Attesi dal suo amore
    Proposta pastorale 2024-25 

    MGS 24 triennio

    Materiali di approfondimento


    Letti 
    & apprezzati


    Il numero di NPG
    luglio-agosto 2024
    600 cop 2024 2


    Il numero di NPG
    speciale sussidio 2024
    600 cop 2024 2


    Newsletter
    luglio-agosto 2024
    LUGLIO AGOSTO 2024


    Newsletter
    SPECIALE 2024
    SPECIALE SUSSIDIO 2024


    P. Pino Puglisi
    e NPG
    PPP e NPG


    Pensieri, parole
    ed emozioni


    Post it

    • On line il numero di LUGLIO-AGOSTO di NPG sul tema degli IRC, e quello SPECIALE con gli approfondimenti della proposta pastorale.  E qui le corrispondenti NEWSLETTER: luglio-agostospeciale.
    • Attivate nel sito (colonna di destra "Terza paginA") varie nuove rubriche per il 2024.
    • Linkati tutti i DOSSIER del 2020 col corrispettivo PDF.
    • Messa on line l'ANNATA 2020: 118 articoli usufruibili per la lettura, lo studio, la pratica, la diffusione (citando gentilmente la fonte).
    • Due nuove rubriche on line: RECENSIONI E SEGNALAZIONI. I libri recenti più interessanti e utili per l'operatore pastorale, e PENSIERI, PAROLE

    Le ANNATE di NPG 
    1967-2024 


    I DOSSIER di NPG 
    (dall'ultimo ai primi) 


    Le RUBRICHE NPG 
    (in ordine alfabetico
    e cronologico)
     


    Gli AUTORI di NPG
    ieri e oggi


    Gli EDITORIALI NPG 
    1967-2024 


    VOCI TEMATICHE 
    di NPG
    (in ordine alfabetico) 


    I LIBRI di NPG 
    Giovani e ragazzi,
    educazione, pastorale

     


    I SEMPREVERDI
    I migliori DOSSIER NPG
    fino al 2000 


    Animazione,
    animatori, sussidi


    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 


    WEB TV


    NPG Facebook

    x 2024 400


    NPG X

    x 2024 400



    Note di pastorale giovanile
    via Giacomo Costamagna 6
    00181 Roma

    Telefono
    06 4940442

    Email

    Motivazioni e attese dei giovani nei centri di formazione professionale



    Franco Garelli

    (NPG 1975-03-56)

    SIGNIFICATO E LIMITI DELLA RICERCA

    Ogni corretto progetto di pastorale giovanile suppone una lettura attenta della realtà». Per raggiungere l'obiettivo che qualifica la pastorale, l'integrazione tra fede e vita, è indispensabile mettersi in disponibile «ascolto» della vita, per inserirvi in forma adeguata la «novità» della fede.
    In questa prospettiva, abbiamo sentito il bisogno di misurare con una certa oggettività le «motivazioni e attese» dei giovani che frequentano i centri di formazione professionale, tentando di cogliere, per converso, il clima educativo che essi respirano, i progetti sul domani con cui viene informata la loro educazione, il livello di reale integrazione fede-vita, per cui l'educazione diventa anche azione pastorale.
    Abbiamo scelto un sistema di rilevamento dal vivo: l'intervista registrata a gruppi di giovani, di 7 grossi CFP, dislocati in tutta Italia, gestiti dalla Congregazione salesiana.
    Il metodo permette una conclusione soltanto approssimativa, perché la scelta del campione non corrisponde a stretti canoni di casualità e la conversazione su domande predefinite ha percorso direzioni non sempre omogenee.
    Per questo abbiamo anche preferito una misurazione delle risposte più qualitativa che quantificata.
    I risultati però sono importanti: l'appropriazione alle situazioni «medie» dei CFP è corretta e stimolante per la larga rappresentatività del campione.
    I dati sono stati confrontati e studiati con un gruppo qualificato di operatori dei CFP. La loro esperienza ha verificato le linee emerse, raggiungendo una notevole coincidenza dì prospettive.
    Le interviste e la loro interpretazione è finalizzata ad una preoccupazione pastorale. Per questo abbiamo preferito moltiplicare le citazioni dirette degli intervistati, montando tutto il discorso sulla falsariga del «plano» che Note di Pastorale Giovanile ha offerto nell'editoriale «Linee per una pastorale dei giocarti operai» (1974 /5).
    Le conclusioni sono nelle mani degli operatori diretti. Ad essi compete misurare la corrispondenza oggettiva degli orientamenti di questa ricerca con la reale situazione in cui operano, superando con coraggio le emergenze più esteriori. Da questa disponibile presa di consapevolezza, possono (e debbono) nascere Prospettive operative, a livello educativo e pastorale, per un maturo servizio di crescita, verso una realizzazione di sé, in cui la fede sí ponga come principio di novità nel progetto maturo e responsabile del proprio esistere.


    MOTIVI PER CUI È STATO SCELTO IL CFP

    Scuola che prepara direttamente al lavoro

    Pur nel colorito di espressioni diverse e pur nella prospettiva di angolature particolari, la scelta dei CFP appare anzitutto come un canale necessario per «prendere la qualifica ed entrare nel mondo del lavoro». Un gradino verso un buon mestiere.
    E una garanzia per il futuro. Per una ricercata e sempre più rara sicurezza professionale.

    «Sono venuto perché qui sì impara veramente a lavorare. Vedo degli operai specializzati che riescono a prendere degli stipendi non inferiori a quelli degli ingegneri».
    «La nostra società ha bisogno dì operai specializzati, che sappiano bene il lavoro. Quindi noi abbiamo tutti il 90% dí probabilità di trovare subito un impiego».
    «Non ritengo questa scuola un ripiego. Nella società di oggi ha un'importanza di primo piano. Chi ha altre maturità non troverà un impiego. Noi invece lo troveremo».
    «Questa scuola mi dava la specializzazione in un campo nuovo, non ancora affermato del tutto. Quindi la possibilità di poter trovare un posto di lavoro sicuro».
    «Qua dopo tre anni sei già nel lavoro. Poi caso mai puoi sempre continuare. Hai la sicurezza...».
    «Cinque anni sono troppi per diventare periti. Poi non si riesce a trovare posto».
    «Ho scelto il CAP perché so che in due anni prendo la qualifica».

    «Ho scelto questa scuola per trovare un posto di lavoro».
    «Questa scuola dà un'ottima preparazione pratica che altre scuole non danno».
    «Quelli che vanno all'Università o anche solo alle superiori non sempre riescono a trovare un impiego pari alla scuola che hanno fatto. Gli tocca poi andare a lavorare in fabbrica dopo aver studiato tanti anni».

    «Oggi la scuola non è più come una volta. Non conviene farsi 10-15 anni di scuola e prendere poi come prende un operaio. Un professore prende anche di meno».
    «Ho scelto questa scuola per le prospettive che ci sono».
    «In questa scuola c'è molta pratica e si impara bene a lavorare sulle macchine».
    «Con questo tipo di scuola siamo i primi ad inserirci nella società. Se ad una industria serve un laureato, le occorrono almeno 10-15 operai. Perciò è più facile che la scelta ricada su di noi»

    .
    L'immagine, nel discorso dei giovani, non è né semplice né grossolana. Anzi, se oggetto di attenta analisi, sembra un riflesso esatto delle attese con cui una famiglia media italiana segue le scelte scolastiche, e di conseguenza professionali, dei figli.
    La scuola che prepara direttamente al lavoro è importante proprio perché nello stesso tempo:

    – arricchisce di una specializzazione, «ti dà una qualifica»;
    – garantisce più facilmente di altri corsi di studi un immediato posto di lavoro nel campo in cui si consegue la specializzazione;
    – costituisce un'eccezione nel mare di inflazione in cui affogano i titoli di studio e nella difficoltà esasperata che incontrano oggi diplomati e laureati a trovare lavoro;
    – prepara a posti di lavoro discretamente retribuiti ed è fruttifera a breve termine;
    – si distingue per il suo carattere pratico dei corsi, vicino alle inclinazioni di molti giovani.

