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    La morale professionale nella maturazione della sensibilità ecclesiale



    Guido Gatti

    (NPG 1975-01-08)

    La teologia morale, sia in quella parte che tratta in modo più generale gli aspetti di fondo della «vita in Cristo» (= teologia morale fondamentale), sia in quelle parti che affrontano i diversi problemi settoriali dell'etica cristiana (= morale speciale), non è il risultato di una deduzione univoca, matematicamente rigorosa, e quindi valida una volta per tutte, dai principi morali del vangelo.
    Essa è piuttosto il risultato di una lunga riflessione e di una elaborazione progressiva, compiuta dalla coscienza cristiana attraverso i secoli, mediante il confronto sempre rinnovato e fecondo tra la Parola di Dio scritta e l'esperienza di fede impegnata da quell'altra forma viva di Parola di Dio che è la storia con i suoi problemi. Così come oggi si presenta in ognuno dei suoi settori, la teologia morale può essere paragonata a una serie di strati di pensiero e di esperienza che si sono gradualmente sovrapposti nel tempo, integrandosi e magari correggendosi a vicenda.
    Per comprendere l'appello che essa ci rivolge qui e ora, è spesso necessario distinguere questi strati successivi, studiare la logica e la storia del loro graduale sovrapporsi, analizzarne gli arricchimenti progressivi.
    Così emerge meglio non solo il contributo proprio di ogni epoca del pensiero teologico ma soprattutto lo specifico della riflessione etica contemporanea, che più direttamente risponde ai nostri problemi e quindi più urgentemente ci provoca e ci impegna.
    Le pagine che seguono vogliono appunto dare una breve retrospettiva storica dello sviluppo dell'etica professionale cristiana attraverso i secoli. Si tratta di una retrospettiva necessariamente sommaria e semplificata, che non si propone come scopo il rigore dell'esattezza storica ma la comprensione delle linee di sviluppo del pensiero teologico in questo campo e la messa in evidenza delle preoccupazioni che la riflessione pone oggi, nel nostro contesto storico, alla coscienza cristiana.

