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    La pastorale giovanile come compito di tutta la comunità di fede



    Wim Saris

    (NPG 1976-10-32)

    Questa esperienza è particolarmente ricca e stimolante. Va letta con attenzione: può suggerire molti motivi di riflessione agli operatori della pastorale giovanile italiana.
    L'autore, da anni responsabile dell'animazione giovanile ad Amsterdam, è conosciuto in Italia per studi e sussidi sulla pastorale giovanile, divulgati dalla Elle Di Ci.
    In queste pagine ci racconta la bua esperienza: il cammino percorso, le difficoltà incontrate e le scelte maturate, il quadro di riferimento a cui oggi è giunto e che ci propone con abbondanza di motivazioni, teologiche e pedagogiche.
    Vogliamo sottolineare solo due aspetti: due chiavi di lettura, con cui accostarsi a queste pagine:
    1. La proposta di cc contenuti»: sia nello sviluppo cronologico dell'esperienza che nella proposta conclusiva di un progetto di pastorale giovanile, emergono molti suggerimenti concreti. Il racconto è prima di tutto uno «studio» sulla pastorale giovanile. L'idea centrale è precisa: è indispensabile che tutta la comunità ecclesiale si prenda carico della pastorale giovanile. Ma non è l'unico contenuto su cui siamo invitati a confrontarci. Si parla, per esempio, della necessità di una pastorale «preventiva»: di un'attenzione speciale ai fanciulli e ai preadolescenti, proprio in vista di un loro successivo inserimento maturo nella comunità ecclesiale. Sono ricordati alcuni «cambi» che la pastorale giovanile deve operare: dagli obblighi agli inviti, dall'astratto al concreto, dalla dottrina alla vita...
    2. Un progetto di metodo. L'esperienza offre anche un impianto metodologico molto interessante. In se stesso, è una proposta che può dare da pensare agli operatori pastorali.
    Si parla molto, oggi, di impostare la ricerca pastorale come «riflessione sulla prassi». Non sempre, però, i termini metodologici sono chiari. Per qualcuno, riflessione sulla prassi significa assenza (o rifiuto) di ogni valore normativo per assumere la sola prassi come principio di azione e di progettazione.
    L'esperienza ci propone questi passaggi interessanti:
    – si parte sempre dai fatti e non delle teorie: la prassi stimola a riflettere;
    – a monte ci sono alcuni valori, teologici e pedagogici, che orientano la riflessione e servono come «giudizio» sulla prassi;
    – dal rapporto riflessione-prassi emergono sempre conclusioni, una serie di punti-fermi da cui ripartire, che condensano i risultati dell'esperienza acquisita;
    – il processo è dinamico: le conclusioni modificano i valori e quindi offrono nuove categorie con cui interpretare la nuova prassi;
    – la serietà e la vitalità del processo è assicurata dalla solidità dell'obiettivo globale: esso è il perno attorno cui ruota tutta la ricerca.

    PRECEDENTI E CONTESTO DAI QUALI È NATA L'ATTUALE INIZIATIVA DI PASTORALE GIOVANILE

    PRECEDENTI

    Il nostro attuale modello di pastorale giovanile ad Amsterdam è il risultato di una lunga storia di esperienze e di ricerche.

    La prima esperienza: l'educazione alla fede vista come arricchimento personale

    Secondo la buona tradizione, il nostro Oratorio, nello spirito di Don Bosco, era largamente aperto a tutti i giovani. Cercava di sollecitarli offrendo risposte a tutto ciò che interessava i giovani stessi: sport, giochi, lettura, musica, teatro, film, gruppi giovanili, tornei, diverse attività, campi scuola. In mezzo a tutte queste attività, e nonostante il gran numero dei giovani che frequentavano l'Oratorio, c'erano moltissimi contatti personali e molto interesse per le singole persone. Nessuno era obbligato a venire. La partecipazione era assolutamente libera. Su questa base di libertà si poteva anche cercare di stabilire un discorso personale con ogni giovane. Quando però la direzione dell'Oratorio giudicava che era venuto il momento per organizzare qualche attività religiosa (preghiera della sera, novena, benedizione eucaristica, ecc.) si metteva in moto un meccanismo piuttosto strano. Di fatto si ricorreva a mezzi di pressione e di potere: voi parteciperete alla preghiera, altrimenti non potrete più partecipare ai giochi!
    Certo c'era una strategia abbastanza blanda per addolcire un po' la pillola: buoni, punti, premi, ricompense, ecc. Questi mezzi dovevano mascherare i mezzi di pressione. Si sfruttavano dunque «valori aggiunti», per i quali i giovani talvolta erano anche disposti a fare qualche sacrificio. Ma il valore specifico della dimensione religiosa non emergeva.
    In una parola: tutta la svariata gamma di attività dell'Oratorio si svolgeva senza ricorrere alla pressione o al potere. Soltanto quando si trattava della formazione religiosa, si operava in netto contrasto con le intenzioni genuine di Don Bosco, del suo Oratorio, e del suo metodo educativo. Ad un certo punto noi ci siamo accorti del problema e ci siamo messi a riflettere. Ci siamo chiesti: noi cosa vogliamo in fondo? Ci interessa in primo luogo il giovane e la sua felicità? Oppure ci serviamo di un pallone per attirare i giovani e portarli in tal modo nella chiesa? Ci serviamo dell'Oratorio come di una specie di esca e di trappola per la religione?
    È fuori discussione che si volesse far del bene a questi ragazzi e giovani. È anche evidente che ognuno di noi, in quanto salesiano e sacerdote considerava la religione come il sommo bene per questi giovani. Soltanto che i giovani stessi mostravano assai poco interesse per questo sommo bene. Spontaneamente non richiedevano attività religiose, mentre tutte le attività dell'Oratorio venivano richieste esplicitamente. Noi da parte nostra non abbiamo trovato meglio che ricorrere a mezzi di pressione per amministrare regolarmente una certa dose di religione, nella buona convinzione che noi sapevamo meglio di loro ciò che è per il loro vero bene.
    Alla luce di questa prima costatazione abbiamo cercato di trovare altre vie. Essendo personalmente convinti del valore della nostra fede, abbiamo presunto che esistevano pure in qualche parte queste vie che avrebbero permesso ai giovani di scoprire il valore positivo della fede, di vederla come qualcosa di buono, una realtà che avrebbero richiesto personalmente come adesso richiedevano libri, giochi, tornei e campi scuola.
    Già nel 1952 ci sono stati i primi tentativi di organizzare l'incontro con la religione e la fede sulla stessa base attraente che caratterizzava le altre attività dell'oratorio: cioè sulla base della libera partecipazione,
    come un invito, con l'offerta di una cosa che merita di essere presa sul serio.
    Da queste esperienze abbiamo imparato alcune cose:

    a) Le nostre ipotesi non erano prive di fondamento. La fede incominciava ad essere un vero valore per i giovani dal momento che abbiamo scoperto che non bisognava lavorare con la domanda: CHE COSA è peccato, grazia, sacramento, Chiesa, religione, ecc., nel senso cioè di realtà che stanno fuori della persona, di fronte all'individuo; ma con la domanda: DOVE SONO SITUATE NELLA VITA queste realtà, nel senso dunque di realtà in cui il giovane stesso è coinvolto. Abbiamo detto ai giovani: in quale momento grazia, peccato, coscienza, amore, fede e speranza significano per te realmente qualcosa? E, se per te sono reali, hanno un qualche significato, dove, dentro di te, sono presenti come qualcosa che non si vede direttamente in superficie, e che forse rimane nascosto anche per te? Abbiamo anche formulato un'altra domanda: CHE COSA SIGNIFICANO per te gli altri? e Dio? e tu per gli altri? e per Dio?