    Il calore quindi con cui i giovani sottolineano anzitutto questo motivo di scelta del CFP ha profonde radici. Nelle aspettative della condizione sociale a cui il giovane appartiene, nel desiderio della famiglia di assicurare al figlio una posizione sociale soddisfacente e a breve termine. E questa costatazione può essere un chiaro esempio di quanto i giovani siano antenne recettive delle necessità dell'ambiente in cui vivono, di quanto cioè traspaia dalle loro scelte, mentalità, attese, le scelte e le aspirazioni della classe sociale a cui appartengono. Di quanto le scelte dei giovani siano condizionate.

    Scelta per ripiego o per vocazione?

    A questo punto può sorgere un dubbio. La scelta del CFP è la più indicata per assicurare al giovane che la intraprende una valida sicurezza sociale? Un altro corso di studi non poteva meglio indirizzare queste aspettative? O per dirla in altri e opposti termini, propri di una mentalità legata ad una concezione selettiva della scuola, abituata a considerare le scuole professionali (oggi CFP) come l'ultima e scardinata ruota del carro della Pubblica Istruzione: non si orientano verso i CFP i giovani che non hanno l'intelligenza e la volontà di mirare ad un più alto corso di studi?
    Alla luce delle risposte dei giovani, si può osservare che accanto alla scelta in positivo di una scuola che prepara direttamente al lavoro, c'è la motivazione di una scuola scelta anche per «ripiego». I CFP appaiono infatti come scuole più abbordabili.

    «E inoltre ho scelto questa scuola perché le materie teoriche hanno poco peso».
    «Io ho iniziato da geometra, mi piaceva il disegno. Poi è saltata fuori la chimica e tante altre materie per cui non ero portato. A me piaceva la pratica. Ho sempre avuto il pallino dei motori... Ho piantato il tutto a metà anno e finalmente qui ho trovato qualcosa che mi piace».
    Quando ho visto che non ero portato per stare a un tavolino mi sono dato alla pratica».
    «Un altro motivo: finanziario. Non è che i miei genitori siano benestanti. Andare a fare scuole con 5 anni o più costa molto. Quindi necessità di imparare un mestiere e aiutare i miei».
    «lo nella terza media non è che andassi bene. Allora ho scelto una scuola facile. Anche come spese è stato un bel risparmio».
    «Io cercavo uno studio più facile. Un perito ha sempre più difficoltà per lo studio».
    «Dopo la terza media mi sono trovato a frequentare il ginnasio. Dopo un paio di anni ho ripiegato. Non mi andava molto di studiare».
    «Prima di venire qui ho fatto tre anni di Istituto. Ho abbandonato non perché andassi male a scuola. Ma perché non avevo voglia di continuare».
    «lo avevo voglia di studiare. Però per problemi economici di casa mia, mi sono dovuto non dico arrangiare, ma comunque scegliere questi corsi».
    «Ci sono dei ragazzi non portati per continuare cinque anni la scuola. io ho fatto un anno di ragioneria e poi me ne sono andato».

    Queste risposte, significative di tante altre non riportate, recano un importante contributo alla nostra riflessione. Ci dicono, senza mezzi termini, che l'esigenza di frequentare una scuola che prepari al lavoro si accompagna alla necessità di frequentare una scuola «abbordabile», che sia cioè «facile, breve ed economica».
    I giovani scelgono i CFP anche perché appare una scuola a loro misura... A misura di chi confrontandosi con altri corsi di studi è costretto ad alzare la bandiera bianca della resa; di chi di fronte ai tanti anni di studio non ha una condizione economica e familiare in grado di sostenerne l'onere; di chi si definisce «con poca volontà», «non fatto per studi teorici e lunghi»; di chi deve cominciare a guadagnare subito per «sostenere la famiglia»; di chi si etichetta come «pratico»...
    Sono affermazioni che al registratore oscillano dai toni dell'amaro a quelli della spavalderia. Un misto tra chi si sente ridimensionato e chi ridimensiona corsi di studi più lunghi col miraggio di un posto di lavoro subito e ben retribuito.
    Aldilà del tono più o meno costruito, le interviste denunciano una situazione di fatto: questi giovani scelgono un tipo di scuola che potrà avere uno sbocco professionale concreto, ma che di fatto impedisce obiettivi più ampi. Questi giovani cioè sono figli di una selezione già avvenuta. E avvenuta purtroppo senza che essi ne siano coscienti, senza che essi riescano ad intravvedere queste conseguenze.

    La serietà della scuola privata

    Il terzo motivo di scelta dei CFP è «la scuola privata». I giovani dei CFP sono consci della differenza esistente tra questo tipo di scuola e quella pubblica. Qui si può respirare un clima di serietà irreperibile altrove. I due motivi addotti in precedenza e con maggior intensità, sembrano essere condizionati dalla serietà del tipo di scuola. Perché la scuola prepari direttamente al lavoro non basta un CFP qualunque. Occorre una scuola che qualifichi, che sia dotata delle attrezzature necessarie, che sia considerata dalle aziende... Altrimenti la scuola «facile, breve ed economica» non sarebbe più tale... Perderebbe lo scopo per cui la si è scelta. Che è quello di una valida qualificazione in vista di un concreto posto di lavoro.

    «Dai Salesiani si studia bene. Ci sono alcune cose che non vanno... Magari la disciplina è troppa. Però so che in questa scuola posso avere una qualifica che merita. Per andare altrove a fare degli scioperi e scaldare i banchi, è meglio venire qui e ottenere qualcosa di concreto».
    «Come lavoro noi sappiamo di essere preparati più di tanti altri posti. Abbiamo più ore di laboratorio, i migliori insegnanti che ci sono sul mercato. E impariamo veramente a lavorare».
    «La qualifica di litografo la danno anche da altre parti. Ma l'insegnamento lì è un po' scarso».
    «Qui mi hanno mandato i miei genitori perché dicono che è una scuola seria, non si fanno scioperi...».
    «Quello che conta è che questa scuola ha una certa reputazione presso le fabbriche e le industrie. E il posto si trova. Anche i miei genitori sanno che in altre scuole ci sono scioperi. mentre qui sono sicuri che si studia».
    «Abitando vicino a una scuola statale mi sono reso conto che non si faceva niente. Allora sono venuto in questa».
    «Sapendo poi che i salesiani si interessano del ragazzo non solo quando è all'interno dell'istituto ma anche quando lo lascia. Si interessano della vita che svolge nell'ambiente della fabbrica».
    «Ho lasciato la scuola media superiore che frequentavo perché c'era un caos enorme».

    Questi flashs evidenziano un concetto di serietà articolato. Dove non solo c'è l'accento sulla quantità e qualità dell'insegnamento. Anche una disciplina funzionale all'insegnamento e all'apprendimento viene accettata. La mancanza di scioperi, di assemblee, di cortei, e di tutte quelle manifestazioni che fanno da normale cornice alla scuola pubblica, viene considerata come requisito positivo a vantaggio della scuola privata. La quale poi, proprio perché incontaminata da forme di protesta e di partecipazione deleterie, e perché efficacemente organizzata, costituisce la migliore garanzia per poter trovare un posto di lavoro. Il suo volto infatti sembra assai credibile presso le aziende. L'assistenza che la scuola privata può fornire nel trovare un posto in fabbrica sembra in continuità con lo sforzo della scuola di qualificare e specializzare i giovani dei CFP.

    La pressione dei genitori

    Sulla scelta della scuola privata incide però molto il peso dei genitori. Con ciò non si vuole affermare che la famiglia si faccia sentire solo a questo livello. Si è già accennato in precedenza come dalle interviste dei giovani emerga l'importanza del condizionamento della famiglia sulle scelte scolastiche dei figli. È un discorso implicito, tra le righe, ma non per questo marginale. Qui si vuole solo mettere in risalto quanto sia esplicito nelle dichiarazioni di parecchi giovani il peso dei genitori circa l'orientamento verso un CFP privato, tenuto da religiosi. Palesando una fiducia verso la struttura privata che si è chiaramente persa nei confronti
    della pubblica. E in effetti anche i giovani stessi sembrano confermare con propri giudizi la validità della scelta e la bontà della fiducia che i genitori ripongono in questo tipo di scuola.

