa, ma un Padre da ascoltare e da amare!

    Campo di lavoro

    Quando i primi ragazzi tornarono dalle vacanze dissero: Perché non facciamo anche noi un campo di lavoro qui a San Martino?
    Il luogo fu presto trovato: alla scuola materna parrocchiale. Le suore, e alcune ragazze a turno, si prestarono a preparare il pranzo. La sera ognuno se ne tornava a casa sua.
    Raccogliemmo la carta. Il ricavato servì in parte a pagarci il pranzo, il resto andò alla parrocchia per le sue necessità. Inoltre passammo famiglia per famiglia (oltre 5.000) per iniziare la compilazione dello schedario parrocchiale. Fu il parroco a proporci questo servizio che accettammo.
    Ci si accorse che il motivo che stava sotto la richiesta dei ragazzi nasceva dal desiderio di vivere insieme un'esperienza comunitaria, più che un'esperienza di lavoro.
    Allora i più sensibili dissero: «perché l'esperienza si sostenga e non rovini per la strada, bisogna che accanto al lavoro e alla vita comune, poniamo anche dei momenti di preghiera, e di riflessione personale e comunitaria. Anzi la preghiera e i momenti di riflessione daranno senso e sostegno a tutto il resto».
    Le idee proposte durante l'anno, incominciavano dunque a farsi strada. Ma quale tema svolgere?
    Si pensò di riflettere sulle beatitudini evangeliche, in relazione, logicamente, alla nostra vita.
    Che cosa provocò questa scelta?
    Probabilmente essa derivò dal fatto che in quell'epoca qualcuno di noi stava leggendo «Al di là delle cose» di Carretto, in cui parecchie pagine sono dedicate alla riflessione sulle beatitudini.
    Infatti il ciclostilato distribuito durante il campo, ricalca abbastanza marcatamente le pagine del libro.
    Come non vedere, comunque in tutto questo un'illuminazione di Dio che guidava il suo popolo fragile e sparuto?
    Comunque il libro di Carretto non fu l'unica opera letta.
    Per preparare adeguatamente il tema, l'animatore propose di leggere e meditare, dividendosi il materiale, una serie di libri «impegnati».
    Così il campo di lavoro ebbe inizio.
    Questi furono i momenti più importanti della giornata: 
    – Preghiera del mattino. 
    – II lavoro sia al mattino che al pomeriggio. 
    – ll pranzo in comune. 
    – La riflessione comunitaria verso le ore 17. 
    – La messa conclusiva che si innestava in una messa d'orario della parrocchia, e alla quale partecipavano anche altri fedeli. 
    Ci fu una grossa lacuna. Il lavoro del raccogliere carta, e la riflessione sulle beatitudini erano soltanto accostati, ma non si integravano. 
    Così l'azione non stimolava la riflessione, e la riflessione non stimolava l'azione se non esteriormente, vale a dire in quanto dava un apporto alla creazione di un certo clima di entusiasmo, sulle ali del quale il lavoro veniva portato avanti. Ma l'esperienza di questo campo ci fece acquisire notevoli intuizioni. 
    – Il campo di lavoro aveva fatto anzitutto capire che seguire Cristo e la sua proposta (sintetizzata nelle beatitudini) significa assumere uno stile di vita diverso. E questo ci fa diventare più uomini.Il Vangelo cioè è una gioiosa notizia per la tua vita, non qualcosa che puzza di sacrestia. 
    – Inoltre si era creata una certa coesione di gruppo. Sperimentammo meglio che non è lo stare insieme comunque il fulcro della coesione; ma lo stare insieme per lo stesso motivo; e nel nostro caso era: lavorare, riflettere, pregare, approfondire la stessa fede! 
    Furono queste le prime fasi del gruppo di riferimento. 
    – La celebrazione della messa alla sera con altre persone aveva creato delle difficoltà tra i ragazzi. Dovettero infatti rinunciare ad alcune cose. Ad es. la messa doveva essere celebrata nella grande chiesa parrocchiale, molto più dispersiva della cappella delle Suore. Questo era desiderio del parroco, mentre i ragazzi avrebbero preferito un clima più intimo. 
    Fu così che si incominciò a comprendere che un gruppo giovanile isolato non sarebbe servito a niente, nei tempi lunghi; doveva porsi come «segno di comunità all'interno della comunità parrocchiale». 
    – Quando il campo stava per terminare sui volti delle persone (erano 15enni) incominciavano ad apparire malinconia e tristezza. 
    Allora si disse: «Cristo ci chiama a scendere dal monte». 
    «Abbiamo incontrato Cristo, come gli apostoli sul Tabor». 
    Bello stare in gruppo, lavorare, pregare, riflettere insieme. Ma Cristo ci invita a scendere per aprirci e inserirci in ogni ambiente. Nacque a questo punto una prima sollecitazione all'impegno politico a scuola, specialmente nei più sensibili. 

