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    Il sacramento della penitenza nella pastorale giovanile


     

    (NPG 1975-04-03)

    È un tema impegnativo, quello che abbiamo deciso di affrontare con un contributo maturato in lunghi confronti redazionali e nell'ascolto attento di esperti e operatori pastorali.
    Una diffusa sensibilità, in cui si intersecano aspetti positivi e aspetti negativi tiene oggi i giovani abbastanza lontani dal sacramento della penitenza. È un fatto. Ma le difficoltà non sono solamente qui. Ne esistono di notevoli, anche dalla parte del sacramento.
    Ed è proprio da quest'ottica che invitiamo a leggere la nostra proposta, per evitare la faciloneria di discriminare con troppa sicurezza il torto e la ragione pensando che la prassi pastorale «tradizionale» fosse la cosa migliore e che quindi i guai di oggi possono essere superati forzando il ritorno alle abitudini di prima.
    Attorno al sacramento della penitenza si condensano grossi problemi, di contenuto squisitamente ecclesiale. Problemi impegnativi e di difficile soluzione La «confessione» è il nodo della prassi sacramentale ecclesiale: attorno ad essa esplodono più vasti aspetti di crisi.
    Ne elenchiamo alcuni, per fornire un quadro di riferimento, tratteggiato a grandi linee.
    1. La prassi penitenziale della Chiesa non è sempre stata omogenea. Quella attuale è relativamente recente. Questa consapevolezza è ormai patrimonio comune di molti sacerdoti. Proprio per questo s guarda, spesso, con occhio disincantato su quelle abitudini tradizionali che oggi sembrano perdere colpi. Le mutazioni, anche radicali, che hanno percorso la storia penitenziale della Chiesa, confermano la possibilità di cambiare, senza per questo sfuocare la sostanza.
    Purtroppo, questa analisi storico-teologica viene vissuta, talvolta, in termini affrettati, più emotivi che razionali: tali cioè da non permettere una acquisizione matura di ciò che è sostanziale nei confronti di abitudini invece mutevoli.
    2. Viviamo in un'epoca di transizione. Anche il tradizionale concetto di peccato, i criteri morali che lo descrivono, sono oggetto di transizione. Il processo è da molti vissuto con stadi di alta conflittualità. Non sono infrequenti gli «scontri» tra prospettive rigide, integraliste e sensibilità troppo permissive. Certamente la «coscienza giovanile media», a questo riguardo, è abbastanza lontana da definizioni tradizionali ancora ricorrenti.
    Tutto questo, evidentemente, si ripercuote nella prassi penitenziale.
    3. Il sacramento della penitenza ha significato soltanto in una decisa ottica di fede. Si può parlare di peccato, di pentimento, di conversione, nel senso in cui se ne parla nel «sacramento», solo accettando, con decisione personale matura, la logica del Vangelo e facendo proprio, in forma incondizionata, l'annuncio del Cristo Risorto.
    La vita di fede è oggi in crisi, per molti. Certamente non può essere data per scontata, se si tiene conto della radicale estraneità dell'ambiente sociale e culturale in cui viviamo.
    Troppe volte, quindi, parliamo lingue diverse. Gli educatori della fede invitano alla penitenza, immaginando di dialogare con gente che vive di fede. Mentre il dono della fede, per troppi, è ben lontano da essere il significato definitivo e totalizzante della vita quotidiana.
    Per ricostruire il tessuto del sacramento della penitenza, dobbiamo ricostruire ampiamente lo «spazio vissuto» della fede, nel confronto con la risurrezione del Cristo e le esigenze del Vangelo.
    4. L'ultimo aspetto che rende problematica la «soluzione» della prassi penitenziale: la caduta di una reale esperienza ecclesiale, capace di far sentire «a disagio ecclesiale», quando si è in stato di peccato. La crisi di appartenenza riduce il pentimento-conversione-perdono a rapporti strettamente individuali, che tendenzialmente lasciano in disparte la dimensione ecclesiale e che quindi deprivano di significato il sacramento, che nella ecclesialità fonda la sua storica visibilità.
    Abbiamo sottolineato alcuni problemi. L'abbiamo fatto per ritagliare una chiave di lettura della nostra proposta. E per scoraggiare coloro che volessero trovare, in queste pagine, il toccasana miracolistico per tutti i problemi educativi e pastorali che giustamente li angustiano. La ricostruzione di una matura prassi penitenziale richiede un impegno specifico (e su questo offriremo spunti di confronto), ma nello stesso tempo costringe a ristabilire il tessuto più vasto di una reale esperienza cristiana, che nella penitenza è chiamata in causa, con tutta l'irruenza della sua specificità.
    Non si comprende la penitenza, il peccato, il perdono se non all'interno di una vita cristiana riscoperta in pienezza alla luce del dono della risurrezione del Cristo.

    Le pagine che seguono contengono una sintesi di molte prospettive di intervento: un progetto globale da cui partire e su cui muoverci.
    Certamente non si può considerare concluso il discorso. Molti temi andrebbero richiamati a monte; altri interventi a carattere operativo richiederebbero uno sviluppo ulteriore. Ci ripromettiamo di farlo, anche se non a scadenze ravvicinate. Soprattutto vorremmo riuscire a presentare esperienze concrete di operatori pastorali che hanno tentato di far qualcosa, magari sulla falsariga di questa proposta, per avvicinare giovani concreti alla salvezza pasquale del Cristo, nel sacramento della penitenza.

    I GIOVANI E LA PRATICA PENITENZIALE

    Non ci sono ricerche di vasta risonanza, capaci di documentare, con una certa sicurezza, l'attuale sensibilità giovanile in rapporto alla pratica del sacramento della penitenza. Gli operatori pastorali hanno però il polso della situazione, con una buona dose di approssimazione.
    Assistiamo ad un calo nella pratica. Non ci si confessa più, dice qualcuno. Ci si confessa molto meno di una volta: è un dato «minimo», su cui la convergenza è facile. Problematico è soprattutto il giudizio sul fatto. Il calo di frequenza è sinonimo di crisi di fede, di caduta del senso del peccato, di permissivismo morale? Oppure è principio di una nuova autenticità religiosa? Ha in sé i germi positivi di una scelta verso la maturità o, invece, denuncia un pericoloso indifferentismo religioso e morale?
    Non sono domande retoriche, manovrate solo per volere a tutti i costi giustificare i dati di fatto.
    Tutti vogliamo una autentica esperienza religiosa, in cui la maturità della fede diventi criterio definitivo delle scelte quotidiane. Gli operatori pastorali conoscono quanta fatica il raggiungimento di una simile meta comporta. Sanno che non basta gridare ai bei tempi passati, come non basta alzare bandiera bianca all'irruenza dei nuovi atteggiamenti culturali. La maturità della fede chiede sempre uno stacco, un «salto di qualità», almeno verso i livelli più profondi dell'esperienza storica.
    Nella prassi penitenziale attuale possiamo parlare di positività e quindi di impegno educativo per rendere autentici i germi presenti nella sensibilità giovanile? Oppure dobbiamo ripartire da zero, ricostruendo lentamente quadri di valori che sono attualmente scomparsi?
    La «caduta di pratica», innegabile, va catalogata tra gli aspetti negativi, da superare? Oppure contiene stimoli positivi, anche se bisognosi di autentificazione e di crescita? Questo è il problema, a monte di tutto, a cui dobbiamo dare una risposta.
    La costruzione di proposte educative è, evidentemente, condizionata dal giudizio su questo dato di fatto.

    Crisi per l'autenticità?

    Non è facile dare una risposta ponderata all'interrogativo. Giocano troppi elementi in una intersecazione di difficile soluzione.
    Non possiamo negare l'esistenza di atteggiamenti che rendono giustamente perplessi gli educatori. Respiriamo tutti un clima di pericoloso secolarismo: il rapporto con Dio si è stemperato fino a ridursi ai soli dati immanenti, strutturali o interpersonali.
    Una serie di fattori hanno deresponsabilizzato le persone. In questo clima è scomparso il «senso del peccato» e quindi il bisogno, oggettivo, di un gesto di pentimento che chiami in causa l'amore di Dio.
    Nello stesso tempo si è fatta però strada una concezione del peccato e della responsabilità personale più matura di quella di un tempo. L'uomo si è sentito «provocato» più dalle scelte fondamentali che dai singoli gesti quotidiani, spesso condizionati da molti e diversi fattori. La dimensione trascendente del peccato ha coinvolto anche l'analisi strutturale di responsabilità prima troppo sottaciute, ritagliando così un nuovo e più maturo modo di «sentirsi peccatori». Tutto questo ha messo in crisi una concezione moralistica, non adulta e non «cristiana», di peccato e di penitenza. La crisi è, in questo contesto, una crescita di autenticità.
    È difficile misurare la rilevanza dei primi fattori e dei secondi. Certo, quelli positivi e quelli negativi sono contemporaneamente presenti, perché così è il clima che respiriamo. I giovani hanno antenne sensibilissime per captare le percezioni nell'aria. È facile che in essi si coagulino le diverse componenti.
    Nel paragrafo successivo prenderemo in esame gli aspetti «problematici» della attuale situazione penitenziale. Dobbiamo farlo, però, nella convinzione di analizzare fattori interdipendenti. Non vogliamo radicalizzare le analisi, accettando quella moda, molto pericolosa in campo educativo, che elimina un motivo sotto la spinta di un altro.
    Solo dall'insieme dei vari aspetti nasce il quadro conclusivo. Nelle singole persone e in determinati ambienti, sicuramente un aspetto fa da perno. Solo chi ha le mani in pasta può evidenziarlo, per fargli ruotare attorno l'impegno educativo di ricostruzione di una autentica dimensione penitenziale. Ed è importante, in concreto, organizzare così il tutto. Per evitare di tradurre in genericismo operativo quanto è invece, nelle nostre intenzioni, solamente un quadro di analisi necessariamente generico.

