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    Quale maturità politica?



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1975-11-19)

    Per molti giovani l'impegno storico-politico è oggi irreversibile. Fa parte del loro esistere, qui-ora. Forse in termini più emotivi che razionali, più entusiastici che tecnici. Ma il fatto resta.
    Molte volte, questi giovani hanno educato i loro educatori, guidandoli alla scoperta di un nuovo modo di esistere, capace di assumere responsabilità, personali e strutturali, in una partecipazione ampia alla gestione del potere.
    Anche il rapporto con la fede ha percorso direzioni diverse: spesso più nel caldo delle intuizioni che nel lento decantarsi della riflessione.
    Molti giovani cristiani hanno scoperto l'impegno storico, a partire dalla riflessione sulla fede che il Concilio ha messo in movimento. Poi ne hanno giustamente proclamato l'autonomia, ritrovando nella realtà le motivazioni sufficienti per un corretto esercizio politico. La fede rimane loro come «riserva critica»: come verità del proprio esistere, con cui giudicare le singole decisioni concrete che devono gestire, condividendole con tutti gli uomini di buona volontà, in una solidarietà che passa non sulla confessionalità ma sulla disponibilità a «liberare» l'uomo.
    Non possiamo però accontentarci di questa visione anche se interessante, della esperienza storica. All'educatore si chiede di farsi stimolo verso una dimensione sempre più matura, pacata e interiorizzata, di impegno politico. Dal dato di fatto, oggi fortunatamente molto ricco di fermenti positivi, alla maturità politica, il cammino rimane ancora lungo e impegnativo.
    Il tema investe direttamente anche l'impegno di «educare alla fede».
    L'esperienza di fede fiorisce per dono all'interno di una crescita in umanità: la dimensione politica ne è elemento costitutivo. Il rapporto tra fede e impegno politico passa quindi attraverso la «maturità politica», essa ne condiziona la reciproca integrazione (per queste importanti problematiche si vedano le pagg. 153-159 di «Fare pastorale giovanile oggi», LDC 1975).

    EDUCAZIONE ALLA GIUSTIZIA O ALL'IMPEGNO POLITICO?

    «Se per politica si può intendere modernamente la gestione del potere sociale dal basso, in vista del bene comune, l'impegno politico si configura come azione volta alla creazione di condizioni che rendono possibile a tutti la più larga partecipazione a tale gestione, cioè in altre parole le condizioni che rendono possibile a tutti l'autorealizzazione dal proprio destino».[1]
    Abbiamo definito che cosa intendiamo per «politica» perché preferiamo parlare di educazione (e quindi di maturità) all'impegno politico piuttosto che di educazione (e, relativamente, di maturità) alla giustizia sociale. Il linguaggio e la prassi tradizionale insiste sulla «giustizia», accettando con difficoltà la dizione «impegno politico».
    I giovani d'oggi invece parlano molto più di politica che di giustizia. Certamente non mancano gli equivoci, in una accezione e nell'altra. La parola «politica», soprattutto, è carica di molte ambiguità: c'è il rischio di interpretazioni distorte, specialmente tra noi adulti, maturati in una sensibilità refrattaria a tutto ciò che sapeva di politica.[2]
    Per evitare equivoci è importante mettere in chiaro i contenuti con cui si qualifica il discorso. Perché cambiare, allora? Lo stesso processo di precisazione di termini potrebbe tranquillamente essere fatto a proposito del termine «giustizia sociale».
    La nostra scelta è motivata:
    * Gli equivoci sono all'ordine del giorno quando si usano parole diverse per esprimere gli stessi concetti. Per parlare la stessa lingua bisogna che uno degli interlocutori «apprenda» quella dell'altro. Visto che i giovani oggi preferiscono parlare di «politica», piuttosto che di «giustizia», crediamo che questo compito tocchi principalmente all'educatore, proprio a titolo del suo servizio.
    * Abbiamo l'impressione che il passaggio da «giustizia sociale» a «impegno politico» non sia solamente un progresso nominale. L'evoluzione è segnata da una crescita di «contenuti». Soprattutto per accogliere queste nuove percezioni preferiamo parlare di impegno politico.
    Era spontaneo definire la giustizia sociale come «il completamento della giustizia nel vasto impegno a prendere parte creatrice a qualunque iniziativa per il bene comune». Dunque la «giustizia sociale» (e, relativamente, l'educazione alla giustizia sociale) è l'allargamento della virtù della «giustizia» ad una dimensione intersoggettiva, verso il bene comune. Per superare il vago di una terminologia generica bisogna ricorrere al concetto tradizionale di giustizia: in essa entrano come elementi di compaginazione i seguenti dati:[3]
    - il rapporto tra giustizia e «amore», la cui soluzione più matura affida all'amore il compito di «diventare il profondo movente della giustizia e penetrarla vitalmente»;
    - il compito di «rispettare-conservare» (ci piace aggiungere: «promuovere») il diritto altrui;
    - all'interno della «legalità», intesa come «adempimento di determinazioni positive di diritto», in vista di un superamento di interessi particolari.

