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    Nel Cristo l'uomo «è» in pienezza



    Fiorentino Merlo

    (NPG 1975-7/8-32)

    DUE PRESUPPOSTI

    Diamo per scontati due fatti:
    - L'identità dell'uomo è specificata e garantita dal rapporto speciale, tutto suo e solamente suo, con Dio (l'uomo è fatto «ad immagine di Dio»: Gen 1,26.27; 9,6; Sap 2,23; Eccl 17,1; Col 3,10; ecc.) in generale, e, più in particolare, col Cristo, Figlio del Padre (l'uomo è predestinato a diventare «conforme all'immagine del Figlio uso»: Rom 8,29); l'autenticità dell'uomo, quindi, è tanto più vera e trasparente quanto più egli si lascia assimilare e volonterosamente si assimila al Cristo e, per mezzo di lui, al Padre nello Spirito Santo.
    - La Chiesa è Cristo che continua a farsi, a costruirsi, a maturare nella storia fino a quando avrà raggiunto la pienezza della propria statura (Ef 4,13).
    Non vi è quindi, almeno in questo nostro ordine storico-salvifico, nessun uomo che non sia radicalmente e fondamentalmente cristoconforme e che non abbia, come compito principale della sua vita, quello di prendere coscienza di questa sua realtà di fondo, di accettarla, di esplicitarla e tradurla in vita vissuta così da poter essere a buon diritto riconosciuto come «alter Christus», qualcheduno, cioè, che ha talmente accettato il Cristo da potersi dire di lui che il suo «vivere è Cristo» (Fil 1,21) e che, pur continuando a vivere la sua reale vita individuale ed irrepetibile, in realtà chi vive in lui è Cristo (Gal 2,20).
    Alla stessa maniera, non vi è neppure una briciola di storia che non sia in qualche vero senso e misura vita di Cristo nel tempo della Chiesa, o negazione di questa vita; salvezza e inveramento dell'uomo o rifiuto di esso.

    CHI È L'UOMO

    L'uomo è una creatura; creata «in Christo», cioè «da lui, a partire da lui (come modello), in lui (come punto di convergenza e di irradiazione; come colui che gli dà consistenza, significato e valore), destinata a lui (come a suo naturale fine)» (cf Rom 11,36; 1 Cor 8,6; ecc.); così da risultare creata automaticamente alla gloria di Dio, per il fatto stesso di essere opera sua e per il fatto che il Cristo «è lo splendore della gloria (del Padre) e l'impronta della sua sostanza» (Ebr 1,1-4; Col 1,15-20). Questo essere creato ad immagine di Dio, in Cristo, alla gloria di Dio, si traduce per l'uomo, nel meraviglioso fatto di trovarsi inserito in quel disegno d'amore che muove il Padre, dalla profondità dell'essenza divina, a volere una catena ininterrotta e infinitamente ricca di modelli e di varianti concrete, del suo Figlio eterno, per poter dialogare con essi, in quell'aura di tenerezza e di intimità di rapporti che siamo soliti chiamare «grazia» e che ha per effetto di porci come persone e di metterci di fronte a lui, come «altri» da lui, ma non «estranei» a lui, bensì come «figli nel Figlio», inondati dal suo Spirito e, come lui, in grado di chiamarlo «Abba, Padre!» (Rom 8,15; ecc.).

