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    Prospettive di etica professionale



    Giorgio Campanini

    (NPG 1975-01-18)

    L'ambito del lavoro in generale e del lavoro professionale in particolare è fra quelli nei quali in modo eminente viene verificata l'effettiva capacità del messaggio cristiano di orientare e di animare dall'interno tutta la vita dell'uomo. Una vita cristiana che lasciasse tra parentesi la dimensione dell'impegno professionale sarebbe monca e incompleta e testimonierebbe di una profonda divisione, se non addirittura di un'insanabile frattura, tra una sfera del «sacro» considerata e vissuta in senso quasi magico e una sfera del «profano» ritenuta totalmente avulsa dal campo di impegno del cristiano. Occorre invece superare questa dicotomia fra vita cristiana e impegno professionale e riscoprire l'apertura del cristiano al mondo
    - della quale componente essenziale è appunto l'impegno professionale
    - come luogo fondamentale della vocazione e della testimonianza cristiana.
    In nessun campo come in quello del lavoro si costata così il nesso inscindibile che collega fra loro spiritualità ed etica. La riscoperta del senso profondo della spiritualità del lavoro è condizione essenziale per la comprensione del significato stesso dell'impegno professionale del cristiano: il ritardo che si deve costatare sul piano pratico in questa assunzione della professione sul piano religioso testimonia della pericolosità di una religione avulsa dalla vita. Lo stesso lavoro, del resto, è diventato disumano e alienante proprio da quando è stato ridotto a pura tecnica e sottratto ad ogni giudizio di valore.
    Da un duplice ordine di riflessioni - sul senso oggettivo del lavoro e insieme sulla professione come realtà salvifica - nascono le linee di fondo di un'etica professionale che, per avere perduto attraverso un lungo processo di interna purificazione il suo carattere precettivo, non per questo ha perduto anche il suo fondamentale orientamento normativo. [*]

    L'OGGETTIVITÀ DEL LAVORO PROFESSIONALE

    Si delinea, sotto questo profilo, un primo e fondamentale imperativo di ogni etica della professione, e cioè il rispetto dell'oggettività del lavoro e del suo senso per l'uomo e per il mondo. Prescindendo in questo momento dal problema della finalizzazione sociale del lavoro (tema in un certo senso estrinseco e non intrinseco al lavoro, come lo è del resto quello dell'introduzione di un più armonico rapporto fra lavoro e tempo libero) è necessario sottolineare che per il cristiano rispettare questa oggettività del lavoro rappresenta la premessa fondamentale per una corretta assunzione della realtà del lavoro sul piano della persona e dunque dell'etica. Una posizione di rifiuto del lavoro nella sua oggettiva dignità e nel suo oggettivo valore, per ciò che esso rappresenta per il singolo e per la comunità, è incompatibile con lo stesso essere cristiano.
    Recuperare questo significato oggettivo del lavoro è il primo e fondamentale compito dell'etica professionale che non può costruirsi su un rifiuto o anche su una semplice «messa fra parentesi» della realtà del lavoro, anche se evidentemente ciò non significa accettare tale realtà così come essa è, come un «dato» e non invece come una scelta, individuale e soprattutto sociale e storica.
    Da questo punto di vista il cristiano, in quanto tale, non è chiamato ad uscire dalla professione nella quale si trova (senza che ciò significhi in alcuno modo una concezione statica della società) ma a viverla sino in fondo per quello che essa è, sviluppandone al massimo e sino in fondo le potenzialità.[1]