    La prima crisi: imborghesimento

    Tutte le intuizioni rimasero sulla carta per alcuni mesi e anni: il Vangelo come gioiosa notizia per la vita riapparve ad esempio solo a gennaio del 1971. Così pure l'intuizione circa la coesione di gruppo. La necessità di non isolarsi rispetto alla comunità adulta riapparve, come un seme che tenta di germogliare, verso la quaresima del 1972. E così pure la necessità di assumere degli impegni nel mondo a livello politico, esattamente un anno dopo: settembre 1971.
    Cominciò invece una grossa crisi!
    La proposta del Campo di lavoro aveva attirato parecchi altri ragazzi che si unirono al nucleo primitivo. Il gruppo si gonfiò a dismisura e velocemente; coloro che si aggregarono non avendo motivazioni valide, divennero ben presto elementi disturbatori e il gruppo, ancora fragile, non seppe affrontare positivamente la situazione.
    I valori emersi durante il «Campo» vennero meno lentamente. Ad es., anziché «scendere dal monte» la gran parte dei ragazzi trascorreva il tempo libero sempre insieme, e per giunta superficialmente.
    Così iniziò la crisi: una specie di imborghesimento generale: esplose in malo modo il fenomeno delle coppiette, vennero meno, sempre più, i valori da cui aveva tratto motivazione e origine il gruppo. La coesione di gruppo si sfasciava.
    Anche a livello di animazione si commise un colossale errore: quello di non aver saputo cogliere la situazione sì da operare interventi adeguati ed efficaci.
    In quei tre mesi si proseguì con una serie di incontri sull'ateismo, l'esistenza di Dio... a carattere filosofico e teologico. I temi erano stati richiesti dai ragazzi all'inizio di ottobre; ma più tardi non servivano perché la situazione era cambiata radicalmente.
    I ragazzi erano alle prese con ben altri problemi di ordine esistenziale, anche se non riuscivano a verbalizzarli. Gli animatori, invece, continuarono imperterriti sulla strada intrapresa all'inizio. Il risultato fu che i ragazzi non seguirono più gli animatori, e si creò così una situazione tesa, una spaccatura tra i ragazzi, e tra ragazzi e animatori.
    Decisamente, trasportati dall'euforia dell'immediato «dopo-campo», gli animatori non avevano saputo essere oggettivi nel valutare le situazioni che venivano determinandosi e la reale maturazione dei ragazzi.

    Un ritiro per ricaricarci

    Tutto sembrò essere crollato. Ma dai ragazzi partì una proposta inaspettata. «Abbiamo bisogno di un ritiro per ricaricarci».
    Nessuno aveva finora parlato loro di ritiri. Anzi d. Carlo, stanco e deluso, non se la sentiva.
    Ma i semi gettati incominciavano a spuntare: si ricordarono che il Vangelo era come una «buona notizia per la vita». E così circa 40 persone parteciparono al ritiro di Orta, impostato su: momenti di silenzio per riflettere, preghiera comunitaria, riflessione comune.
    Da quel momento incominciammo a riscoprire il Dio-con-noi!
    Prende così corpo l'idea del ciclostilato delle vacanze precedenti: Dio era qualcuno da ascoltare.
    Ma si disse: «Il Vangelo è facile da capire ma difficile da calare nella vita sì che diventi significativo. Perché allora non leggerlo insieme con il prete?».
    Così, dopo essere tornati da Orta, per tutto il mese di gennaio e di febbraio, ogni sabato leggemmo, riflettemmo e discutemmo sul Vangelo della domenica successiva sforzandoci di rispondere insieme, con l'aiuto del prete, a questa domanda: «Cosa vuoi da noi Signore?».