    L'anelito naturale alla trascendenza

    Visto in prospettiva di sola ragione naturale, l'uomo è un affamato di trascendenza. Fame che si esplicita nella ricerca, affannosa a volte e piena di angoscia e di disperazione, nella scoperta, nella creazione, nella lotta per la conquista, la possibilità di proclamazione e di diffusione di valori. Questo equivale a dire che l'uomo è essenzialmente apertura, offerta, donazione di sé all'altro in funzione della propria e dell'altrui costruzione. È noto, infatti, che noi realizziamo noi stessi nel momento in cui, donandoci, arricchiamo l'altro dei nostri valori e, per riflesso, lasciandoci accettare, ci arricchiamo dei suoi in un'incessante dialettica dinamica di donazione-accettazione che aumentano sempre più il nostro essere persone e non «cose viventi», e, con esso, la nostra fame di trascendenza che, quanto più si sazia, tanto più si acuisce. E tanto si acuisce, da diventare cosciente bisogno di donarsi e di sentirsi accettati rispettivamente a e da Qualcuno che sia sentito e creduto come l'«Altro» per eccellenza; come il vertice di ogni alterità; come l'orizzonte vastissimo, infinito, sul quale tutti gli «altri» si stagliano; come Colui che è il «valore dei valori», quegli che tutti li pone e tutti li invera. Non a caso Agostino parlava di quella misteriosa ed inguaribile inquietudine che ci tormenta finché non abbiamo scoperto Iddio e non abbiamo trovato la nostra pace in lui. Anche S. Tommaso aveva visto bene quando definiva l'uomo un essere «capace di Dio» e che ha un «desiderio naturale» di Dio, cioè, una naturale tensione verso di lui inscritta, diremmo, nel suo stesso sangue. Ora, Iddio che ci ha fatti per lui; che ci ha voluti immagine sua e del suo Figlio; che ci ha costruiti, in concreto, come soggetti incarnati, storici, comunitari, destinati a vivere inquadrati nelle coordinate del tempo; come preludio, preparazione e possibilità di opzione per una nostra definitività di risorti sul modello di Cristo o del rifiuto di lui, ha voluto saziare la nostra fame di trascendenza in maniera confacente alla nostra struttura umana. Ha voluto che questa trascendenza ci invadesse e ci potenziasse al massimo - benché, secondo Agostino, e secondo ogni sano pensare, fosse da sempre profondamente presente in noi, più di quanto noi non lo siamo a noi stessi - in maniera che noi la potessimo vedere, sentire, palpare, gustare come vita che dà vita e dona una nuova nascita, una nascita dall'alto (Gv 3,3 ss; 1,4 ss; 1 Gv 1,1 ss; ecc.): ci ha donato suo Figlio nell'Incarnazione.

    In Cristo l'uomo si invera

    Cristo è l'«Altro» che, diventato uno di noi (non è Egli l'uomo perfettamente riuscito?), ci svela quell'«Altro», supremo, assoluto, verso il quale tutto e tutti tendiamo per essere veramente noi stessi e ci rende possibile entrare in rapporti intimi con lui (Ef 2,18 ss; 3,12 ss; ecc.): il Padre, il quale, mediante il Figlio suo, ci dona il suo Spirito. Cristo ed il Padre, infatti, sono una cosa sola (Gv 10,30; 17,22); chi vede il Cristo, vede il Padre (Gv 14,9); la vita eterna - la nostra piena realizzazione - consiste nel conoscere il Padre e colui che egli ha inviato, il suo Cristo (Gv 17,3; 6,40). Non vi è, dunque, altra via (cf Atti 4,12) per soddisfare la nostra fame di trascendenza, cioè di essere inverati, realizzati, di acquistare la nostra più perfetta identità e la più piena autenticità, se non quella di realizzare tra noi e lui quella misteriosa simbiosi, quella reciproca immanenza care a S. Paolo ed a S. Giovanni e sulle quali ritornano con tanta insistenza.
    In questa maniera, Cristo, non solo ci svela il Padre e ci dona lo Spirito, diventando mediatore unico ed insostituibile della nostra realizzazione ( = salvezza, come acquisizione della nostra identità ed autenticità di Figli nel Figlio; cf 1 Tim 2,5), ma ci svela, anche, quel mistero che siamo noi stessi per ognuno di noi. Saremo noi stessi se saremo, in qualche misura, Cristo. Come lui e con lui sempre ripieni della presenza del Padre e dello Spirito; come lui e con lui sempre in perfetta sintonia d'amore con la volontà di Colui che ha mandato anche noi e svolgere una missione nel mondo e nella storia; con lui annunciatori del regno, contrariati, sofferenti, morti, sepolti, risuscitati, fatti sedere alla destra del Padre. È noto quanto siano sviluppati questi temi in S. Paolo, specialmente prendendo lo spunto dalla liturgia battesimale (Rom 6,1 ss). In tal modo potremo essere dei nuovi «Adamo», delle nuove «creazioni», dei figli e degli eredi del Padre, degli instancabili annunciatori e realizzatori del suo Regno.