    Conclusioni

    Dall'analisi delle interviste dei giovani che frequentano i CFP sono emerse alcune chiare tendenze. Le riprendiamo per meglio esplicitarle e per ricavare alcuni spunti che ci forniscono una più valida chiave di interpretazione delle attese che í giovani dei CFP hanno nei riguardi della scelta scolastica.

    Scelta condizionata

    Da quanto è stato osservato i giovani dei CFP sono piuttosto «passivi» nello scegliersi un corso di studi. Risultano cioè condizionati dalla propria posizione sociale, dalla famiglia. Inoltre ripiegano in un corso di studi che intravvedono più concreto e più adeguato ai propri mezzi. Il mito delle inclinazioni personali, anche se qua e là sembra fare capolino, è comunque decisamente dietro le quinte. Talvolta viene esposto più come copertura di alcuni ripieghi che come scelta maturata in positivo. E questo pare già un dato abbastanza significativo. Non è che tra í motivi che spingono i giovani a scegliere il CFP non vi sia anche, per alcuni, il desiderio di un corso di studi che possa appagare le proprie inclinazioni. Ma questa motivazione nell'arco di tutte le altre risulta debole. I motivi per cui i giovani dei CFP scelgono questo tipo di studi si possono indicare in quest'ordine di decrescente importanza:
    1. scuola che prepara direttamente al lavoro
    2. scuola più «abbordabile» (più facile, più breve, più economica)
    3. scuola «seria»
    4. pressione dei genitori
    5. corso di studi in continuità con inclinazioni personali.
    È chiaro a questo punto che ci si trova di fronte a una scelta condizionata. Che non nasce principalmente per soddisfare propensioni personali, ma che è invece soprattutto imposta da una serie di fattori importanti. E in questo ordine di motivazioni non deve ingannare il penultimo posto riservato alla «pressione dei genitori». Nelle dichiarazioni dei giovani questo fattore ha avuto meno peso di altri. Però, a livello implicito, sappiamo che sta alla base della scelta di una scuola che possa garantire al giovane un posto di lavoro immediato e ben retribuito.

    La sicurezza a tutti i costi

    Le condizioni economiche della famiglia, la situazione di generale prearietà in cui si è immersi, la costatazione delle difficoltà di trovare occhi professionali dopo la scuola, sembrano dominare le interviste dei giovani.
    Nel sottofondo di ogni intervento c'è l'urgenza di raggiungere un minimo di sicurezza sociale. Alla cui luce vengono sviluppate le altre considerazioni. Ci si trova di fronte a un modo di porre i problemi estremamente realistico. Di chi non può permettersi il lusso di ondeggiare su svariate scelte. Di chi deve fare i conti con la matrice familiare che ha alle spalle e con le cartucce che ha in riserva.
    È un taglio di aspirazioni che a prima vista può stupire ma se guardato in profondità ha la sua legittima spiegazione. I voli pindarici sono possibili a chi ha già risolto i problemi di fondo, quelli più importanti, quelli che danno la sicurezza alla persona. Se manca questa tranquillità ci si trova minati «dentro». «Corrosi».
    Sembra quindi perfettamente logica questa posizione che viene rispecchiata anche nella scelta del corso di studi.

    Il prezzo da pagare per questa sicurezza: l'adeguamento

    Forse è meno logica invece una certa vernice borghese che traspare qua e là dalle dichiarazioni. L'ideale di vita di questi giovani non sembra per nulla rivoluzionario. L'obiettivo è una posizione sociale soddisfacente, che risolva i problemi più grossi, che apra la strada alla tranquillità. La scuola è un canale per «stare bene».

    «Imparando un mestiere troverò un lavoro e starò bene».
    «Vorrei trovare un posto dove possa essere tranquillo in tutti i sensi, sia finanziariamente, sia come famiglia, e tutto... Non arrivare invece a casa stanco morto, senza poter seguire i figli...».
    «Voglio farmi una certa posizione che mi permetta di tornare a casa dopo otto ore ed essere tranquillo».

    Anche tutti i discorsi riportati precedentemente sulla bontà degli stipendi non fanno che ribadire questo concetto.
    Adeguamento realistico alle necessità della condizione sociale a cui si appartiene, questo sì. Però c'è il grosso pericolo, e questa impressione è chiara anche se dovrà essere meglio dimostrata, di un imborghesimento. I giovani, presi dalla necessità di migliorare la propria condizione sociale, evidenziano un modo borghese di porsi di fronte alla vita. Sembrano adeguarsi alle proposte di vita borghese che la società fa luccicare, senza rivelare un atteggiamento critico con cui porsi di fronte alla realtà. Si tratta del condizionamento più profondo. Presi alla gola dall'esigenza di sicurezza non riescono a vedere a quale prezzo questo gradino sia accessibile. Oppure lo vedono e lo condividono.

    Fin dove si spinge l'integrazione sociale

    Nel tentativo di giustificare la loro scelta di studio alcuni giovani intervistati sembrano accettare una divisione estremamente semplificata della società: tra quelli che hanno voglia di studiare e chi non ce l'ha, tra i professionisti e gli altri strati sociali, tra chi è fatto per la progettazione e chi è fatto per l'esecuzione.

    «Se ad uno piace studiare allora è fatto per lo studio. Se uno invece è un "ribelle", gli piace andare in giro, allora è meglio che si orienti in una scuola di questo tipo. I giovani qui fanno sei ore, studiano qualcosa e poi stanno sempre in giro».
    «La voglia di diventare ingegneri ce l'hanno tutti, di per sé. Solo che per arrivarci bisogna studiare. E allora si ripiega».
    «Ci sono dei ragazzi non portati per continuare cinque anni la scuola».
    «Il ragazzo che viene in questa scuola è più portato al lavoro che allo studio».

    Si tratta di una divisione in categorie sentita come ineliminabile. Come una barriera reale, effettiva, quasi legata alla natura delle cose. Accettata perché naturale.
    Nell'atteggiamento di una persona che di fronte alla realtà è convinta di doversi adeguare piuttosto che assumere una posizione critica. Non ci si chiede cioè quali cause stiano alla base della «non volontà», perché ad uno possa venire la vocazione dell'ingegnere e ad un altro la «vocazione» dell'operaio, se questo ordine sociale sia giusto nelle sue divisioni e nei suoi privilegi.
    È un atteggiamento diffuso nelle interviste. Molti giovani sembrano accettare un certo ruolo subordinato che la società loro propone. O perlomeno non preoccuparsene molto, nel tentativo di raggiungere la sicurezza sociale. Addirittura sembrano costruirsi una copertura ideologica alle loro scelte.
    Credere innate certe caratteristiche alla praticità per sminuire l'importanza dell'apporto teorico. Sottolineare la difficoltà occupazionale dei laureati-diplomati per coprire la differenza di anni di istruzione tra loro e i compagni che proseguono gli studi.

    Una funzione integratrice della scuola?

    Da tutte queste impressioni assume una luce problematica l'atteggiamento verso «questi» CFP. È una scuola che si accetta, che si stima per la capacità-possibilità di qualificare e per la sicurezza dello sbocco professionale che lascia presagire. Il carattere «serio» della scuola è legato a questi concreti motivi.
    Si tratta pertanto di una «serietà» e di una qualificazione funzionali al reperimento di un posto di lavoro soddisfacente. Funzionali al miglioramento della propria posizione sociale, allo stipendio, alla vita sicura. Anche in questo caso non viene considerato il prezzo da pagare per il raggiungimento di questo obiettivo. La scuola non viene valutata per i contenuti che passa o per i metodi che propone, quanto per la facilità son cui può farti raggiungere l'obiettivo finale. È un po' la legge del comprare a scatola chiusa. Con lo sguardo al risultato, al prodotto finale, senza troppi perché sul come questo obiettivo possa essere raggiunto, sulle conseguenze di questa «delega» sull'atteggiamento futuro delle persone.
    Questi CFP, così cose sono gestiti educativamente, sembrano essere, in sostanza, un canale di integrazione sociale. È una percezione da verificare attraverso gli altri canali di rilevamento. E lo faremo nelle pagine che seguono.