    IL GRUPPO RIPRENDE A VIVERE

    La coesione vera (quella basata sul valore della fede) si ricreava, e la coesione ricreata stimolava a sua volta l'approfondimento dei valori. Come se soffiasse il vento della primavera che fa germogliare i semi e risveglia i fiori.
    Intanto ai campi-scuola avevamo conosciuto molte persone che lavoravano al Centro giovanile diocesano. E queste conoscenze ci aiutarono ad aprirci a nuovi ambienti e persone.
    Da qualche mese, alcuni di noi partecipavano alle assemblee giovanili cittadine, convocate dal centro diocesano. Incominciammo così ad incontrarci con gli altri gruppi presenti in città. Incontri che divennero sempre più ricchi e profondi.

    Alla ricerca dell'autonomia

    Quella di quest'anno fu una quaresima vissuta molto intensamente.
    I gruppi giovanili della città decisero di raccogliere la carta per contribuire al finanziamento del Novara Center che la diocesi stava costruendo a Dinajpur nell'est Pakistan (attuale Bangla Desh) .
    Anche noi partecipammo all’iniziativa. Decidemmo tuttavia di non limitarci a questo. Al termine di ogni raccolta si decise di intrattenerci per la cena e una preghiera.
    Per noi questo lavoro fu uno stimolo a considerare i problemi del terzo mondo, e occasione per sensibilizzare la comunità parrocchiale attraverso la proiezione di diapositive ai bambini del catechismo e attraverso dei Tatze bao che vennero esposti alla porta della Chiesa. Ma soprattutto questo periodo fu importante per lo sforzo del gruppo di autonomizzarsi dal prete. «Tu prete non devi inguaiarti nelle faccende organizzative. Tu devi pregare di più per aiutarci anche noi a pregare di più. Tu devi avere più tempo per ascoltarci personalmente e darci una mano». 
    Fu dunque un passo avanti rispetto al periodo precedente dove, come abbiamo detto, il prete era il «deus ex machina». Si costruirono tre équipe che lavoravano in modo autonomo: 
    – l'équipe che si interessava della sensibilizzazione per il terzo mondo 
    – quella che preparava l'incontro di preghiera del sabato sera (dopo la raccolta della carta e la cena) 
    – e infine quella che si interessava della cena. 
    Questa autonomia non resse a lungo, a causa dell'instabilità tipica dei ragazzi, e delle difficoltà obiettive che ci trovammo davanti. Ma si incominciò così a porre la domanda: qual è il ruolo del prete all'interno di un gruppo?

    Partecipiamo per la prima volta alla route

    I nostri rapporti con il Centro giovanile diocesano crebbero sempre più! Erano rapporti basati più sulle relazioni interpersonali tra le persone che componevano il centro, che sulla consapevolezza del ruolo della Chiesa diocesana, realtà che fu affrontata e approfondita in seguito.
    Aderimmo alla Route diocesana e incominciammo a dare il nostro contributo alla preparazione e realizzazione.
    Il tema proposto per la route era il Messaggio del Concilio dei giovani, annunciato a Taizé nella Pasqua del 1970.
    Ci preparammo alla route ritrovandoci per quattro incontri a riflettere. Per la verità comprendemmo molto poco. Il linguaggio era completamente nuovo per noi, la problematica forse troppo profonda rispetto alla nostra maturazione.
    Ma il discorso e lo stile di Taizé fece sorgere in noi due atteggiamenti tipici di fronte alle cose nuove: timore e curiosità. Nacque perciò il desiderio di fare l'esperienza di Taizé! Alcuni di noi decisero di partire per Taizé in Agosto!

    I campi-scuola ci aprono alla dimensione politica

    Intanto, come ogni anno, si ripresentarono i campi-scuola diocesani. Più di trenta giovani vi partecipano. I più giovani, a quelli di iniziazione cristiana. Gli altri a quelli di «approfondimento».
    Proprio qui incominciò a prendere corpo la convinzione della stretta connessione tra fede e impegno politico. Questo, infatti, era stato l'argomento base del campo-scuola, argomento del resto legato ai temi del Concilio dei giovani: «Ci si sta preparando a dare la vita perché l'uomo non sia più vittima dell'uomo».
    Così, quando tornarono a casa prepararono e diffusero questo ciclostilato:

    «Al ritorno dal secondo campo-scuola tenuto a Campioli si è sentita l'esigenza di proporre al gruppo le conclusioni alle quali si è giunti riguardo all'impegno sociale di ciascuno di noi.
    li messaggio essenziale che Gesù Cristo ci comunicò fu l'amore ai fratelli.
    Il comandamento dell'amore non impegna il cristiano solo nella salvezza eterna degli uomini, ma anche nella loro salvezza terrena.
    tl Concilio è ancora più esplicito riguardo a questo quando dice:"I cristiani devono essere uomini nuovi e artefici di una nuova umanità».
    Ora nella nostra situazione attuale che cosa possiamo fare di pratico, che posizione dobbiamo assumere?
    Linformazione deve essere il primo momento del nostro impegno, in quanto solo con una concreta base di conoscenza la nostra azione potrà essere efficace e andare in profondità.
    Come iniziative pratiche, che si dovranno elaborare questa estate proponiamo: Servizio al De Pagave (casa di riposo per anziani), Catechismo ai bambini, Animatori delle medie, Dopo-scuola e contatto con le famiglie, Agglomerati poveri della parrocchia e relativa indagine sociale».

    A distanza di tempo ci accorgiamo di quanto entusiasmo, di quanto velleitarismo, fosse impregnato il documento. Al di là delle parole eravamo ben lungi dall'aver capito che cosa fosse esattamente impegno politico. Gli stessi impegni proposti, inoltre, erano sollecitati più dal desiderio di fare qualcosa che dall'analisi della situazione.
    Ma intanto un passo avanti si era compiuto.
    Da un lato incominciavamo ad uscire dal nostro piccolo mondo per incominciare ad interessarci di altri problemi. Dall'altro incominciavamo a comprendere che non basta discutere e pregare. Bisogna anche agire.
    Da molte parti venivamo accusati di fare soltanto «parole»: gli adulti ci dicevano: Parlate e basta! Gli amici che se ne erano andati sbattendo la porta, pure.
    Faticammo non poco ad accettare queste provocazioni: avevamo mille illese sempre pronte.
    Qualche cosa di vero c'era nelle scuse, perché non si può «agire» se non si «è»; l'intuizione spinge all'azione.
    Ma non era forse giunto il momento di muoversi contemporaneamente sulle due linee? Dove l'agire poteva stimolare l'essere, e l'essere l'agire?
    Finalmente comprendemmo che una fede senza opere è falsa. Perché Dio affida alle deboli mani dell'uomo la continuazione della liberazione da Lui iniziata.
    Credere e impegnarsi, lotta e contemplazione, fede e impegno politico sono binomi inscindibili.

    Dallo spontaneismo ad un nuovo corso

    A conclusione di un'estate intensa incominciammo ad assumere i primi impegni. Alcuni di noi scelsero di impegnarsi all'istituto per anziani De Pagave, inserendosi nel gruppo denominato Base Unitaria, e che già vi operava da tempo. Tre o quattro offrirono il loro servizio al Brefotrofio. Altri si impegnarono nel catechismo per i bambini. Alcuni incominciarono a raccogliere medicinali per il Terzo Mondo.
    I più sensibili al problema politico si impegnarono soprattutto a scuola nei collettivi, altri infine diedero origine al servizio dell'informazione. Questi ultimi raccoglievano i documenti politici più significativi, apparsi sui giornali e sulle riviste. Li ciclostilavano, e poi si ritrovavano con altri giovani per la discussione.
    Il ragionamento che stava alla base era semplice: la fede stimola ed esige l'impegno politico. Ma l'impegno politico esige una mentalità politica come capacità di vivere criticamente l'oggi. E la mentalità politica si acquisisce attraverso la conoscenza delle cose e l'esperienza.
    Dopo qualche mese uno dopo l'altro tutti gli impegni andarono sotto l'uscio. Perché?
    Abbiamo analizzato il fatto e ci siamo resi conto che le nostre scelte erano state più emotive che motivate. Abbiamo deciso di impegnarci più sulle ali dell'entusiasmo che per convinzioni profonde. Inoltre ci siamo impegnati senza la consapevolezza di ciò che l'impegno richiedesse, senza una qualifica adeguata per portarlo avanti in modo serio, e senza persone in grado di guidarci.
    A questa valutazione ci aveva condotto con competenza un nuovo acquisto: un'assistente sociale per la pastorale di nome Sr. Graziella.
    Intanto non sapevamo esattamente che ruolo potesse avere un'assistente sociale all'interno di un gruppo giovanile.
    Invitata da d. Carlo entrò a far parte del gruppo come un membro, senza un ruolo preciso. Il suo ruolo si chiarirà lentamente lavorando insieme. Sr. Graziella incominciò a partecipare ai nostri incontri documentando tutto quanto avveniva e denunciando alcune disfunzioni del gruppo. Don Carlo incominciò a frequentare un corso di qualificazione pastorale.
    Anche noi incominciammo a sentire parlare con sempre maggior insistenza di piani, obiettivi, tappe, metodologie, verifiche.
    Sinora il gruppo era vissuto sulle ali dell'entusiasmo in modo un poco spontaneistico. C'era molta diffidenza nei confronti dell'organizzazione. Avevamo paura che l'organizzazione uccidesse lo spirito e incasellasse l'uomo.
    Ogni volta che l'a.s. ci presentava i verbali delle riunioni precedenti per una valutazione il più possibile oggettiva e d. Carlo ci parlava di obiettivi, arricciavamo il naso. Ma poco alla volta, l'esperienza concreta, ci insegnò che proprio questo è necessario per essere «fedeli all'uomo».