    Dunque l'esigenza missionaria

    Di qui l'impegno missionario del credente preso come singolo. Se per essere noi stessi dobbiamo essere Cristo e se ciò include il nostro instancabile impegno di annunciare la buona notizia che il Padre in Cristo ci salva, non solo, ma di lavorare perché questa notizia sia accolta e posta a fondamento e orientamento di tutta una vita, ci si impone, innanzitutto, il dovere di assimilarci e di lasciarci assimilare al e dal Cristo nel quale abbiamo creduto, mediante una fede, una speranza, una carità che siano forze effettivamente operative ed operanti. Ma questo è solo il presupposto, l'indispensabile per rendere credibile la nostra parola e la nostra testimonianza. Dobbiamo andar oltre. Dobbiamo proporre ed offrire quel massimo valore che possediamo, Cristo, tutti coloro cui ci sia dato poterlo offrire. In prima linea, tra questi destinatari della nostra offerta, coloro nei quali Cristo è già presente, in qualsiasi forma - non vogliamo entrare qui nel difficile problema del valore salvifico delle religioni non cristiane - senza che essi se ne rendano conto, perché non hanno mai avuto occasione di confrontarsi con lui o, paradossalmente, perché credono onestamente che per essere fedeli a Dio ed alla propria coscienza, devono dire di no a Cristo. Verranno, poi, coloro che a scienza e coscienza rifiutano il Cristo, proprio perché è ciò che dice di essere, cioè il Figlio di Dio venuto in mezzo a noi per farci diventare uomini, non sulla nostra misura, ma sulla sua. Quella che sboccia nella risurrezione, ma passa attraverso il Gethsemani, la croce, il sepolcro.

    Nella realizzazione del nostro impegno missionario, la nostra ulteriore realizzazione di uomini e di cristiani

    Nella realizzazione del suo impegno missionario, il cristiano, non solo porta agli altri il Cristo e la buona notizia che, in lui, il Padre ci salva, ma ha occasione di diventare più pienamente se stesso, nell'incontro più vario e più ampio con quella cristoconformità che è la sostanza più profonda, il vero nocciolo dell'essere del cosmo, dell'umanità e della storia. Si tratta infatti di un incontro con Cristo nei fratelli. Un Cristo vivo, concreto, tangibile, sostanziato di tutte le nostre gioie e di tutte le nostre miserie, di tutte le nostre vittorie e di tutti i nostri fallimenti, di tutte le nostre luci e di tutte le nostre ombre. Un Cristo che è impegnato in una continuata incarnazione ed in una redenzione sempre in atto e che termineranno solo con la Parusia finale.
    Il cristiano deve recepire ed assimilare quanto vi è di positivo in queste svariatissime sfumature di assimilazione al Cristo ed imparare a colmare in sé e negli altri, gli effetti della carenza o della deturpazione ed oscuramento della medesima.
    Posto questo, verrà l'azione umile, rispettosa, disinteressata, efficiente non tanto dall'esterno, ma costruttrice dall'interno, dell'uomo. Essa, a seconda dei casi, si affiancherà al fratello, nella presa di coscienza del suo essere uomo; del significato, del valore, della dignità e dell'impegno che ciò porta con sé (... perché parlar solo del diritto e non anche del dovere di essere uomini?); fatto che Cristo è l'uomo perfettamente riuscito e che solo diventando lui, possiamo essere veramente noi. Egli, infatti, l'uomo perfettamente riuscito, è orgoglio del Padre che è nei cieli (Mt 3,17; 17,5), ed è orgoglio dell'umanità intera, che lo offre incessantemente al Padre come «memoriale» (1 Cor 11,25), affinché non dimentichi neppure un istante che, nel Cristo, «primogenito» tra tanti fratelli (Rom 8,29; Col 1,18), ci siamo tutti noi, vitalmente trasformati in lui, grazie alla potenza del suo sangue ed alla vitalità del suo Spirito che ora abita in noi.