    b) Questa riflessione sulla fede è apprezzata maggiormente dai giovani nella misura in cui essa si inserisce meglio nell'ambito di determinati interrogativi vitali (che spesso rimangono nascosti anche per loro), che in determinati periodi della vita prendono gran peso nella vita personale, nelle relazioni con gli altri uomini e con l'ambiente. In questo contesto è bene accetta una interpretazione cristiana di questi problemi.

    c) Abbiamo anche dovuto costatare che un certo numero di conoscenze e di pratiche che secondo il nostro sentimento – in quanto ministri della Chiesa e della religione – facevano parte del bagaglio obbligatorio di ogni cattolico, non si potevano più realizzare. Nei giovani non c'era nessun interesse in queste cose, e a noi non riusciva a farli sperimentare come arricchimento personale o come un bisogno. Accettavamo soltanto le cose che erano viste come una risposta a problemi vivi nella loro esperienza. Tutto ciò che era al di fuori era respinto come cose di nessun importanza.
    In seguito si è visto che in quell'epoca dell'Oratorio avevamo proprio sentito il polso del nostro tempo.

    Seconda esperienza
    Il rinnovamento dell'insegnamento della religione nella scuola

    Nel frattempo un po' ovunque in Olanda l'insegnamento della religione nelle scuole diventava un grosso problema. Nell'ambito della Chiesa e della scuola i programmi e contenuti tradizionali venivano sempre più
    criticati. I giovani reagivano con progressivo disinteressamento e rifiuto. Facendosi forte dell'esperienza fatta nell'Oratorio, Wim Saris cercava di applicare alla scuola elementare e media la nuova problematica e la nuova impostanza. I risultati non si facevano aspettare. Nel 1963 W. Saris era nominato insegnante di religione nella scuola professionale inferiore a 's Heerenberg e nel 1965 ad Amsterdam. Le esperienze con questi giovani (da 12 a 17 anni) erano interessanti ed incoraggianti.
    Le esperienze in questo campo hanno trovato una espressione nel sussidio (e relative guide): Io dagli altri – Io stesso – Io per gli altri (1969). Tutta la nuova impostazione non era però senza inconvenienti. Nel passato i giovani imparavano tutto ciò che era comunemente accettato negli ambienti cattolici. Questo rispondeva alle attese della Chiesa e delle famiglie, e corrispondeva a ciò che pensavano e praticavano gli adulti. Si partiva dal presupposto che in questo ambiente cattolico i valori erano spontaneamente presenti e venivano integrati dai giovani.
    Con la nuova impostazione dell'insegnamento della religione nella scuola non si trattava più in primo luogo di integrare i valori, ma di insegnare ai giovani di formulare interrogativi critici, di esaminare il valore di qualsiasi pratica, e di ritenere soltanto ciò che è buono e valido. Le famiglie e le parrocchie non partecipavano affatto a questa nuova formazione religiosa. Anzi, quando volevano intervenire, erano spesso oggetto di critica. Inoltre non c'erano strutture per coinvolgere le famiglie e le parrocchie in questa nuova impostazione della formazione religiosa.
    Da queste esperienze abbiamo imparato:

    a) Nella misura in cui la nuova impostazione aveva più successo presso i giovani, si correva il rischio (non voluto come tale) di contribuire alla progressiva estraneazione dei giovani dalla generazione degli adulti.

    b) Poiché i giovani, la scuola, la parrocchia e i genitori erano tutti interessati al processo di trasformazione, non era possibile rendere un servizio autentico ai giovani senza coinvolgere e preparare allo stesso livello anche tutti gli altri partners. Una formazione rinnovatrice che raggiunge soltanto uno dei partners coinvolti nella medesima relazione sociale, ha sempre un effetto alienante.

    c) Nella misura in cui nella Chiesa e nella società si manifestano un numero crescente di cambiamenti e di trasformazioni, diventa più problematica la fondatezza e la legittimità di un processo formativo isolato, ad esempio l'educazione dei giovani come un gruppo separato.

    Terza esperienza
    Coordinamento dell'assistenza pastorale al giovani e agli adulti

    All'inizio del 1967 Wim Saris accettò il compito di coordinatore della pastorale giovanile nella città di Amsterdam.
    Il suo obiettivo non era (come molti potevano aspettarsi) di coordinare le numerose associazioni e organizzazioni giovanili. Puntava invece sulla ricerca di nuove vie per coordinare in un processo armonico di ricerca comune e di collaborazione, tutte le parti coinvolte nel processo d'insegnamento e dell'educazione, cioè i giovani, i genitori, le famiglie, gli insegnanti, i parroci e gli insegnanti di religione.
    In concreto, per ciò che riguarda i genitori: propagare e coordinare in tutte le scuole cattoliche di Amsterdam l'associazione genitori, i consigli dei genitori, comitati genitori.
    Per ciò che riguarda i docenti: organizzazione di giornate di studio e di riflessione sulla cattolicità della scuola, per i docenti e i responsabili delle scuole, sia nella città che nelle campagne.
    Nel 1970 Wim Saris ottenne il permesso di ritirarsi dalla scuola per dedicarsi interamente al coordinamento e all'assistenza pastorale di coloro che a casa e nelle scuole sono i primi responsabili dell'educazione, e pertanto anche dell'educazione dei giovani alla fede.
    Per due anni Wim Saris ha partecipato come direttore di corso alla formazione di insegnanti di religione nell'ambito dell'Istituto Catechetico Superiore di Nimega. Si trattava ogni volta di gruppi di 50 insegnanti di religione delle scuole medie (inferiori e superiori) che per mezzo della scuola volevano contribuire al rinnovamento dell'educazione alla fede.
    Lavorando a partire da certe intuizioni, lentamente abbiamo percepito alcune cose che attualmente si rivelano essere i punti cruciali della nostra pastorale giovanile. Abbiamo dunque imparato:

    a) L'enorme importanza del dialogo tra giovani e adulti. I giovani in sé non esistono. I giovani sono prodotto e specchio degli adulti, e perciò talvolta anche polo opposto degli adulti.