    Nell'«impegno politico» una crescita di contenuti

    In tutte queste dimensioni non vediamo sufficiente spazio a percezioni che tutti avvertiamo invece come determinanti, proprio per raggiungere in concreto l'obiettivo che la «giustizia sociale» si prefigge.
    - Manca un «giudizio» sulla situazione dominante, sul «sistema», come si dice. È una variabile troppo importante per darla come scontata. Anzi c'è il rischio che la non considerazione coincida con l'accettazione passiva del dato di fatto, con un giudizio positivo sul sistema. Solo a partire da questo giudizio è possibile determinare la legalità/illegalità dei comportamenti. Perché se le istituzioni positive sono «per» il bene comune, vanno promosse-consolidate. Ma se, mediamente, sono classiste e ingiuste?
    - Manca un «giudizio» a monte sulla «quantità» di «suo» da dare a ciascuno, che superi l'accettazione del diritto incondizionato alla proprietà solo per il fatto di possederla. Quando e a quali condizioni si può-deve parlare di «suo-mio»?
    - Manca una consapevolezza dei rapporti strutturali che mediano normalmente quelli interpersonali e culturali. La giustizia è un «fatto di buona volontà» o connota la messa in opera di «strutture diverse» (e quindi il rovesciamento di quelle che eventualmente fossero inadeguate) ?
    - Manca l'accento sulla dimensione collettiva, come soggetto della realizzazione di situazioni più giuste. La giustizia si fa attraverso impegni strettamente personali o l'impegno personale viene normalmente mediato da una «collocazione di campo»?
    - Manca l'immediato riferimento alla prassi storica, come apprendimento dal vivo e come «fare» la giustizia per «definire» che cosa è giusto-ingiusto.
    - Manca, insomma, una dimensione dinamica di «bene comune». Si ha cioè l'impressione che tutto il processo avvenga all'interno di rapporti predefiniti, in una società radicalmente statica, da ricomporre, riordinando quello che un gioco adolescenziale di tanto in tanto scompagina. La «giustizia» è ricomposizione del passato o invenzione di un futuro?
    È facile notare che l'insieme delle carenze riscontrate nella concezione tradizionale di giustizia sociale ha un rimbalzo educativo immediato e determinante. Possono essere concentrate su questo problema nodale: educare alla giustizia sociale significa educare a «conservare le cose come stanno», bloccando al massimo le falle e innervando il tutto con un pizzico d'amore, oppure significa educare a rifiutare l'ordine presente, per modificarlo continuamente in vista di un futuro sempre nuovo, più avanti delle realizzazioni più avanzate? E questo sui banchi di scuola o nella mischia della lotta storica?
    Anche se in forma confusa, le frange più mature dei giovani quando parlano di impegno politico, cercano questo modo nuovo di esistere.
    Smussando troppo gli angoli e radicalizzando le contrapposizioni, abbiamo delineato le «diversità». È facile obiettare che si tratta di aspetti facilmente impliciti nel concetto tradizionale di «giustizia sociale». D'accordo; ma perché correre il rischio di lasciarli impliciti, quando la nuova nomenclatura mira proprio ad esplicitarli?

    VERSO UNA «MATURITÀ» POLITICA

    Abbiamo fatto questa premessa per precisare la collocazione da cui ci pare necessario iniziare lo studio sulla «maturità politica».
    La maturità non è una dimensione formale (che riguarda cioè un metodo di approccio), ma investe immediatamente una presa di posizione personale (chiama in causa contenuti, giudizi, interventi).
    Non è possibile offrire definizioni di tipo astratto e impersonale; bisogna, invece, pronunciare un giudizio globale.
    Da questa prospettiva tracciamo un diagramma di «maturità politica», indicandone anche i livelli progressivi.[4]
    Le riflessioni che seguono, nei termini in cui sono condivise, indicano il quadro di riferimento per «misurare» il livello di maturità politica presente nei nostri giovani e, nello stesso tempo, tracciano un itinerario su cui insistere per far crescere le iniziali, velleitarie aspirazioni politiche in dimensioni totali di maturazione personale e sociale.
    La misurazione del grado di maturità e la presentazione di un itinerario educativo sono due funzioni importanti. Costringono l'educatore ad evitare giudizi affrettati: di condanna, solo perché le espressioni politiche di «quel» giovane non sono ancora giunte ad un livello soddisfacente di crescita; o di assunzione acritica, quando invece il compito educativo di stimolo alla crescita è ancora ampio e urgente.

