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    L'incarnazione del cristianesimo nelle diverse culture



    Giuseppe Gevaert

    (NPG 1975-7/8-42)

    LA CONSAPEVOLEZZA Dl UN PROBLEMA CRUCIALE

    Il dovere di incarnarsi nelle diverse culture è diventato una fra i maggiori problemi del cristianesimo contemporaneo. Perché? Sono diversi i fatti e le ragioni che lo spiegano.
    C'è anzitutto il fatto che il cristianesimo, in Oriente come anche in Africa, non ha trovato quella diffusione che i massicci impegni missionari e la lunga permanenza di comunità cristiane in quelle regioni permettevano di aspettarsi. Molti tra i responsabili, vescovi e missionari direttamente impegnati in quelle culture, si sono chiesti se il fallimento o comunque l'insufficiente inserimento non sia da attribuire al fatto che il cristianesimo si è presentato in veste troppo europea ed occidentale, senza una adeguata sensibilità per le culture esistenti e senza profonda incarnazione nei valori, nei linguaggi e nella religiosità di quelle culture. Tale discorso è stato fatto con insistenza durante l'ultimo Concilio.
    Ma forse molti avrebbero ancora stentato a riconoscere la gravità di questo problema se, in secondo luogo, non ci fosse stata la costatazione che lo stesso problema, in proporzioni non meno drammatiche, esiste nei paesi europei, indicati tradizionalmente come paesi cristiani. Ovunque si costata un grande divario tra la tradizionale presentazione e attuazione del cristianesimo da una parte, e le abitudini, i valori, le sensibilità, il modo di pensare dell'uomo moderno dall'altra. Il meno che si possa dire è che finora il cristianesimo non si è sufficientemente incarnato nella nuova cultura così largamente diffusa nella nostra epoca. Ormai quasi tutti i paesi d'Europa sono terre di missione. Di fronte alla cultura secolarizzata il messaggio cristiano si trova spesso più distante ed estraneo che nelle culture africane e orientali, che hanno almeno una profonda matrice religiosa.
    In terzo luogo, il problema dell'incarnazione del cristianesimo nelle culture ha potuto essere riconosciuto nella sua urgenza e complessità per il fatto che è crollato il tradizionale concetto di cultura che per lunghi secoli era comunemente accettato in Europa. La cultura era ritenuta il privilegio di alcuni paesi e di gruppi ristretti in ogni paese. In altre parole, la cultura era aristocratica, pronunciatamente e unilateralmente spirituale (scienze, lettere, arte), e privilegio di una élite. Chi non aveva fatto gli studi o non apparteneva a questo cosiddetto mondo della cultura era considerato «senza cultura». Persino all'inizio del secolo si parlava acriticamente di popoli primitivi, uomini allo stato di natura, barbari, selvaggi, popoli non civilizzati, ecc. Molte usanze e comportamenti erano bollati come primitivi e selvaggi semplicemente perché diversi e incompresi.
    Ora questa concezione di «cultura» è un terribile pregiudizio, che fortunatamente è stato smascherato ed è caduto. Non esistono uomini senza cultura. Per l'uomo la cultura non è un privilegio o un lusso, ma una dimensione essenziale e costitutiva. La cultura è tutto ciò che l'uomo ha fatto e continua a fare per realizzare umanamente la sua esistenza nel mondo. I modi e gli strumenti per affrontare la natura, le istituzioni che regolano i rapporti sociali, il linguaggio, le idee e i quadri di valori, come anche i riti e i miti religiosi possono essere molto diversi tra loro. Ma decisamente uomini senza cultura non esistono. Ciò che chiamiamo culture primitive non è che un modo diverso di realizzare la presenza nella natura, i rapporti sociali, ecc.
    In quarto luogo è anche caduto il mito della assoluta superiorità della cultura occidentale. Gli europei, attraverso massicci contatti con altre culture, si sono resi conto quanto di buono e di valido vi si scopre, e quanti valori si potrebbero ricuperare per equilibrare la cultura tecnologica e secolarizzata dell'occidente. I popoli del terzo mondo, da parte loro, rivendicano non soltanto l'indipendenza politica ed economica, ma anche quella culturale. Ovunque sorge il nazionalismo culturale, o la consapevolezza della differenza culturale che caratterizza un continente (ad es.: la liberazione in America latina, la «négritude» e l'autenticità in Africa). Contro il fascino della tecnologia occidentale e della civiltà dei consumi, che minaccia di sconvolgere tutto, questi popoli vogliono conservare i valori essenziali della propria cultura. Infine, nello stesso occidente, c'è un numero crescente di persone che riconoscono i limiti fondamentali e le indiscutibili unilateralità della cultura tecnologica.