    Scopriamo la comunità parrocchiale

    Se nel campo di lavoro del 1970 avevamo detto che dovevamo essere segno di unità all'interno della comunità parrocchiale» di fatto non s'era nemmeno tentato. Il gruppo giovanile aveva camminato per conto suo, la sua presenza nel tessuto parrocchiale era pressoché nullo se non alla partecipazione della Messa domenicale.
    Il parroco nel frattempo aveva inviato una lettera a parecchie persone, chiedendo collaborazione in ordine a due problemi: la programmazione della quaresima e i restauri della chiesa (iniziati da alcuni anni e quasi conclusi).
    La lettera capitò tra le mani anche di alcuni di noi. La nostra reazione fu esclusivamente la critica superficiale circa i restauri. «Perché spendere tanti soldi per dei restauri di questo genere?».
    Ma a questo punto fu essenziale l'intervento dell'a.s. Disse: «Per criticare bisogna conoscere». Perché non chiedere al Parroco che ci informi circa i restauri e i motivi che li hanno determinati? Perché non interessarci maggiormente di ciò che avviene nella comunità parrocchiale? Infatti invitammo il Parroco perché ci informasse.
    Così il nostro atteggiamento incominciò a cambiare: Dio non ci chiamava forse ad entrare in un rapporto più diretto con gli adulti per esercitare da un lato una funzione stimolatrice verso una fede più autentica, e per recepire nel contempo i valori di una esperienza ricca solida e concreta?

    I bambini sono «poveri»

    Alcuni di noi avevano letto su Note di Pastorale ;Giovanile (gennaio 1972) l'esperienza del Gruppo Giovanile di Bolzaneto, dalla quale risultava una scelta preferenziale per i poveri e tra i poveri i bambini. Perché non scegliere anche noi i bambini?
    Valutando la situazione concreta in cui il Signore ci aveva chiamato a vivere ci sembrò che una scelta per i bambini sarebbe stata aderente e «incarnata».
    L'oratorio risultava anche da noi il luogo di ritrovo, accessibile a tutti. Mancava però la presenza di animatori e di educatori. Nella nostra città e nel nostro rione, inoltre, non c'erano altro luoghi dove i bambini potessero accedere liberamente e crearsi i loro giochi guidati e stimolati da persone adulte capaci. Specialmente per i più poveri non c'erano alternative.
    Così quando a giugno si decise di affrontare e studiare la situazione parrocchiale e i suoi problemi più importanti, uno di questi fu l'oratorio e il suo piano formativo.
    Un altro problema affrontato fu quello del Consiglio Pastorale Parrocchiale.
    La quaresima ci aveva fatto scoprire concretamente la Comunità parrocchiale e l'importanza di essere parte attiva. Ritenemmo importante qualificare e render stabile la nostra partecipazione alla sua struttura-base che è appunto il Consiglio Parrocchiale o almeno dovrebbe esserlo, e che, ad un nostro sommario giudizio esigeva una ristrutturazione radicale per assumere un ruolo significativo.