    1. La capacità di assumere responsabilità personali

    Alla base di ogni impegno politico maturo sta la coscienza di una reale solidarietà interpersonale che rende, tutti e ciascuno, «responsabili» della gestione della storia. È un tema importante, per quell'istanza di deresponsabilizzazione personale purtroppo presente, che o scarica su altri l'impegno nei giochi delle varie deleghe oppure lancia nella mischia della politica per partito preso o con la coscienza manichea del liberatore «solo» per gli altri o, peggio, con l'assurda pretesa di strumentalizzare la persona al riscatto sociale.

    2. Un adeguato concetto di politica

    Abbiamo offerto in apertura una definizione di impegno politico. Esso chiama in causa molti elementi: una visione dell'uomo, scelte e giudizi sulle varie istituzioni, l'assunzione di una prassi e degli strumenti operativi relativi.
    Si tratta di un bagaglio di «elementi» da compaginare per definire un adeguato concetto di politica.
    Un processo di interiorizzazione di questi «dati» passa generalmente attraverso questi tre livelli progressivi:
    a) La politica come reazione istintiva
    L'innata volontà di agire per gli altri, il senso di responsabilità e l'entusiasmo della prima avventura umana, caratteristiche dell'età giovanile, si scontrano con le situazioni di ingiustizia, oppressione, diseguaglianza, disfunzione sociale. Ne nasce un senso istintivo di protesta emotiva che apre ad impulsi spesso generosi. Purtroppo a questo livello l'azione politica è fatta di proteste verbali e di sfoghi emotivi. Manca l'istanza della razionalità: l'analisi accurata della globalità del problema, la presa di coscienza dei meccanismi e delle forze che sono in gioco. È il livello embrionale. Importante per scuotere e provocare (anche perché non si può certamente raggiungere la disponibilità all'azione utilizzando soltanto la persuasione della ragione, in un contesto culturale che porta all'indifferenza e alla manipolazione, nella pressione emotiva dei modelli di identificazione). Ma, certo, non sufficiente.
    b) La politica come azione sistematica
    È una prima azione riflessa per il bene comune, convissuta con altri (gruppi, partiti, movimenti) di cui si fanno proprie le analisi sociali e i metodi d'intervento. L'azione assume caratteristiche di sistematicità e di organizzazione. Ci si sente, nel gesto, parte di un tutto. Manca però la capacità innovativa all'interno del gruppo di cui si è sposata la strategia globale.
    Perché manca una personale consapevolezza di situazioni, di progetti, di obiettivi. Il militante agisce e parla; ma il direttivo del partito pensa e decide per lui.
    c) La politica come arte cosciente e organizzata
    È il terzo livello: quello che descrive una avvenuta maturazione, nella consapevolezza e motivazione personale. A monte vi è una scelta globale di alcuni valori, per l'uomo e la sua liberazione. Nell'attività storica i progetti accettano ridimensionamenti e ristrutturazioni, per essere partecipati e incidenti. L'utopia si incarna nell'ideologia, pur conservandosi continuamente critica nei suoi confronti.
    «A questo livello domina lo sforzo di analisi scientifica e perciò razionale della realtà, delle situazioni concrete, in riferimento a una interpretazione che permette di maturare e di emettere ipotesi di progetti di trasformazione, cioè di sviluppo o di alternativa, in vista dell'azione. Dall'analisi critica alla azione organizzata e sistematica, motivata e promozionale, attraverso un progetto, una strategia e una tattica, con la competenza necessaria per trasformare la realtà in direzione dei valori».

    3. La capacità di giudicare con critica e realismo

    L'educazione politica comporta la capacità critica, maturata all'interno di un profondo, dinamico realismo. In una società manipolatrice come è la nostra, l'esigenza è questione di sopravvivenza in umanità, particolarmente impegnativa in riferimento alla dimensione politica. Perché l'esercizio del potere in vista del bene comune comporta troppo facilmente l'istituzionalizzazione dei comportamenti, il gioco delle fazioni o, sul fronte opposto, l'utopismo che si scolla dalla base o che strumentalizza il contributo degli altri.
    I due termini (criticità-realismo) sono dialettici. Determinano quell'impasto operativo di «ideale» (l'insieme delle tensioni allo stato puro il punto d'arrivo ottimale) e di «reale» (il dato di fatto contingente, il materiale tecnico e strategico con cui si ha da fare, il buon senso che ha i piedi troppo per terra, i risultati e l'efficienza a costo di tutto), in cui ogni corretta prassi educativa ritrova il parametro di progettazione.

