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    Il soggetto della programmazione educativa: la comunità educativa dopo i «decreti delegati»



    Germano Proverbio

    (NPG 1975-09/10-51)

    PREMESSA

    I «decreti delegati» possono vantare un loro primo successo, soprattutto se si pensa alla partecipazione registrata al momento elettorale per la formazione degli organi collegiali della scuola; essi hanno infatti scosso larghi strati dell'opinione pubblica, richiamando la società ad un carico di doveri da troppo tempo delegati in assoluto alla scuola: la responsabilità di educare è stata rivendicata come responsabilità sociale, comunitaria. Quanto profondamente abbia inciso la presa di coscienza di questa responsabilità, lo dimostreranno i modi con cui essa verrà gestita: abbiamo già in altra occasione espresso il timore che una partecipazione settoriale alla vita politica la quale si esprimesse soltanto in un momento «privilegiato», forse anche per interessi di conquista di un certo potere nell'ambito della scuola, ed escludesse una partecipazione globale nella gestione della vita sociale – sia pure intesa nelle dimensioni del quartiere, del comune... – potrebbe rischiare di rendere gli organi collegiali i luoghi dei «delegati», nuove forme istituzionalizzate che darebbero una ulteriore e più pericolosa stabilità ad un sistema chiuso, ad un corpo estraneo che continueremmo a chiamare «scuola» (Gestione nella scuola o gestione della scuola?, in «Note di Pastorale Giovanile», VIII [1974], 12, pp. 35-45).
    Questo nuovo intervento, che si colloca in un discorso ampio ed articolato, si richiama in concreto ad un aspetto della partecipazione e della gestione della scuola: la programmazione. Prima di parlare del soggetto della programmazione che dovrebbe essere, per diritto e per dovere, la comunità investita pienamente delle sue responsabilità educative, è forse opportuno ritornare, sia pure in breve, ai luoghi dove la legge fa della programmazione un esplicito o un implicito richiamo, in termini o con espressioni diverse: intendiamo, per esempio, come programmazione in senso lato anche la formulazione di proposte, che ne può costituire un momento preliminare.

    LA PROGRAMMAZIONE NEI DECRETI DELEGATI

    Rivediamo per ordine le competenze, più attinenti ai fini della programmazione, degli organi collegiali, che operano ai livelli in cui la partecipazione si può considerare più diretta.

    Circoli ed istituti

    a) è compito del consiglio di interclasse e di classe «formulare al collegio dei docenti proposte in ordine all'azione educativa e didattica e ad iniziative di sperimentazione»; agli stessi consigli – con la sola presenza dei docenti – spetta la «realizzazione del coordinamento didattico e dei rapporti interdisciplinari»;

    b) il collegio dei docenti ha potere deliberante in materia di funzionamento didattico: in particolare «cura la programmazione dell'azione educativa anche al fine di adeguare [...] i programmi di insegnamento alle specifiche esigenze ambientali e di favorire il coordinamento interdisciplinare»; «provvede all'adozione dei libri di testo, sentiti i consigli di interclasse e di classe»; «adotta e promuove nell'ambito delle proprie competenze iniziative di sperimentazione»;

    c) il consiglio di circolo o di istituto ha potere deliberante, su proposta della giunta esecutiva, «per quanto concerne l'organizzazione e la programmazione della vita e dell'attività della scuola, nei limiti delle disponibilità di bilancio», in particolare nella «adozione del regolamento interno del circolo o dell'istituto che dovrà, fra l'altro, stabilire le modalità per il funzionamento della biblioteca e per l'uso delle attrezzature culturali, didattiche e sportive»; nei «criteri» per la programmazione e l'attuazione delle attività parascolastiche, interscolastiche, extrascolastiche, con particolare riguardo ai corsi di recupero e di sostegno, alle libere attività complementari, alle visite guidate e ai viaggi di istruzione».

    Distretto

    Il consiglio scolastico distrettuale elabora, entro il mese di luglio, un programma per l'anno scolastico successivo, attinente a diversi settori, tra cui:
    – lo svolgimento delle attività parascolastiche, extrascolastiche e interscolastiche;
    – i servizi di orientamento scolastico e professionale, e quelli di assistenza scolastica ed educativa;
    – i servizi di medicina scolastica e di assistenza socio-psico-pedagogica;
    – i corsi di scuola popolare, di istruzione degli adulti e le attività di educazione permanente e di istruzione ricorrente;
    – le attività culturali e sportive destinate agli alunni;
    – le attività di sperimentazione.