    LA PENITENZA SOTTO PROBLEMA

    Alla luce di queste premesse e nel quadro di queste scelte, vogliamo esaminare gli aspetti oggi problematici per offrire da questa panoramica proposte per un progetto di educazione rinnovata alla prassi penitenziale.

    Una cultura che deresponsabilizza?

    Con una certa fatica gli educatori stanno convincendosi che molti atteggiamenti non sono radicati prima di tutto nella buona-cattiva volontà delle persone, ma sono indotti dal peso del clima che si respira.
    Viviamo in una cultura che tende a deresponsabilizzare le persone, rilanciando su «altri» (cose, condizionamenti, strutture) le colpe dei mali che ci affliggono e le responsabilità delle scelte sbagliate che perseguiamo. Questo clima influenza la prassi penitenziale. Molti giovani stentano a sentirsi peccatori, perché hanno scoperto motivi dei loro guai che sfuocano la loro personale responsabilità. Oggi è presente la coscienza del «male» molto più di un tempo. Ciascuno è in grado di fare con notevole precisione il lungo elenco delle cose che non vanno, dentro e fuori di sé. C'è anzi una percezione molto raffinata al riguardo. Però, troppo spesso, la colpa è «fuori»: nei condizionamenti psicologici, nelle strutture alienanti, nelle cose di cui siamo deprivati, negli altri. Le cose sono i veri «colpevoli»: noi siamo le vittime.
    Le ascendenze ideologiche di questa confusa mentalità sono molte e diverse. Certamente alla radice sta l'ideologia borghese che domina il nostro mondo. Le cose sono il nostro «salvatore»: quindi le cose sono, per converso, la radice dei nostri mali. Non esiste un problema etico sulle cose: sono materiale da consumare e basta. Anche i fatti più importanti del proprio quotidiano esistere vengono codificati e quindi rimossi da ogni preoccupazione di bene-male.
    Molti giovani sono entrati in contatto anche con il marxismo, secondo fattispecie più emotive che autentiche, più reinterpretate secondo le categorie borghesi dominanti che ortodosse. Da questo clima marxista assumono il bisogno di scaricare la colpa soprattutto sulle strutture: noi «buoni ,., vittime del sistema ingiusto, di classi sociali oppressive e sfruttatrici... Gli slogans, che ci riempiono la bocca, fanno mentalità: il «buono» e il «cattivo» non passa più sulla persona ma attraversa unicamente la sua collocazione sociale.
    Anche la psicanalisi (recepita secondo quadri spesso epidermici e distorti) sfuoca la responsabilità personale, alla luce della scoperta di molti condizionamenti psicologici, più o meno inconsci, che rendono difficile in concreto l'esercizio della personale libertà.
    Come si vede, la deresponsabilizzazione affiora da molti fattori, spesso anche conflittuali. Non è facile fare misurazioni oggettive, né tanto meno attribuire i collegamenti culturali. All'operatore pastorale interessa però soprattutto questa «ideologia» spicciola che, a poco a poco, si sedimenta in tanti giovani, sul filo delle battute, dei modelli di comportamento, delle «lettere del direttore» dei giornali alla moda, dei valori che circolano con maggior insistenza, negli slogans, nelle analisi sociali, nei rapporti interpersonali e strutturali.
    Questa spinta a ridurre le responsabilità personali, rilanciandole in fatti più a monte, «pesa» notevolmente nella prassi penitenziale.
    Permette di superare molti stati di colpa immaturi. Ma mina alla radice il senso cristiano del peccato che è presa di coscienza di un gesto che coinvolge la persona nelle fibre più profonde, di fronte a Dio e ai fratelli.

    Crisi di fede e di religione

    Un secondo motivo che rende problematica per i nostri giovani la prassi penitenziale, va individuato nella crisi di fede e di religione che stiamo vivendo.
    La tendenza verso il secolarismo, che esaspera il valore del profano in una sua radicalizzazione, svuota dall'interno il senso del peccato, deprivandolo di ogni appello al trascendente. Senza la coscienza dell'amore del Padre che nel Cristo chiama tutti gli uomini alla novità di vita, non c'è peccato. L'offesa interpersonale e le responsabilità strutturali sono «peccato» solo quando sono investite di una radicalità che trascende ogni umana costruzione.
    Per molti giovani questi sono oggi discorsi «duri». I rapporti sbagliati tra le persone, si dice, vanno ricostruiti al loro interno. Ogni appello trascendente è alienante. Quindi non c'è bisogno, si conclude, di «penitenza»: basta la «giustizia», la responsabilità sociale.
    Qualche volta è messa invece sotto discussione l'espressione storica e collettiva della fede: la «religione». Si accettano i collegamenti trascendenti, inerenti ad ogni gesto umano, ma sono rifiutati (o problematizzati) i canali normali (il sacramento della penitenza, per esempio) che dovrebbero esprimerli. La «crisi del sacro» diventa crisi dell'istituzione attraverso cui il sacro tradizionalmente passa.
    Un altro aspetto di questo problema merita l'attenzione degli educatori. La nostra è una società permissiva: lo si ripete in tanti contesti. Ed è molto vero. Respirandone i condizionamenti, abbiamo assunto la permissività come un fatto di maturità che si traduce nel non voler giudicare il comportamento degli altri, nel trovare sempre mille scuse per «capirlo», nel potenziare tutti gli aspetti che giustificano anche i comportamenti apparentemente scorretti. A queste condizioni, ci si sente «buoni», rispettosi, fraterni.
    Con questi aggettivi diventa facile «qualificare» il Padre: lentamente ci si costruisce un'immagine di Dio, ritagliata sul clima di permissività morale che si respira. Ci si fa un idolo che lascia correre tutto, che non s'impiccia negli affari privati.
    Il Dio di Gesù Cristo non è un dio bonaccione. La sua «misericordia» non è chiudere un occhio sul male, giustificandolo sull'onda di motivi più o meno corretti. È ben diversa l'immagine di Dio che la Bibbia ci offre. Un Padre che ama, perché interpella, inquieta, «contesta». Che «perdona», con un rapporto tra adulti, tra gente che sa assumersi fino in fondo le proprie personali responsabilità.

    La ricerca di autenticità e di verità

    Anche il sacramento della penitenza, come molte altre istituzioni, è passato al vaglio dell'autenticità, che per molti giovani è oggi un criterio «irrinunciabile». Si vogliono cose «vere»: strumenti che esprimano oggettivamente ciò che intendono comunicare. Il tutto con un pizzico di integrismo e con la mentalità adolescenziale del «perfetto a tutti i costi». Il rito sacramentale della penitenza appare poco eloquente, non sufficientemente autentico. Quindi poco credibile. La consequenzialità, per troppi giovani, è immediata, irruente: dunque va abbandonato, si dice. La caduta della prassi penitenziale, è riconducibile, in misura variabile, anche a questa istanza, di autenticità e di verità.

    Carenze nella prassi penitenziale

    Tra i fattori determinanti la crisi penitenziale attuale, bisogna indicare anche il modo con cui si sviluppa di fatto il sacramento della penitenza. È una sottolineatura importante. Che deve farci pensare. Troppe volte, infatti, nelle nostre diagnosi, ci collochiamo con i piedi al sicuro, misurando solo ciò che gli altri fanno. Se molti giovani oggi sono in disagio nell'accettazione della penitenza come sacramento, la responsabilità non è anche nostra? Di noi «confessori».
    Il rito e ancora troppo povero. Anche le modifiche portate dall'ultima riforma e lo spazio offerto alla creatività delle comunità locali sono rimaste lettera morta. La realtà continua ad essere poco «eloquente». Il segno non esprime ciò che significa; spesso lo stempera fino a svuotarlo.
    Troppi confessori confessano «male». Con prevalenza di atteggiamenti non adulti (pignoleria, faciloneria, moralismo, rigidità, astoricità...); in forme molto individualistiche. La funzione di «giudice», legata alla cultura del passato, stenta a lasciare il posto alla mentalità di «fratello», che si sente coinvolto nella stessa identità di peccatore, anche se ha il compito di «aiutare» il pentimento e di testimoniare l'amore prioritario del Padre che chiama alla conversione. A fatica si fa strada una reale «omogeneità» ecclesiale (di valutazioni, di scelte, di progetti): la dimensione comunitaria è assente non solo nelle strutture della penitenza, ma anche nella «dottrina» pastorale che viene utilizzata nel rito.
    Queste responsabilità non possono essere sottaciute. Una diagnosi oggettiva deve, necessariamente, prenderle in considerazione.
    In questo contesto non possiamo farlo che per approssimazioni. Nelle singole comunità pastorali, la rassegna dei fattori negativi andrà vissuta in termini realistici e concreti.