    L'etica professionale nella prima riflessione di fede

    La riflessione di fede dei primi secoli della chiesa vede il mondo in maniera sostanzialmente negativa: il mondo è posto sotto il maligno (1 Gv 5,19); è il mondo che rifiuta Cristo e si oppone alla sua parola, il mondo sul quale incombe l'ira di Dio (Rom 1,18 ss) e sul quale pesano le minacce di una conflagrazione apocalittica e l'istanza di provvisorietà legata all'attesa di una escatologia imminente (1 Cor 7,29-31).
    La parusia vicina segnerà col ritorno di Cristo e il suo giudizio sul mondo, la fine di questo «eone» di peccato e l'inizio di cieli nuovi e terra nuova nei quali abiterà la giustizia (2 Pt 3,11-13).
    La fede ispira quindi un atteggiamento di critica permanente nei confronti del mondo e della sua logica di peccato.
    L'ordine delle professioni della società pagana è denunciato per la sua appartenenza alla logica di questo mondo di peccato, considerato come una occasione di compromessi con questa logica e ritenuto quindi difficilmente compatibile con la fede. Soprattutto le professioni alte della società sono considerate quasi come uno status di peccato permanente e ritenute incompossibili con la vita nuova in Cristo.
    Oltretutto questo ordine professionale rigido fissa una gerarchia di prestigio, di potere politico ed economico che il cristiano considera decaduta: per il credente non ci sono più né libero né schiavo, né ricco né povero, né greco né barbaro, ma una cosa sola in Cristo (Col 3,11). La comunità ecclesiale cerca di realizzare una testimonianza anticipatrice del Regno e della giustizia, attuando una fraternità e una totale comunione di vita che pone i credenti già al di là della povertà e della ricchezza, del potere e della dipendenza, delle divisioni che oppongono gli uomini agli uomini, nella complessa gerarchia dei ruoli e delle funzioni mondane (At 4,32-37).
    L'atteggiamento nei confronti delle professioni alte, significative di un ordinamento criticato e diffidato, e compromesse con la sua logica di peccato, è quindi l'abbandono e la fuga.[1]
    I cristiani non vogliono con questo vivere nella società come parassiti; prendono sul serio il lavoro come mezzo di vita e anche come contributo alla vita associata; sembra loro ragionevole adattarsi, sia pure con senso di provvisorietà, alle strutture di un mondo che passa, con una accettazione che coglie e fa propria un'intenzione creatrice di Dio, non totalmente corrotta dalla cattiva volontà degli uomini.
    La fuga è quindi più che una evasione cautelativa, una forma di solidarietà (del resto non richiesta a tutti con la stessa urgenza) con gli umili e con i poveri, cioè con coloro che la società costringe a un lavoro faticoso e poco riconosciuto, ma ai quali, secondo la parola di Cristo, appartiene il Regno.
    Il cristiano vive questa fuga dalle competizioni mondane per la conquista del prestigio e del potere, legato alle professioni alte, come una partecipazione alla Pasqua di Cristo: con Cristo liberamente abbraccia la via dell'umiliazione, per rinascere con Lui alla vita gloriosa della nuova creazione.
    Il valore di questo atteggiamento è, come si vede, soprattutto profetico. È l'atteggiamento di una minoranza che non presume di cambiare direttamente il mondo, ma getta in esso il seme trasformatore di una denuncia e di un rifiuto che rimandano in qualche modo all'utopia di Dio.
    Questo rimando profetico è però troppo prevalentemente negativo: e in ciò è il limite di questa prima forma di etica professionale cristiana. Il mondo non ha un vero valore per la fede; la storia presente resta esclusa in se stessa dalla speranza cristiana; la carità non osa assumere fino in fondo le sue responsabilità nei confronti di una società che appare estranea e trascurabile rispetto al disegno di salvezza.

    L'etica professionale nell'era postcostantiniana