    Dal gruppo ai microgruppi di compito

    Dopo il lavoro estivo incominciammo a porci una domanda: dobbiamo continuare ad interessarci solo dei bambini? I poveri sono soltanto i bambini?
    Se Bolzaneto ci aveva stimolato nella prima affermazione, dal nostro quartiere ci vennero altre indicazioni: i poveri sono quelle persone oberate dal lavoro, dai bambini piccoli oltre che dalle ristrettezze economiche, che non permettono loro nessun momento di respiro.
    Povera ci sembrava Lidia, ragazza madre, costretta a lavorare fino alle ore 20 in un SuperMarket e Roberto, il suo bambino, rischiava di essere messo nel brefotrofio perché i servizi sociali di assistenza chiudevano alle ore 17,30.
    E poi altri problemi erano in vista: i ragazzi delle Medie, gli adolescenti del '58.
    Fu così che nacquero i microgruppi operativi o di compito: 
    – il settore delle medie (già esistente in verità, ma indipendente e isolato) 
    – il settore del «servizio domiciliare» 
    – il settore del «servizio ai bambini» 
    – gli animatori dei ragazzi nati nel 1958 attualmente passati alla media superiore. 
    Altri giovani scelsero di impegnarsi nella scuola, nella redazione deI settimanale diocesano «L'azione». 
    Eravamo ben oltre quanto avevamo tentato di fare l'anno precedente. Le motivazioni erano più chiare, le attitudini maggiormente coscienti e i bisogni più palesi. Il gruppo divenne nel contempo gruppo di crescita e di compito sia all'interno che all'esterno della comunità parrocchiale.

    COSA STAVA SUCCEDENDO?

    Il gruppo da molto tempo sembrava viaggiare a gonfie vele. Il numero dei partecipanti era elevato; la nostra presenza a livello cittadino e diocesano era molto considerata. Tra di noi ci trovavamo molto bene. Senza che ce ne accorgessimo, lentamente, il gruppo era diventato una zona verde in cui ripararsi, un mito, un idolo che ci allontanava sempre più, a dispetto di ciò che dicevamo e facevamo, dal Dio vivo. Ma Dio, a questo punto, ci condusse attraverso l'esperienza dell'esilio, come già aveva condotto il popolo ebreo.

    Inizia l'esilio

    Inizia qui l'ultimo periodo della nostra storia e del nostro cammino: un cammino complesso, quasi caotico, pieno di incongruenze e ambivalenze. Ci è stato molto difficile descrivere una realtà così ricca e complessa.
    Come s'è potuto notare la situazione di gruppo evolveva continuamente.

    1. Non eravamo più solamente un gruppo di crescita, ma anche di compito per gli impegni assunti e portati avanti.
    Intanto eravamo consapevoli che i gruppi operativi non dovevano precludere la possibilità di incontri generali per la crescita e la maturazione personale e comunitaria.
    Così gli incontri si moltiplicarono a dismisura:
    – quello generale per una ricarica spirituale
    – quello dei micro-gruppi per la qualifica dei servizi e la revisione degli impegni
    – l'impegno stesso esigeva non poco tempo
    – la preghiera settimanale considerata necessaria.
    Questi eccessivi incontri ci inchiodavano a S. Martino, e non ci consentivano altri sbocchi e interessi di qualsiasi natura (culturali, sportivi, affettivi, politici, ecc.) altrove.

    2. Questo avveniva proprio nel momento in cui i più grandi di noi (18 anni) stavano lasciando alle spalle l'età adolescenziale per camminare verso la giovinezza. S. Martino, perciò, non bastava più: c'era l'esigenza di vivere di più nel mondo, nel quotidiano.

    3. I rapporti interpersonali si accentuarono all'interno dei micro-gruppi. Si allentò invece la coesione a livello generale e la gran parte di noi incominciò a sentirsi abbastanza isolata. Il mito del gruppo-oasi incominciava a scricchiolare.

    Accettando come voce di Dio le istanze dei più grandi, proponemmo a tutti di ridurre gli incontri generali, proprio per permettere un maggior inserimento nelle vicende quotidiane. Ma per la gran parte di noi, erano ancora questi i momenti che compensavano anche sul piano psicologico. Alcuni dissero: «Non sappiamo cosa fare e dove andare il sabato e la domenica». Ma i più sensibili ritenevano che il tempo libero ciascuno dovesse gestirselo da solo, senza la protezione di una specie di «grande mamma», cioè del gruppo. Inoltre sarebbe stato troppo limitante, e in un certo senso alienante vivere solo nel gruppo giovanile di S. Martino. Il problema-base, a questo punto, era uno solo: gli incontri comuni erano stati ridotti come numero. Era essenziale più che mai renderli significativi per la vita.
    Si sentiva l'urgenza di questi momenti comuni per la verifica e la ricarica: ma come renderli significativi?
    Da un lato dunque eravamo alla ricerca di interventi e di strumenti validi per raggiungere questo obiettivo; d'altro canto avevamo maturato la convinzione che a quel punto ciò che contava non era più solamente un metodo più o meno efficace, ma la riscoperta di determinati valori su cui appoggiarsi e costruire.
    Allora l'assistente sociale disse: «Qui dobbiamo avere il coraggio di sperimentare! (ecco una parola nuova per noi: sperimentare) . E sperimentare significa rischio, pagare di persona, crescere. E questo esige buona volontà, senso di corresponsabilità, spirito di inventiva e di ricerca da parte di tutte le componenti, pronti al fallimento e alla ripresa, orientati verso un futuro migliore».
    Dopo alcuni tentativi incominciò a farsi un po' di luce: incominciammo a distinguere tra «catechesi» e «revisione di vita». Per noi la catechesi era necessaria come conoscenza approfondita della proposta di Dio per la vita. Ma i nostri incontri erano un po' un minestrone, un miscuglio tra catechesi e comunicazioni delle proprie esperienze.
    Finalmente giungemmo a comprendere, che bisognava, invece, scindere questi due momenti: al primo posto la catechesi, successivamente la revisione di vita.
    La revisione di vita ci permise di cogliere meglio le situazioni personali e di gruppo che stavamo vivendo. Incominciammo così a porci in modo nuovo: era la vita quotidiana, concreta, con la ricchezza delle sue provocazioni che incominciava ad entrare.