    IL SOGGETTO DELLA PROGRAMMAZIONE

    Una prima considerazione si impone immediatamente: la programmazione ora è sottratta al potere decisionale del singolo insegnante, cui spettava da sempre il diritto di formulare e di gestire in proprio un «piano didattico», che sfuggisse a qualsiasi serio coordinamento del consiglio di classe. La programmazione, se tale vuol essere, comporta un lavoro di ricerca, di studio e di riflessione, che può essere condotto soltanto da un gruppo di persone unite nell'intento di raggiungere comuni obiettivi, e dall'unica volontà di individuare gli strumenti e i mezzi più rispondenti all'esito dell'operazione. In altri termini, si può affermare di essere pervenuti oggi ad un concetto e ad una prassi di «programmazione collegiale», in cui vengono coinvolti tutti i responsabili del momento didattico-educativo.

    Una gestione veramente comunitaria?

    Ci si chiede tuttavia se questa programmazione collegiale abbia veramente come soggetto la comunità educativa, intesa nell'accezione più originale, in cui vengono assunti insieme i soggetti direttamente protagonisti del rapporto educativo (educatori ed educandi, docenti, studenti e genitori...) e i soggetti interessati a cogestire l'educazione come fatto sociale e comunitario (lavoratori, forze sociali...). Una interpretazione della legge che superi il semplice dettato per coglierne lo spirito, potrebbe indurre ad una ottimistica e positiva risposta, che intenda il nuovo governo della scuola orientato, nel suo insieme, verso questo punto ideale di tensione, verso cioè una comunità educativa cui spetta non tanto una generica e vaga gestione della scuola, ma un ben preciso e concreto diritto-dovere di intervento nei momenti più delicati della gestione, quale è certamente la programmazione. E si potrebbe, interpretando così la nuova legge, non essere lontani dalle aspirazioni di una certa politica scolastica, e soprattutto dalle aspettative di una base che vuole tradurre in una prassi politica queste «sottostanti» scelte del legislatore. Ma una interpretazione positiva di tal genere richiede una faticosa e costante azione di recupero attraverso motivazioni volontaristiche, dinanzi ad un testo legislativo che definisce i vari «soggetti» della programmazione, e soprattutto nello scontro con una pratica che dalla legge necessariamente consegue.