    PROSPETTIVE DI EDUCAZIONE ALLA PENITENZA

    Abbiamo tratteggiato il quadro degli aspetti che oggi rendono problematica, per molti giovani, la prassi penitenziale. Educare alla penitenza significa, in questo contesto, progettare interventi che riprendano questi «nodi» per superarli, autenticando le intuizioni positive e correggendo le distorsioni.
    Purtroppo non esistono formule. Non basta applicare questo o quel rimedio, per far ritornare tutto apposto, come una volta. Anche perché, nella nostra ricerca, abbiamo più volte sottolineato l'ambivalenza della attuale situazione: gli aspetti negativi si intersecano con quelli positivi. Tentiamo un percorso diverso; più rispettoso, ci pare, della crescita del giovane. Per una educazione alla penitenza oggi, la pastorale giovanile è chiamata a progettare il recupero di alcuni atteggiamenti fondamentali, da convogliare verso una consapevolezza precisa della specificità cristiana. In questo nuovo tessuto umano-cristiano, potrà fiorire la matura riscoperta del sacramento della penitenza, soprattutto se esso viene vissuto in esperienze veramente significative.

    L'educazione alla penitenza in coerenza con le scelte pastorali

    Il sacramento della penitenza è un gesto esplicitamente cristiano, coinvolge a pieno titolo la totalità della propria fede.
    La riscoperta del valore, nella vita, della «riconciliazione», muove perciò necessariamente i suoi passi dal confronto dell'evento che fonda la fede cristiana: l'annuncio della risurrezione. Cristo Risorto è il «fatto nuovo» che cambia totalmente la prospettiva da cui giudicare la propria esperienza e immette in una definitività di significati in cui trovano collocazione i gesti del quotidiano.
    Convertirsi significa trasportare nella vita la logica della risurrezione, modificando il personale ordine di valori e l'interesse che si dà alle cose. Il peccato è perciò rifiuto di questa logica, è ritornare al «vecchio uomo», dimenticando la novità della risurrezione. Per il cristiano pentimento, salvezza e conversione (di cui il peccato è la faccia in negativo) sono in una prospettiva di dono gratuito (e di rifiuto della gratuità del dono): gli aspetti psicologici e collettivi sono, ontologicamente, successivi.
    Questo è il progetto contenutistico, irrinunciabile per non svuotare lo specifico della «penitenza» cristiana.
    Sul piano metodologico, è possibile, come sempre, scegliere un processo discendente (che parta dall'evento della risurrezione per raggiungere l'esperienza personale) o ascendente (che parta, cioè, dalla quotidiana esperienza di «peccato», per coglierne il suo significato rivelato).
    L'educazione alla penitenza è un aspetto di tutto il piano di educazione alla fede; deve perciò operare scelte ad esso coerenti, per ricostruire un'armonia di crescita, veramente rispettosa della persona.
    Se abbiamo scelto un progetto che parta dalle attese spontanee giovanili, per farle camminare in avanti, questo ha conseguenze interessanti anche nel tema specifico della penitenza.
    Un maturo senso del peccato, il desiderio di una conversione permanente, la dimensione trascendente della riconciliazione con Dio e con i fratelli; il valore della penitenza, in una parola, i giovani d'oggi possono ricuperarlo all'interno della loro quotidiana esperienza.
    La loro sensibilità è «importante»: non come testa di ponte dei nostri interventi, ma come spazio di un iniziale approccio di fede. Gli aspetti già positivi (la visione globale della vita che supera il frammentarismo degli «elenchi» di peccati, la responsabilità personale in quella strutturale, il bisogno di scoprire la riconciliazione nella liberazione, gli atteggiamenti quotidiani di perdono...) vanno assunti e autentificati. Quelli «negativi» (la deresponsabilizzazione motivata dal peso dei condizionamenti psicologici e strutturali, lo spazio puramente umano dato al pentimento, il rifiuto della mediazione sacramentale per una ricerca di segni autentici di riconciliazione...) possono ricondurre a dimensioni positive, proprio nella scoperta degli aspetti seri di cui essi sono deviazione.
    In una parola, la riscoperta di una autentica prassi penitenziale, per i giovani d'oggi, può nascere induttivamente: da una lettura profonda della loro quotidiana esperienza. Molti livelli di questa coscienza sono illuminati dalle scienze dell'uomo, interessanti per dare una misura adeguata del «peccato». Gli spazi ultimi sono invece comprensibili solo alla luce della fede. A questo livello il peccato è, in verità, rifiuto di Dio: rifiuto del suo amore e della responsabilità a cui il suo amore ci chiama. La riconciliazione con Lui passa nella vita, anche se non si esaurisce nei rapporti quotidiani, sia interpersonali che strutturali.

    Quale uomo

    Quale uomo? Dobbiamo proprio partire di qui, anche se può sembrare una partenza troppo alla lontana. Per rispondere dobbiamo prendere posizione su due livelli, da ricostruire, con meditata riflessione, nel quadro dei valori di troppi giovani.

    * L'uomo è radicalmente sano o ha bisogno «dentro» di essere «salvato»?
    I mali che ci affliggono hanno alla radice solamente rapporti strutturali sbagliati, tanto che basta lottare per modificare le strutture ingiuste ed oppressive; oppure «dentro», nel profondo della personale quotidiana esperienza, c'è «qualcosa che non funziona»? Il peccato, il male, è soltanto la storica conseguenza di errori umani, o esso fluisce da un «peccato d'origine», che inquina tutti gli uomini?
    Le domande mettono a fuoco la radicalità della salvezza e quindi la dimensione esplicitamente cristiana della conversione. Conversione e salvezza sono un fatto puramente immanente, di cui ogni uomo può diventare protagonista? O sono invece «dono» dell'amore preveniente dal Padre nel Cristo? È necessario un Salvatore-dono o l'uomo è salvatore a se stesso?
    Su questi problemi ci si deve necessariamente pronunciare. Non vogliamo, di certo, tornare al vecchio moralismo che incolpava l'egoismo umano di tutti i mali, con un collegamento così poco «storico» da giustificare di fatto l'ingiustizia e l'oppressione. Ma vogliamo mettere il dito nella radice ultima del male storico.

    * In secondo luogo, dobbiamo pronunciarci sulla specificità cristiana dell'amore e quindi del peccato che ne è la negazione radicale. Si può parlare di «sacramento della penitenza» solo quando si avverte che il male personale coinvolge l'amore trascendente di Dio, mentre chiama in causa un modo di gestire i rapporti interpersonali e sociali. Che cosa fa crescere l'uomo e costruisce la storia? L'amore o l'odio? L'amore e l'odio assieme?
    Se la costruzione personale e storica passa attraverso l'odio, se l'altro (a tutti i livelli) è un «nemico» da sopprimere o un ostacolo da annullare, non c'è spazio per nessuna riconciliazione. «Peccato» è non portare avanti, con ogni mezzo, la storia. La «sopraffazione» non è «peccato»; essa è la necessaria dialettica per il progresso della storia, per la sua liberazione.
    In questa prospettiva, evidentemente, non c'è posto per Dio. Quindi non c'è spazio per una concezione «cristiana» del peccato e del pentimento. Se invece l'uomo e la storia sono «frutto» dell'amore, il problema si ripropone secondo nuove angolature. L'uomo è capace di realizzare l'amore autonomamente? O l'esigenza dell'amore rimanda ad un amore fondante, costitutivo e normativo dell'amore umano?

    In Gesù Cristo l'amore si fa persona

    Non basta aver scelto una definizione di uomo, connotata esplicitamente dall'amore. Che cosa è amore? Nella risposta entra una gamma di atteggiamenti fondamentali attraverso i quali si opera, nel concreto, la promozione totale di ogni uomo. L'amore sicuramente non è la canonizzazione dell'oppressione e la rassegnazione di fronte all'ingiustizia. L'amore è «critico» e dialettico.
    Come? Fino a che punto? Per un cristiano, il significato pieno di amore emerge dalla vita di Cristo. Lui è l'amore. Le cose che ha detto per definire l'amore sono l'espressione verbale di una vita vissuta.
    Amare è quindi tentare di ripetere, nella propria esperienza quotidiana, quello che è Cristo. Davvero è una cosa impossibile. Tanto «trascendente» i limiti della nostra umana esistenza, che l'uomo può solo «accettare l'amore»: non sognare di costruirlo dall'interno del suo impegno. Nel confronto con il Cristo, ritroviamo la nostra povertà. Nessun gesto di amore adegua le infinite esigenze che lo caratterizzano. Ci sentiamo «peccatori», proprio perché travolti da un progetto di amore (con cui dobbiamo regolare i rapporti interpersonali) che supera ogni timido tentativo di realizzazione. D'altra parte sentiamo di non essere chiamati verso l'impossibile o l'assurdo, perché nel Cristo l'amore è un fatto, una persona. Nel Cristo, per il dono dello Spirito, le esigenze dell'amore sono alla nostra portata, anche se contestano e rendono precarie le parziali realizzazioni di ogni giorno.
    In questa prospettiva, che rilancia verso il trascendente senza allontanare dalla storia, riusciamo a cogliere con verità il significato del nostro essere «peccatori», bisognosi di salvezza e, nello stesso tempo, scopriamo che l'unico «nome» in cui c'è salvezza, è il Signore Gesù Cristo. Perché nessuna ideologia, nessuna umana realizzazione, possono «salvare» le esigenze dell'amore, anche se offrono materiale importante per la costruzione di rapporti storici d'amore.