    La lettera dei 10

    Ma qualcosa ancora non funzionava. Parecchi di noi lo compresero in un'assemblea convocata per programmare la quaresima.
    Tutto quanto emerse era stato portato avanti da poche persone le quali, oltre tutto, già avevano fatto pervenire le loro proposte prima dell'incontro, contribuendo all'elaborazione dell'o.d.g.
    Stanchi di dover sempre tirare la barca, queste poche persone decisero di usare la «terapia d'urto» per stimolare altri membri del gruppo ad assumere le proprie responsabilità; d'altra parte questo problema spesso emergeva. Venne così stilato un ciclostilato e inviato a tutte le persone.

    «Ancora una volta si nota una disfunzione all'interno del gruppo: alcuni si impegnano (anche troppo), altri se ne fregano, altri non si capisce che posizione hanno, ecc. La situazione suscita notevole perplessità, specialmente in coloro che hanno tentato una collaborazione cosciente e responsabile sia all'interno del gruppo che all'esterno, nel quotidiano.
    Ci siamo riuniti in pochi per riflettere sulla situazione ed ora vogliamo comunicarvi le nostre riflessioni.
    Si ha la netta sensazione che nella gran parte delle persone manchi il benché minimo senso di appartenenza al gruppo, appartenenza che dovrebbe esprimersi in una concreta mentalità di corresponsabilità e di co-gestione.
    Come mai questo? Non occorre forse interrogarci seriamente se vogliamo individuare le cause che hanno determinato l'attuale situazione?
    Sta di fatto che:

    1. Da una parte molti si lasciano costantemente rimorchiare (cioè programmare da altri la vita nel gruppo). 
    a) Infatti si va all'incontro se c'è o se arriva il ciclostilato, altrimenti pazienza. Si brontola perché il ciclostilato non arriva e non si muove un dito per farlo arrivare a tempo opportuno... Si sta alla finestra per vedere come vanno le cose senza scomodarsi... si basa la propria partecipazione sul"ho voglia"e"non ho voglia", ecc. 
    Di fronte a tutto questo c'è da chiedersi: se non riusciamo o non vogliamo impegnarci per la vita di gruppo, come riusciremo a trovarci lo spazio nella società; in famiglia, a scuola, nell'ambiente di lavoro, ecc.? Non si corre forse il rischio di diventare delle navicelle telecomandate? 
    b) Inoltre, se manca il senso di appartenenza, probabilmente è perché non si è ancora compreso il significato e quindi l'importanza del gruppo di riferimento, come momento in cui vivere esplicitamente e celebrare insieme la fede, per poter ripartire con più chiarezza e coraggio e vivere le situazioni quotidiane. 
    Ma come è possibile a questo punto vivere nel proprio ambiente quotidiano secondo una mentalità di fede? Come è possibile riuscire a leggere religiosamente i fatti della vita? Ma allora non siamo forse ipocriti a chiamarci «credenti»?