    4. Impegno nell'azione politica

    La partecipazione ideale si traduce in partecipazione totale, fino all'azione. Sono evidenti i diversi livelli di questo progressivo impegno in realizzazioni politiche:
    a) Nel momento educativo vengono considerate per lo più le «microrealizzazioni politiche prossime, immediate, facili e possibili: negli ambienti e nei gruppi di vita, di studio, di lavoro, di contatto diretto, nelle occasioni di particolari impegni o problemi delle comunità locali, della società più vasta».
    Questo per non bruciare i tempi, costringendo ad interventi così impegnativi da rendere di fatto impossibile l'interiorizzazione dei loro significati.
    Parlare di microrealizzazioni connota da una parte il controllo perché i gesti siano proporzionati a coloro che li pongono; ma, dall'altra parte, rifiuta l'istanza di parcheggiare i giovani, proibendo loro qualsiasi attività politica, con la scusa che sono in fase educativa.
    b) Questo allenamento educativo aprirà alla capacità di partecipare in seguito ad attività politiche esecutive, all'interno dei movimenti esistenti (o elaborando movimenti alternativi), in coerenza con l'identità personale e con il proprio giudizio sulla situazione storica e sui tempi necessari per farla adeguatamente evolvere.

    FANTASIA E CREATIVITÀ

    Il discorso è aperto. Da questo materiale, nella riflessione di ogni educatore e operatore pastorale, fiorisce il progetto operativo concreto. Un progetto d'insieme, da ritradurre e reinterpretare sul taglio del qui-ora storico. L'educatore che condivide le preoccupazioni di cui abbiamo parlato, ha la fantasia sufficiente per elaborare un suo progetto. In creatività. Una qualifica indispensabile per far camminare in avanti il nostro mondo. Nel senso di quel Futuro di cui ogni giorno anticipiamo, nella speranza, la parziale gioiosa esperienza.


    NOTE

    [1] GC. MILANESI, I giovani oggi e possibilità educative nello stile di D. Bosco, in AA. Vv., Il sistema educativo di D. Bosco: tra pedagogia antica e nuova, LDC, 1974, pag. 159.
    [2] I documenti ecclesiali che hanno un respiro mondiale parlano preferibilmente di «giustizia sociale». Ed è una scelta molto evidente, per il contesto politico diverso che caratterizza le varie nazioni. Quelli a carattere nazionale, invece, introducono il termine «impegno politico». D'altra parte, la descrizione di «giustizia» che emerge è fortemente impegnativa. Non è certo a questo che si riferiscono le nostre note, ma ad una terminologia spesso ricorrente, troppo sfumata e legata ad una cultura statica e poco critica.
    A titolo di esempio citiamo una pagina operativa di un documento salesiano «mondiale» che parla di «impegno per la giustizia» in termini di una concretezza e decisione davvero molto coraggiosa A queste istanze ci siamo ispirati nello stendere l'articolo.
    «Mettiamo in risalto alcuni aspetti che interessano particolarmente noi salesiani ora a livello della Congregazione come tale, ora a livello di comunità ispettoriale e locale, ora a livello individuale.
    1) Scegliamo la linea del "progresso dei popoli". La lotta contro il sottosviluppo appartiene all'essenza stessa della Congregazione salesiana. Essa si sente quindi impegnata a sodo in questa lotta. Ma lo deve fare secondo il suo carisma, cioè nella linea, nello stile, nello spirito di D. Bosco, e quindi con coraggio, con intelligenza, con realismo, e sempre con carità...
    2) Rifiutiamo ogni compromesso con qualsiasi forma di ingiustizia sociale e ogni collusione con la ricchezza e la potenza.
    3) Collaboriamo per la promozione del mondo operaio e degli emigranti. La nostra missione giovanile e popolare implica: un'attenzione per la realtà sociale e storica del mondo operaio; lo sforzo di scoprire i suoi valori educativi, umani ed evangelici; la preoccupazione di collaborare coi movimenti dediti all'evangelizzazione di questo ambiente, non trascurando che il valore principale a cui dobbiamo tendere è che i poveri stessi prendano responsabilmente in mano la loro promozione umana e cristiana.
    4) Adottiamo uno stile di vita povera: "liberarsi da una mentalità borghese".
    5) Poniamo alcuni gesti profetici, che manifestino più chiaramente il nostro amore privilegiato per i poveri con modalità aderenti alla realtà di oggi» (Capitolo generale speciale della Congregazione salesiana).
    [3] Cf la voce «giustizia» nel Dizionario Enciclopedico di Pedagogia, Editrice SAIE, 1969.
    [4] Questa parte richiama come ispirazione alcune riflessioni contenute in P. GIANOLA, L'educazione politica, Problemi e obiettivi, in Orientamenti pedagogici, 1975 gennaio-febbraio.
    Cf B.CHAMPEAUX et al., La capacité politique de la jeunesse, Ed. du Chalet, 1972.


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