    Una precisazione

    A questo punto è necessaria una precisazione. Si è cercato di fare un'analisi in generale, evidenziando le principali tendenze che potevano emergere dalle interviste. Alcune delle impressioni avute hanno un carattere più generale di altre. Si applicano cioè a più giovani intervistati. Nelle pieghe del discorsi si è cercato di mettere in evidenza il grado di estensione delle nostre affermazioni. In questo quadro occorre però ancora precisare come a seconda delle caratteristiche del campione vi siano delle differenze nelle attese dei giovani nei confronti del CFP.
    In particolare sembra che parecchi giovani dei CFP del Nord considerino questo tipo di scuola come un passaggio per il conseguimento di un titolo da perito. Una tappa intermedia, che permette loro di prendersi una qualifica, che non è fine a se stessa. Ma trampolino di lancio per il zonseguimento di un titolo più alto. Nelle attese dei giovani del Sud, in genere, non c'è questo calcolo. Il raggiungimento della qualifica non sembra prevedere un proseguimento degli studi. C'è un orientamento più deciso verso un immediato posto di lavoro.
    Mentre i giovani del Sud sembrano rivelare pertanto l'urgenza più acuta di trovare un posto di lavoro, i giovani del Nord paiono immersi in una logica più ampia. Di chi mentre cerca di ottenere un risultato non perde di vista una qualificazione ulteriore. Gli uni cioè sembrano meno condizionati degli altri.
    Questa precisazione ha lo scopo di rendere un po' più specifiche le osservazioni fatte in precedenza, di rendere meno generiche le impressioni. Anche se quanto detto in precedenza continua a mantenere inalterata la sua validità.

    LA COSCIENZA DELLA PROPRIA POSIZIONE E DEL PROPRIO RUOLO SOCIALE

    I giovani dei CFP rivelano un atteggiamento contraddittorio. Da una parte si ritengono fortunati per l'occasione che a loro si presenta di un corso di preparazione professionale che li immette nel mondo del lavoro e del guadagno. Dall'altra dimostrano che la loro è una scelta per ripiego o che comunque preclude tante altre vie professionali. C'è un misto di pro e contro in questa oscillazione. Non frutto di una situazione a tavolino. Ma le cui radici sono forse da riscontrare nella contraddittorietà della realtà sociale, di cui questo può essere un piccolo riflesso.
    Sarebbe interessante sapere con quanta coscienza i giovani vivano questa contraddizione. O perlomeno se siano frustrati in alcune loro aspirazioni; se nei loro atteggiamenti predomini la precarietà rispetto alla sicurezza della posizione sociale. È quanto cercheremo di fare analizzando se i giovani dei CFP denotino nei confronti dei compagni che hanno proseguito gli studi un senso di inferiorità.

    Il confronto con i compagni che proseguono gli studi

    Offriamo una carrellata di opinioni dei giovani dei CFP che si confrontano con i loro compagni che hanno proseguito gli studi. Sono immagini diversificate. Le prime impressioni dettate da questo paragone, sfornate a caldo, non ancora sedimentate.
    Aldilà di questa immediatezza rivelano però un modo ricorrente di porre i problemi, di chi già altre volte si è trovato di fronte all'interrogativo, di chi si è già chiesto, magari spinto dai fatti, qual è il senso della sua immagine di giovane che si prepara ad un lavoro immediato.
    Per essere sintetici abbiamo scelto alcune interviste-flash. Quelle che meglio interpretavano il pensiero della media dei giovani che si sono espressi su questo punto.

    «Tra noi e i nostri compagni che hanno proseguito gli studi non c'è alcuna differenza. Non è stata una scelta loro. C'è chi ha la possibilità e si trova inserito nella scuola. Non sa nemmeno lui il perché».
    «Non c'è alcun disagio tra noi del CFP e i nostri amici delle superiori. Loro portano avanti un certo modo di vedere le cose. Noi il nostro. Tra di noi ci si vede. Non è cambiato nulla. Parliamo dì sport, ma di scuola non si parla. Tanto io che loro andiamo per andarci...».
    «Se un amico sceglie un altro tipo di studi, tra i due nasce più amicizia. L'uno sa qualcosa che l'altro non sa. Si impara a vicenda. lo un po' di cultura, lui qualcosa di pratico».
    «Se si pensa che siamo amici non esiste nessuna differenza».
    «lo ho amici che hanno preso altri studi che si sentono superiori. Senza sapere che noi quando finiremo il CFP avremo un lavoro e loro invece no».
    «Noi pensiamo di essere uguali. Per loro forse è diverso».
    «Che loro ci credano dei falliti, perché fanno cinque anni, sì, è vero».
    «Per me non è vero che ci guardino dall'alto in basso. Anzi, alcuni ci invidiano. C'è gente che studia e studia e non ha in mano nulla».
    «Non penso che ci sia grande diversità. Perché loro possono anche diventare dottori però come personalità umana non hanno niente. Noi, grazie a questa scuola privata. siamo stati formati oltre che scolasticamente anche come persone».

    Dall'analisi approfondita di questi e altri analoghi interventi emergono le seguenti indicazioni:

    – i giovani dei CFP emettono una dichiarazione di uguaglianza; dichiarano cioè di sentirsi uguali ai loro compagni che hanno proseguito gli studi;
    – denunciano però, nello stesso tempo, un clima di scarsa considerazione nei loro riguardi da parte dei coetanei delle «superiori»; è un clima di sufficienza, di superiorità che sembrano soffrire;
    – ammoniscono i loro compagni studenti sulla possibilità che la loro «superiorità» si tramuti, un domani, in uno svantaggio professionale a causa della difficoltà di trovare un posto di lavoro nonostante la laurea e il diploma;
    – si consolano pensando che i CFP (a loro avviso) danno una preparazione scolastica ed umana qualitativamente superiore a quella delle altre scuole.

    Non è che i giovani dei CFP facciano emergere omogeneamente queste indicazioni. Alcuni sottolineano più un aspetto, altri si soffermano più su una diversa dimensione. Però, tutto sommato, è questa l'impressione che se ne ricava.
    I giovani dei CFP sembrano aver preso sul serio la domanda loro rivolta. Non l'hanno subita passivamente. La risposta articolata da loro espressa fa intendere che si tratta di un problema sentito. Il confronto con gli altri, il misurare «spalla a spalla» le possibilità di riuscita professionale, o la bontà di certe scelte, è una dimensione importante per l'immagine professionale di ognuno. Neanche in questo caso la considerazione degli altri sembra marginale per la propria soddisfazione professionale.

    Emerge la coscienza dell'uguaglianza o trapela una preoccupazione implicita?

    Tentiamo di tirare le fila delle osservazioni che man mano abbiamo introdotto.
    A livello esplicito molti giovani dei CFP negano di vivere una situazione di inferiorità nei confronti dei loro compagni che hanno proseguito gli studi. Sono preoccupati di sottolineare l'uguaglianza, i tanti compensi che una scuola che prepari direttamente al lavoro riserva a chi la sceglie e le molte incognite che attendono al varco della vita chi attualmente prosegue gli studi e va ad ingrossare l'esercito dei laureati-diplomati disoccupati.
    Nonostante tutto, questi giovani sembrano fiduciosi della loro scelta. La costatazione che molti giovani della loro età li ritengono culturalmente e socialmente inferiori sembra non incidere aldilà di un immediato risentimento. Ma proprio questo andirivieni di considerazioni, proprio questo accavallarsi di impressioni in prima persona e riportate, questo soffermarsi a soppesare al rallentatore i vantaggi che derivano dalla loro scelta, sembrano palesare una posizione di inferiorità mal celata. Una preoccupazione di fondo che mina tutti i ragionamenti. La consapevolezza implicita, che sembra crescere man mano che il discorso procede, di essere in una situazione di subordinazione con cui a lungo andare bisogna fare i conti. Di cui non ci si può illudere.
    E questa preoccupazione si manifesta

    – nel tentativo che i giovani dei CFP mettono in atto per «compensare» la propria posizione sociale;
    – nell'accento che viene messo sulla preparazione concreta e sul poter lavorare e guadagnare subito rispetto a chi è ancora impegolato negli studi senza una garanzia professionale;
    – nell'accento sulla validità della formazione che possono ricevere in quanto sono in un ambiente salesiano, un ambiente considerato «serio», significativo dal punto di vista educativo;
    – nel desiderio di avere anch'essi un po' di cultura che li «compensi»;
    – nel timore che la disuguaglianza si accentui col passare del tempo.