    Un problema che investe anche l'Europa

    Da questi e altri fattori diventa abbastanza evidente la serietà del problema di fronte al quale il cristianesimo si vede impegnato. Nessuno si illude più che il problema riguarda unicamente o prevalentemente l'incontro con le «culture non cristiane», come ancora nel 1959 lo esprimeva la settimana di missiologia di Lovanio.[1] Culture o civiltà cattoliche e cristiane, in senso stretto, non esistono più. Di fronte a tutte le culture, europee e non europee, il compito del cristianesimo è perciò sostanzialmente identico in questo momento: in che modo annunziare il Vangelo di Gesù Cristo affinché per le persone che vivono e cercano di realizzarsi nelle diverse culture possa veramente manifestarsi come luce e salvezza? Il problema non è: come adattare un cristianesimo europeo a una cultura non europea, bensì come incarnare il messaggio cristiano in qualsiasi cultura aprendola e orientandola verso la salvezza di Dio. E siccome oggi la cultura europea (tecnologica e secolarizzata) non è più quella in cui durante lunghi secoli il cristianesimo si è incarnato, si può dire che di fronte a qualsiasi cultura (europea e non europea) il cristianesimo si trova in stato di missione. Gli operatori pastorali devono lavorare con l'atteggiamento e la mentalità dell'autentico missionario, se vogliono far sentire e comprendere il messaggio di Cristo. Aggrapparsi fanaticamente e nostalgicamente a certe espressioni culturali di un cattolicesimo ormai definitivamente tramontato, significherebbe tradire la natura missionaria del Vangelo e del cristianesimo, che sempre di nuovo deve ascoltare le diverse culture, ed incarnarsi in esse per portare a tutti la luce del Vangelo.

    LA FEDE HA BISOGNO Dl UNA CULTURA

    Una fede pura, un cristianesimo ridotto alla sua pura presenza divina e staccato da ogni matrice culturale (radicalmente «demitizzata», nella terminologia di Bultmann) è un puro non-senso. Sarebbe in contrasto con l'essenza della fede cristiana che viene a noi attraverso una storia e in dialogo con le espressioni ed esperienze di una determinata cultura.

    La rivelazione si adatta alle culture

    Il modo in cui la rivelazione si è realizzata è di fondamentale importanza per orientarsi nell'attuale problema dell'incontro con le diverse culture. La fede cristiana non è affatto paragonabile a un codice dottrinale e astratto piovuto magicamente e miracolosamente dal cielo, e che richiederebbe soltanto la traduzione nelle diverse lingue. Ben al contrario, è nella concretezza storica e culturale dell'esistenza umana che Dio si è manifestato e ha fatto conoscere in quale senso vuol essere la salvezza dell'uomo. La parola di Dio è anche una autentica parola umana, profondamente ancorata nella cultura e nei fatti storici.
    «La ragione profonda - dice A. Dondeyne - è che la Parola di Dio, che è rivelazione di Dio, non è un evento magico, che ci sorprende con la forza e raggiunge il suo effetto anche senza l'uomo. Come ogni parola sostanziale e liberatrice, essa ci tocca con rispetto e ci raggiunge nel più intimo di noi stessi, in questo centro misterioso che fa dell'uomo un essere capace di comprendere se stesso, di dare un senso alla vita e di esprimere questo senso attraverso le opere: nel linguaggio, nel comportamento etico, nelle istituzioni, nei riti religiosi, in una parola in tutto ciò che compone la cultura».[2]
    Tutta la storia della salvezza è dunque intimamente mescolata con le esperienze culturali e le vicende umane di un piccolo popolo che, pur trovandosi sul crocevia di molte culture, è profondamente segnato da una cultura particolare. È all'interno di questa cultura, con i suoi tipici atteggiamenti di fronte alla natura, le sue ridotte possibilità tecnologiche, le istituzioni sociali, i valori etici, i suoi riti e miti religiosi, che si è progressivamente manifestata la salvezza di Dio. Non si può capire questo messaggio di salvezza senza gli interrogativi esistenziali, le aspirazioni alla pace e alla giustizia, la ricerca della felicità e della salvezza finale, che si sono manifestati in questa cultura ebraica. «Dio - afferma il Vaticano II - ha parlato al suo popolo secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche» (Gaudium et spes, n. 58).