    IMPEGNO MISSIONARIO ED ECCLESIALITÀ

    La nostra proposta-offerta del «valore Cristo», come supremo inveramento dell'uomo, non dovrà evidentemente fermarsi qui, né, del resto potrebbe essere correttamente recepita, se non venisse poi prolungata e proiettata su un'altra realtà di fondo più immediata, più tangibile, più verificabile: quella della Chiesa. Essa, infatti, non solo è la Chiesa di Cristo, ma è Cristo e deve diventare Cristo, incessantemente, fino alla fine del tempo.
    Se, garantire la nostra identità ed assicurare la nostra autenticità, suppone la presa di coscienza e la continua esplicitazione della nostra radicale cristoconformità, dovrà, per forza di cose, portare con sé anche la necessità di diventare Chiesa. La comunitarietà è una componente essenziale dell'essere uomo. L'ecclesialità è una componente essenziale dell'essere cristiano, anzi, la forma migliore di realizzare la comunitarietà che ci permette di sussistere e di costruirci anche come semplici cittadini di questo mondo. Ma non vogliamo entrare qui in una discussione sul significato della distinzione tra sacro e profano, tra realtà terrestri e realtà celesti, tra i rispettivi spazi di manovra e tra le loro metodologie tendenti alla costruzione dell'uomo. Ci preme solo ricollegare la necessità di diventare Chiesa, per diventare Cristo e poterci, così, inverare pienamente come uomini. E, su questa necessità, innestare l'obbligo, per essa, di essere missionaria.

    La Chiesa si fa Cristo nella storia

    La Chiesa, infatti, è la versione storica e terrestre, del Cristo eterno e celeste. È il suo mistico corpo (Rom 12,5; 1 Cor 10,17; 12,12-27; Ef 4,4; 4,12; 4,16; Col 2,18; ecc.); è l'insieme di mille e mille ubertosi tralci, che sono parte inseparabilmente e vitalmente unita a quel ceppo di vite feconda che è Cristo (Gv 15,1 ss); è la piantagione e la costruzione del Padre (1 Cor 3,9) col quale Cristo ha tutto in comune (Gv 17,7.10); è una nuova creazione (2 Cor 5,17); è una riunione di chiamati («Ecclesia»), da un misterioso appello (Col 1,26; Rom 16,25), rivolto a tutti senza distinzione perché tutti possano avere la possibilità di essere salvi (= di essere inverati pienamente come uomini, sul modello di Cristo risorto; cf 1 Tim 2,4). Tutto questo, per avere un qualche significato, suppone che Cristo, il quale ha oramai raggiunta la sua perfezione e la sua pienezza celeste (Ebr 5,9), ed è stato per l'appunto risuscitato e fatto Signore e Cristo dal Padre (Atti 2,36), non solo sia impegnato continuamente ad intercedere per noi (Rom 8,34; Ebr 7,25), ma, ricevuto lo Spirito Santo promesso (Atti 2,33) e diventato lui stesso Spirito vivificante (1 Cor 15,45), lo effonda su di noi (Atti 2,33) e, con questa donazione (cf Gv 14-17) continui - lui, l'uomo perfettamente riuscito - a costruire ed a realizzare se stesso in noi, portando incessantemente avanti, nella storia, quella meravigliosa opera di costruzione e promozione umana - impresa che costituisce la sostanza dei piani del Padre e della sua Provvidenza - che si traduce in uno svelamento all'uomo di chi egli realmente sia: un vivente cosciente e libero, radicalmente cristificato, ed in un intervento sempre presente ed efficace affinché egli dia alla sua vita vissuta l'unico significato e l'unico valore che le corrisponde: un tempo messo a sua disposizione ai fini di una cristificazione sempre più trasparente e sempre più consistente.
    In questo senso diciamo che la Chiesa è Cristo, ma deve diventare Cristo. Da una parte, infatti, la Chiesa è la pienezza del Cristo (Ef 1,23) ed egli deve raggiungere questa sua pienezza (Ef 4,13); dall'altra, tutte le immagini ricordate, usate dalla rivelazione per rappresentare la Chiesa, hanno come fondo comune l'idea di un qualcosa di vivo, vitale, in via di irresistibile crescita, come e più del seme che diventa albero (Mt 13,31 ss), come e più della massa di farina, nella quale la massaia ha messa una manciata di lievito (Mt 13,33 ss).
    Ma cos'è, più concretamente, questa pienezza di Cristo? Come si manifesta questa vitalità interiore ed inarrestabile della Chiesa e che rapporto ha con la sua missionarietà?