    L'immagine che i giovani dei CFP hanno di sé sembra già abbastanza delineata. Da una parte, a livello esplicito, si dichiara «l'uguaglianza» coi propri coetanei studenti. Dall'altra però, nasce l'impressione che in realtà i giovani in questione «soffrano» e palesino già un senso di inferiorità.
    Le interviste effettuate ci danno però la possibilità di meglio focalizzare questo argomento. Altri punti infatti permettono di evidenziare i campi in cui i giovani dei CFP si sentono carenti o avvertono un senso di inferiorità nei confronti dei loro compagni.

    La diversità di «linguaggio»

    A livello esplicito questa diversità viene avvertita anzitutto nel «linguaggio».

    «Da un punto di vista di colloquio c'è differenza».
    Magari noi ci troviamo a disagio nel parlare. Questo fatto cambia un po' i nostri rapporti di amicizia. In questa scuola il direttore ha cercato di mettere delle ore in cui ci rende un po' più uguali a loro».
    «Mi sono sempre trovato abbastanza bene. Solo che a volte i miei amici dicevano parole che ìo non riuscivo a comprendere bene. La mia cultura sa di elettromeccanica. non di Omero o di Dante».
    «Culturalmente c'è una differenza. Loro sono molto preparati nelle materie letterarie. È il loro mestiere. Ho un amico che fa il classico e noto la diversità tra il suo parlare e il mio».

    Non si tratta solo di dire che alcuni giovani dei CFP avvertono di non potersi esprimere come i loro amici che hanno proseguito gli studi. Né che guardano ad un'istruzione che cerchi di colmare queste lacune. Sono osservazioni troppo ovvie.
    Dietro questo atteggiamento si nasconde la convinzione che ciò che è
    importante è un certo tipo di linguaggio, un determinato cliché di parole... In altri termini alcuni giovani intervistati sembrano guardare con aspettativa a forme di una cultura che non deriva dalla loro condizione sociale, sembrano chiedere a prestito ad altri strati o ad altro tipo di formazione un certo modo di esprimersi.
    La nostra è un'intuizione. Il discorso ovviamente non può essere troppo esteso, troppo generalizzato. Non siamo in grado di dire se questo sguardo pieno di aspettativa si estenda anche a livello di valori, di forme di comportamento. Né possiamo fare un bilancio tra queste forme di inferiorità riconosciuta e le dichiarate dimensioni in cui i giovani CFP si sentono superiori (o comunque uguali) per mettere in risalto se prevalga in essi l'una o l'altra forma di coscienza.
    Ci si trova comunque di fronte ad un'indicazione che non può nemmeno essere ridimensionata o negata. E che unita a tante altre può fornirci la chiave necessaria per comprendere l'atteggiamento dei giovani dei CFP nelle loro attese e nelle loro scelte.

    Il diverso grado di coscienza di appartenere ad uno strato sociale subordinato

    Ma il senso di inferiorità non si ferma per alcuni giovani a questo livello. Una parte delle interviste infatti affronta decisamente il problema dell'influsso che la condizione sociale ha nella scelta della scuola e quindi della professione. E dimostra di maturare una coscienza sociale propria di chi non è d'accordo con un certo sistema di valori, di chi ricerca a livello sociale le cause delle disuguaglianze che vive in prima persona.

    «Il solco tra operai e professionisti diventerà sempre più grosso. Loro saranno ingegneri, noi operai semplici. Hanno sempre una qualifica maggiore della nostra. Sono sempre più rispettati di noi».
    «In Italia c'è una mentalità sbagliata. Chi studia ad alto livello, quello sì che è una persona che vale e che può. I poveretti che non riescono a studiare, che entrano in un CFP sono sottovalutati. Quelli sono solo operai, sono scartati».
    «Nel mio caso mio padre è contadino. lo sarò operaio. Per un motivo anche storico, perché io non ho una famiglia benestante. Il motivo è economico. Se lo stato e altri enti riuscissero a fare la scuola senza dover far pagare tanti libri e tasse perlomeno avrei intrapreso una scuola diversa».

    «Tutti abbiamo la possibilità di fare qualsiasi scuola e continuare. Ci sono però motivi finanziari che lo impediscono. Ma anche altri motivi. Perché il figlio di avvocato, diventato avvocato, è più facile che trovi un posto. Più facilità di raccomandazioni rispetto ad un avvocato figlio di contadini...».
    «lo non ho mai trovato figli di persone benestanti che siano andati a fare istituti professionali. È la mentalità dei genitori che non vogliono mandare i figli a studiare con i ceti bassi della società. È una distinzione di classe».
    «I professionisti spingono i figli a studiare, a diventare ingegneri, avvocati... Per non sentirsi umiliati».

    In queste interviste le tensioni principali derivano dalla coscienza di un principio di uguaglianza tradito. I giovani prendono coscienza che il principio di diversificazione è solo agli inizi e destinato in continuità ad estendersi. Non viene ipotizzata una blanda convergenza, né una bonaria soluzione di questa diversificazione.
    In un'ottica che ha ancora solo il sapore della denuncia e che deriva da una fresca e bruciante scoperta, questi giovani dimostrano un modo omogeneo e significativo di porsi di fronte al problema. Non si tratta più solo, come dicevamo in precedenza, di una tendenza che trapela implicitamente dal discorso dei giovani. Che si legge tra le righe e di cui i giovani non sembrano aver diretta coscienza. Questi giovani infatti sembrano maturare in embrione la coscienza di appartenere ad un mondo diverso da quello che è normalmente riconosciuto. La coscienza di appartenere ad uno strato sociale destinato ad un ruolo subordinato nella società. Queste osservazioni però non si possono estendere a tutti i giovani. Solo una fetta di essi, infatti, ci ha lasciato l'impressione di essere coscienti di appartenere ad uno strato sociale molto condizionato. Un'altra fascia di intervistati si dimostra invece ben lontana da queste posizioni.

    «lo penso che senza l'ingegnere non si fa nulla, ma anche senza l'operaio. Quindii ci vogliono per forza tutti e due».
    «Se si riesce a dividere le due cose, cioè in fabbrica lui sarà ingegnere e io operaio, lui i suoi diritti-doveri, io i miei, e fuori fabbrica se si riesce a conservare l'amicizia vecchia... penso che non ci saranno ostacoli. Se due si capiscono, sono stati insieme per parecchio tempo, penso che l'amicizia possa continuare».
    «In fabbrica non è che l'ingegnere per fare vedere che lui è ingegnere va a stuzzicare in tutti i modi l'operaio... L'ingegnere ci sta perché ci deve stare, ma non è che si metta dietro le spalle pronto a colpirti... Anche perché dopo credo è che per un operaio non sia difficile, se ci sa fare, alzarsi un pochettino».
    «Non c'è un grande divario perché in una società come questa siamo praticamente sullo stesso livello. Sì, lui è un gradino più alto. Per cui in fabbrica lui sarà ingegnere e io operaio... Però non credo che si instauri un clima da caserma, signorsì, signorino. E fuori penso sia la stessa cosa. Non penso che perché lui è 'ingegnere le cose cambino. Un po' di dislivello ci sarà sempre, comunque. Lui sederà di essere più importante».
    «Gli ingegneri hanno studiato più di noi: è logico che ci sia differenza».