    Il coraggio del Vaticano II

    Dopo lunghi secoli di immobilismo e di quasi identificazione del cristianesimo con la cultura europea (con la conseguente esportazione di un cristianesimo europeo) il Vaticano II segna una nuova era nella missione della Chiesa.
    Inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo - dice il Concilio -, [la Chiesa] non si lega in modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione universale, può entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la chiesa stessa quanto le varie culture. (Gaudium et spes, n. 58).
    Questa presa di posizione riprende in fondo la problematica della prima cristianità. Pietro e Paolo l'hanno affrontata in persona. Andando verso i pagani e i greci, si vedevano posto questo problema: per diventare partecipe al messaggio evangelico è necessario che un pagano, un greco o un latino... diventi prima ebreo, o incominci a vivere come i cristiani della Palestina? La risposta è nota. Non senza conflitti e difficoltà il cristianesimo si è staccato dalla matrice culturale giudaica e si è incarnato nel mondo greco-romano Lo stesso si è poi verificato - a scala più ridotta però - con i popoli germanici e slavi. Il cristianesimo ha fatto un fecondo dialogo con le usanze sociali, i riti, le feste, ecc.

    Un messaggio universale

    Tuttavia affermare che il cristianesimo, pur riflettendo nelle sue fonti e nella sua tradizione storica un ambito culturale ristretto e particolare, è portatore di un messaggio universale, per tutti gli uomini di qualsiasi cultura, è un fatto molto grosso ed impegnativo. Questo presuppone da un lato che in ogni cultura vi siano elementi sufficienti che orientano verso questo messaggio di Cristo e permettono di udirlo e di comprenderlo come lieto messaggio. Da un altro lato significa che la realtà di Cristo, per quanto incarnata in un determinato contesto culturale, contiene esperienze e realtà umane così universali che ognuno può riconoscervi la propria condizione umana.
    Vi è anzitutto il fatto che in ogni cultura vi sono più o meno gli stessi problemi umani e religiosi di fondo. Ovunque l'uomo è confrontato con l'esperienza che l'esistenza umana è un cammino e un compito. La vera umanità non è raggiunta. A seconda delle culture questo ideale dell'uomo vero e compiuto è pensato attraverso modelli diversi: la piena giustizia, la fraternità, la pace totale, la purezza etica, la vera libertà, essere definitivamente qualcuno al cospetto di Dio, ecc. Ma in fondo è la stesso problema del senso della vita e della morte, del dolore e della speranza che è presente ovunque.
    In un modo particolare, la religiosità esistente nelle diverse culture, e soprattutto nelle grandi religioni orientali, costituisce un interlocutore privilegiato per il cristianesimo. Ogni religione infatti è un tentativo di rispondere agli stessi problemi di fondo che angosciano il cuore di ogni uomo sincero: il senso della vita, il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, la sanzione per il bene e il male, il mistero ultimo che sta all'origine di ogni singolo uomo, della sua comunione con gli altri e della sua incessante ricerca di una patria non ancora raggiunta (cf Decl. Nostra Aetate, 1,3).
    L'offerta della salvezza da parte di Dio per mezzo di Gesù Cristo è essa stessa associata ad esperienze, interrogativi e gesti che sono facilmente accessibili a uomini di altre culture. Nella tradizione biblico-cristiana ci sono tutti i grandi interrogativi esistenziali dell'uomo di fronte al senso finale della sua vita. La via della salvezza e della vita indicata dalla parola, dalle opere e dalla morte di Gesù di Nazaret si inserisce costantemente in esperienze umane che non sono legate strettamente a una cultura o all'altra, ma in diversi modi si verificano in tutte le culture: la sua partecipazione alla vita di famiglia e di lavoro professionale, la scelta delle categorie emarginate, il suo amore dei poveri, la legge fondamentale della carità, ecc. Spicca soprattutto l'esperienza della sofferenza dell'uomo innocente, che costituisce forse il problema umano più universale. Di fronte ad esso viene posto nei termini più espliciti la possibilità della salvezza per il singolo e per la comunità.