    VERSO UNA NUOVA ETICA PROFESSIONALE

    Ogni etica cristiana, da qualunque premessa prenda le mosse, non può eludere il problema dell'etica professionale, se non vuole ridursi ad una generica enunciazione di principi astratti, privi di concreta incidenza sulla vita dell'uomo e dunque sulla storia. L'errore commesso in passato di calare dall'alto sulle professioni una minuta e spesso inattuabile precettistica non può giustificare l'opposto errore di rinunziare ad un giudizio etico sulla professione. Certo, tale giudizio deve essere quanto mai cauto e ponderato, per non ricadere negli equivoci del passato.
    Da questo punto di vista si può affermare che un'etica professionale calata nella realtà del nostro tempo deve essere concreta e non astratta, di forma e non di contenuto, sociale e non individuale.
    * L'esigenza della concretezza deriva dalla consapevolezza del continuo mutare nel quadro sociale e dunque anche professionale. Solo un'etica professionale astratta potrebbe addurre a sintesi le varie situazioni e formulare per le varie ipotesi una risposta che, appunto perché generica ed astorica, non sarebbe in realtà una risposta. Certo, una simile prospettiva etica non si sottrae del tutto al rischio del relativismo: vi è infatti il pericolo che si rinunzi praticamente a pronunziare sulla realtà del lavoro un giudizio etico; ma questo pericolo è indubbiamente meno grave dell'altro, quello cioè di riproporre come normativo un quadro culturale destinato ad essere già superato nel momento stesso in cui esso sia definito.
    * L'insistenza sulla forma, più che sul contenuto risponde a questa stessa esigenza di concretezza storica. La particolare scelta morale che l'uomo impegnato a operare nell'ambito della professione deve compiere non può essere, salvo alcuni casi-limite, ipotizzata una volta per tutte, né può essere astrattamente predeterminata. Un'etica che pretendesse di proporre alcunché di più che alcuni grandi valori di fondo sarebbe destinata ad essere un'etica non vissuta e non vivibile. Compito dell'etica professionale è quello di sollecitare la persona che lavora a compiere, momento per momento, le scelte etiche meglio corrispondenti alla fondamentale vocazione dell'uomo alla propria santificazione nel servizio agli altri e al mondo.
    * Infine, l'etica professionale dovrà recuperare la sua dimensione sociale, al di là della degenerazione intimistica e sostanzialmente borghese alla quale essa è stata soggetta da alcuni secoli a questa parte. Proprio qui sta, ci sembra, l'aspetto di sostanziale novità di un'etica professionale di oggi rispetto a quella del passato, anche del recente passato. Un'etica professionale non può, infatti, non situarsi criticamente nei confronti della società. Il giudizio che essa è chiamata a pronunziare non riguarda solo il singolo lavoratore o la singola professione, ma, appunto, il rapporto fra lavoro e società: è dal modo col quale si pone e si risolve questo rapporto che l'etica professionale deriva la sua capacità di orientare criticamente il cristiano che opera nel mondo.

    L'APPROCCIO ETICO ALLE SINGOLE PROFESSIONI

    È in questa luce che a nostro avviso va risolto anche il problema delle singole professioni, muovendo dal presupposto che «l'ampiezza di un orizzonte spirituale, le forze morali della responsabilità, la coscienza della solidarietà con il tutto sociale sono di importanza fondamentale anche per una maturità religioso-morale».[2] È nel senso della promozione di questa maturità insieme umana e cristiana, e non nel senso dell'elaborazione di singoli «codici di morale professionale» che deve a nostro avviso orientarsi l'etica professionale.
    È dunque difficile un apprezzamento totalmente positivo di singole e specifiche etiche professionali, tanto più quando esse si riducono ad una minuta precettistica, e soprattutto quando si rivolgono di preferenza a professioni in un certo senso tradizionali, quelle per le quali più ricca è stata anche l'elaborazione etica, e non invece alle «nuove professioni» - dal ricercatore scientifico all'agente pubblicitario, dal giornalista al dirigente di azienda pubblica - per le quali, in mancanza di una valida tradizione, potrebbero essere opportunamente ipotizzate alcune indicazioni di fondo di etica professionale.
    Queste doverose considerazioni di ordine generale non escludono tuttavia, pur nel riconoscimento dell'impossibilità di costruire una nuova etica professionale di tipo tradizionale, la possibilità di mettere almeno in evidenza alcune dimensioni di fondo della professione, talora trascurate in sede di riflessione etica.
    * In primo luogo occorre recuperare la dimensione sociale di ogni etica professionale, quale essa sia. Ciò non significa soltanto valutare le implicazioni che deriveranno per i terzi dal proprio comportamento, il che comunque va fatto in misura assai più rilevante di quanto non sia avvenuto in passato, nel quadro di un'etica professionale ancora sostanzialmente individualistica; ma anche e soprattutto cogliere i condizionamenti sociali dell'etica professionale e operare per superarli. Un'etica professionale attenta alla sua dimensione sociale non può limitarsi, sotto questo profilo, a rifiutare determinate conseguenze di scelte morali non condivisibili, ma deve impegnarsi per modificarle: il che implica un discorso che dalla professione risale alla società e fa necessariamente di ogni etica professionale un'etica politica.
    * In secondo luogo è necessario approfondire le implicazioni che si determinano sul piano etico fra le scelte operate, sia pure a diversi livelli, dalle varie categorie di operatori professionali. Ciò che potrebbe apparire giusto e lecito nell'ambito di una determinata ottica professionale può risultare ingiusto e illecito in una prospettiva che tenga conto del bene generale della comunità. Questa maggiore attenzione alle implicazioni sociali di determinate scelte vale non soltanto in termini di confronto fra l'una e l'altra categoria, ma anche in termini di rapporto fra diversi sistemi economici e sociali. Appare inoltre necessario collocare le scelte dell'etica professionale in un quadro che tenga conto anche delle sue ripercussioni e implicazioni, dirette e indirette, a breve e a lunga scadenza.
    * Infine l'etica professionale è chiamata a misurarsi con altre scale di valori, sino a riconoscersi, al limite, come fondata su basi ingiuste, e dunque come inautentica, nel momento in cui l'ossequio a determinate norme - pur valide entro l'ambito specifico di ogni singola etica professionale considerata in sé e per sé - attenti al rispetto di altri più importanti valori. Così l'etica professionale è chiamata, ad esempio, a confrontarsi con l'etica familiare nel suo complesso, e in particolare con i doveri che il laico coniugato ha verso la propria famiglia, al punto che determinate scelte, legittime nel solo ambito dell'etica professionale, potrebbero diventare illegittime se poste a raffronto con l'etica familiare, quando ad esempio la pur naturale e lecita aspirazione a progredire sul piano professionale, anche se realizzata nel pieno rispetto delle norme che reggono la professione, si traduca in un'ingiusta lesione di altri valori.
    Queste considerazioni acquistano particolare significato in una società sempre più fortemente integrata e interdipendente, sul piano di ogni comunità nazionale e a livello internazionale, al punto che il rigoroso rispetto delle norme di un'etica professionale atomisticamente intesa potrebbe diventare il summum ius che si fa summa iniuria, perché irrispettoso di altre esigenze che si pongono, ad un diverso livello.