    Ciò che colpisce dalla lettura di queste dichiarazioni non è tanto che una certa fascia di giovani accetti di fatto la divisione del lavoro o la funzione complementare costituita dai tecnici che programmano e dagli operai che eseguono. Sarebbe eccessivo pretendere che i giovani riescano ad intravvedere questi problemi di fondo della società e che possano già aver maturato un preciso orientamento al riguardo.
    Ciò che lascia ancora una volta perplessi invece è l'atteggiamento attraverso cui questi giovani sembrano accettare l'integrazione in questo tipo di società. Ed è un'impressione che sommandosi a quelle denunciate in precedenza, evidenzia, almeno per un certo numero di questi giovani, una tendenza piuttosto radicata.
    Le stesse immagini usate dai giovani «l'operaio deve alzarsi un pochettino» indica l'accettazione dei modelli di vita, dei valori che questa società promuove. L'accento infatti non è messo su un modo diverso di vivere e gestire il ruolo dell'operaio, su una forma di partecipazione che rifiuti il principio della delega di altri a decidere in molte sfere di propria competenza e che fondi la possibilità di intervenire coscientemente nel proprio lavoro e nell'organizzazione della vita sociale. In luogo di queste prospettive viene invece spolverata la soluzione dell'amicizia personale come rimedio e superamento di tutte le divergenze e le stratificazioni di questo tipo di società. Che così facendo si accettano.

    I GIOVANI DI FRONTE AL MONDO DEL LAVORO

    La necessità di lavorare

    L'ottica con cui i giovani dei CFP guardano al mondo del lavoro risente da vicino di quel clima di realismo condizionato che informa tutte le loro scelte. Non sono e non possono essere distaccati nel pensare al mondo del lavoro. Lo vedono come una meta che occorre raggiungere, a cui è necessario arrivare. Non come un traguardo che si può rimandare, o un tragitto di cui si possono scegliere diverse modalità.
    Le condizioni socio-economiche incalzano anche le attese in questo campo. Queste riflessioni aiutano forse a capire perché alcuni giovani dei CFP, parlando del mondo del lavoro, preferiscano mettere in risalto anzitutto la necessità di lavorare più che valutare il modo di lavoro o il clima interno. Questi giovani partono da una filosofia del lavoro che ha il potere di smorzare o di lasciar intravvedere solo parzialmente o in un secondo tempo le difficoltà del mondo del lavoro.
    Una concezione del mondo del lavoro che limita i problemi al processo di «ambientamento» e che di fronte alle intuibili difficoltà di fondo di una certa organizzazione del lavoro rispolvera un atteggiamento di chi pensa che certi fenomeni siano ineluttabili e pertanto non sia necessario saffermarvisi o metterli in discussione.

    «Penso di trovare un posto di lavoro, di guadagnare quel tanto da mettere su».
    «Spero in un lavoro che sia redditizio e vicino al mio paese».
    «Il lavoro è un'esigenza di vita».
    «Uno che non ha voglia di lavorare, che non ha iniziativa e voglia di esprimersi, vede il lavoro come una cosa dura. Non è abituato a lavorare».
    «Penso che quando uno ha finito il CFP va in fabbrica come apprendista. Qui lo mettono con qualcuno che gli insegni il mestiere. Così poi fa il suo lavoro normale».
    «Credo che quando si entra in fabbrica non bisogna domandarsi come è questo costo, come sono quelli che mi stanno intorno. Penso che per i primi mesi l'unica cosa a cui si deve pensare sia il lavorare senza guardarsi troppo intorno. Perché se si entra bene nei primi mesi dopo non si hanno più tanti ostacoli da superare».
    «In una nuova mansione ci sono sempre difficoltà di ambientamento. Però dopo ci inseriremo anche noi come tutti gli altri. Poi ci si abitua e si va avanti».
    «Il primo giorno di scuola è come il primo giorno di lavoro».

    L'inserimento nella società avviene con l'ingresso nel mondo del lavoro

    Non stupisce quindi che in quest'ottica, integrata poi da altre motivazioni, parecchi giovani intervistati giudichino positivamente il mondo del lavoro. Per questi giovani il poter lavorare è un punto di arrivo sperato e sognato nella prospettiva di una definitiva sistemazione professionale ed umana. Non è solo una questione di guadagno. Dietro allo stipendio e all'indipendenza economica c'è l'obiettivo di iniziare una vita in cui si è responsabili in prima persona, in cui si possono intraprendere e gestire delle scelte autonome.
    Il «trovare una ragazza» non viene visto come una giovanile emancipazione, ma come il gradino primo di quell'ascesa personale che porterà il giovane ad una vita normale. Fatta di famiglia, di figli, di stabilità sociale... E in questa dinamica, l'obiettivo del posto di lavoro è alla base di tutte le attese, di tutti i progetti.
    Nel momento in cui pensano alla propria personale realizzazione alcuni intervistati sembrano anche vivere un confronto con i loro compagni che hanno scelto un corso più lungo di studi. L'ingresso nel mondo del lavoro significa per essi anche un momento di rivalsa rispetto ai compagni ancora studenti. Una «resa dei conti» che può in qualche modo «saldare» certi atteggiamenti di presunta sufficienza nei loro confronti, certi comportamenti discriminanti.
    Ma aldilà di questo sapore di rivalsa parecchi giovani dei CFP giudicano positivamente il mondo del lavoro perché pensano di potervi concretamente dimostrare le proprie capacità e la propria qualifica professionale. Fa nuovamente capolino l'istanza di interesse che era presente nelle motivazioni di scelta dei CFP. Le attitudini personali, dopo il periodo di necessaria qualificazione, troveranno finalmente uno sbocco al momento dell'ingresso nel lavoro. Sarà da una parte una verifica, dall'altra la consapevolezza di poter operare in un campo vicino alle proprie inclinazioni, a quel «fare concreto» e «in campi che piacciono» per cui molti di questi giovani si sentono chiamati.
    In ultima istanza, dietro diverse motivazioni, parecchi giovani giudicano positivamente il mondo del lavoro perché rappresenta il canale di inserimento nella società. E il momento dell'emancipazione. L'unico momento in cui il giovane si accorge di «contare», di essere preso in considerazione, di essere rispettato.
    «Vediamo questo mondo del lavoro come la nostra sistemazione per la vita. Il momento in cui affrontiamo la società. Ci formeremo una famiglia. È il nostro domani, il momento in cui pensiamo a noi stessi.
    Lo vediamo quindi dal punto di vista buono e anche cattivo; buono perché ci sistemiamo, cattivo perché dobbiamo anche lavorare, la vita non è fatta solo di piaceri ma anche di sofferenze».
    «Sarà un luogo dove se tu saprai fare il tuo lavoro tutti ti rispetteranno. Anzitutto sarai messo a lavorare e questo è già un passo avanti. E poi spetterà a noi renderci utili, farci valere».
    «Quello che abbiamo costruito in questi due anni imparando il mestiere, lo dobbiamo portare nella vita per ampliare sempre quanto abbiamo appreso».
    «Noi qui a scuola siamo già tutti ambientati; abbiamo già un grado di amicizia coi professori. Andando nella fabbrica noi troveremo sempre qualcosa di nuovo. Gente che non conoscevamo. Tutto sta nell'ambientarsi. All'inizio sarà dura! Dopo ambientato uno ha raggiunto il suo scopo e cercherà di proseguire sempre per la sua strada».