    Riconciliazione per la liberazione

    Provocati dalla radicalità dell'amore, sentiamo il bisogno di «riconciliarci», tra noi e con Dio coinvolto personalmente come fonte necessaria in ogni gesto d'amore.
    La riconciliazione del cristiano è «liberazione»: lavorare per «rimettere le cose apposto», a tutti i livelli. Nel Cristo che liberandoci fa di noi dei liberatori.
    Il tema è importante, perché si inserisce in una sensibilità viva oggi e nello stesso tempo ricostruisce il tessuto di atteggiamenti che la ricorrente deresponsabilizzazione può mettere in secondo piano.

    * La riconciliazione: un dono del Padre in Cristo
    Abbiamo tutti, nel sangue, la tentazione di giocare la parte dell'offeso nel rapporto con gli altri. Anche, magari, quando ci sentiamo addosso gravare il peso di molte responsabilità. Come in tutte le cose, non manca, in questo modo di fare, un pizzico di verità. Quando i rapporti sono sbagliati, quando ci si abbuffa l'uno contro l'altro, è complicato decidere a chi attribuire «tutta» la colpa.
    Sotto sotto, però, serpeggia una tendenza profondamente pericolosa: la voglia di essere a posto, la coscienza di aver fatto tutto il proprio dovere. E cioè la riduzione dell'amore, che è la verità del rapporto interpersonale, al rango restrittivo... della giustizia distributiva. Invece di inventare, con la creatività dell'amore, «cosa» di nuovo fare per un dialogo più vero, ci si accontenta di fotocopiare passivamente ciò che è stabilito, programmato, meccanicamente legato alle convenzioni sociali del proprio ruolo.
    Questo guazzabuglio di sentimenti e atteggiamenti ce lo trasciniamo dietro, anche nei nostri rapporti con Dio. C'è proprio da capovolgere tutto. Per cominciare ad amare, nella verità di ciò che io, gli altri e Dio siamo. Un dialogo interpersonale è vero, se è sempre intessuto di «riconciliazione». Se è denso dello sforzo di riallacciare i ponti, ritessendo faticosamente la trama dell'amore.
    Riconciliarsi vuol dire «convertirsi ,.: sentirsi dalla parte del colpevole, in verità, per prendere l'iniziativa del pentimento. Tutto, però, non finisce così. C'è un ulteriore capovolgimento di prospettive da mettere in cantiere. Convertirsi è un «dono». Convertirsi è il dono del Padre in Cristo. È veramente duro affermarlo, per noi uomini sicuri, carichi della boria della nostra autonomia e potenza... Si mette il dito nella piaga. Convertirsi significa dichiararsi peccatori e aver voglia di cambiar vita. Significa scoprire che la radice di tutti i mali è il peccato, il rifiuto dell'amore del Padre, che diventa rottura interiore e con gli altri. Per questo, riconciliazione è conversione. E conversione è mettersi in ascolto dello amore del Padre che in Cristo ha preso l'iniziativa di perdonarci.
    Il fratello che mi permette di convertirmi-riconciliarmi con lui, lo può solo in Cristo, dono di riconciliazione del Padre. È un dono che già ci avvolge tutti. Un nuovo clima di amore, diffuso nella morte e risurrezione di Cristo, che ci ha fatto uomini nuovi, capaci di conversione e di riconciliazione. Inseriti in questo clima, la quotidiana fatica di rinnovare il rapporto con il Padre e tra di noi ha la gioiosa speranza dello sbocco sicuro.
    Siamo uomini di riconciliazione, solo perché il Padre ci ha amato, riconciliati a sé, radicalmente convertiti, nel Cristo.

    * La riconciliazione: un dono che impegna
    Nell'economia dell'amore del Padre nessun dono è un privilegio da consumare al chiuso della propria stanza, tra pochi intimi. Ogni dono è un impegno. Tanto «impegno» che lo spessore del dono ne viene radicalmente condizionato.
    Se la riconciliazione e la conversione sono dono del Padre in Cristo, lo spazio del quotidiano è il luogo di attuazione. Chi ha la grazia di questa nuova coscienza, è decisamente chiamato a giocarsela nelle cose di tutti i giorni. Lì essa diventa «fatto» concreto, verificabile. Lì è «testimonianza», cioè modo diverso di vivere le cose comuni; tanto diverso da costringere gli altri ad interrogarsi sul significato d'una vita così «strana».
    È davvero importante proiettare in questo spazio «normale», la consapevolezza dell'essere stati afferrati dall'amore di un Padre che ci chiama e ci permette di convertirci.

    * Riconciliazione e giustizia: lavorare per la liberazione
    Riconciliazione è fare la giustizia. Diventare costruttori di giustizia. Zaccheo è il segno della conversione. Scopre Cristo, il dono della riconciliazione. Cambia interiormente: si vede in modo nuovo. E conclude in una scelta di restituzione, secondo i parametri dell'amore. La riconciliazione è un vuoto gioco di parole se non approda alla «ricostruzione». Un mondo «giusto» - un mondo «più giusto», nell'attesa dei cieli nuovi e terre nuove, dove regnerà la giustizia - è lo sbocco esterno del processo di riconciliazione. Ma, proprio a questo livello, il discorso va condotto in termini seri.
    Cosa significa «ricostruire»?
    È sufficiente rimettere le cose apposto, magari con un pizzico di generosità in più, come testimonianza di una inversione di marcia nella spirale dell'egoismo? Se la logica dominante fosse segnata da larghi criteri di giustizia, basterebbe rimettere le cose al proprio posto. Non è impresa facile. Ma, tutto sommato, sarebbe segnata da una strada abbastanza precisa. Le cose, però, non stanno così. Abbiamo tutti molto chiara oggi la consapevolezza che viviamo in un ordine veramente prossimo al «disordine costituito».
    Rimettere le cose a posto significa quindi lavorare per modificarle.
    Significa «cambiare» l'ordine ingiusto, i rapporti falsi e alienanti, superando la facile tentazione di creare interventi secondo la logica dominante.
    Riconciliazione è quindi sinonimo di lotta per la giustizia, di impegno per un ordine nuovo, ricostruito sulla falsariga della Pasqua di Cristo, di cui è segno e anticipazione nel tempo.
    La comunità è il luogo primo di questo impegno di giustizia. Dalla comunità, aperta sulla storia, l'impegno trasborda all'esterno, con un raggio di presa sempre più vasto.
    Il discorso si fa concreto se lo si riempie dei connotati quotidiani. La riconciliazione è possibile se ogni persona «fa la giustizia», nel tessuto profondo della propria personalità, vivendo i doni di cui ciascuno è ricco per un servizio più pieno, e potenziandoli in vista di una disponibilità più seria.

    Atteggiamenti di riconciliazione per la liberazione

    L'educazione alla penitenza chiama in causa immediatamente la necessità di abilitare a modi di fare (che chiamiamo, tecnicamente, «atteggiamenti») che siano la traduzione quotidiana delle istanze di riconciliazione e di liberazione che abbiamo ricordato.
    Quali atteggiamenti sono da promuovere, nel ritmo ordinario della giornata, per permettere un esercizio integrato di questa virtù?
    Il luogo della riconciliazione è il quotidiano. D'accordo. Ma che significa? Per evitare l'alibi di scelte parziali ed esclusive, è importante ricordare esplicitamente i due «spazi» ove operare la riconciliazione.

    * Prima di tutto a livello di rapporti primari: la «comunità» nel senso più ampio del termine è il luogo primo della riconciliazione. Comunità significa gruppo amicale, famiglia, rapporti interpersonali, convivenza educativa, parrocchia.

    * Non basta una riconciliazione a questo livello. Se il luogo normale è il quotidiano, è davvero in un impegno a raggio largo (magari a cerchi concentrici: dai rapporti primari a quelli secondari...) che va operata la riconciliazione. Il discorso va concretizzato: e quindi riprodotto con le caratteristiche della località. Basta quindi qualche battuta.
    Riconciliazione nella famiglia (superando i conflitti di generazione e gli arroccamenti sulle posizioni rigide del conformismo e dell'anticonformismo), nella scuola (scoprendo che lo scontro è sui progetti d'uomo che si contrappongono), nell'ambiente di lavoro (eliminando le cause strutturali della disumanizzazione o del rivendicazionismo ad oltranza), tra culture e provenienze sociali (si pensi al problema dell'immigrazione), tra razze e popoli (guerre e razzismo), tra confessioni e religioni (ecumenismo), tra esperienze e coscienze diverse (superando, in una convergenza verso la verità più grande di ogni conquista personale, la pericolosa dialettica tra chi rallenta e chi imprime brusche accelerazioni...).
    È quindi riconciliazione, nel senso più impegnativo del termine, la scoperta che la realizzazione di sé sta nella capacità di decentrarsi: un quotidiano morire per far vivere, in una qualificazione professionale che non gioca all'arrivismo ma si pone come strumento efficace di liberazione globale.
    All'interno di questa prospettiva, riconciliazione, nel servizio educativo, significa un modo «nuovo» (più giusto: più rispondente alla ricchezza di ogni persona) di gestire l'educazione; nei rapporti interpersonali significa eliminare la logica del potere-forza, per far spazio veramente all'amore; nei rapporti istituzionali significa eliminare le cause strutturali delle perenni emarginazioni; nell'indispensabile esercizio dell'autorità significa smascherare il personaggio-ruolo per una piena prospettiva di servizio.
    Questo lungo discorso sugli atteggiamenti in vista della educazione alla penitenza potrebbe essere riassunto nella formulazione del Padre nostro: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Per chiedere con verità perdono a Dio, dobbiamo diventare capaci di perdonare ai fratelli; capaci di riconciliarci tra di noi, a tutti i livelli, per poter godere del dono di riconciliazione del Padre.
    Un «perdono» come gesto d'amore. Che coinvolge veramente tutti e a titolo gratuito, cercando fino in fondo la crescita reale dell'altro. Un amore come quello che ci è donato: gratuito, universale, sostentativo della nostra maturità e responsabilità.