    PROFESSIONE E «STATUS» SOCIALE

    Al di là di un'etica professionale intesa in senso specifico e forse riduttivo, acquistano senso e significato alcuni problemi di etica generale, ma che hanno una diretta attinenza con l'ethos professionale. Si tratta di problemi che si ricollegano allo status generale delle professioni, alla loro valutazione sociale ed economica, alla loro collocazione sul piano etico.
    Una più attenta riflessione etica merita indubbiamente il problema dello status professionale, in relazione sia al prestigio sociale delle singole professioni, sia alla loro remunerazione sul piano economico. In una prospettiva teologica queste distinzioni potrebbero apparire in un certo qual modo prive di senso, in quanto come non c'è «né uomo né donna, né ebreo né gentile, né schiavo né libero» così evidentemente agli occhi del cristiano determinate classificazioni appaiono destituite di ogni significato etico e perfino religioso.
    Il discorso si fa per altro più sfumato quando la riflessione si sposta sul nesso generale che intercorre fra lavoro e società. Una determinata suddivisione fra le professioni è veramente priva di significato etico per il cristiano? È veramente indifferente, nella prospettiva dell'impegno per la costruzione di un mondo più giusto e più umano, mantenere in vita o meno determinati parametri retributivi?
    Il cristianesimo, pur assumendo in linea teorica un atteggiamento di sostanziale «indifferenza etica» rispetto al valore delle singole professioni - nel senso che, se si eccettuano alcune perentorie esclusioni, ha proclamato che tutte le professioni sono degne agli occhi di Dio e si pongono dunque nell'orizzonte delle salvezza - non ha tuttavia rifiutato sempre una concezione individualistica delle singole professioni e sta contestando anche l'instaurazione di un legame automatico fra lavoro e retribuzione. L'insistenza tipica del pensiero cristiano, dai primi padri agli ultimi pontefici, sul diritto del lavoratore al sostentamento suo e della sua famiglia, si pone in un contesto sostanzialmente antitetico a quello dei regimi liberistici, per i quali la remunerazione del lavoro si collega all'utilità sociale e al rendimento produttivo della prestazione.
    D'altra parte, storicamente anche il cristianesimo ha contribuito a determinare una sorta di discriminazione sociale (e, al limite, forse anche etica) fra le singole professioni, privilegiandone alcune piuttosto che altre, attribuendo alle une piuttosto che alle altre una determinativa superiorità etica. Tipico è l'atteggiamento con il quale c stato tradizionalmente e per lungo tempo privilegiato il lavoro agricolo rispetto al lavoro industriale, al punto da far coincidere industrializzazione e irreligione, quasi identificando (con una sorta di antistorico ritorno a un nuovo e rovesciato «paganesimo») religione e campagna, ateismo e città.[3]
    Deve essere chiaramente affermato che simili distinzioni fra le professioni non hanno alcuna rilevanza morale; semmai tale rilevanza, e una conseguente preferenza per talune mansioni piuttosto che per altre, va cercata e trovata attraverso un'analisi più approfondita del nesso che intercorre fra lavoro e società. Il cristiano non potrà non valutare criticamente le singole possibilità di lavoro che in un determinato contesto gli si propongono, alla luce della loro «utilità sociale» intesa in un senso non soltanto culturale, ma anche e soprattutto religioso. Ciò porterà indubbiamente il cristiano a privilegiare (eticamente, non economicamente o dal punto di vista dello status sociale) alcune professioni piuttosto che altre, ma in termini di «vocazione» e non di «condizione» sociale.
    Di qui il rifiuto di una pura e semplice identificazione fra l'utilità sociale di una determinata professione e la sua remunerazione economica: si tratta infatti di due ordini di valori diversi e non coincidenti. Non può tuttavia essere accettato dalla coscienza cristiana un sistema economico che in un certo senso capovolga tale ordine di valori, ponendo ad esempio al vertice, dal punto di vista del prestigio sociale e dello stesso trattamento economico, talune professioni socialmente meno utili, a danno di altre socialmente più utili. Al di là della pur legittima rivendicazione che ciascuno, come singolo e come categoria professionale, avanza al miglioramento delle proprie condizioni di vita, si pone anche qui un preciso limite etico che esige una considerazione della professione in termini non atomistici e in una prospettiva più attenta a cogliere il nesso tra professione e società.