    Parlare un linguaggio comprensibile

    Da ciò che precede risulta chiaramente che l'universalità del messaggio cristiano è un grande ed ingente compito. Non basta dire: prendete la Bibbia e leggete. Non gioverebbe neppure dichiarare a parole la universalità del cristianesimo. Bisogna invece realizzare questo significato universale, il che significa sempre e necessariamente: annunciare il vangelo nel linguaggio culturale di ogni popolo.
    Un aspetto di questa traduzione è lo studio e l'analisi della problematica religiosa che vive nella gente ed orienta verso la problematica del Vangelo. Il modo in cui l'uomo di una determinata cultura pone questa problematica, la esprime e la interpreta è molto importante per il discorso evangelico. Se non ci si rivolge a questo linguaggio religioso molto concreto, non si capirà il Vangelo.
    D'altra parte la stessa proposta evangelica deve essere tradotta ed interpretata come una risposta alla problematica concreta. Pertanto si articolerà diversamente se viene rivolta ad un buddista o a un marxista, perché ognuno pone diversamente la problematica della salvezza umana. dogma, la morale, la catechesi e la pastorale... devono essere adattati al modo di pensare, di vivere e di agire di ogni cultura. Altrimenti il cristianesimo continuerà ad apparire come un prodotto occidentale, incapace di riconoscere le ricchezze umane e religiose che sono presenti in altre culture e altre religioni.
    Un linguaggio autentico e comprensibile non è mai puramente verbale. Soprattutto il cristianesimo non è riducibile a un linguaggio verbale. È una offerta di salvezza da parte di Dio. Non lo si potrà annunciare in forme concrete e comprensibili senza attuali gesti di liberazione. Per ogni uomo che vive all'interno di una determinata cultura l'annuncio cristiano dovrà essere legato inseparabilmente all'esperienza di un cristianesimo realizzato che porta realmente aspetti di salvezza. Necessariamente questi gesti o segni di salvezza saranno diversi a seconda delle culture.
    Queste esperienze di salvezza devono concretizzare, secondo le particolarità di una cultura, la carità, la giustizia, la fraternità, la liberazione interiore e comunitaria di fronte al peccato, all'angoscia della vita e alla mancanza di speranza e di senso definitivo...
    L'importante è che il cristianesimo abbia un ruolo liberatore all'interno di ogni cultura. La sua presenza deve rinnovare, purificare, elevare la moralità dei popoli, e rimediare agli aspetti di peccato e di decadenza che sono presenti in ogni cultura. Ma liberare non significa distruggere. Al contrario, significa fecondare dall'interno le qualità umane, etiche, spirituali e religiose che sono presenti, permettendo loro di essere se stessi e di realizzare meglio le loro aspirazioni fondamentali.