    b) L'importanza di una pastorale globale, in cui sia i giovani che gli adulti vengono abilitati. In mezzo ai profondi cambiamenti del nostro tempo, tutti, e non soltanto i giovani, hanno bisogno di una formazione rinnovata. Anche qui restavano ed emergevano interrogativi non risolti. Rinnovare la formazione religiosa per mezzo della scuola era già qualcosa, ma non era tutto. La scuola non raggiunge tutti, e nemmeno tutti i giovani. Non ci sono soltanto i giovani di questa o quella famiglia, o i giovani che frequentano la scuola. Ci sono anche i giovani nell'ambiente del lavoro e nelle fabbriche.
    È chiaro che seguendo la pista della scuola e dell'insegnamento grandi gruppi di giovani e di adulti non si potevano raggiungere. Intere categorie di età e vasti spazi di tensione tra giovani e adulti nell'ambito della società restavano fuori tiro. Per ciò che riguarda la Chiesa, si notava che le parrocchie erano sempre più estraneate dal processo della formazione religiosa. In fondo il nuovo approccio era ancora settoriale. C'era pure un altro interrogativo: la scuola non offre soltanto una formazione che abilita a una determinata professione. Essa dispone anche della possibilità di influenzare e di determinare profondamente il pensiero e i giudizi dei valori.

    Quarta esperienza
    Pastorale globale

    Lentamente è maturata la convinzione che proprio come Chiesa potevamo costituire un'alternativa. C'è nel nostro tempo un compito molto specifico per la Chiesa. Pur non essendo una istanza o un potere che esercita un influsso sullo sviluppo della società seguendo la via politica, la Chiesa è un movimento (l'unico) autonomo che abilita i credenti a svolgere alla luce del vangelo una funzione critica nei confronti dei movimenti sociali e dei problemi della società.
    In questa prospettiva Wim Saris accettò nel 1972 la nomina a decano della zona Amsterdam-Sud. Era una occasione unica per sperimentare in una serie di parrocchie una pastorale globale, la cosiddetta catechesi familiare. Come inizio, un progetto per la prima comunione, caratterizzato da una forte collaborazione tra genitori, famiglie, parrocchie e scuole. L'anno seguente, il modello pastorale era già adottato da 28 parrocchie della città. Attualmente ha trovato la sua strada attraverso tutta l'Olanda e anche in altri paesi.
    Incoraggiato dai risultati molto positivi in questa primo progetto, l'anno successivo si diede il via a un altro progetto di formazione cristiana: il «progetto cresima» per le famiglie con preadolescenti, in collaborazione con catecheti e famiglie ospitanti della parrocchia.
    È qui che si è in presenza di un nuovo modello di pastorale giovanile: preventivo, attraente, di forte animazione cristiana. La sperimentazione è in pieno svolgimento.

    IL CONTESTO: LA SITUAZIONE IN OLANDA E IN ALTRI PAESI

    L'educazione dei giovani è sempre stata una cosa difficile. Il suo obiettivo generale era comunque abbastanza chiaro: un processo di iniziazione.
    I giovani dovevano essere iniziati al mondo degli adulti. Il mondo degli adulti era considerato un mondo stabile. I giovani di tanto in tanto potevano causare dei problemi. Ma infine non avevano che da adattarsi e integrarsi, se volevano andare avanti nella vita.
    Nel passato l'educazione dei giovani era dunque un processo parziale rispetto all'andamento globale della società. Gli eventuali problemi si risolvevano nell'ambito di questo processo settoriale, tra i giovani e gli educatori. Il resto degli adulti restava estraneo. Era perfino pensabile che il processo educativo potesse svolgersi in un ambito puramente interno (negli internati).
    Esattamente come l'educazione in genere, anche la pastorale giovanile per molto tempo è stata un processo settoriale, ben strutturato, rispetto all'insieme della vita cristiana. Alcune persone erano specificamente incaricate della pastorale giovanile. Il loro ruolo era chiaramente definito. Avevano idee precise riguardo agli obiettivi da raggiungere presso i giovani. Erano stati formati specificamente per questo compito. Bisogna riconoscere che molti di loro avevano anche una reale competenza.
    Finché un determinato modello di società funziona nell'ordine e nella pace, ed è accettata senza difficoltà come contesto globale, l'educazione settoriale all'interno di tale contesto può avere buoni risultati. Ma dopo la seconda guerra mondiale questo non è più il caso dei paesi occidentali. Praticamente tutti i modelli di società sono in trasformazione. Il cambio è più accentuato in un posto, meno in un altro, ma ovunque c'è movimento.
    L'Olanda soprattutto gode fama di conoscere i fenomeni più stravaganti. I Paesi Bassi sono sempre stati sensibili alla libertà. Già da diversi secoli sono il rifugio di uomini che altrove rischiano di essere oppressi nei loro diritti più elementari. In particolare la città di Amsterdam è stata, attraverso tutti i secoli, una città libera per eccellenza. Già da diversi secoli non esisteva più in Olanda un modello culturale uniforme, basato su un unico tipo di religione. Non era un paese cattolico, ma neanche specificamente protestante. Era perfino difficile parlare di una società cristiana. C'era spazio per un atteggiamento pluralista.
    All'interno di questa società – certamente fino alla seconda guerra mondiale – il modello di Chiesa era rigidamente strutturato. L'ambito cattolico era un vero modello di società all'interno della società olandese: leggi e prescrizioni molto severe lo isolavano e lo proteggevano dal mondo ebreo, dai protestanti, dai calvinisti, dai cristiani riformati, dai luterani, dai non credenti, dai socialisti, ecc. I cattolici avevano feste e usanze proprie, che gli altri ignoravano. Osservavano certe prescrizioni che per i vicini erano del tutto incomprensibili. Non soltanto gli ebrei vivevano in una mentalità di ghetto: di fatto ogni gruppo religioso teneva prigioniero in una specie di ghetto i propri membri; erano gruppi esclusivi, tenuti insieme dalla teoria dell'unica verità e dalle minacce relative all'unica possibilità di salvezza.
    L'ultima guerra ha spezzato la mentalità di ghetto. Tutti i gruppi e tutte le ideologie sono stati confrontati tra loro. Una enorme quantità di pregiudizi si rivelarono infondati.
    Anche in altri paesi si sono verificati processi analoghi. Un po' ovunque i modelli di società sono stati rivoluzionati. Il tradizionale contesto globale, entro il quale tutti i processi educativi parziali avevano il proprio posto e funzione, è andato perduto. Un processo settoriale, come l'educazione dei giovani o la pastorale giovanile, non possono più essere portati avanti sulla vecchia base. In tutti i paesi esistono grossi problemi riguardanti l'educazione dei giovani.
    Una cosa però colpisce quando si tratta dell'educazione dei giovani. La maggior parte dei responsabili e delle autorità incominciano ad allarmarsi e a fare qualcosa soltanto quando sono confrontati in tutti i possibili modi con la problematica della gioventù sbandata. Si cerca poi di rimediare in extremis. Ma di fatto non si fa altro che correre dietro gli sbandamenti che continuano.
    Anche per ciò che riguarda la pastorale giovanile, si ha l'impressione che attualmente è impostata totalmente in chiave terapeutica. A nostro avviso, seguendo questa impostazione, in realtà si fa poca pastorale giovanile nel vero senso della parola.
    Da queste esperienze abbiamo imparato:

    a) In una società dove tutto è in trasformazione, l'educazione e la pastorale giovanile non possono più essere realizzate secondo la vecchia impostazione, cioè come un processo settoriale. Dato che tutto è in trasformazione, è necessario creare un nuovo contesto globale e dinamico dentro il quale tutte le parti interessate (genitori, famiglie, insegnanti, responsabili e lavoratori delle aziende, parrocchiani e giovani) su
    una base di apertura e di libertà collaborano e si aiutano vicendevolmente nella loro promozione umana.

    b) Se vogliamo giungere a una vera pastorale giovanile, impostata in chiave positiva (e non soltanto terapeutica), non si può aspettare fino alla pubertà o dopo. Bisogna incominciare già prima della pubertà. Soltanto in questo modo sarà possibile creare le condizioni per una soluzione preventiva di questi problemi, con i quali oggi si è confrontati con i ragazzi di 15 anni e più.
    Tutte queste esperienze ci hanno portati alla formazione di un nuovo piano globale per la pastorale giovanile, di cui ora vorremmo indicare le articolazioni principali.

    LA PASTORALE GIOVANILE COME COMPITO PASTORALE DI TUTTA LA COMUNITÀ DI FEDE

    PUNTO DI PARTENZA: I GIOVANI E LA SOCIETÀ GLOBALE

    In questo nostro tempo il problema dei giovani è in realtà il problema di tutta la società, dei giovani, degli adulti e delle relazioni tra loro. Tra i giovani e i genitori (la famiglia) sorgono nel periodo della pubertà alcune tensioni che si ripercuotono su tutti i rapporti. Per la soluzione di queste tensioni è venuta meno la corresponsabilità della società. Anticamente i problemi dei giovani venivano accolti da tutto il clan; più tardi dal gruppo umano del villaggio; oppure, come da noi in Olanda, dal «gruppo cattolico». I giovani facevano parte di gruppi giovanili, di associazioni, di oratori cattolici; frequentavano scuole cattoliche e trovavano anche lavoro in aziende cattoliche.
    Attualmente gli altri adulti (fuori dei genitori) non hanno più «potere» sui giovani. Se ad esempio un adulto nella strada si permette un'osservazione circa i giovani che si comportano male, rischia non soltanto una serie di grossolani insulti, ma anche di prendere delle botte. Nella stessa scuola gli insegnanti spesso non hanno molto spazio per intervenire sul comportamento dei giovani.
    Forse c'è anche qualche aspetto positivo nel fatto che gli adulti insieme non possono più esercitare controllo o pressione sul comportamento dei giovani. C'è però il fatto che ormai esistono pochissime relazioni tra giovani e adulti. E questo è sicuramente un guaio.
    Ci si può chiedere: è questa forse l'ultima conseguenza del pensiero liberale? Ciascuno per se stesso? È una conseguenza dell'urbanizzazione, che isola la gente? Su questo spinoso problema si possono leggere delle belle teorie. Studi e ricerche sociologiche costatano i fatti. Inventano anche qualche etichetta per bollare il fenomeno: «gioventù senza padre». Ma non sono capaci di offrire una prospettiva di soluzione.
    Questo è il fatto: noi adulti (a parte qualche rara eccezione) non assumiamo più la responsabilità per i figli (grandicelli) degli altri. Di conseguenza i genitori sono rimasti soli, come unici responsabili per mantenere la morale, le usanze l'ordine, il comportamento onesto. È almeno l'impressione che spesse volte i genitori provano. Fanno tutto il possibile per educare bene i figli, finché sono fanciulli. Fino a 10-12 anni i figli imparano a casa ciò che è permesso e ciò che non lo è. Poi d'un colpo, questi ragazzi si trovano immersi in una società dove tutto sembra esser lecito, anche le cose che finora a casa erano proibite. E più nessuno rimprovera, se le fanno.
    Il giorno in cui questi ragazzi finiscono la scuola di base e devono frequentare una scuola secondaria un po' distante, non nelle strette vicinanze di casa, si trovano immediatamente nella terra di nessuno. Il che significa spesso diventare un gruppo assolutamente libero.
    In altre parole, appena i giovani si allontanano un poco da casa loro, cadono immediatamente in quella gran fossa che li separa dagli adulti nella società. Nessuno porge la mano per aiutare. Gli adulti stanno semplicemente a guardare chi riuscirà a cavarsela e chi desidera ancora in qualche modo integrarsi nell'attuale mondo degli adulti.
    Eppure ciascuno di noi sa molto bene che presto o tardi saranno i nostri partners nei rapporti sociali. Però, finché son giovani, gli adulti li scartano completamente. Rare volte manifestano vero interesse, comprensione, partecipazione. Molti adulti hanno paura di entrare in contatto con i giovani.
    Per forza maggiore i giovani cercano di aiutarsi fra di loro, in quel tanto lodato e, al tempo stesso, deprecato «mondo giovanile».
    Un bel giorno questi giovani si trovano comunque a vivere di nuovo in una situazione di famiglia (ed è la soluzione migliore). Ricominciano in quel piccolo cerchio con i propri figli. Tra il distacco dalla casa paterna e la fondazione di una famiglia propria c'è quel gran vuoto nei rapporti con gli adulti. Come è possibile che in questa situazione i giovani diventino adulti equilibrati?
    Cerchiamo ora di vedere questi stessi problemi in riferimento alla comunità ecclesiale e alla pastorale giovanile.
    Il problema dell'abbandono della Chiesa da parte dei giovani è un problema che riguarda tutti gli adulti e giovani che vivono nell'ambito della Chiesa. Non è un problema che riguarda soltanto o in primo luogo gli
    educatori qualificati della fede o il responsabile della pastorale giovanile. Il problema riguarda tutta la comunità dei credenti: la parrocchia locale non ha più relazioni con i propri giovani, perché i credenti adulti non si sentono più responsabili per i figli (grandi) ) degli altri.
    Il problema riguarda anche i giovani stessi: non assumono i loro doveri nei confronti degli altri credenti.