    Nel farsi la Chiesa è missionaria

    Nella formula «pienezza di Cristo» alcuni leggono la affermazione che, quella realtà storica che si chiama Chiesa e con la quale Cristo si è identificato (Atti 9,4; 22,7; 26,14) è una sua parte non solo integrante, ma essenziale sul piano storico, tanto che, senza di essa, egli sarebbe un capo privo del suo corpo, un qualcosa di mostruoso, ripugnante e che desta orrore; altri, invece, e forse con maggior ragione, vi leggono l'affermazione che la chiesa è una realtà viva e, proprio in quanto tale, viene continuamente sostanziata dall'interno, invasa e, oserei dire, imbevuta fin nelle sue fibre più segrete dal Cristo e di Cristo. Personalmente preferiamo leggere, nella formula citata, tutti e due gli splendidi significati.
    Questa pienezza, a sua volta, qualunque sia il significato prescelto, è il presupposto della missionarietà della Chiesa e trova in detta missionarietà il presupposto della sua realizzazione. Si tratta di due realtà intimamente congiunte e che si postulano reciprocamente.
    Nel primo significato, la formula «Chiesa, pienezza di Cristo», postula che essa operi affinché non solo si mantenga l'unione vitale col Capo del mistico corpo di Cristo, ma anche che si operi attivamente affinché esso corpo cresca, prenda forma, vigore, sicurezza ed agilità di movimento, statura e dimensione bellamente proporzionate, condizioni di vita sempre più floride, più prospere, più armoniche, come presupposto di un pensare e di un agire a sua volta sempre più cristoconforme. Nel caso contrario, si correrebbe il rischio - e la storia lo documenta ripetute volte - che quel divino mistico capo, a livello storico venga ridotto, più o meno rapidamente e violentemente o in maniera più o meno vergognosa e ripugnante, alla condizione di teschio... Non più la vita che, in un memorabile duello vince la morte, ma la morte che, sia pure in una vittoria fittizia e transitoria, torna a sconfiggere la vita.
    Nel secondo significato, la formula porta con sé l'imperioso dovere che la Chiesa crei, in se stessa ed attorno a sé, degli spazi sempre più imponenti, in estensione geografica ed in numero di uomini che in essa vivono; e prese di posizione che li coinvolgano in maniera sempre più cosciente, libera, generosa, incisiva, profonda, sia come individui, sia come comunità, a favore di Cristo. Solo così, quella salutare invasione di fuoco, che sono Cristo ed il suo Spirito, dalla quale bisogna essere consumati per essere inverati, divampi sempre di più - vera inondazione di Spirito e di fuoco che distrugge e ristora (cf Mt 3,11 ss; Gv 1,26; 3,5; Atti 1,5; 11,16) - affinché ognuno ed ogni cosa diventi pura trasparenza di Dio ed egli possa essere effettivamente tutto in tutto e ridonare a tutto ed a tutti il loro vero essere: essere, cioè, una espressione e presenza efficace di Dio, un radicale sacramento dell'amore del Padre che ci crea, per inverarci, adottandoci e divinizzandoci nel Figlio suo, mediante l'azione vivificante dello Spirito.