    TENSIONI E COMPITI

    Una tensione liberatrice

    Nella sua storia la fede cristiana, ad esempio nell'A.T. come nella vita e nella Parola di Gesù Cristo, si trova costantemente in una feconda tensione con le situazioni culturali. Precisamente quando è incarnata realmente in una cultura, la fede può anche svolgere questo ruolo liberatore all'interno della cultura stessa. Basta pensare al ruolo dei profeti, o alla predicazione di Gesù di Nazaret.
    La visione di fondo sull'uomo e le esigenze pratiche che il cristianesimo offre all'uomo costituiscono un contesto di contestazione di fronte agli elementi di male, di egoismo, di peccato, di chiusura, di ingiustizia, ecc., che sono presenti in qualsiasi cultura.
    Più esattamente, non è la cultura che viene contestata, ma gli aspetti di alienazione e di mancanza di vero riconoscimento dell'uomo. Viene contestato tutto ciò che impedisce l'uomo di rispondere alla sua vera vocazione secondo il piano di Dio. Se non fosse così, difficilmente si potrebbe pensare che il cristianesimo possa avere un ruolo di liberazione e di redenzione dell'uomo.
    In genere però bisogna dire che tale tensione non è contraria all'incarnazione nelle diverse culture. Infatti una cultura sana e dinamica mantiene essa stessa al suo interno il gioco dialettico tra i diversi settori dell'edificio culturale, per evitare la fossilizzazione e l'invasione delle ideologie che opprimono la libertà. Il pluralismo delle idee e dei valori, pur manifestando l'incompiutezza della cultura, è nello stesso tempo una via doverosa per superare l'ingiustizia, l'alienazione e in genere la mancanza di riconoscimento dell'uomo. E questo vale per ogni organismo sociale, compreso anche il cristianesimo nella misura in cui è incarnato in una determinata cultura. Nell'incontro con una diversa cultura, il beneficio è reciproco. Basta pensare ai conflitti con la cultura moderna in Europa, per costatare in che misura anche la chiesa e il cristianesimo, nella loro particolare incarnazione culturale, ne hanno ricavato beneficio e liberazione.

    Un compito difficile

    La grande difficoltà scaturisce dal fatto che bisogna anche liberarsi in qualche modo della presente incarnazione culturale del cristianesimo, per essere in grado di inserirlo nuovamente in un'altra cultura. In concreto, ad esempio di fronte alla cultura secolarizzata, bisogna rinunciare a tante venerande pratiche e usanze, per trovare nuovamente ascolto presso i giovani che non sentono più nulla per queste espressioni culturali.
    Il problema è anche particolarmente difficile per i missionari che portano la fede nel contesto di altre culture. Necessariamente la loro lettura del cristianesimo è legata alla cultura occidentale, alla teologia studiata nei seminari, alla struttura ecclesiale che hanno conosciuto nella patria, alle pratiche religiose e ai movimenti apostolici che hanno vissuto da giovani. Pensano dunque sempre in una notevole misura a partire da una cultura occidentale.
    In genere si può dire che l'inserimento profondo del cristianesimo in un'altra cultura non può essere l'opera esclusiva di missionari stranieri. Deve essere portato avanti dalla chiesa locale, dal suo clero e dai propri vescovi. Una volta che questi hanno accesso alle fonti del cristianesimo, ai suoi valori fondamentali, alle sue realizzazioni in altre parti del mondo, sarà possibile ottenere una incarnazione culturale che faccia un autentico cristianesimo. Questo però non è l'opera di un giorno, ma un compito di lunga durata.

    Alcuni punti particolari

    Uno dei primi problemi è la creazione di un linguaggio liturgico che assume l'anima religiosa della cultura in cui il cristianesimo si inserisce. Ogni cultura ha un insieme di riti, simboli, gesti, espressioni religiose che costituiscono un punto di partenza per il linguaggio liturgico cristiano. Si pensi ad esempio alla danza per i popoli africani, al simbolismo molto sviluppato degli orientali, al ritmo molto lento dell'India, ecc.
    Ma questo problema non è soltanto missionario. Esso si pone con altrettanta urgenza nell'occidente, dove la distanza tra la sensibilità e le forme espressive della gente e il linguaggio liturgico ufficiale è enorme. Anche qui resta aperto il compito di creare una liturgia che risponda maggiormente alle sensibilità dell'uomo d'oggi. Questo non soltanto per i giovani, ma per tutti i cattolici.
    Viene poi il problema della traduzione del messaggio cristiano in termini che rispondano ai problemi esistenziali, a categorie mentali e linguaggi della nuova cultura. L'importante è rivolgersi alle categorie esistenziali, che esprimono la realizzazione dell'uomo. Ad esempio tra i popoli bantù il discorso sulla «grazia» non dice forse nulla, mentre la categoria fondamentale del Vangelo, la «vita», è enormemente eloquente, perché in quella cultura «vita» e «forza vitale» sono categorie fondamentali. È chiaro che questo compito di traduzione non implica soltanto l'eliminazione delle categorie, concetti e schemi neoscolastici dalla catechesi, ma presuppone anche la creazione di una nuova teologia (teologia africana, teologia indiana, ecc.).
    L'organizzazione della vita ecclesiale richiede anche un grande adattamento alle strutture sociali esistenti. Il cristianesimo occidentale ha assimilato molte cose che esistevano nella vita sociale: diritto, divisioni amministrative, funzionamento di consigli, ecc. Oggi cerca nuovamente di adeguarsi ai cambiamenti della vita sociale. Lo stesso adattamento è richiesto da parte delle giovani chiese in altri continenti.
    Forse è a questo livello che si sente maggiormente il contrasto tra un cristianesimo di stampo occidentale e le concrete possibilità di organizzazione ecclesiale in altre culture. I problemi riguardano ad esempio gli ospedali, le scuole, le opere missionarie, il clero locale, il celibato, ecc. L'efficienza occidentale entra qui assai spesso in conflitto con le usanze molto diverse delle altre culture.
    Infine ci sono i rapporti tra le diverse chiese: quelle vecchie dell'Europa e le chiese giovani dell'Africa e dell'Asia. La funzione dei missionari, l'invio di mezzi, la formazione dei sacerdoti e degli apostoli laici... sono problemi soggetti a forte ripensamento. Ormai tutte le giovani chiese sono gelose della propria autonomia e respingono tutto ciò che ai loro occhi appare come colonialismo ecclesiale. Non vogliono più ricopiare le cristianità occidentali, ma dare un'impronta particolare alle loro chiese.