    LINEE FONDAMENTALI DI PASTORALE GIOVANILE INTESA COME PASTORALE GLOBALE

    Nel quadro della pastorale fondamentale ad Amsterdam lavoriamo attualmente attorno a un modello di pastorale giovanile intesa come compito pastorale che spetta alla comunità locale nel suo insieme.
    Questo modello presenta due poli: gli adulti e i giovani.
    Esso ha due linee di fondo:
    – i giovani come oggetto della pastorale giovanile, cioè come oggetto della evangelizzazione;
    – i giovani come soggetto della pastorale giovanile, cioè come collaboratori nell'evangelizzazione.

    I giovani come oggetto della pastorale giovanile

    Ogni credente adulto, in forza della propria vocazione all'evangelizzazione pastorale, e oggi anche all'evangelizzazione missionaria, ha il compito di incontrare i giovani a livello della fede.
    Tale incontro deve realizzarsi là dove i giovani sono inseriti nella società. Non è vero che il terzo ambiente, cioè quello del tempo libero, è quello privilegiato per la pastorale giovanile (come se religione fosse una occupazione del tempo libero). Non pensiamo neanche ad una Chiesa particolare per i giovani.
    I credenti adulti, assai meglio che gli incaricati della pastorale giovanile o dei salesiani, sono in grado di raggiungere i giovani là dove realmente vivono, lavorano e studiano. Soltanto là i giovani e gli adulti possono incontrarsi e vivere la fede come una reale dimensione della loro esistenza. I principi che attualmente vengono realizzati nella catechesi familiare sono i seguenti:
    – i primi responsabili dell'educazione alla fede sono i genitori, per ciò che riguarda la famiglia;
    – i primi responsabili dell'educazione alla fede, per ciò che riguarda la scuola, sono i docenti.
    Prolungando logicamente questi principi alla pastorale giovanile, dobbiamo dire: la prima responsabilità per la formazione religiosa di tutti questi giovani per ciò che riguarda le aziende e gli uffici, incombe ai credenti adulti che lavorano negli stessi ambienti, cioè i colleghi, i datori di lavoro, i padroni, i capi-servizio del personale. E per ciò che riguarda le associazioni e le attività sportive, la prima responsabilità incombe ai rispettivi dirigenti. In una parola: responsabili sono tutti gli adulti appartenenti alla comunità di fede, ciascuno nel proprio posto e secondo le possibilità personali. Una utopia? Una cosa realizzabile?
    Il Vaticano II ha già dato una risposta: è il diritto ma anche il dovere di ogni credente, in forza del suo battesimo e cresima (AA 3). Sarebbe ormai ora di prendere sul serio questo compito. I preti non devono continuare secondo il principio: facciamolo noi e dispensiamo gli altri, perché altrimenti sarà un fiasco.
    Finché gli specialisti, i cosiddetti responsabili della pastorale giovanile, le organizzazioni (o congregazioni) di educatori specializzati, continueranno a togliere dalla gente semplice questa loro responsabilità, è chiaro che non si realizzerà mai niente da parte loro.
    Ma nell'ambito di una Chiesa che si rinnova realmente, tale compito, dicono i vescovi europei nel loro rapporto, è nelle reali possibilità. Certo i responsabili della pastorale giovanile e i parroci in un primo periodo avranno le mani piene per mettere in moto questo movimento pastorale, abilitando i credenti a questo loro compito.
    Una volta realizzato questo, i parroci e i responsabili troveranno il loro posto specifico di animatori, che orientano e abilitano i cristiani adulti. In questo modo si formeranno numerosi collaboratori per tutti questi compiti dove attualmente si trovano da soli.

    I giovani come soggetti, cioè collaboratori nel processo pastorale

    Anche i giovani hanno una responsabilità specifica nei confronti della comunità di fede alla quale appartengono. Hanno compiti specifici, ad esempio nel settore pastorale: compiti nel coro parrocchiale giovanile, nel gruppo liturgico, aiutare nella catechesi parrocchiale dei ragazzi, e nella catechesi cresimale dei preadolescenti. Assumendo la responsabilità per la fede degli altri, anche gli interrogativi personali sulla fede e su Dio emergono spontaneamente.
    Hanno anche responsabilità specifiche nel settore dell'impegno sociale e del servizio ai malati e agli anziani, nel quartiere e nei gruppi di protezione dell'ambiente vitale. Così pure nel settore missionario, nei gruppi d'impegno per lo sviluppo del terzo mondo, negli affari «mondiali», ecc. In tal modo i giovani approfondiscono necessariamente la propria fede e le esigenze che la fede pone alla vita umana. Nello stesso ricordano anche agli adulti che è necessaria una fede più profonda e una scelta più consapevole e operativa.
    Infine, in questi compiti i giovani trovano un orientamento per la vita, che eventualmente può anche condurre a una vocazione religiosa e sacerdotale.
    Una comunità che oggi vuol avere un certo significato, deve dunque assumere, accanto ai genitori, la corresponsabilità per i giovani che vivono nel suo ambiente. Deve istituire relazioni con questi giovani e organizzare forme moderne di pastorale giovanile. Una comunità di fede che non è più in grado di trasmettere ai giovani la fiamma della fede, perde la propria giovinezza. Ben presto i suoi giovani non vengono più in chiesa. Pertanto questa comunità invecchia ed è condannata a morte.
    Fin qui il modello che abbiamo presente. Giovani e adulti devono essere preparati e resi maturi per realizzarlo. Resta però la domanda: come coscientizzare i cristiani adulti riguardo a questa loro responsabilità nei confronti dei giovani? E come raggiungere questi giovani oggi?
    Ci pare che un primo passo pratico in questa direzione è costituito dalla catechesi per la cresima, o meglio catechesi formativa.