    2. Dall'altra parte i pochi che tirano si mettono in discussione per analizzare se il loro impegno è un servizio ai membri del gruppo, oppure un «non-servizio» perché non favorisce la coscientizzazione e la responsabilizzazione.
    A questo punto comunque risulta evidente che il gruppo, di fatto, è costituito da poche persone, a cui si aggrega la truppa più per forza di inerzia che per altro. 
    E se è vero che la Chiesa è un"popolo di comproprietari"e il gruppo non riesce ad esserlo, ciò significa che il gruppo non è chiesa, e allora non ha senso che continui a esistere.
    Per questo ci sembra controproducente continuare così. QUINDI PENSIAMO DI FERMARCI E DI NON PROGRAMMARE NIENTE. Ripartiremo solo se e quando si chiarirà tutto questo, solo e quando chi deciderà di"appartenere"a questo gruppo ne comprenderà il senso e deciderà di esserne membro attivo e responsabile».

    Due perciò erano le stimolazioni:
    – assumere una mentalità di corresponsabilità e di appartenenza
    – cercare di comprendere meglio il senso e l'importanza del gruppo di riferimento, come momento in cui celebrare
    esplicitamente la fede per vivere con coerenza il quotidiano, secondo due dimensioni: essere segno di contraddizione là dove la proposta evangelica risulta calpestata; essere segno di speranza e di promessa in quei fatti e situazioni dove vi era, sia pure implicitamente, la presenza di Dio.
    Questo noi intendevamo quando parlavamo di «leggere religiosamente i fatti della vita».
    La lettera fu come una frusta.
    Coloro che l'avevano scritta si stavano domandando se «la terapia d'urto» fosse in linea con la «pazienza di Dio».
    Quelli a cui era stata diretta, invece si sentirono sotto accusa e si misero in moto.
    Tutto questo favorì la coscientizzazione, sia perché la gran parte di noi comprese cosa comportasse la corresponsabilità, e soprattutto perché comprendemmo, almeno a livello intuitivo, cosa voleva essere un gruppo di riferimento.

    Essere gruppo di riferimento

    Perché il gruppo di riferimento avesse significato era necessario che ognuno di noi «vivesse» profondamente, nel quotidiano, cioè a scuola, in famiglia, nel tempo libero, negli impegni operativi... Era necessario che si «vivesse», non soltanto che si «rimanesse» quasi subendo il quotidiano.
    A questo punto riscoprimmo l'importanza di ritrovarci insieme, di tanto in tanto, alla luce di Cristo, per ripartire, dopo aver ripreso fiato.
    Più o meno a questo punto terminò questo periodo travagliato, complesso e a tratti caotico. Al di là degli sviluppi cronologici e tecnici, abbiamo cercato di operare una lettura sapienziale di questo periodo. Il gruppo, al di là delle parole, era diventato una falsa sicurezza, un idolo quindi! Il numero elevato di partecipanti, il fatto di ritenerci uno dei gruppi più vivi della città e della Chiesa diocesana, il fatto di ritrovarci bene tra di noi, ci aveva resi tronfi di noi stessi.
    Tutto questo era crollato. Alcuni se n'erano andati; coloro che erano rimasti erano stanchi, logori, alle prese con i problemi personali tipici nel passaggio dall'adolescenza alla giovinezza. E soprattutto stavamo vivendo un periodo di non-chiarezza, di caos, di tentativi sbagliati... era appunto l'esperienza dell'esilio. 
    «Quanta fatica in realtà stiamo facendo per comprendere il gruppo come riferimento religioso"cioè come Chiesa. 
    Quanta fatica soprattutto ad accettarlo e a viverlo. Sono stati necessari parecchi mesi di travaglio e non è detto che questo travaglio sia terminato. 
    Come il seme gettato di cui parla il vangelo deve rimanere parecchi mesi a morire sotto terra prima di incominciare a spuntare e poi a fiorire. Abbiamo sperimentato quanta fatica per sentirci corresponsabili,"comproprietari", come si addice al Popolo di Dio».  
    Dio dunque ci purificava, facendoci crollare le false sicurezze. Il tramonto degli idoli ci riavvicinava a Lui, Dio vivo. 
    «Il nostro gruppo è passato in quest'ultimo periodo da gruppo di vita (basato sull'amicizia e che perciò ci limitava rispetto al mondo) a gruppo di riferimento (il cui cardine essenziale è la fraternità in Cristo) che permette, anzi stimola a vivere nel mondo. Questo passaggio ha fatto crollare le nostre sicurezze personali e di gruppo. Spesso in questo periodo ci siamo accorti di vivere un'esperienza di vuoto, di delusione. In quel momento ci siamo accorti che solo Dio continuava ad essere fedele e ci tracciava la pista da seguire».


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