    CONCLUSIONE

    Abbiamo appena accennato a qualche aspetto di questo vasto problema di un cristianesimo mondiale, che per tutti i popoli nel rispetto delle loro culture deve annunciare e realizzare quella salvezza che Dio ha reso manifesta in Gesù di Nazaret.
    Se questo processo si accompagna talvolta con aspetti negativi e deplorevoli (espulsione di missionari, formazione di chiese nazionali, sette religiose, decadenza dell'apparato assistenziale: scuole, ospedali, ecc.), non c'è da perdere la fiducia. Attraverso tutte le crisi di crescenza e di maturità nascerà un nuovo cristianesimo. Nulla indica che sarà peggiore di quello europeo, come nulla assicura che il centro propulsore del cristianesimo resterà nella vecchia Europa.
    L'importante è che anche in Europa le comunità cristiane ritrovino l'autentico spirito missionario, che il spinge a evangelizzare il mondo secolarizzato. A tutti coloro che si aggrappano nostalgicamente a un cattolicesimo che ormai non esiste più, perché le sue forme culturali sono definitivamente tramontate, si possono ricordare le parole con le quali padre W. Bühlmann conclude il suo magnifico libro La terza Chiesa alle porte: «Non abbiamo quindi che da percorrere con fiducia la strada e rimanere aperti alle nuove situazioni. Noi siamo al termine di un mondo, ma non alla fine del mondo. La vita continua. Le forme possono cambiare (anche più di quanto ameremmo), la sostanza rimane. Niente danneggia di più la Chiesa e la sua missione che voler rimanere attaccati a forme storicamente condizionate. Se avremo il coraggio di abbandonare le strutture esistenti in quanto risultano superate, Dio ci farà trovare le nuove strutture attraverso l'osservazione dei segni dei tempi. Nel compiere questo lavoro dobbiamo mettere in conto una certa insicurezza. In fondo non è necessario possedere una mappa della terra promessa prima di abbandonare l'Egitto!».[3]


    NOTE

    [1] J. MASSON (ed.), Mission et cultures non-chrétiennes. Rapports et compte rendu de la XXIX' semaine de missiologie, Louvain, 1959. Su questo argomento cf anche L'incontro cristiano con le culture. Atti della sesta settimana di studi missionari, Milano, 1965. L. J. Luzbetak, Un solo vangelo nelle diverse culture, Torino, LDC, 1971.
    [2] A. DONDEYNE, L'essor de la culture, in L'Eglise dans le monde de ce temps, vol. II, Paris, 1967, p. 459.
    [3] W. BÜHLMANN, La terza Chiesa alle porte, Roma, Edizioni Paoline, 1974, pp. 435-436.


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