    LA CATECHESI DELLA CRESIMA O CATECHESI FORMATIVA

    Come abbiamo già detto siamo andati alla ricerca di vie preventive per la pastorale giovanile. Confessiamolo pure: non siamo mai stati molto felici con la tradizionale tripartizione:
    – fino a 12, 13, al massimo 14 anni, sono ancora ragazzi con i quali lavorare è cosa molto interessante; è facile insegnar loro tante cose;
    – poi un paio d'anni di pura miseria, in cui praticamente c'è poco di buono da combinare con questi giovani; e ciò a causa della pubertà; tutt'al più si cerca di salvare il salvabile;
    – poi attorno ai 17 anni qualcosa si muove di nuovo; generalmente però ci sono tanti pezzi rotti, che ci vuole moltissimo tempo per curare le ferite.
    Nel nostro progetto di formazione cristiana parliamo da una bipartizione:
    – la fanciullezza fino ai 10-11 anni;
    – poi la crescita verso la maturità, che inizia nella pre-pubertà con la scoperta dell'«io dagli altri»; continua nella pubertà, con il periodo critico del diventare «io stesso»; e matura nell'«io per gli altri» dell'uomo adulto.
    Riguardo alla pubertà c'è una teoria che non possiamo affatto condividere: che cioè essa sarebbe un fenomeno difficile e conturbante, che attorno ai 14-15 anni si scatena bruscamente. Fino a prova contraria la pubertà è una fase in un processo di crescita. Ogni processo di crescita è uno sviluppo positivo nell'uomo. Quindi anche la pubertà deve essere considerata come una fase positiva, nonostante il fatto che oggi si rivela inevitabilmente negativa. Dobbiamo star attenti a non credere che questo sia normale.
    Il rovesciamento che oggi si verifica con la pubertà è troppo grosso per essere interpretato semplicemente come un fenomeno che si verifica bruscamente, senza precedenti storici nella vita del ragazzo. A questa esplosione precede già tutto un insieme di sviluppi. Non è realistico presentare i ragazzi fino a 10, 12, 13 anni come soggetti interessantissimi, che poi un anno dopo diventano impossibili e non valgono più niente. L'esperienza ci ha insegnato che tutto ciò non si verifica bruscamente. Tutto è preceduto da una serie di sviluppi nel ragazzo. Certo nel periodo tra i 12 15 anni questo sviluppo si trasforma regolarmente in un periodo di crisi. Ma questo va appunto interpretato come segno di una lenta trasformazione del fanciullo verso l'adolescente che già si è realizzata, però in modo tale che questa fase di transizione, a causa dell'atteggiamento sbagliato dei responsabili nei confronti di questi preadolescenti, degenera regolarmente. Molti adulti (genitori, educatori) non si rendono conto di questo processo di transizione. Di conseguenza non offrono al preadolescente la dovuta assistenza per realizzare bene il processo di crescita in cui è immerso. Basta ascoltare il solito discorso: «A quell'età accolgono ancora tutto. Sono ancora così docili. Devono ancora imparare tante cose (ad esempio nella scuola)...». Si perde dunque di vista che il processo di crescita è anche per il ragazzo un processo di apprendimento, anzi il più importante di tutti, perché è il processo di crescita della propria vita. In base all'esperienza ci siamo convinti che si tiene troppo poco conto di questo fatto.
    Si rimane un po' perplessi costatando che molti insegnanti ed educatori non hanno la minima idea degli sviluppi silenziosi che si verificano in questo periodo di silenzio prima della tempesta. Non si riesce a comprendere che richiedono l'attenzione del preadolescente per una quantità enorme di cose fuori di lui, senza prestare la minima attenzione ai processi che già si stanno svolgendo nell'interiorità del preadolescente: i suoi primi tentativi di scoperta di se stesso.
    Generalmente si incomincia a interessarsi ai problemi del preadolescente nel momento in cui già bisogna ricorrere ai ripari per delimitare al massimo e arginare i danni che il ragazzo ha subito in se stesso e nelle sue relazioni.

    Una pastorale giovanile «preventiva»

    Pertanto una pastorale giovanile che vuol essere preventiva, deve incominciare nella preadolescenza. Là incominciano i cambiamenti negli atteggiamenti del ragazzo. Là incomincia la vera crescita verso l'età adulta. Là viene determinato in misura rilevante il tipo di adulto che tra pochi anni verrà fuori da questo preadolescente. Inizialmente i cambiamenti sono ancora poco percettibili. Il preadolescente non ne è molto consapevole. Soprattutto si sente ancora così debole nelle sue nuove esperienze e idee, che agli adulti risulta facile opprimerle ed emarginarle. Riescono ancora a trattarlo come «bambino». E questo proprio fino al punto in cui il preadolescente è talmente oberato che non lo sopporta più. Poi d'un colpo esplode nella sua nuova figura: il preadolescente aggressivo che semina ovunque conflitti. In realtà a questo punto il processo di crescita è già parzialmente degenerato nel ragazzo stesso e nelle sue relazioni.
    Infatti si tratta anche di un cambiamento nelle relazioni. Secondo gli adulti il preadolescente è difficile, ingrato, negativo, impossibile, nell'età difficile. In una parola gli adulti localizzano il problema nel solo preadolescente. In realtà stanno parlando delle loro relazioni con questi ragazzi: dicono cioè che sono molto difficili. Per quanto i genitori cerchino di affrontarla bene, bisogna riconoscere che anche per loro è «un'età difficile», un periodo difficile nella propria esistenza e in tutta la vita di famiglia. Perciò normalmente parliamo dei due insieme: genitori e preadolescenti nell'età difficile. Le loro relazioni sono difficili.
    Quando i figli sono nella prepubertà genitori e figli insieme si trovano di fronte a un periodo di cambiamenti nelle relazioni reciproche. I genitori forse non sono le persone più indicate per illustrare ai propri figli questi cambiamenti, dato che anch'essi non meno dei loro figli stanno lottando con questi problemi. I preadolescenti che lasciano la scuola elementare ed entrano nelle scuole medie si allontanano un po' di più dai genitori. Hanno bisogno di allargare le loro relazioni; devono incontrare altri adulti coi quali poter parlare. Purtroppo – come abbiamo già notato – nella nostra società, questi adulti praticamente non si trovano più.
    In forza delle esperienze fatte ci siamo sempre più convinti che sia i genitori che i preadolescenti hanno bisogno di assistenza e di aiuto dall'esterno, per affrontare e risolvere positivamente le tensioni che si verificano in casa, cioè per trarne vantaggio e crescere verso la maturità.
    Ci pare che proprio qui ci sia un importante compito per la comunità parrocchiale. Potrà essere una soluzione molto più realista che non le tante soluzioni-surrogato alle quali si ricorre per risolvere le tensioni che si verificano nelle piccole famiglie: comuni, altre forme di convivenza, accettare nella stessa casa una coppia anziana, asili antiautoritari, scambio dei partners, non sposarsi, ecc.