    Con la pace costantiniana, la chiesa opera una sua prima riconciliazione col mondo.
    La visione di un mondo indifferente o addirittura sostanzialmente buono prende il posto della vecchia immagine dei mondo segnato dal peccato, nella prospettiva della fede.
    Il mondo, ormai ufficialmente cristianizzato, appare come il luogo della manifestazione del potere redentore di Cristo; l'ordinamento sociale, non più pagano, come la necessaria cornice storica del suo trionfo.
    Il riflesso della luce creaturale, che brilla nell'ordine della natura, si rivela anche nella convivenza umana.
    Pur con i limiti che gli vengono dalla solidarietà storica col peccato originale, l'ordinamento sociale e la sua organica e funzionale differenzione appaiono come un bene originario sostanzialmente accettabile o almeno redimibile.
    L'autorità quindi e il potere dell'uomo sull'uomo appartengono al piano di Dio e ripetono da lui la loro legittimità.
    La divisione della società negli status professionali (tuttora molto rigidi) è inserita in questa organica differenziazione al servizio del bene comune; risale quindi alla volontà creatrice di Dio. Del resto nel quadro di una mentalità astorica e cosmocentrica, le strutture della società appaiono altrettanto rigide e fisse (ma quindi anche assiologicamente neutrali) quanto le leggi e i cicli immutabili della natura, di cui sono viste come un prolungamento.
    L'atteggiamento morale di fronte alla professione e alla gerarchia sociale delle professioni è quella dell'accettazione e del riconoscimento di una volontà creatrice di Dio.
    Per la grande massa degli uomini, appartenenti agli status più umili, privati spesso di ogni forma di partecipazione e di potere, all'interno di un ordinamento sociale piramidale, poco rispettoso della persona, si tratta di accettare come provvidenziale la propria collocazione nelle professioni basse, la propria dipendenza e lo stato di impotenza e di miseria relativa. La penosità di questa accettazione («gran brutta cosa nascer poveri») è inserita nel carattere pasquale della morale cristiana ed è in tensione verso una vita diversa, verso un «al di là», nel quale le divisioni e le discriminazioni di questo mondo non avranno più valore o saranno addirittura rovesciate.
    Del resto le professioni alte, di cui la morale tradizionale garantisce lo status (anche economico) privilegiato, devono essere gestite con finalità di servizio (magari paternalistico) nei confronti degli umili e non esentano da forme di abnegazione e di umiltà, compatibili col ruolo.
    La professione è quindi una occasione per dimostrarsi degni del premio, ma anche una prova e una tentazione, nella quale ci si potrebbe dimostrare infedeli alle intenzioni di Dio.
    Naturalmente la rivalutazione di alcune professioni (come quella mercantile) incontrò più diffidenza. Altre cominciarono ad avere una considerazione di favore e ad essere considerate una missione.[2]
    La spiritualità, professionale è soprattutto una spiritualità della intenzione. Importante è svolgere il proprio compito con l'occhio rivolto a Dio. Decisivo non è l'opus ma il finis, l'intenzione di uniformarsi alla volontà di Dio e di servirlo in atteggiamento di fede e di amore.
    Il positivo di questa visione è l'accettazione della professione e la scoperta della sua funzione, all'interno di una più ampia ed ottimistica accettazione del mondo.
    Il ricupero del mondo appare però ancora in funzione di un legame solo «estrinseco» con la storia della salvezza. L'autonomia dei valori mondani sfugge; il mondo e quindi l'ordinamento e la funzione professionale trovano ancora la loro validità non in se stessi, ma solo in ciò rispetto a cui sono un atrio di accesso e una occasione di merito. La spiritualità dell'intenzione strappa ancora al mondo se non le braccia, il cuore, e quindi il meglio, dell'uomo.