    Come e perché la Chiesa è missionaria

    A questo punto può sembrare addirittura ozioso parlare del rapporto tra la Chiesa come pienezza di Cristo, la manifestazione della sua interna vitalità e la sua missionarietà. La Chiesa non sarebbe se stessa, né noi saremmo cristiani (= uomini, non solo radicalmente cristificati, ma anche coscientemente ed effettivamente impegnati nella propria incessante cristificazione), non costituirebbe in partenza, né potrebbe dirsi continuamente impegnata nella costruzione della pienezza di Cristo se, da una parte non muovesse alla attenta ricerca, amorosa e rispettosa ricerca, di tutto ciò che vi è già di Cristo in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni cultura, in ogni individuo (... non si dimentichi la convinzione, presente in Padri dei primissimi tempi, per esempio S. Clemente Alessandrino, della presenza di «semi» di rivelazione e di salvezza generosamente sparsi da Dio anche nelle culture e nelle religioni pagane...); dall'altra, se non si sforzasse di mettere in evidenza che la cristoconformità radicale, che dà all'uomo la sua fondamentale identità ed autenticità umana, può emergere alla piena luce del sole, svilupparsi e giungere a maturazione, solo nella accettazione di Gesù Cristo, quello glorioso che siede alla destra del Padre, e quello concreto, impantanato nella storia, che continua a catartizzare dall'interno, e che si incarna nella chiesa. Perché solo la piena, incondizionata accettazione della buona notizia che il Padre ci salva nel suo Cristo, è il punto di partenza della nostra assimilazione a lui, della nostra vita in lui e simile a lui.
    Per questo Cristo vuole che la buona notizia della salvezza sia data «a tutta la creazione» (Mc 16,16) e che «diventino discepole tutte le nazioni» (Mt 28,19); che ciò che è stato udito nel segreto, venga, ora, gridato sui tetti (Mt 10,27). Perché egli, oltre a Israele al quale è mandato, in modo pressoché esclusivo, ai fini della sua predicazione e azione terrena (Mt 15,24), in realtà ha anche innumerevoli altre pecorelle ed egli non desidera altro se non che si faccia un solo ovile sotto la guida e la protezione di un solo pastore (Gv 10,16), lui, Cristo, che è il buon pastore, che conosce le sue pecorelle, mentre esse, a loro volta conoscono la sua voce e sanno che è pronto a dare la sua vita per esse (Gv 10,14-15); lui che è la via, la verità, la vita (Gv 14,6); la luce vera che illumina ogni uomo che nasce nel mondo (o, secondo un'altra lettura, che illumina ogni uomo per il semplice fatto che è venuto al mondo: Gv 1,9); l'acqua che toglie una volta per sempre la sete e zampilla per la vita eterna (Gv 4,10-15; 7,38); l'unica porta per la quale si può entrare nella casa del Padre, l'ovile sicuro ed incessantemente difeso anche a costo del proprio sangue (Gv 10,1 ss), figura ed anticipazione di quella dimora celeste, nella quale posti innumerevoli sono riservati ad ognuno e ormai messi a punto dal Cristo risorto (Gv 14,2.3), che verrà a riprendersi i suoi (l.c.), per stare sempre insieme (l.c.) ed insieme gioire e godere nell'eterno banchetto di Dio (Apoc 3,20-21).