    Dagli atteggiamenti al sacramento della penitenza

    Gli impegni umani di riconciliazione e di promozione di una vera liberazione, sono momenti importanti per la scoperta della dimensione trascendente nella penitenza. Almeno radicalmente essi appellano all'amore del Padre, proprio perché ne sono una realizzazione parziale e provvisoria. Il riferimento al sacramento della penitenza passa attraverso questo rapporto di continuità-discontinuità: ci si accorge quanto gli atteggiamenti umani siano importanti, mentre ci si rende conto che sono insufficienti. Dobbiamo spiegarci: siamo di fronte ad un punto nodale di tutto il nostro discorso pastorale.

    * Nella riconciliazione umana c'è un frammento dell'amore del Padre che ci perdona. In ogni esperienza di riconciliazione-liberazione umana è già all'opera l'azione del Cristo, la sua pasqua ha già segnato di sé ogni avventura dell'uomo. Si tratta quindi di un fatto importante, qualificante. Senza questa realtà «umana» il sacramento della riconciliazione diventa un gesto vuoto, retorico: un appello al trascendente che si scolla dalla esperienza reale di vita.
    I giovani che sentono di essere avvolti dal male e vogliono liberarsene, quelli che lottano per modificare i rapporti di ingiustizia, coloro che sanno «perdonare», sono già dentro il mistero dell'amore del Padre; anche se non hanno la coscienza riflessa che in ciò che stanno vivendo, è presente il volto di Gesù Cristo, il Salvatore.
    Per essi, la strada della riscoperta della penitenza passa, necessariamente, da questo oscuro sentimento di colpa e da questa iniziale intuizione di perdono e di amore. Essi vivono un valore penitenziale; non ancora pienamente, senza saperne il significato più radicale. Sono però in una realtà seria, costitutiva ontologicamente di ogni penitenza cristiana.

    * La verità della riconciliazione coinvolge sempre l'amore del Padre. La riconciliazione cristiana non coincide però con questi frammenti. Non basta riconciliarsi tra uomini, per realizzare l'amore. Le esigenze dello amore sono così radicali e inaudite che solo «con Dio dentro» diventano possibili. L'appello al trascendente non è sul piano delle formule. Esso sta invece nella coscienza riflessa che solo in Cristo possiamo instaurare con i fratelli quel «nuovo» rapporto d'amore a cui siamo chiamati. Il dono dell'amore si fa quindi «autocritica» (critica dall'interno) di ogni nostra intuizione di amore e di perdono, per spingerci a procedere oltre, verso quell'obiettivo che ci affascina da lontano. Che non è folle pretesa, perché è una persona: il Cristo. In questa consapevolezza avviene il salto qualitativo dall'umano al divino. L'esperienza di riconciliazione che abbiamo vissuto (proprio perché seria, nostra, importante), ci «misura», facendoci scoprire la sua precarietà e provvisorietà. Da superare e inverare nel mistero dell'amore del Padre che nel Cristo ci investe e ci provoca.
    Il cammino quindi verso una matura prassi penitenziale ripercorre, ancora una volta, le direttrici del più generale progetto di pastorale giovanile:
    - una esperienza umana impegnativa (l'educatore ha il compito di guidare verso l'autenticità umana);
    - la scoperta della sua provvisorietà e quindi l'appello ad una «salvezza» definitiva (l'educatore ha il compito di guidare verso la coscienza del provvisorio e di annunciare a chiari termini il definitivo);
    - l'accettazione gioiosa della dinamica storica della salvezza, nella universale sacramentalità cristiana (il Cristo, la Chiesa, i Sacramenti, il quotidiano).

    DALLA RISCOPERTA DELLA PENITENZA AL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE

    Le molte cose dette finora sono finalizzate a creare la «disposizione» al sacramento della penitenza, per favorirne una recezione matura; di fede per la salvezza. Molti giovani sono già d'accordo con queste istanze generali. Per essi, il problema è solo sul «sacramento». Che bisogno c'è di un «sacramento», per realizzare atteggiamenti penitenziali, che possono essere recuperati anche in altre forme?

    Per chiedere al sacramento ciò che esso oggettivamente è

    Un fatto innegabile; nel corso del cammino storico di molte comunità ecclesiali si è «gonfiato» il significato del sacramento della penitenza, a scapito di altri momenti «formativi». Valori richiesti normalmente al sacramento possono essere ritrovati, spesso con maggior efficacia, in altri gesti. Si pensi, per esemplificare, al valore di conversione permanente a cui appella la celebrazione eucaristica, allo stimolo a revisionare la propria vita insito nell'ascolto della Parola di Dio, all'aiuto per la crescita personale legato alla direzione spirituale.
    La scoperta del significato del sacramento nel cammino di conversione personale e comunitario, va legato alla sottolineatura del suo «specifico» di fede. È un processo corretto, corrispondente alla sensibilità teologica a cui il Concilio ci richiama.

    * Il sacramento della penitenza è oggettivamente «relativo» alla situazione, non augurabile nella vita del cristiano, di «peccato grave». Il sacramento segna la riconciliazione di colui che, per scelta libera e consapevole, si è «tagliato» dalla comunione, con Dio, con la Chiesa e i fratelli, a causa del peccato grave commesso.
    Le altre funzioni, normalmente richieste al sacramento, non sono proprie del sacramento stesso e sono di fatto presenti in molti altri gesti della esperienza cristiana.

    * Nello stesso tempo, proprio il carattere di «sacramentalità» dice la sua funzione celebrativa di un atteggiamento di conversione permanente, presente e da sottolineare nella vita quotidiana.
    Il cristiano è chiamato ad una conversione continua, per adeguare la sua vita alla proposta del Vangelo nell'annuncio di novità della risurrezione. Questo atteggiamento è di fondo. Ed è l'aspetto di «verità» della personale professione di fede.
    Questo livello esistenziale di pentimento-conversione va «autentificato», attraverso una «celebrazione» storica, concreta.
    Noi siamo fatti così: la visibilità dei nostri gesti è garanzia della loro autenticità. Non basta il gesto esterno, certamente. Ma il gesto esterno è importante, come rivelazione delle scelte interiori.
    Anche nella prassi penitenziale la visibilità nel sacramento è per «misurare» l'autenticità del pentimento interiore.
    Abbiamo bisogno di chiamare i nostri peccati con il loro nome, a voce alta, di fronte ad altri. Per convincerci di essere «peccatori» Abbiamo bisogno di impegnarci ufficialmente a rimettere le cose apposto, nella «soddisfazione». Per sentirci seriamente impegnati. Questi gesti diventano gesti di fede: nel confronto con le regole di un amore «trascendente», si avvertono i propri «limiti».
    Il gesto celebrativo (nel nostro caso l'autentificazione del personale impegno di conversione permanente nel sacramento) ha bisogno di trovare un ritmo adeguato, proporzionato cioè al movimento interiore di ogni persona e all'oggettività di una celebrazione (per il suo carattere di «festa» non può certamente essere ripetuta con una frequenza esagerata...).

    * Il sacramento aiuta a recuperare un aspetto importante: la gratuità del perdono, legato alla gratuità della risurrezione di Cristo. La risurrezione, principio definitivo della nostra salvezza, è un intervento di Dio «tipico», ciò trascendente ogni umana aspettativa. La gratuità del dono è significata dalla gratuità del rito: le cose che si fanno, le parole che si pronunciano, non sono certamente «proporzionate» al perdono che si riceve. Lo sforzo di rendere «eloquente» il rito (cosa a cui i giovani oggi sono molto sensibili) va vissuta perciò all'interno di questo quadro di riferimento. Nessun gesto potrà esprimere adeguatamente il «dono» del perdono, proprio perché esso è dono che supera ogni umana aspettativa. Come sempre, nel mistero dell'amore del Padre che salva, ogni dono è impegnativo: richiede cioè una verifica nella vita. Ritorna il discorso fatto poco sopra: il livello esistenziale di conversione «celebrato» (e capito nella sua totalità) nel sacramento della riconciliazione.

    * In questa prospettiva (celebrazione di un fatto legato alla vita) trovano adeguata collocazione le due forme attuali: quella strettamente personale e quella personale-comunitaria. La prima mette l'accento sul «dono» che investe ogni persona, a risposta della «crisi» personale, superata nella conversione strettamente personale. E potrà perciò essere utilizzata in occasioni particolari: giornate di ritiro e di esercizi spirituali, momenti di particolare bisogno personale. Per il suo carattere «personale», il sacramento potrà essere accompagnato da un lungo dialogo, di revisione e di sostegno. La seconda mette l'accento sul dono del perdono che raggiunge la persona nella e attraverso la comunità ecclesiale, nei termini in cui essa sa pentirsi in quanto comunità, vivere un atteggiamento di reale riconciliazione interpersonale, e accettare il dono gratuito del perdono di Dio.
    Questo modo di celebrare il sacramento mette l'accento sugli aspetti essenziali: l'ascolto della Parola di Dio, la conversione nella comunità, il perdono di Dio. La celebrazione insisterà perciò sugli aspetti più comunitari, lasciando il dialogo strettamente interpersonale ad un altro contesto.