    L'etica professionale nella teologia delle realtà terrene

    Negli ultimi decenni del nostro secolo la spiritualità dell'intenzione è stata criticata e superata da forme diverse di spiritualità dell'impegno nel quadro della c.d. «teologia delle realtà terrene».
    Teilhard de Chardin è stato un po' il punto di riferimento di questa critica e di questo superamento, così come l'ispiratore ideale della «teologia delle realtà terrene».
    Alla base c'è ancora una visione nuova del mondo. In un mondo in evoluzione, sperimentato non più come natura ma come storia; un mondo che fa perno sull'uomo e che è per l'uomo un compito e una patria; un mondo che l'uomo è chiamato a umanizzare per umanizzarsi.
    L'impegno della umanizzazione del mondo e della crescita storica dell'uomo si carica di significati divini, si identifica con la risposta umana alla proposta divina di salvezza. Il farsi dell'uomo nella storia profana si identifica col farsi del Regno in una storia di salvezza (al solo patto che questo farsi dell'uomo sia autentico).
    Il dualismo fede-mondo, religione-impegno profano è sentito come lacerante e intollerabile per la coscienza del credente, che vuole essere leale cittadino della città terrena e membro dell'universo-di-sviluppo tecnologico. Egli ricerca quindi ansiosamente la sua unità interiore, vedendo nell'impegno profano una dimensione costitutiva della sua esperienza di fede, e nella fede un rimando e una motivazione al suo impegno nel mondo.
    Viene così riscoperto il carattere oggettivo della professione. Essa non è una prova per l'ingresso nell'al di là, ma uno strumento per l'umanizzazione del mondo, un compito dotato di una sua autonomia, significativo in se stesso, in se stesso e per se stesso facente parte di una storia, che è in tutta la sua estensione storia di salvezza.
    La professione non può essere salvata solo dalla buona intenzione di colui che la vive; essa è salvata se, nella seria accettazione della sua funzione oggettiva, diventa davvero il luogo in cui si salva e si realizza l'uomo, è salvata se è salvata la sua oggettiva funzione di promozione umana.
    La professione è quindi sempre e comunque una vocazione al servizio e alla collaborazione tra gli uomini per la umanizzazione del mondo. Il credente vede in questa funzione un compito e una responsabilità nei confronti del Regno. E non si tratta di una sovrapposizione artificiosa: è il dono di una consapevolezza che coglie la vera realtà profonda delle cose, una realtà estesa però ben al di là dei confini di questa consapevolezza di fede.
    L'etica professionale è quindi un'etica di impegno, cioè di serietà e di competenza, di dedizione, con quella che oserei chiamare una venatura di mistica del lavoro.
    Nella misura in cui cambia il mondo e costruisce l'umanità nuova del futuro, il lavoro è co-creazione, collaborazione con Dio, inserimento diretto nella sua volontà creativa e salvifica insieme.
    Naturalmente la Pasqua, col linguaggio duro della croce e con la speranza della risurrezione, resta a illuminare tutto il quadro e in particolare a salvare quelle che Teilhard de Chardin chiama le inevitabili «passività» della crescita umana nella storia.
    Ci troviamo di fronte alla riscoperta, per tanti aspetti decisiva, del valore di salvezza della storia, della autonoma consistenza assiologica dei valori profani della vita. L'uomo riappare, come in certe pagine dell'A.T., colui che Dio ha costituito artefice del suo futuro, colui di cui Dio in Cristo ha definitivamente liberato la capacità di salvezza e che Dio ha definitivamente affidato alla sua responsabile progettualità.
    È necessario aggiungere però che il tono di questa rivalutazione del mondo e della sua piena significatività per la fede, che ha trovato oltretutto una sua consacrazione nella GS, ci appare oggi, a distanza di soli pochi anni non esente da venature di ingenuo ottimismo, direi quasi con una intonazione neo-illuminista, carente di quel senso di realismo e di concretezza che le esperienze di questi ultimi anni ci hanno reso così connaturale.
    Dire, ad esempio, che il lavoro è collaborazione alla creazione, che il progresso storico dell'uomo è inserito nella storia della salvezza, può sembrare addirittura retorico, se non si accompagna alla denuncia del carattere disumano del lavoro e del suo sfruttamento in una società ingiusta. Parlare di oggettività della professione, ignorando la sua funzionalità a una società piramidale e competitiva, che emargina ed esclude da ogni partecipazione alle responsabilità decisionali i milioni di iloti che stanno alla base della gerarchia delle professioni, è condannarsi a una astrattezza pericolosa e falsificante.