    La nuova funzione della comunita di fede

    La comunità credente locale offre concrete possibilità perché giovani e adulti sulla base di libertà possano allargare le proprie relazioni, pur restando pienamente se stessi come singole famiglie. Nelle parrocchie dove questo viene realizzato, diventa realmente un servizio cristiano per la soluzione di uno tra i maggiori problemi della nostra società.
    L'articolazione concreta è Ia seguente.
    Per aiutare i genitori e i preadolescenti perché a casa possano comprendersi in mezzo ai cambiamenti caratteristici della pubertà (obiettivo della catechesi familiare, dell'educazione alla fede in casa), abbiamo trovato famiglie ospitanti e giovani presso i quali i preadolescenti in gruppetti di 6-7 ricevono la catechesi per la cresima o catechesi formativa. Contemporaneamente la parrocchia organizza serate dove i genitori di queste stesse famiglie scambiano le proprie esperienze e problemi e dove un gruppo composto dal parroco, da alcuni parrocchiani (giovani, studenti, insegnanti, ecc.) li abilita e prepara per il periodo che stanno attraversando (una forma di catechesi per gli adulti).
    Si creano in tal modo molti nuovi contatti tra i genitori e tra le diverse famiglie, con le famiglie ospitanti, tra i giovani e gli adulti: tutti credenti insieme che cercano la propria strada attraverso le difficoltà del tempo presente. Questo potrebbe essere un primo tentativo per creare quel nuovo contesto globale sulla base di una scelta libera (battesimo e cresima) e in chiave dinamica: un gruppo di persone che si trovano unite perché hanno in comune la stessa intenzione di fronte alla vita, e vogliono aiutarsi per camminare insieme. In tal modo sorgono mini-comunità all'interno della grande parrocchia, gruppi dinamici che hanno una vera irradiazione sugli altri cristiani che vivono nella comunità di fede.
    Ma l'iniziativa non resta là. In alcuni posti abbiamo già organizzato incontri di giovani (dai 17 anni in su), di fidanzati e di giovani sposi con altre famiglie ospitanti. In tal modo si crea attorno alla parrocchia, sulla base della fede vissuta, un nuovo modello di relazioni reciproche. Esso non si limita a dare un contenuto alla comunione cristiana che poi viene celebrata nel fine settimana, ma nel corso di alcuni anni potrà dare una valida risposta all'estraneazione dei giovani e l'isolamento degli adulti nella società moderna.

    PRINCIPI PEDAGOGICI E PASTORALI

    PRINCIPI PEDAGOGICI

    Nell'educazione si possono distinguere diversi orientamenti a seconda che l'educazione è maggiormente concentrata sulla società o sulla persona, verso il passato o verso il futuro, più sull'individuo o sulle relazioni.

    a) Un primo orientamento educativo prende come punto di partenza la società stabile. Educare è visto come un processo di iniziazione ai sistemi sociali esistenti. Questo si realizza per mezzo di conoscenze e abilità pratiche, valori e norme che vengono trasmessi alla nuova generazione. In tal modo la nuova generazione è in grado di partecipare pienamente alla vita sociale degli adulti. La società degli adulti è presa come dato di fatto, come contesto globale stabile ed indiscusso. I giovani non devono far altro che inserirsi. La preoccupazione dominante di questo tipo di educazione è questa: come trasmettere fedelmente le grandi ricchezze della vecchia generazione a quella nuova.
    In questo contesto la scuola può limitarsi in gran parte all'aspetto teorico. Il lato pratico è assicurato dalla società stessa.

    b) Un secondo orientamento educativo prende l'individuo come punto di partenza.
    Educare allora significa: aiutare gli individui a realizzare la propria identità nell'interazione con il contesto sociale. L'obiettivo è identico con quello precedente: la formazione del comportamento sociale. Il metodo è diverso: passa maggiormente attraverso la ricerca creativa e la scoperta dei valori; meno attraverso l'apprendimento e la riproduzione delle norme ed espressioni culturali esistenti.
    Ora questo metodo non sembra conciliarsi con il mantenimento dell'ordine esistente. Infatti, l'ordine esistente è costantemente esaminato, e in numerosi punti si rivela inconsistente, come lo è qualsiasi opera umana. Questo metodo educativo provoca inevitabilmente dei conflitti con le persone per le quali l'ordine stabilito è sacrosanto.
    Inoltre questa impostazione non può limitarsi alla sola parte teorica. Per le nuove idee e principi i giovani non trovano nell'attuale società una campo adeguato per esercitarsi; né trovano approvazione e conferma nella società esistente, nella Chiesa, o nel comportamento e nella vita degli adulti. Se dunque vuol raggiungere risultati concreti, questa forma di educazione dovrà essere allo stesso tempo teorica e pratica. Lo stesso ambiente educativo dovrà essere un practicum (tirocinio) per le nuove idee e principi, anzitutto per esaminarli dal punto di vista della verità, e poi per esercitarli.

    c) Una terza forma d'educazione prende come punto di partenza una ideologia riguardante uno stato utopico nel futuro. Poiché esiste l'urto tra le esigenze legittime dell'individuo e l'impossibilità di realizzarle nel quadro della società esistente, si crea l'immagine utopica di uno stato di salvezza. Nell'educazione basata su questa visione non si offrono però agli individui lo spazio necessario e il diritto di crescere verso questo stato utopico. Si ricorre invece al modello dell'integrazione, con questa differenza però: la società esistente viene sostituita dall'ideologia dello stato utopico.
    Una tale pedagogia è disastrosa. Essa priva i giovani e gli adulti dalle poche cose che hanno ancora, li disorienta completamente, e li rende interamente dipendenti dall'arbitrio di alcuni pochi ideologi. Tale educazione è presentata come rivoluzionaria e orientata verso il futuro. In realtà le situazioni di costrizione e di ingiustizia sono generalmente assai peggiori di quelle di prima.

    d) Una quarta forma di educazione è orientata verso una Persona. Essa è aperta al futuro, non però nel senso di un sistema, ma nel senso di una persona: in concreto Gesù Cristo, nel quale tutti gli uomini si ritroveranno fratelli e sorelle. Questa pedagogia prende come punto di partenza l'attuale società, la chiesa nella sua condizione attuale. Essa rifiuta però di prendere il passato come il solo elemento determinante che gode di tutti i diritti. Perciò c'è spazio per lo sviluppo di ogni persona, e per una creatività che contribuisce al miglioramento della società. La norma ultima non è l'individuo isolato, ma l'individuo nelle sue relazioni con le altre persone, e con Dio in Gesù Cristo. Le persone si mettono insieme in cammino. Si aiutano per trovare oggi per ciascuno la migliore soluzione, anche se la loro speranza è rivolta verso un futuro migliore. Non rinunciano a fare dei piani per questo futuro migliore, ma rifiutano di fissarsi in anticipo in una determinata linea. Il futuro più sicuro è ancora sempre quello che è nella mano di Dio.
    Per il lettore sarà già chiaro che il nostro modello di pastorale giovanile opera soprattutto con il secondo e il quarto modello educativo.