    Gli «atti» fondamentali per la celebrazione del sacramento

    Oggi preferiamo parlare di sacramento della penitenza-riconciliazione (piuttosto che di «confessione») per superare l'aspetto giuridico-meccanico del sacramento stesso. La riscoperta del sacramento e la sua celebrazione chiedono perciò un cambio di mentalità. È un modo nuovo di prepararsi, di vivere e di celebrare il sacramento che permette di far passare, nella esperienza quotidiana, le annotazioni programmatiche trascritte nelle pagine precedenti.
    Tentiamo una riformulazione dei tradizionali «atti» necessari per la «buona confessione», in un quadro teologico coerente.

    * L'esame di coscienza è ascoltare la Parola di Dio
    Il primo atto che il penitente deve compiere è aprirsi con docilità e «insieme» ad ascoltare Dio che per Cristo nella Chiesa gli parla.
    L'agire morale del cristiano non è monologo ma dialogo. La coscienza del cristiano è modellata dalla Parola di Dio.
    Il vangelo è il «prontuario» dell'esame di coscienza per il cristiano. La parola di Dio è perciò il «testo base» con cui confrontarsi.
    Il primo atto del penitente è quindi ascoltare. Ascoltare «insieme», perché la parola di Dio è donata alla comunità, alla chiesa.
    Nel sacramento della penitenza compare, come in tutti gli altri sacramenti, la struttura dialogica e la struttura comunitaria.
    Il giovane che si prepara alla confessione, si prepara con la bibbia, con il vangelo, tra le mani.

    * L'annuncio di un amore più grande del tradimento
    Alla luce della parola, ci scopriamo «peccatori». La parola di Dio è giudizio sull'uomo. Ci contesta profondamente. Basta leggere i profeti: «Un bue riconosce il suo padrone. Israele non mi riconosce!»; o il Vangelo: «Razza di vipere...».
    La parola di Dio è sempre giudizio. E il cristiano si lascia giudicare dalla parola. La parola di Dio è anche consolazione. Il Dio della Bibbia è un Dio che ama appassionatamente l'uomo. Un Dio che vuole perdonare a tutti i costi. «Che è più grande del nostro cuore, anche quando il nostro cuore ci rimprovera!». Un Dio che ci ricorda sempre che «se anche i nostri peccati fossero scarlatto, lui li rende bianchi come la neve!».
    Dio ci giudica; ma non ci condanna. Dio ci rivela sempre il suo amore, anche nel giudizio il più spietato.
    L'ascolto della parola, per la sua verità, deve essere condotto secondo le due direzioni: parole di giudizio e parole di consolazione.

    * «lo sono peccatore»
    La comunità e il singolo penitente che ha ascoltato la parola di Dio, sono stati giudicati ed hanno ricevuto l'annuncio di un amore più grande di tutti i peccati. Ora rispondono riconoscendo la verità della propria situazione di peccatori: «Signore, ho peccato. Credo al tuo amore». Il figlio pentito manifesta il suo peccato alla Chiesa che incontra nel sacerdote. Dio Padre lo perdona. La voce del sacerdote è l'eco terrestre della voce del Padre che nel seno della Trinità perdona al figlio.
    L'uomo pentito si confessa e chiede perdono. La sua richiesta di perdono è tanto lontana dalla possibilità di raggiungere Iddio. Cristo si identifica con il peccatore. Lui prende la richiesta di perdono e la presenta al Padre. Cristo a nome del peccatore e al suo posto chiede perdono al Padre. Il Padre e il Figlio mandano lo Spirito Santo il quale rinnova e trasforma «il cuore di sasso in un cuore di carne».

    * Il ringraziamento e la festa
    Avviene un grande miracolo. Il peccatore è trasformato, radicalmente. Rifatto nuovo.
    Non può non sgorgare il ringraziamento.
    L'ultimo atto del penitente è il ringraziamento: ringraziare per il dono ricevuto. Ringraziare assieme: nella comunità e nella Chiesa. «E fecero gran festa». Nel Vangelo, tutte le conversioni terminano con la grande gioia della festa.
    L'eucaristia è la conseguenza logica, inevitabile, della penitenza.
    Assieme, in Cristo, il fratello che ci ha ottenuto la conversione, si fa festa.

    Il problema della frequenza

    Le molte pagine precedenti possono offrire «materiale» utile ad ogni educatore per decidere lo spinoso problema della frequenza.
    Crediamo che non possa esistere una formula risolutiva, né nel senso tradizionale né tanto meno in un senso di maggior liberalizzazione.
    I documenti del Magistero, anche recenti, sottolineano la necessità di non prendere posizioni arbitrarie e rinnovano la normativa tradizionale: fiducia nella confessione di devozione, necessità di premettere la confessione alla comunione quando si ha coscienza di colpa grave, confessione «almeno una volta all'anno», in stato di peccato grave.
    La prassi pastorale ha spazio ampio, per interventi educativi, all'interno di questi ambiti. La decisione non può che nascere nel rispetto delle sensibilità di ogni persona e in vista della sua maturità oggettiva.
    Possiamo indicare alcuni elementi, da tenere in attenzione per mediare una decisione qui-ora.

    - Il sacramento è gesto di fede.
    L'impegno pastorale è centrato prima di tutto alla riscoperta della fede, che non può essere data come scontata. Non quindi prima di tutto alla moltiplicazione dei sacramenti ma alla crescita nella fede, attraverso una corretta opera evangelizzatrice.
    Evidentemente, quando parliamo di maturità di fede per il sacramento, facciamo una sottolineatura «relativa»: la maturità non è un fatto assoluto, ma va misurata in riferimento alla concreta persona (secondo le caratteristiche dell'età psicologica, della maturità umana, della cultura, dell'esperienza...).
    - Il sacramento della penitenza esige una vita in atteggiamento di conversione permanente, nell'accettazione del Cristo Risorto e nell'ascolto delle esigenze del Vangelo. Di questo livello esistenziale di conversione, il sacramento è «celebrazione». Lo spazio d'intervento educativo è quindi, ancora una volta, la costruzione di atteggiamenti di conversione, nella vita quotidiana, da cui potrà scaturire la verità dei momenti celebrativi-sacramentali.
    - Molti gesti ecclesiali possono aiutare la crescita nello spirito penitenziale con maggior efficacia del sacramento stesso (per la particolare adattabilità): ascolto della Parola, celebrazioni penitenziali, esperienze eucaristiche...
    - Potrà, inoltre, essere utile «sganciare» la direzione spirituale (nel senso ampio del termine: a livello personale e come «revisione comunitaria») dal sacramento stesso, per intensificare la prima senza necessariamente dover moltiplicare il secondo.
    - Da tutto ciò non si può però concludere troppo frettolosamente.
    Il sacramento ha una forza intrinseca (dona oggettivamente lo Spirito Santo che salva e converte) irrinunciabile. Da questa grazia nasce un modo diverso di vivere la vita, e di assumere lo stile penitenziale nella vita.
    Sul fronte educativo, la frequenza del sacramento permette un sostegno che solo teoricamente potrebbe esser ritrovato «fuori». Per molti giovani l'abbandono o la rarefazione del sacramento coincide con un calo pauroso di fede e di vita cristiana. È importante rendersene conto, per evitare ogni faciloneria, soprattutto quando in oggetto sono ragazzi e giovani, persone cioè in fase di crescita esistenziale e quindi bisognose di cure tutte particolari.
    - La costruzione di una nuova mentalità deve iniziare molto presto e con ricercata coerenza.
    Quando si procede a sussulti, con troppa disomogeneità, con permissivismo da una parte e rigidità dall'altra, la persona che cresce è rotta dentro, si sviluppa con troppa conflittualità e molto facilmente sarà spinta a rifiutare i valori che le sono proposti, nello stile rinnovato.

    Un sacramento a misura d'uomo?