    L'ultima riflessione teologica sull'etica delle professioni

    La riflessione di questi ultimi anni ha preso coscienza di questi pericoli e ha voluto portare alla teologia delle realtà terrene degli anni cinquanta e sessanta il contributo di un realismo critico che restituisce alla riflessione di fede sul mondo e sulla società il carattere profetico e la dimensione escatologica della teologia e della prassi cristiana dei primi secoli della chiesa.
    Due fatti sono intervenuti a dare risalto alle lacune della teologia precedente e a provocare un ulteriore approfondimento e superamento dell'etica professionale dell'impegno.
    Prima di tutto la crisi, oggi per tanti versi così drammatica, del progetto tecnologico e del suo universo di pensiero e di azione unidimensionale. Esso si è rivelato troppo poco funzionale alla vera crescita dell'uomo. Come un apprendista stregone, l'homo faber si vede oggi in balia dei meccanismi incontrollabili che lui stesso ha suscitato.
    In secondo luogo, la caduta della diffidenza, tradizionale nella riflessione teologica, verso la critica sociale di ispirazione marxista ha portato alla assunzione, magari un po' surretizia, di alcune categorie di questa analisi della realtà storica all'interno della teologia.
    Il mondo appare al nostro pensiero ancora una volta come segnato dalla logica del peccato, come luogo della alienazione dell'uomo.
    L'alienazione umana affonda le sue radici nel mistero del rifiuto storico di Dio e del suo progetto di amore da parte dell'umanità; ma si rivela, prende corpo, si oggettiva nelle strutture della convivenza umana e in un assetto politico ed economico ingiusto e disumano.
    Preso negli ingranaggi di queste strutture, l'uomo è privato della sua libertà creatrice, impedito di essere veramente se stesso.
    D'altra parte le strutture della società non hanno la fissità e l'insignificanza delle realtà della natura. Esse sono una creazione e un compito dell'uomo.
    Se l'uomo è in un certo senso un prodotto della società, egli non realizza se stesso e non umanizza il mondo se non educando il suo educatore, cioè trasformando la società attraverso la prassi storica.
    Il mondo come società e come storia è per l'uomo un compito e una speranza.
    L'appello all'impegno che esso contiene ha quindi sempre una essenziale dimensione politica che segnerà di sé tutti i compiti professionali della società. Essi diventano momenti di un più vasto e universale compito di liberazione.
    È questa liberazione con il suo preciso carattere politico ad essere significativa per la fede, in quanto segmento e momento della liberazione globale che Cristo ha inaugurato, riscattando nel suo mistero pasquale l'uomo dalle radici ultime di ogni alienazione, cioè dalla logica di egoismo del peccato del mondo.
    È questa liberazione storico-politica ad essere significativa per la speranza cristiana, in quanto segno prognostico, anticipazione e preparazione del Regno.
    È questa liberazione ad essere significativa per la carità in quanto unica autenticazione concreta di un amore che si trova nell'impegno più difficile ed esigente per i fratelli: quello di creare attraverso la prassi politica una convivenza umana libera e fraterna, dove la dignità concreta di ognuno sia una possibilità e non un nome.
    La professione va vista quindi, con lucido realismo, nella sua funzionalità a quella società delle cui disfunzioni e disumanità rivela in sé l'emergenza. La gerarchia delle professioni resta segnata dalle esigenze di una società piramidale che accumula il potere decisionale e le informazioni al vertice del sistema e che utilizza la rigida e disuguale distribuzione del potere, del reddito e del prestigio, per mobilitare una logica di competizione che rifornisca di illimitate energie umane la spirale dello sviluppo e garantisca la sopravvivenza del sistema stesso.
    Al di là di ogni buona intenzione e di ogni pretesa funzione sociale oggettiva, i compiti professionali sono sempre più difficilmente un servizio ai fratelli e un contributo alla promozione umana e sempre più una corvée funzionale alle centrali del potere che della professione costituiscono l'utenza reale e che i compiti professionali utilizzano per la conservazione dei loro privilegi.
    La professione può diventare il luogo di una liberazione, di dimensioni più ampie di quella relativa alla professione in se stessa, solo attraverso una istanza etica di critica sociale e di prassi politica liberatrice.
    In particolare la vera funzione sociale delle professioni alte può essere liberata solo nella misura in cui essa si pone al servizio di un progetto di liberazione politica che trasformi il sistema, liberi ed elevi i ruoli bassi e restituisca il ruolo di utente e di gestore della professionalità alla comunità come tale, risolvendo in maniera soddisfacente il problema della partecipazione di tutti gli esclusi e gli emarginati alla gestione della società.
    Il ricupero di questa funzione reale di servizio sociale, e quindi della vera oggettività della professione, all'interno di una strategia di liberazione globale della società, comporta una esplicazione del proprio compito professionale scomoda e poco adatta al perseguimento di obiettivi di promozione individuale, quando non addirittura il rifiuto di certe professioni gratificanti ma più strutturalmente legate alla difesa e alla conservazione del sistema.
    «Uno può usare la sua professione come arma di liberazione e di trasformazione sociale solo se, nella lucida previsione delle formidabili difese che l'assetto sociale mette in opera e nella chiara consapevolezza del suo potere integrante, è disposto a metter in secondo piano il perseguimento dell'indipendenza personale, della carriera, di un adeguato compenso, del prestigio e del potere sociale per assoggettarsi a una seria disciplina di lotta, mettendo in preventivo ostacoli, persecuzioni, emarginazioni... Anche qui si ritrova insomma la dialettica morte-vita, propria del mistero pasquale di Cristo».[3]