    LA PROFESSIONE COME «VIVERE CON GLI ALTRI»

    Al di là di considerazioni sostanzialmente estrinseche sulla relazione fra lavoro e status sociale e sulla ripartizione fra le varie professioni del prodotto del lavoro sociale, rimane essenziale ritornare ad una valutazione «intrinseca» delle professioni, perché è necessariamente di qui che deve prendere le mosse una loro valutazione etica.
    Da questo punto di vista, come scrive Truhlar, «L'ethos del lavoro professionale è il senso oggettivo di questo lavoro, nella misura in cui, personalmente assimilato e posseduto dall'individuo che lavora, forma la considerazione pratica e l'esercizio del lavoro professionale. Con l'espressione "ethos del lavoro professionale" si designa, per conseguenza, l'atteggiamento, il comportamento personale nel lavoro professionale Questo atteggiamento o comportamento è determinato dal contenuto oggettivo del lavoro professionale, da quegli elementi che oggettivamente entrano nella realtà del lavoro professionale. Tale senso oggettivo del lavoro professionale diviene proprietà personale della persona che lavora».[4]
    Tale definizione si colloca indubbiamente nell'ambito di un'etica del lavoro che potremmo chiamare «fissista», nel senso che pone l'uomo «di fronte» alla professione, quasi che essa fosse un «dato» e non, insieme, anche una scelta; ma ha il pregio di mettere l'accento sull'oggettività della professione: è con tale oggettività che non può non confrontarsi una riflessione che voglia essere, appunto, etica, e non moralistica, che emerga cioè dall'interno della professione e non si sovrapponga ad essa dall'esterno.
    È evidente che il richiamo all'«oggettività» della professione non significa cadere nell'illusione che sia possibile costruire, in ogni ambito e tanto meno in quello professionale, un'etica astrattamente normativa. Vale anche e soprattutto per l'etica della professione quanto Dietrich Bonhoeffer scrive di ogni etica, e cioè che essa «non può essere un libro in cui si spieghi come le cose di questo mondo dovrebbero andare ma purtroppo non vanno».
    È invece compito dell'etica «aiutare l'uomo a vivere con gli altri».[5] Ed è questo anche il compito di un'autentica etica professionale cristiana. In questo senso si può realmente parlare dell'etica professionale puramente e semplicemente come di un aiuto, di una sollecitazione, di uno stimolo offerto al cristiano a riflettere sul proprio rapporto con l'oggettività dei gesti che compie, sulla loro ultima finalizzazione, sul nesso che si stabilisce tra la professione e la società, nel quadro di una convocazione di servizio della quale il confronto con la storia è una componente essenziale.
    Molto al di là, ci sembra, non è possibile andare: e ciò soprattutto in un periodo di profonde trasformazioni, in cui nuove professioni e nuovi modi di esercitarle si affacciano continuamente all'orizzonte, mentre la struttura stessa delle tradizionali attività viene profondamente modificata, col pericolo che l'etica professionale - ogni etica professionale, anche la più aggiornata - risulti sempre inesorabilmente in ritardo rispetto alla realtà e dunque superata sul piano stesso che avesse scelto come proprio, e cioè quello di un «concreto» orientamento all'azione, di una «concreta» delineazione di un determinato quadro di comportamenti.
    L'etica cristiana del lavoro sarà sempre impossibilitata - e diremmo «felicemente condannata», almeno per chi creda nell'inventività e nella fantasia creatrice della coscienza etica delle varie generazioni - a fornire risposte esaurienti o anche stabili quadri normativi che fissino in qualche modo una realtà in perenne movimento. La teologia morale avrà pertanto assolto al suo compito più autentico allorché - più che fornire, come del resto è doveroso sul piano pastorale, proposte di soluzione di casi particolari, o più che contribuire a dirimere singoli casi di coscienza per altro meritevoli di rispetto - avrà educato il cristiano e soprattutto il laico, chiamato a operare nel mondo e a realizzare lì, per sé e per gli altri, la salvezza, a formarsi una coscienza critica nei confronti della propria professione, per misurarla concretamente con l a parola di Dio da un lato e con i problemi del mondo e dei fratelli dall'altro.
    In questa prospettiva, l'etica professionale altro non è che un costante confronto critico fra valori evangelici e storia, in una prospettiva che, per essere essenzialmente mondana, non per questo cessa di essere sorretta dall'interno da una viva tensione escatologica.
    Compito del cristiano non è quello di passare «al di sopra» dell'etica professionale, ma di superarla dall'interno, di vivere cioè lavoro e professione nella prospettiva della salvezza. Al di là di ogni pur importante e necessario discorso di etica professionale, è questo il senso profondo del lavoro umano.