    Per i ragazzi e i giovani, soprattutto, il sacramento della penitenza riveste una funzione «terapeutica» importante. Attraverso il contatto personale con il sacerdote, sono aiutati a formarsi una coscienza matura, superando sensi di colpa di natura psicologica per crescere in una visione oggettiva di peccato e salvezza, scaricano tensioni emotive in un colloquio pacato. Bisogna eliminare queste funzioni «umane» del sacramento, per evidenziarne il carattere specifico?
    Abbiamo l'impressione che sia difficile e pericolosa la posizione radicale, sia come affermazione che come negazione.
    Eppure dalla scelta, nascono interventi pratici molto diversi. Si pensi, per esempio, al tema della frequenza. Se il sacramento è ridotto alla sua essenzialità, può essere celebrato con una certa rarefazione, purché il giovane abbia spazi affermati e frequenti di dialogo interpersonale. Se invece si preferisce tenere congiunte le due funzioni, la rarefazione del sacramento cade a discapito di una matura crescita, umana e cristiana. Che fare?
    Una risposta equilibrata può essere costruita attraverso la convergenza di istanze complementari. Le ricordiamo a tratti veloci.
    - È importante non svuotare lo specifico del sacramento, riducendolo ad una semplice pratica psicanalitica. Ne scapita il significato della penitenza e, alla fine, si ritorce in un suo rifiuto, superate le ansie che ne chiedevano una frequenza particolarmente alta.
    - D'altra parte, il sacramento è un gesto umano: quindi carico di dimensioni psicologiche e interventi salvifici. La distinzione fredda è possibile solo a tavolino. La persona è un'unità, spesso inscindibile. Tentare di «purificare» troppo il sacramento significa, alla radice, disumanizzarlo.
    - Molti gesti propedeutici al sacramento, possono, lentamente, essere vissuti fuori, in contesti diversi, sia educativi che ecclesiali. Per esempio attraverso la direzione spirituale, il gruppo, l'ascolto della Parola di Dio. Se il gruppo è abituato a frequenti «revisioni di vita», a carattere anche penitenziale e di riconciliazione, e se il gruppo riesce a vivere in dimensione di fede reale questo quotidiano pentimento, il sacramento diventa il momento celebrativo di un atteggiamento esistenziale, disciolto e disseminato nella vita.
    Se il giovane è stato abituato ad un dialogo aperto con un adulto, per far quadrare i conti della propria esperienza, in chiave di crescita umana e cristiana, la rarefazione del sacramento non potrà inquietare l'educatore: in questo caso, è indice di una maturità di fede.
    Come sempre, non ci sono formule da applicare indiscriminatamente a tutte le situazioni. Non sono adatte quelle tradizionali come non lo sono quelle elaborate solo nella affannosa ricerca della novità.
    Ogni comunità e ogni persona hanno bisogno di un dialogo specifico, capace di rispondere alle particolari movenze in cui esse sono di fatto situate. C'è uno stile di fondo: un clima della comunità in cui cresce l'atteggiamento penitenziale del singolo. Questo è da ricercare e creare, con ogni sforzo educativo, per raggiungere una reale compenetrazione di crescita anche nella fede.
    All'interno di questo clima, andranno situati i momenti celebrativi, con un ritmo consono alla irrepetibile particolarità di ciascuno. L'impegno educativo è connotato di rispetto per ogni giovane e per i tempi della sua evoluzione umana; di piccoli interventi che fanno un clima penitenziale nella comunità; di riflessione attenta per dare significati maturi a quello che si sta vivendo. E del coraggio di «creare» ogni giorno lo spazio adeguato all'irruenza del dono dello Spirito Santo che salva (all'interno ma con radicale novità) di ogni intervento educativo umano.

    IL SENSO CRISTIANO DI TUTTA LA VITA

    La riscoperta del senso cristiano della penitenza è legata strettamente ad una coscienza profondamente cristiana di tutta la vita. Si è perso il senso del peccato ed è entrata in crisi la pratica penitenziale, perché a monte è povera, scarsa, la dimensione di fede della vita quotidiana.
    La conclusione rilancia il discorso da capo. È il ritmo ordinario del nostro esistere storico che lo richiede.
    L'affermazione apre un lungo discorso. Non lo facciamo. Ci basta indicare le piste che dovrebbero caratterizzare questa «riscoperta». Sono i capitoli di una riflessione urgente. Non mancano oggi gli strumenti culturali per farla; sono purtroppo scarse le «esperienze» affascinanti.

    * Un maturo senso di Dio
    Dobbiamo riscoprire il Dio di Gesù Cristo, perdendo per strada quelle immagini distorte di Dio che ci siamo trascinati dietro per troppo tempo.
    Il Padre non è un nostro pericoloso concorrente, da eliminare o a cui lasciare il minimo indispensabile di spazio operativo. Egli ci promuove e ci sostenta, nei termini in cui il suo amore è prioritario e costitutivo del nostro esistere. Egli è un Padre che genera dei figli (non degli automi, passivi recettori), è un Creatore che chiama nuovi creatori. La libera risposta dell'uomo è il primo frutto del suo amore.

    * Un maturo senso della «morale» cristiana
    La vita quotidiana è il luogo storico dove ci giochiamo il dono della salvezza. Non può diventare una ragnatela di leggi, assurde o costellate di proibizioni. L'unica legge per il cristiano è l'amore. Esso ci trascina nel dinamismo della pasqua: la morte per la vita. Nel Cristo che è la risposta più piena al nostro tentativo di «capirci» ed è la forza dirompente per la nostra realizzazione.

    * La scoperta del rapporto «sacramenti e storia», «fede e vita»
    I sacramenti sono nella vita e per la vita. Proprio perché sono la salvezza che si realizza nella vita. Essi autentificano il nostro quotidiano esistere e ci chiamano a quelle modalità di definitività che caratterizzano la serietà e consistenza delle nostre esperienze di vita.
    Alla luce di queste prospettive, da approfondire in una circolarità in cui la comprensione si fa vita e la vita ulteriore ricerca di comprensione, possiamo davvero scoprirci «peccatori», bisognosi di salvezza, investiti e ricolmi della forza dell'amore del Padre che nel Cristo ogni giorno ci salva.