    La gioventù in sé non esiste

    Essere giovani è un concetto relazionale, situato nella tensione tra le generazioni giovanili e quelle anziane, tra passato e futuro.
    Le caratteristiche di questa gioventù non sono assolute, ma soltanto la controparte di questa generazione adulta. Nel gioco delle relazioni diventano i giocatori che giocano contro gli adulti. Possono aiutarsi vicendevolmente, aprire reciprocamente gli occhi, aiutare a progredire. È impensabile che i giovani così di colpo possano essere educati per qualcosa di radicalmente diverso, per un futuro totalmente altro e molto migliore di ciò che attualmente siamo e abbiamo. Nemmeno i giovani sono in grado di cambiare d'un colpo il mondo.
    Infatti l'educazione non è risultato di cose, ma scaturisce dall'interazione delle persone. I giovani e gli adulti non possono donare di più di ciò che attualmente abbiamo e siamo insieme. Sia i giovani che gli adulti devono tendere verso ciò che è migliore. In tal modo si aprono possibilità concrete per fare gradualmente qualche passo in avanti: ognuno deve cercare di comunicare il meglio di sé agli altri, il che permetterà a tutti, giovani e adulti, di progredire con l'aiuto degli altri.

    PRINCIPI PASTORALI

    La pastorale giovanile è una forma di pastorale.

    Dall'obbligo all'invito

    Nel passato la pastorale era diventata soprattutto una «pastorale degli obblighi». La pastorale era pronunciatamente ecclesiale, poiché la salvezza è assicurata soltanto dalla Chiesa. Era organizzata in forma fortemente gerarchica, e perciò ristretta ai compiti pastorali specifici, esercitati dagli incaricati della pastorale. Il ministro del culto era anche il portatore e il mediatore della salvezza. Perciò era pastoralmente indispensabile. La salvezza stessa era intesa come salvezza dell'individuo. Si raggiungeva unicamente seguendo la via «obbligatoria». Ogni uomo aveva il compito di fare qualcosa di bello della propria esistenza. Ma questo non gli era possibile che usando i mezzi obbligatori: i mezzi della grazia offerti dalla Chiesa, e un insieme di prescrizioni e di proibizioni ben definite.
    Con il progredire del tempo i mezzi sono stati talmente accentuati, che il credente comune poteva anche avere l'impressione che l'essere cristiano consiste appunto nel ricevere questi mezzi della grazia. Quasi si stava per dimenticare che la cosa principale è ciò che ognuno fa della propria esistenza.
    Perciò la «pastorale» incominciava a significare quasi esclusivamente le sole cose che si fanno nella Chiesa: la cura delle anime. Ciò significa anzitutto: fare in modo che i mezzi della grazia siano abbondantemente presenti; guardare che la gente ne faccia uso in tempi stabiliti; vegliare che si eviti tutto ciò che impedisce questo uso dei mezzi della grazia. Cura pastorale significava anche: fare in modo che il maggior numero di persone diventassero membri delal Chiesa, cercando la «soluzione» dei loro problemi vitali ricorrendo all'ordine e alla morale di questa Chiesa. Poiché soltanto questa Chiesa poteva garantire la salvezza dell'uomo.
    Oggi la pastorale è vista assai più come «pastorale dell'invito». Al primo posto si trova l'idea della comunità, dentro la quale i singoli hanno tutti la corresponsabilità per gli altri. La collegialità anche tra sacerdoti e laici viene a prender il posto dell'istituzione gerarchica.
    La pastorale diventa in tal modo l'aiuto reciproco di tutti verso tutti. La pastorale non coincide più con le attività degli incaricati della pastorale, ma ha un significato assai più ampio. La pastorale significa la corresponsabilità di ogni singolo credente per la fede degli altri.
    Il singolo credente realizza la propria fede nel dialogo con la comunità di fede (la Chiesa locale) e seguendo la decisione della propria coscienza. Il parroco non è più, in questo insieme, il realizzatore esclusivo della pastorale. Il suo compito è maggiormente quello dell'animatore, dell'uomo che dà idee, spesso anche di colui che mette in moto e coordina i compiti e le espressioni della corresponsabilità pastorale di tutti i credenti. Egli non è più l'uomo che fornisce le soluzioni dei problemi difficili. È invece l'uomo totalmente dedicato a Dio e agli uomini per aiutarli nella scoperta della dimensione cristiana della loro vita, assisterli nella celebrazione liturgica della vita cristiana. t l'uomo che annuncia fedelmente il Vangelo in modo che possa essere una luce (critica) per la situazione concreta in cui si vive e per la società.

    Dalle attività alla corresponsabilità

    Nel passato il termine pastorale giovanile indicava un insieme di attività speciali, in larga misura isolate dalla pastorale degli adulti. Il vice-parroco era tipicamente l'incaricato della pastorale giovanile. Oppure si ricorreva a forze maggiormente specializzate: religiosi, fratelli, suore. Attraverso la scuola, i movimenti giovanili e l'uso del tempo libero, questi incaricati della pastorale giovanile dovevano assicurare l'educazione cristiana, nel senso di iniziazione dei giovani alla vita della Chiesa costituita. Gli altri cristiani affidavano con cuore tranquillo questo compito agli specialisti della pastorale giovanile.
    Oggi noi intendiamo la pastorale giovanile come una delle molte forme di corresponsabilità che ogni credente ha nei confronti degli altri. Non si può più pensare una pastorale giovanile isolata da tutta la realtà educativa. Non è dunque pensabile come una attività puramente religiosa o ecclesiale. Tutte le persone sono inserite nel processo educativo (educazione permanente). Qualsiasi uomo deve crescere e svilupparsi ulteriormente. Questo si realizza sopratutto nell'ambito della famiglia, nel contesto della scuola, e nell'ambiente del lavoro.
    Coloro che continuano a considerare la pastorale giovanile come una cosa a parte, come qualcosa che si pratica soprattutto nel tempo libero e per il solo gruppo dei giovani, dichiarano in fondo che la religione è un fenomeno marginale. Si perde di vista che il vero problema non è di offrire alcuni mezzi per l'educazione della gioventù. La pastorale giovanile deve riguardare il senso di tutta la realtà educativa, cioè di tutta la realtà della vita.
    Pertanto si può dire che la pastorale giovanile è nell'insieme della pastorale, la responsabilità di ogni cristiano in ogni situazione dove si incontrano i giovani. Essa è specificamente il compito dei genitori nell'ambito della famiglia, dei docenti e degli educatori nell'ambito della scuola, e degli adulti cristiani nelle fabbriche e nelle aziende riguardo a quei giovani con i quali vivono e lavorano insieme ogni giorno.
    La pastorale giovanile è anche corresponsabilità dei giovani per i loro compagni, per il loro ambiente, e specificamente per gli adulti, poiché i giovani hanno in mano, in notevole misura, la felicità degli adulti. Il compito dell'incaricato della pastorale giovanile è anzitutto questo: coscientizzare tutte le parti interessate riguardo alla specifica corresponsabilità che i credenti hanno per i loro fratelli nella fede; promuovere il dialogo tra le generazioni nei diversi ambienti; abilitare i partners a realizzare positivamente questo dialogo. L'incaricato della pastorale giovanile può dunque contribuire molto alla buona comprensione in tutta la comunità di fede, e particolarmente nel punto dell'incontro tra generazioni.


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    p a g i n A


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