    Aspetti problematici

    Esaminiamo, riferendoci al testo del decreto, alcune situazioni in cui la sensazione di una specie di polverizzazione di soggetti – con evidenti privilegi per alcuni di essi – può farsi più grave ed acuta.
    Innanzitutto va ricordata la esplicita dichiarazione che solo al collegio dei docenti è conferito il potere deliberante in materia di programmazione educativa, con un particolare richiamo a due momenti molto determinanti al fine della programmazione e della conseguente azione didattica: l'adozione dei libri di testo e le iniziative di sperimentazione.
    È vero che per entrambe le materie citate il collegio dei docenti, prima di decidere, deve sentire i consigli di interclasse o di classe (adozione dei libri di testo) o il consiglio di circolo o di istituto, al quale i consigli di interclasse o di classe avranno fatto pervenire le proposte di sperimentazione; ma il dettato della legge pare abbia solo il valore di richiamo ad una semplice «procedura», quando si pensa che nel definire le competenze dei due organi collegiali, per i consigli di interclasse o di classe non si fa alcun esplicito riferimento ai libri di testo, e per i consigli di circolo o di istituto non si accenna direttamente alle iniziative di sperimentazione didattica. L'ammettere che tali riferimenti siano implicitamente contenuti nelle espressioni generiche del testo, è lasciato alla maggiore o minore disponibilità del collegio dei docenti...
    Quanto inoltre i consigli di interclasse o di classe possano venir condizionati da un'unica componente – i docenti – di quella che potrebbe ritenersi, sia pura imperfettamente, una micro-comunità educativa (è solo infatti «scolasticamente» intesa), si può rilevare dallo stesso decreto, dove si afferma che «le competenze relative alla realizzazione del coordinamento didattico e dei rapporti interdisciplinari spettano al consiglio di interclasse e di classe con la sola presenza dei docenti».
    Considerando ancora il consiglio di circolo o di istituto – che per «rappresentatività» costituisce l'organo collegiale più strutturato sempre che ci si attenga solo alle componenti «interne» della scuola – esso ha sì poteri deliberanti per quanto concerne la programmazione, ma questa è limitata ad uno spazio che se non è affatto secondario per le sue ripercussioni su una educazione onnicomprensiva del soggetto-allievo, risente tuttavia di una certa «aspecificità»: la materia infatti su cui il consiglio di circolo o di istituto può deliberare si configura, o sembra configurarsi come «un'altra cosa» rispetto allo «specifico» che costituisce l'esclusiva competenza degli «addetti ai lavori», né giova a ricomporre l'unità il riferimento ai corsi di recupero e di sostegno, alle libere attività complementari...
    L'ambito dei poteri del consiglio può forse acquistare uno spazio più ampio se si assume tutto l'insieme delle competenze che gli vengono attribuite: certo occorre una volontà di lettura e di interpretazione del testo che spesso viene mortificata dalla burocratizzazione e dalla rigidezza di alcune posizioni od atteggiamenti, da cui nasce la resistenza al farsi di quell'unico soggetto che andiamo cercando. Un contributo al conseguimento di questo obiettivo poteva derivare da una diversa prassi nella conduzione dei consigli, invocata e reclamata da più parti ma riprovata dallo stesso ministro con «personale» interpretazione della legge: vogliamo alludere alla pubblicità delle sedute dei consigli. Il principio della «riservatezza», che secondo l'intervento del ministro dovrebbe prevalere contro le attese di un modello nuovo di incontro tra istituzione scolastica e componenti sociali in essa coinvolte, rimane l'espressione di una amministrazione istituzionalmente separata e impermeabile dalla società, mentre la pubblicità delle sedute manterrebbe uno stretto legame fra elettori ed eletti e costituirebbe uno strumento di collegamento e di credibilità dell'operato di questi organi collegiali. Si potrà forse obiettare che tale incontro fra istituzione scolastica e forze sociali è previsto in sede di consiglio distrettuale. Senza dire tuttavia che la costituzione efficiente dei distretti e la formazione dei relativi consigli scolastici comporterà tempo a sufficienza perché intanto si vanifichino sul nascere gli esistenti organi di gestione della scuola, c'è da chiedersi anche quali saranno gli strumenti operativi previsti che consentiranno i collegamenti fra questi organi distrettuali – rappresentativi della comunità educativa nel senso più ampio – e gli organi collegiali operanti nella istituzione.

    È necessario superare decisamente la delega

    Il principio della partecipazione rappresentativa – quale è realizzato in più larga misura a livello di consiglio distrettuale e in misura minore a livello degli altri organi collegiali – regge ed è efficace finché la base che è rappresentata si conserva politicamente e responsabilmente attiva, in un coinvolgimento che eviti di riprodurre il costume di una delega deresponsabilizzata. Questa è l'unica condizione che consenta una reale e non fantomatica esistenza di una comunità educativa, soggetto permanente di partecipazione e quindi di programmazione. In concreto, si faceva riferimento alla pubblicità delle sedute dei consigli; potremmo aggiungere l'urgenza di dare significato ed importanza alle assemblee degli studenti e dei genitori: gli organi meno istituzionalizzati che rappresentano, per questo, i momenti di una più autentica partecipazione e responsabilizzazione politica. Ma anche in queste forme potrebbe essere difficile ricomporre la comunità educativa come «soggetto».