    La risposta ad alcune obiezioni

    Arrivati a questo punto ci sembra doveroso rispondere ad alcune facili obiezioni.
    La prima è quella che una visione di questo genere ricadrebbe nel negativismo e nel pessimismo della prima generazione cristiana. Essa vedrebbe nella nostra società solo ingiustizie e disfunzioni radicali e insanabili e concepirebbe ogni forma di intervento come rifiuto radicale ed eversivo. In realtà non si tratta di qualificare la nostra società come buona né come cattiva. Non esistono criteri astorici ed assoluti per una simile qualificazione che sarebbe del resto un lusso inutile.
    Si tratta piuttosto di individuare le contraddizioni esistenti di fatto oggi nella società e di riflesso nell'assetto delle professioni e di affrontare il loro superamento come un compito e una responsabilità storica del nostro qui e ora.
    Una seconda obiezione è quella che una concezione così totalitaria e globale della liberazione sembra cadere nel dominio sterile dell'utopia e quindi di ciò che non può essere realmente nella storia.
    In chiave di fede ciò potrebbe comportare una indebita temporalizzazione dell'escatologia, il chiudere la trascendenza del Regno dentro i confini angusti di un futuro mondano.
    E in realtà una liberazione concepita in termini così globali appartiene al dominio dell'utopia, ma non nel senso di ciò che è puramente fantastico ed evasivo ma nel senso di ciò che ci apre davanti la meta-limite delle nostre tensioni, al di là forse delle nostre possibilità attuali ma non della nostra speranza, meta capace di stimolare la nostra progettualità e la nostra volontà di fare diverso il futuro. Questa progettualità deve accettare però le realizzazioni parziali e i tempi intermedi e fare propria la strategia del possibile qui e ora, evitando le pulsioni anarcoidi e le suggestioni sterili dell'impossibile «subito tutto».
    La speranza cristiana è del resto connaturale a questa strategia della gradualità e a questa valorizzazione del parziale e dell'intermedio.
    L'ultima obiezione potrebbe essere quella dell'ideologismo.
    Questa strategia di liberazione globale sembra privilegiare, fino all'assolutizzazione, insieme con un determinato parametro di critica sociale, un determinato progetto del futuro.
    A questo progetto astratto verrebbe sacrificato l'uomo concreto e il suo irripetibile presente.
    Peggio, per il credente, questo comporterebbe una caduta della riserva escatologica a proposito di una realizzazione storica parziale e non definitiva e quindi ancora una indebita storicizzazione dell'escatologia. Il Regno trascendente verrebbe arbitrariamente identificato in un progetto sociale parziale e relativo.
    In realtà attraverso queste istanze etiche nessun progetto viene assolutizzato né indebitamente proclamato definitivo ed esaustivo delle possibilità umane di crescita nella storia.
    Non un progetto definito diventa istanza morale assoluta, ma l'impegno di progettare e di progettare sempre in modo rivedibile e provvisorio, sempre sotto il segno di quella riserva escatologica che rende l'uomo pellegrino, attraverso ogni successivo presente, verso il futuro trascendente di Dio.
    Così come provvisoria, rivedibile e aperta all'imprevedibile futuro dell'esperienza di fede deve considerarsi ogni riflessione teologica, e quindi anche queste istanze a proposito dell'etica cristiana delle professioni.

    NOTE

    [1] Ancora Agostino si farà quasi una colpa per non aver abbandonato immediatamente (attese fino alle imminenti vacanze vendemmiali) l'insegnamento della retorica al momento della conversione: Conf. 9,2.
    [2] Si pensi, ad esempio, alla professione militare (così contraria alla mentalità del primo cristianesimo) in quei fenomeni interessantissimi che furono la cavalleria o i sovrani ordini militari.
    [3] G. GATTI Il mistero della Pasqua per capire la professione, in Note di Pastorale Giovanile, 1/1974, p. 6.


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