    I giudizi negativi sul mondo del lavoro

    Le indicazioni precedenti rischiano di metterci su una pista errata, o comunque di spingerci verso conclusioni affrettate. I giovani intervistati non sono tutti ottimisti. Non guardano al mondo del lavoro solo dopo aver inforcato gli occhiali «buoni», con le lenti colorate che attenuano gli aspetti spigolosi o i contrasti di luce presenti nel mondo del lavoro. I giudizi positivi sono stati dati da una fascia di giovani, non da tutti. E poi anche questo gruppo di giovani, ha giudicato positivamente il mondo del lavoro per il significato generale che può rappresentare per la loro vita, ma ha modificato in parte questa valutazione quando il discorso si è fatto più concreto, quando si è cominciato a descrivere l'ambiente e la logica del mondo del lavoro.
    Con questa precisazione non si vuole ancora dire che i giovani dei CFP riescano a leggere bene, a fondo, con un metodo di analisi efficace, la realtà del mondo lavorativo che li attende. Sotto forma dí interrogativo questo problema lo troveremo al fondo di questa analisi del pensiero dei giovani. È l'interrogativo focale che ci poniamo e a cui tentiamo, introducendo una serie di articolate considerazioni, di dare una risposta. Qui si vuol solo affermare che i giovani intervistati non hanno suonato solamente una campana, non hanno fatto uscire dalla loro visione del mondo del lavoro soltanto una nota positiva. La maggioranza di essi infatti ha espresso un modo negativo di valutare l'ambiente di lavoro.

    «I motivi della difficoltà in fabbrica penso siano l'egoismo, l'individualismo, il voler far carriera, non trascurando modi ingiusti per guadagnare e lavorare meno».
    Nel mondo del lavoro ognuno pensa ai suoi interessi. Quindi ci sono discordie tra operai».
    «Orrendo. Pensando al clima interno, tra operaio e operaio... A lavorare c'è invidia reciproca, tanto da voler plantare lì tutto e andarsene via».
    «Penso che l'inserimento sarà duro. Se si va in una fabbrica grande; c'è la corsa per il posto, non c'è più il dialogo nemmeno tra operaio ed operaio. Per il fatto dei soldi, del posto migliore, tante cose... Ci sono anche scontri nella fabbrica stessa ma non tra datori e operai, ma tra operai stessi...».
    «Queste faccende però non sì riscontrano solo nell'ambiente di lavoro ma anche nella mia classe: durante il compito in classe si pensa solo a fare il proprio dovere. L'egoismo c'è dappertutto».
    «Uno che entra dentro alla fonderia (mio padre è alle colate, sta al caldo) cerca un modo per sfogarsi. L'unico modo è quello immorale... Non è solo egoismo. Bisogna considerare le condizioni in cui uno è, in cui uno deve vivere».
    «Ma anche se mio padre fa capire che il padrone sbaglia, questi ha sempre il coltello dalla parte del manico e fa quello che preferisce lui».
    «La struttura è da cambiare e nello stesso tempo c'è anche l'egoismo che prevale. Però io direi che è molto di più l'egoismo che le strutture. Le strutture si possono anche cambiare. Invece l'egoismo è difficile. Bisogna cambiare la mentalità di molte persone».
    «Non c'è una solidarietà tra gli operai».

    Egoismo, individualismo, isolamento, anonimato, sfruttamento, favoritismi... La lista potrebbe continuare e riflettere le tante dimensioni negative che gli interventi dei giovani vogliono denunciare.
    una denuncia che rivela un modo ristretto di impostare il problema delle cause negative del mondo del lavoro. I giovani infatti intravvedono queste cause soprattutto a livello individuale. Sotto accusa c'è l'egoismo dell'uomo, la natura stessa dell'uomo, la sua cattiva volontà di operare nelle relazioni con gli altri. Solo nel sottofondo, e presso pochi, c'è la considerazione di conseguenze negative dovute ad una certa organizzazione del lavoro, degli influssi che l'ambiente operaio con le sue divisioni e le sue leggi può avere sugli atteggiamenti degli operai stessi. L'ottica dei condizionamenti della struttura lavorativa non sembra essere molto presente nell'orizzonte culturale di questi giovani.
    Ci troviamo di fronte ad un'indicazione «forte», assai importante. Che può costituire un passaggio chiave nell'interpretazione della mentalità dei giovani dei CFP. Infatti uno degli indicatori più validi per mettere in evidenza il grado di sensibilità sociale delle persone, è rappresentato dal modo di impostare l'analisi della società. Proprio perché l'atteggiamento critico o moderato che consegue dal modo di leggere la realtà viene rispecchiato nella vita di tutti i giorni e si traduce in una forma di partecipazione.
    E questa indicazione trova una conferma importante nelle soluzioni prospettate dai giovani per «sanare» il mondo del lavoro. Ci troviamo sempre in un'ottica individualistica, in un modo di affrontare il problema che tiene conto essenzialmente dell'iniziativa dei singoli, della loro «buona volontà», nella capacità-possibilità dell'individuo di rovesciare quelle stesse situazioni che si è creato con le sue mani. La soluzione è condensata in una inversione di tendenza. Nel tentativo di creare un clima di amicizia risolutore di tutti i problemi.

    Le prospettive di soluzione degli aspetti negativi del mondo del lavoro

    L'attenzione ai condizionamenti della struttura lavorativa, se faceva capolino nel momento dell'analisi di qualche giovane, ora sembra, a livello di sbocco, quasi completamente scomparsa. Non si prende in considerazione l'importanza di operare sulle strutture per favorire una forma di partecipazione diversa nell'ambiente di lavoro, per la costruzione di rapporti meno autoritari, per un clima meno competitivo... La soluzione dei problemi sembra confinata nella costruzione di un più valido rapporto tra gli operai, in un clima di rispetto reciproco, da «relazioni sane».
    E tutto il contorno produttivo, da cui anche queste relazioni dipendono, non viene preso in considerazione.
    Il giudizio così com'è espresso, può sembrare drastico. Perciò c'è del positivo in quello che i giovani dicono. Ci sono le istanze dell'amore, della fratellanza, il desiderio di «relazioni sane» che non possono essere messe da parte, non considerate. Qui non si vuol mettere in discussione l'importanza dei valori che i giovani propongono, che essi rivendicano alla luce delle loro attese.
    Ciò che si vuol evidenziare è che i canali che i giovani propongono per attuare questi «valori» sono inadeguati. Che la stessa analisi globale dei giovani è insufficiente. Perché rischia di focalizzare l'attenzione là dove non c'è il focolaio delle cause, ma solo le conseguenze. Perché riduce su spalle singole, responsabilità che sono invece di una struttura sociale. Perché ignora in questo modo la logica di un sistema sociale che occorre mettere in discussione e rivedere se si vogliono in effetti cambiare le conseguenze.

    «Non sono tanto ottimista... Perché si sente che non c'è la fratellanza che ci dovrebbe essere. Si lavora perché si deve, perché si è obbligati. Personalmente non riesco a vedere l'uomo senza lavorare. Non riesco a concepire la vita senza darsi da fare. Si riempie la vita facendo il lavoro nel modo migliore possibile e cercando di non sbarcare, mettendo qualcosa di personale nella realizzazione».
    «Trovare un posto dove ci sia fiducia reciproca tra un operaio e l'altro. Dove si vada tutti d'accordo. Non dove ognuno fa di testa sua».

    «Un ambiente dove si rispettano i colleghi di lavoro. Non che ci sia una concorrenza tra l'uno e l'altro... Questo vorrei che fosse».
    «In fondo sono tutti esseri umani. Quindi con un lavoro di amore penso si riesca a cambiare un po'. Riuscire ad agire tra questi. Sono esseri umani, hanno dei sentimenti, un modo di vedere su cui si può far ragionare».
    «Se capito in un posto dove non c'è per nulla questa solidarietà, nel mio piccolo cercherò di metterla... In tutti i casi, anche per le lotte contrattuali, ci vuole una certa unità tra i lavoratori. Soprattutto quelli della stessa azienda. C'è bisogno di questa collaborazione. È impossibile stare nella fabbrica e ignorare tutti gli altri. lo faccio il mio lavoretto e basta. Anche durante una pausa, se c'è amicizia, ci si svaga. Se uno si mette nell'angolino, si fuma una sigaretta e si mangia un panino... L'ambiente allora è ancora più pesante».
    «Sentendo gli amici dovrebbe essere una specie di paradiso della perdizione Dove uno va lì e anche se è furbo esce fuori immorale.
    lo non penso che abbiano ragione. Se davvero è così vuol dire che l'hanno fatto loro. Se uno va dentro deciso di non formarsi in questo modo, penso che possa anche rimanere la persona che è e anche migliorarsi».
    «Se ci lasciamo trasformare in questo modo radicale, allora quella educazione che abbiamo ricevuto in questi cinque anni è andata tutta in fumo».