    NOTE

    [1] Ciò non esclude una riflessione critica appunto sul senso «oggettivo» delle singole professioni, in vista per altro di un giudizio che è inevitabilmente storico e quindi condizionato dalla cultura del tempo. Professioni come quella dell'agente di cambio, del commerciante, dell'attore, tanto per fare alcuni esempi, sono state in passato condannate dalla chiesa e dichiarate incompatibili con la vocazione del cristiano. Tale giudizio, alla luce della cultura del nostro tempo, va indubbiamente riveduto, non già nel senso di una aprioristica legittimazione di tutte le professioni, ma per effetto di una più matura consapevolezza che porta a riconoscere in ogni professione, e non soltanto in quelle dinanzi indicate, aspetti potenzialmente negativi e positivi: più che rifiutare specifiche professioni, pertanto, si tratta di viverle, dall'interno, come cristiani. Ciò non esclude che, al limite, vi siano alcune professioni (seppure tali le si voglia chiamare) che appaiono in sé, oggettivamente, incompatibili con l'essere cristiani: si pensi alla prostituta professionale, allo spacciatore di droga, alla «spogliarellista». Qui l'oggettività stessa dell'attività svolta impone un giudizio negativo su di essa, senza che ciò voglia e possa significare automaticamente la condanna delle persone che le praticano, il cui comportamento va inquadrato in determinati contesti culturali, ambientali, sociali. Ma anche una «etica dell'intenzione» in sé valida non può riscattare, oltre un certo limite, l'opaca oggettività di determinate attività. Il parametro della loro utilità economica o anche del loro successo sociale non può essere acriticamente fatto proprio dalla riflessione morale
    [2] B. HAERING, La legge di Cristo, Morcelliana, Brescia 1964 e ss., vol. III, 573; cf inoltre, nello stesso volume, le pp. 463 e ss. e 540 e ss.
    [3] Su questi temi cf S. S. ACQUAVIVA, L'eclissi del sacro nella società industriale, Milano 1961 e succ. ediz.
    [4] K. V. TRUHLAR, Il lavoro cristiano, 215. Dello stesso autore si vedano anche Rasserenanti orizzonti conciliari - Ethos cattolico post-conciliare, Gregoriana, Roma 1969, 335 e ss., ove vengono riprese alcune notazioni anche sul lavoro e approfondito il nesso fra lavoro e storia: «Tutto quello nel lavoro che aiuta il lavoratore o gli altri che il lavoro riguarda; tutto quello che costruisce la vita dell'umanità, tutto ciò è infatti già indirizzato al Cristo vincitore ed è partecipe già della sua vittoria e della sua gioia» (o.c., 339-40).
    [5] D. BONHOEFFER, Etica, Bompiani, Milano 1969, 227-28.

    [*] L'a. ha pubblicato uno studio ampio e documentato sull'argomento in Rivista di Teologia Morale, 18 (1973). Questo articolo ne riproduce gli aspetti più significativi.


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