    L'essere missionari investe ogni cristiano

    Ripetiamo, dunque, che la Chiesa non è se stessa se non è missionaria. E noi, che siamo il materiale grezzo o, alcuni, le pietre preziosissime e viventi (cf liturgia della dedicazione delle chiese) di cui la Chiesa è costruita e che incastonano il cuore e l'anima che le danno vita e vitalità (... Cristo, lo Spirito...), non saremmo noi stessi se non fossimo, nella misura e secondo le modalità che si confanno alla nostra condizione concreta ed alla condizione dell'ambiente che ci circonda, anche noi missionari. Sarebbe egoismo dei più ripugnanti non distribuire o, almeno, segnalare, proporre ed offrire i valori che Cristo ci ha svelati e che condensa in sé. Sarebbe tradimento il disinteressarsi, o, peggio, il rifiutarsi di far riflettere ai nostri simili, che essi sono, già per il semplice fatto di essere uomini, radicalmente cristificati, cioè radicalmente possessori di quegli stessi valori; che a loro, solo che lo vogliano, basta prendere coscienza di quella situazione e svilupparla, poi, nella conoscenza cosciente e formale del Cristo, conoscenza che non sarà mai vera e sincera, che non costituirà mai una risposta al suo appello, se non è tradotta in una accettazione incondizionata di lui e delle sue esigenze.
    La Chiesa, quindi, ed ognuno di noi in essa, dobbiamo essere degli «evangelizzatori». Perché «la fede nasce dalla predicazione, e la predicazione ha luogo per mezzo della parola di Cristo. Ma mi chiedo: "(i pagani) non ne hanno forse sentito parlare?". Suvvia, "in tutta la terra si è diffusa la loro voce - e fino ai confini del mondo giunsero le loro parole"» (Rom 10,17.18)... Per Paolo, Israele era senza scusa perché aveva avuto sufficiente opportunità di conoscere il Cristo ed il suo messaggio.
    Non così i pagani. Ad essi era più che mai necessario che il Cristo fosse annunciato. E Paolo, con entusiasta vigoria, reclamava come dato a lui l'incarico specifico dell'annuncio del Vangelo ai gentili (Atti 15,7). Ora, spiega egli stesso, «ma come essi i (pagani) lo potrebbero invocare se in lui non hanno creduto? E come potrebbero credere in colui che non hanno udito? E come potrebbero udire senza chi predichi? E come predicherebbero senza essere stati mandati?» (Rom 10,14.15).

    UNA PRECISA RESPONSABlLlTÀ: ESSERE EVANGELIZZATORI PER «ESSERE»

    Concludiamo. Siamo convinti che l'uomo, come individuo e come comunità, è uomo perché è, in qualche misura, un Gesù-Cristo nella storia. Sarà tanto più uomo quanto più realizzerà questa sua identità fondamentale. Siamo convinti che essere, in qualche misura, un Gesù-Cristo nella storia, vuol dire aver trovato il Cristo - in maniera cosciente o no, formale ed esplicita o no -; avere fatto un'esperienza vitale di lui; esperienza che è sfociata in una accettazione-immedesimazione di lui e con lui; vivere in una misteriosa, ma per ciò non meno reale e profonda, simbiosi e mutua immanenza con lui.
    Siamo convinti che questa misteriosa simbiosi e reciproca immanenza tra noi e Cristo, debba manifestarsi, tra l'altro, nell'essere anche noi, come lui, annuncio vivente (testimonianza) della buona notizia (Vangelo) che il Padre, nel suo Figlio, ci salva, cioè ci invera dandoci un'identità ed una autenticità.
    A noi assumere le nostre responsabilità. E che il Signore, che ci ha dato la «mina» (Lc 19,11 ss), il «talento» (Mt 25,14 ss) della fede e della grazia, non abbia a trovarci come alberi ostinatamente incapaci a portar frutti (Mt 3,10; 7,19; Lc 13,6 ss; Mt 21,18 ss), oppure vistosamente frondosi, come quel fico sui cui rami Gesù invano cercò di che sfamarsi, e che maledisse (Mt 21,18 ss). A che scopo la fede e la grazia, se non ne contagiamo anche gli altri, specie chi non conosce Cristo e non sa di essere suo fratello?


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