    La prospettiva dell'«oasi»

    L'ottica individualistica non si limita solo al modo di concepire le soluzioni a livello generale o al momento dell'analisi. In alcuni casi i giovani, di fronte agli aspetti negativi e alle difficoltà del mondo del lavoro, rivelano un atteggiamento di «fuga». Nasce la prospettiva dell'«oasi». La ricerca di un rifugio sicuro, in un posto di lavoro magari già intravvisto, che costituisce la garanzia della loro realizzazione professionale e una salvaguardia dei loro interessi.
    Questi giovani cioè sentono la necessità di un clima di lavoro che non li releghi nell'anonimato, che non li faccia sentire dei «numeri» di un ingranaggio. E vanno quindi alla ricerca di posti lavorativi che possano garantire da una parte una certa soddisfazione nel progettare e svolgere il lavoro, dall'altra un clima di relazioni umane soddisfacenti.
    Nell'attenzione a risolvere il proprio problema e nella salvaguardia di una professionalità così intesa, c'è molte volte il rischio di essere appagati di una soluzione parziale del problema senza porsi considerazioni più generali. Il rischio di trovare per sé uno spazio adeguato che tampona in qualche maniera le proprie attese e non promuove l'interessamento per la maggioranza delle situazioni che risentono più da vicino di tutta una serie di contraddizioni. Il pericolo ancora di avallare con la propria decisione, e senza averne coscienza, una certa logica del sistema sociale sempre pronta ad offrire una parvenza di soddisfazione e a lasciare inalterati i veri canali per favorire la partecipazione.
    In questa luce si comprende anche il significato delle affermazioni di quei giovani che si consolano pensando che il mondo del lavoro non è l'unica o la più importante forma di realizzazione personale, l'unica sfera di significato della vita. E un atteggiamento di ripiego. Di chi, sopraffatto dalla realtà, riesce a trovare altrove le motivazioni del proprio esistere. Se da una parte questo atteggiamento appare come un legittimo e realista meccanismo di difesa, dall'altra c'è il pericolo che diventi uno dei canali dell'integrazione sociale. Tanto, fuori, nel tempo libero, nella famiglia, si riescono a recuperare tutti quei valori che il mondo del lavoro non riesce a far vivere. Quasi che le contraddizioni che caratterizzano l'ambito lavorativo non avessero il potere di influenzare anche tutti gli altri aspetti, strutture e istituzioni di questa società.

    «Non è che il mio realizzarmi dipenda dal lavoro. Entra anche nel lavoro. Ma non credo sia quello il campo migliore per la mia realizzazione. Ha un valore abbastanza grosso perché col tuo lavoro ti guadagni la vita. Ma non è un campo per realizzarmi pienamente.
    Adesso come adesso non penso sia il lavoro lo scopo della mia vita».
    «Uno si troverà bene nel mondo del lavoro a seconda di con che spirito vi entra.
    Se comincia a crearsi le storie della fabbrica grande, della concorrenza, della difficoltà di contatto... non riuscirà mai ad aprirsi. Uno deve entrare sempre con caio spirito ottimista. Andrà bene. Parliamo, discutiamo di questi problemi. Perché dobbiamo litigare per un posto di capo officina?
    Non è solo il lavoro lo scopo della vita.
    *Cella vita ci sono altre prospettive se mi preoccupo di vivere in questa linea».
    «Un conto è lavorare all'aria aperta, un conto dentro la fabbrica.
    Si rischia di prendere le malattie professionali.
    h fabbrica si rischia di essere un ingranaggio di una macchina. Mentre fuori uno può divagarsi come vuole, sempre a lavorare. Lì c'è sempre lo stesso ritmo, lo stesso movimento. C'è il rischio di diventare degli automi».
    «Il mondo del lavoro lo vedo brutto; da una parte il datore di lavoro che mi fa lavorare, mi paga, cerca di sfruttarmi il massimo, e io non penso di riuscire a esprimere me stesso in questo tipo di lavoro. Vorrei tanto trovare il posto in una litografia dove c'è poca gente. Anche se dopo vado a far parte dell'artigianato e quindi ho alcune cose a sfavore. Il contratto ad esempio. Però preferisco perché riuscirei molto meglio ad esprimermi.
    Invece ho un mio amico incisore. Lui lavora tutto il giorno per fare delle lastre e basta.
    Non vorrei fare sempre la stessa cosa in un'industria. Anche se mi pagassero iene... Preferirei prendere meno ma fare il lavoro completamente e non sempre ripetere la stessa azione».

    Conclusioni

    Da quanto detto emerge già chiaramente l'immagine che i giovani di questi CFP hanno del mondo del lavoro. Raccogliamo le impressioni via via ricevute per meglio evidenziare le tendenze intravviste.

    Il peso costante del «realismo»

    Anche in questo caso c'è stata la conferma che il «realismo» ha avuto il suo peso nell'atteggiamento dei giovani intervistati. È una conferma importante. Anche se a doppia facciata. Da una parte può essere considerato un aspetto positivo. I giovani non rivelano nei confronti del mondo del lavoro delle attese inutili, non si prestano a facili frustrazioni che seguono di solito le prime difficoltà o la costatazione della distanza tra aspettative e realtà. Dall'altra però questo realismo, come già abbiamo ricordato, è il primo veicolo di una facile integrazione sociale. Siamo di fronte a dei giovani che non possono pensare a un mondo lavorativo diverso. Che non possono nemmeno «sperare» troppo. La loro condizione sociale chiede di inserirsi al più presto in un certo sistema di lavoro; senza badare troppo al sottile, alle condizioni lavorative, alla logica del sistema.

    Mancanza di una seria misura della realtà «lavoro»

    La lettura del mondo del lavoro si rivela decisamente debole. Sfuocata. Si tratta di un modo idillico di pensare il lavoro che confina le difficoltà al problema dell'adattamento e che ha come unica prospettiva di soluzione l'instaurare un clima di caldi rapporti di amicizia. Molti giovani riducono i problemi a un fatto di «buona volontà», al miglioramento di rapporti personali.
    Con questa sensibilità difficilmente si riesce a cogliere il fulcro della realtà sociale. Questa più che conosciuta direttamente, più che letta nelle proprie o altrui esperienze, sembra nascere dalle aspettative dei giovani stessi.

    Un'ottica individualistica

    Tutto ciò fa supporre che i giovani si muovano in un'ottica individualistica. Per essi il mondo del lavoro è anzitutto necessità di lavorare. Un campo in cui al limite si possono realizzare le proprie inclinazioni. Anche la dimensione dell'impegno, là dove è presente, non si discosta da questa logica.
    Si pensa ad un impegno per creare un clima in cui il proprio lavoro abbia un senso, in cui ci si senta meno anonimi, in cui ci sia maggior felicità. Non si guarda invece quasi mai alla realtà lavorativa come ad un campo in cui giocare una certa presenza attiva, attenta alla realtà che si vive, pronta ad intervenire per capire e modificare ove è possibile la realtà del lavoro. Una presenza che cerchi di curare la solidarietà tra tutti coloro con cui si condivide di fatto una situazione importante.

    I giovani del CFP: studenti mancati?

    C'è un ultima considerazione, che nasce dall'accavallarsi di tanti strati di impressioni.
    I giovani di questi CFP sono degli studenti mancati? Che recuperano sicurezza e identità personale nei termini in cui ambiscono e realizzano una cultura «umanistica»?
    un problema serio. Pare emergere il fatto che questi giovani non hanno coscienza di una «cultura» propria, in quanto operai. Ma abbiamo bisogno di ricorrere a prestiti sulle altre classiche culture, per sentirsi riusciti. Il problema rimbalza, evidentemente, sul contesto educativo in cui essi stanno crescendo. Ci costringe a chiedere se questo andar a prestito da altri non corrisponde ad un atteggiamento che i loro educatori non hanno ancora personalmente risolto.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

    Main Menu