    LA COMUNITÀ EDUCATIVA
    COME SOGGETTO DELLA PROGRAMMAZIONE

    L'alternativa all'attuale – e appena iniziata – gestione della scuola, in cui la comunità educativa appare divisa in una serie di momenti e di livelli, con attribuzione di poteri che si differenziano per gradi e per qualità, non sta certamente nella proposta di una specie di democrazia diretta, in cui la partecipazione si esprima nell'esercizio di un potere decisionale da parte di tutti i singoli costituenti la comunità. Una tale proposta, che per difficoltà di natura materiale rimane utopistica, richiederebbe una misura di sensibilizzazione politica e di prassi democratica a cui solo attraverso una lunga educazione si potrebbe pervenire. Né d'altro canto vale la pena proporre correttivi alla legge, se non forse una più equa ripartizione dei poteri che non privilegi e non esalti una componente nei confronti delle altre, interne od esterne alla istituzione «scuola», ma tutte parimenti coinvolte nella realtà educativa.
    A nostro avviso non è con misure estrinseche che si crea o si ricrea la comunità come soggetto di partecipazione e di programmazione nel governo della scuola: anche una sola persona, in un momento apparentemente isolato rispetto alla totalità della gestione, dovrebbe sentirsi operatore legato ad un tutto consapevolmente assunto, responsabile di un fatto che non gestisce in proprio ma per la comunità che ne è il vero soggetto. E questo non è certamente un atteggiamento che si improvvisa o che nasce volontaristicamente: vi si arriva attraverso una militanza, che è sempre attenta e mobilitata, e non in modo velleitario, ma in forme concrete e realisticamente connotate.
    Tentiamo di inviduarne almeno due.

    Una partecipazione collaterale

    La formulazione di proposte, la programmazione assunta nell'accezione più propria, non saranno mai l'espressione dell'intera comunità, se negli organi collegiali non confluiranno in certo modo i risultati di un lavoro svolto «collateralmente» rispetto alle forme istituzionalizzate: attraverso cioè iniziative emananti dalla comunità che si sente soggetto dell'azione educativa, quali possono essere incontri periodici fra tutte le componenti comunitarie: seminari, gruppi di studio e di ricerca intorno ad argomenti e a temi che costituiranno poi materia di proposte, oggetto di programmazione (i testi scolastici, la sperimentazione... per riprendere i punti più sopra considerati).
    Il rischio di iniziative così articolate, è che esse diventino facilmente il luogo e il momento di richiamo per una certa élite, già assuefatta e preparata ad un lavoro di riflessione e di ricerca, mentre verrebbero emarginati quanti appartengono a gruppi e a strati di una certa «sub-cultura». Spetterà alla comunità, in quanto educativa, e propriamente a coloro che in essa hanno la responsabilità di gestire un ruolo che potremmo chiamare, in analogia con l'espressione gramsciana, di «guide organiche», l'inventare formule che non escludano nessuno: «differenziate», per intenderci, ma solo sotto un profilo metodologico, non certamente qualitativo.

    Verso il gruppo d'insegnamento

    La comunità educativa gestirà la scuola, entrerà nella programmazione e nella formulazione di proposte, nella misura in cui sarà operativamente presente non tanto negli organi di governo della scuola, quanto piuttosto nelle strutture, nelle quali si istituisce il rapporto didattico-educativo. In realtà, la struttura «classe», la struttura «lezione», non sono state minimamente scalfite da alcuna legge, e potranno continuare a sopravvivere come sistema arcaico in manifesta opposizione ad un sistema «aggiunto», che si vuole nuovo, aperto, democratico... Il collegio dei docenti non è fatto per creare il «gruppo degli insegnanti», che dovrebbero operare sistematicamente e regolarmente insieme; il consiglio di circolo o di istituto non coinvolge nella prassi educativa né genitori né tanto meno le componenti sociali considerate ancora «esterne» rispetto alla scuola.
    Esiste una proposta minimale, alla quale soltanto può essere affidata una riforma radicale della istituzione scolastica, o la «descolasticizzazione» della scuola: essa consiste in una intesa operativa fra gli insegnanti, aperta alle più diverse presenze di «competenti» – privi anche di qualsiasi certificazione – che la comunità offre e di cui si rende garante, inseriti permanentemente nel «gruppo di insegnamento» o chiamati occasionalmente perché illustrino temi o problemi di loro competenza.
    Non si tratta di un «fantasma»: in altri paesi (Stati Uniti, Svezia, Germania) la «prova» è riuscita positivamente. Il prezzo iniziale da pagare da parte degli insegnanti è certamente alto: ma a nessun altro prezzo si può pensare di rinnovare la scuola. Di qui infatti deriveranno altri modi per organizzare i raggruppamenti degli allievi, che non siano le tradizionali classi; altri modi per comunicare con gli studenti, che non sia la tradizionale lezione; altri modi per valutare, che non siano i «voti» completamente estranei al processo di insegnamento-apprendimento...
    A pagare questo prezzo gli insegnanti tuttavia non saranno più soli: si sentiranno infatti parte dell'intera comunità educativa, il vero soggetto di una permanente azione politica e culturale.


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