      (NPG 1975-04-03)     È un tema impegnativo, quello che abbiamo deciso di affrontare con un contributo maturato in lunghi confronti redazionali e nell'ascolto attento di esperti e operatori pastorali. Una diffusa sensibilità, in cui si intersecano aspetti positivi e aspetti negativi tiene oggi i giovani abbastanza lontani dal sacramento della penitenza. È un fatto. Ma le difficoltà non sono solamente qui. Ne esistono di notevoli, anche dalla parte del sacramento. Ed è proprio da quest'ottica che invitiamo a leggere la nostra proposta, per evitare la faciloneria di discriminare con troppa sicurezza il torto e la ragione pensando che la prassi pastorale «tradizionale» fosse la cosa migliore e che quindi i guai di oggi possono essere superati forzando il ritorno alle abitudini di prima. Attorno al sacramento della penitenza si condensano grossi problemi, di contenuto squisitamente ecclesiale. Problemi impegnativi e di difficile soluzione La «confessione» è il nodo della prassi sacramentale ecclesiale: attorno ad essa esplodono più vasti aspetti di crisi. Ne elenchiamo alcuni, per fornire un quadro di riferimento, tratteggiato a grandi linee. 1. La prassi penitenziale della Chiesa non è sempre stata omogenea. Quella attuale è relativamente recente. Questa consapevolezza è ormai patrimonio comune di molti sacerdoti. Proprio per questo s guarda, spesso, con occhio disincantato su quelle abitudini tradizionali che oggi sembrano perdere colpi. Le mutazioni, anche radicali, che hanno percorso la storia penitenziale della Chiesa, confermano la possibilità di cambiare, senza per questo sfuocare la sostanza. Purtroppo, questa analisi storico-teologica viene vissuta, talvolta, in termini affrettati, più emotivi che razionali: tali cioè da non permettere una acquisizione matura di ciò che è sostanziale nei confronti di abitudini invece mutevoli. 2. Viviamo in un'epoca di transizione. Anche il tradizionale concetto di peccato, i criteri morali che lo descrivono, sono oggetto di transizione. Il processo è da molti vissuto con stadi di alta conflittualità. Non sono infrequenti gli «scontri» tra prospettive rigide, integraliste e sensibilità troppo permissive. Certamente la «coscienza giovanile media», a questo riguardo, è abbastanza lontana da definizioni tradizionali ancora ricorrenti. Tutto questo, evidentemente, si ripercuote nella prassi penitenziale. 3. Il sacramento della penitenza ha significato soltanto in una decisa ottica di fede. Si può parlare di peccato, di pentimento, di conversione, nel senso in cui se ne parla nel «sacramento», solo accettando, con decisione personale matura, la logica del Vangelo e facendo proprio, in forma incondizionata, l'annuncio del Cristo Risorto. La vita di fede è oggi in crisi, per molti. Certamente non può essere data per scontata, se si tiene conto della radicale estraneità dell'ambiente sociale e culturale in cui viviamo. Troppe volte, quindi, parliamo lingue diverse. Gli educatori della fede invitano alla penitenza, immaginando di dialogare con gente che vive di fede. Mentre il dono della fede, per troppi, è ben lontano da essere il significato definitivo e totalizzante della vita quotidiana. Per ricostruire il tessuto del sacramento della penitenza, dobbiamo ricostruire ampiamente lo «spazio vissuto» della fede, nel confronto con la risurrezione del Cristo e le esigenze del Vangelo. 4. L'ultimo aspetto che rende problematica la «soluzione» della prassi penitenziale: la caduta di una reale esperienza ecclesiale, capace di far sentire «a disagio ecclesiale», quando si è in stato di peccato. La crisi di appartenenza riduce il pentimento-conversione-perdono a rapporti strettamente individuali, che tendenzialmente lasciano in disparte la dimensione ecclesiale e che quindi deprivano di significato il sacramento, che nella ecclesialità fonda la sua storica visibilità. Abbiamo sottolineato alcuni problemi. L'abbiamo fatto per ritagliare una chiave di lettura della nostra proposta. E per scoraggiare coloro che volessero trovare, in queste pagine, il toccasana miracolistico per tutti i problemi educativi e pastorali che giustamente li angustiano. La ricostruzione di una matura prassi penitenziale richiede un impegno specifico (e su questo offriremo spunti di confronto), ma nello stesso tempo costringe a ristabilire il tessuto più vasto di una reale esperienza cristiana, che nella penitenza è chiamata in causa, con tutta l'irruenza della sua specificità. Non si comprende la penitenza, il peccato, il perdono se non all'interno di una vita cristiana riscoperta in pienezza alla luce del dono della risurrezione del Cristo.   Le pagine che seguono contengono una sintesi di molte prospettive di intervento: un progetto globale da cui partire e su cui muoverci. Certamente non si può considerare concluso il discorso. Molti temi andrebbero richiamati a monte; altri interventi a carattere operativo richiederebbero uno sviluppo ulteriore. Ci ripromettiamo di farlo, anche se non a scadenze ravvicinate. Soprattutto vorremmo riuscire a presentare esperienze concrete di operatori pastorali che hanno tentato di far qualcosa, magari sulla falsariga di questa proposta, per avvicinare giovani concreti alla salvezza pasquale del Cristo, nel sacramento della penitenza.   I GIOVANI E LA PRATICA PENITENZIALE   Non ci sono ricerche di vasta risonanza, capaci di documentare, con una certa sicurezza, l'attuale sensibilità giovanile in rapporto alla pratica del sacramento della penitenza. Gli operatori pastorali hanno però il polso della situazione, con una buona dose di approssimazione. Assistiamo ad un calo nella pratica. Non ci si confessa più, dice qualcuno. Ci si confessa molto meno di una volta: è un dato «minimo», su cui la convergenza è facile. Problematico è soprattutto il giudizio sul fatto. Il calo di frequenza è sinonimo di crisi di fede, di caduta del senso del peccato, di permissivismo morale? Oppure è principio di una nuova autenticità religiosa? Ha in sé i germi positivi di una scelta verso la maturità o, invece, denuncia un pericoloso indifferentismo religioso e morale? Non sono domande retoriche, manovrate solo per volere a tutti i costi giustificare i dati di fatto. Tutti vogliamo una autentica esperienza religiosa, in cui la maturità della fede diventi criterio definitivo delle scelte quotidiane. Gli operatori pastorali conoscono quanta fatica il raggiungimento di una simile meta comporta. Sanno che non basta gridare ai bei tempi passati, come non basta alzare bandiera bianca all'irruenza dei nuovi atteggiamenti culturali. La maturità della fede chiede sempre uno stacco, un «salto di qualità», almeno verso i livelli più profondi dell'esperienza storica. Nella prassi penitenziale attuale possiamo parlare di positività e quindi di impegno educativo per rendere autentici i germi presenti nella sensibilità giovanile? Oppure dobbiamo ripartire da zero, ricostruendo lentamente quadri di valori che sono attualmente scomparsi? La «caduta di pratica», innegabile, va catalogata tra gli aspetti negativi, da superare? Oppure contiene stimoli positivi, anche se bisognosi di autentificazione e di crescita? Questo è il problema, a monte di tutto, a cui dobbiamo dare una risposta. La costruzione di proposte educative è, evidentemente, condizionata dal giudizio su questo dato di fatto.   Crisi per l'autenticità?   Non è facile dare una risposta ponderata all'interrogativo. Giocano troppi elementi in una intersecazione di difficile soluzione. Non possiamo negare l'esistenza di atteggiamenti che rendono giustamente perplessi gli educatori. Respiriamo tutti un clima di pericoloso secolarismo: il rapporto con Dio si è stemperato fino a ridursi ai soli dati immanenti, strutturali o interpersonali. Una serie di fattori hanno deresponsabilizzato le persone. In questo clima è scomparso il «senso del peccato» e quindi il bisogno, oggettivo, di un gesto di pentimento che chiami in causa l'amore di Dio. Nello stesso tempo si è fatta però strada una concezione del peccato e della responsabilità personale più matura di quella di un tempo. L'uomo si è sentito «provocato» più dalle scelte fondamentali che dai singoli gesti quotidiani, spesso condizionati da molti e diversi fattori. La dimensione trascendente del peccato ha coinvolto anche l'analisi strutturale di responsabilità prima troppo sottaciute, ritagliando così un nuovo e più maturo modo di «sentirsi peccatori». Tutto questo ha messo in crisi una concezione moralistica, non adulta e non «cristiana», di peccato e di penitenza. La crisi è, in questo contesto, una crescita di autenticità. È difficile misurare la rilevanza dei primi fattori e dei secondi. Certo, quelli positivi e quelli negativi sono contemporaneamente presenti, perché così è il clima che respiriamo. I giovani hanno antenne sensibilissime per captare le percezioni nell'aria. È facile che in essi si coagulino le diverse componenti. Nel paragrafo successivo prenderemo in esame gli aspetti «problematici» della attuale situazione penitenziale. Dobbiamo farlo, però, nella convinzione di analizzare fattori interdipendenti. Non vogliamo radicalizzare le analisi, accettando quella moda, molto pericolosa in campo educativo, che elimina un motivo sotto la spinta di un altro. Solo dall'insieme dei vari aspetti nasce il quadro conclusivo. Nelle singole persone e in determinati ambienti, sicuramente un aspetto fa da perno. Solo chi ha le mani in pasta può evidenziarlo, per fargli ruotare attorno l'impegno educativo di ricostruzione di una autentica dimensione penitenziale. Ed è importante, in concreto, organizzare così il tutto. Per evitare di tradurre in genericismo operativo quanto è invece, nelle nostre intenzioni, solamente un quadro di analisi necessariamente generico.   LA PENITENZA SOTTO PROBLEMA   Alla luce di queste premesse e nel quadro di queste scelte, vogliamo esaminare gli aspetti oggi problematici per offrire da questa panoramica proposte per un progetto di educazione rinnovata alla prassi penitenziale.   Una cultura che deresponsabilizza?   Con una certa fatica gli educatori stanno convincendosi che molti atteggiamenti non sono radicati prima di tutto nella buona-cattiva volontà delle persone, ma sono indotti dal peso del clima che si respira. Viviamo in una cultura che tende a deresponsabilizzare le persone, rilanciando su «altri» (cose, condizionamenti, strutture) le colpe dei mali che ci affliggono e le responsabilità delle scelte sbagliate che perseguiamo. Questo clima influenza la prassi penitenziale. Molti giovani stentano a sentirsi peccatori, perché hanno scoperto motivi dei loro guai che sfuocano la loro personale responsabilità. Oggi è presente la coscienza del «male» molto più di un tempo. Ciascuno è in grado di fare con notevole precisione il lungo elenco delle cose che non vanno, dentro e fuori di sé. C'è anzi una percezione molto raffinata al riguardo. Però, troppo spesso, la colpa è «fuori»: nei condizionamenti psicologici, nelle strutture alienanti, nelle cose di cui siamo deprivati, negli altri. Le cose sono i veri «colpevoli»: noi siamo le vittime. Le ascendenze ideologiche di questa confusa mentalità sono molte e diverse. Certamente alla radice sta l'ideologia borghese che domina il nostro mondo. Le cose sono il nostro «salvatore»: quindi le cose sono, per converso, la radice dei nostri mali. Non esiste un problema etico sulle cose: sono materiale da consumare e basta. Anche i fatti più importanti del proprio quotidiano esistere vengono codificati e quindi rimossi da ogni preoccupazione di bene-male. Molti giovani sono entrati in contatto anche con il marxismo, secondo fattispecie più emotive che autentiche, più reinterpretate secondo le categorie borghesi dominanti che ortodosse. Da questo clima marxista assumono il bisogno di scaricare la colpa soprattutto sulle strutture: noi «buoni ,., vittime del sistema ingiusto, di classi sociali oppressive e sfruttatrici... Gli slogans, che ci riempiono la bocca, fanno mentalità: il «buono» e il «cattivo» non passa più sulla persona ma attraversa unicamente la sua collocazione sociale. Anche la psicanalisi (recepita secondo quadri spesso epidermici e distorti) sfuoca la responsabilità personale, alla luce della scoperta di molti condizionamenti psicologici, più o meno inconsci, che rendono difficile in concreto l'esercizio della personale libertà. Come si vede, la deresponsabilizzazione affiora da molti fattori, spesso anche conflittuali. Non è facile fare misurazioni oggettive, né tanto meno attribuire i collegamenti culturali. All'operatore pastorale interessa però soprattutto questa «ideologia» spicciola che, a poco a poco, si sedimenta in tanti giovani, sul filo delle battute, dei modelli di comportamento, delle «lettere del direttore» dei giornali alla moda, dei valori che circolano con maggior insistenza, negli slogans, nelle analisi sociali, nei rapporti interpersonali e strutturali. Questa spinta a ridurre le responsabilità personali, rilanciandole in fatti più a monte, «pesa» notevolmente nella prassi penitenziale. Permette di superare molti stati di colpa immaturi. Ma mina alla radice il senso cristiano del peccato che è presa di coscienza di un gesto che coinvolge la persona nelle fibre più profonde, di fronte a Dio e ai fratelli.   Crisi di fede e di religione   Un secondo motivo che rende problematica per i nostri giovani la prassi penitenziale, va individuato nella crisi di fede e di religione che stiamo vivendo. La tendenza verso il secolarismo, che esaspera il valore del profano in una sua radicalizzazione, svuota dall'interno il senso del peccato, deprivandolo di ogni appello al trascendente. Senza la coscienza dell'amore del Padre che nel Cristo chiama tutti gli uomini alla novità di vita, non c'è peccato. L'offesa interpersonale e le responsabilità strutturali sono «peccato» solo quando sono investite di una radicalità che trascende ogni umana costruzione. Per molti giovani questi sono oggi discorsi «duri». I rapporti sbagliati tra le persone, si dice, vanno ricostruiti al loro interno. Ogni appello trascendente è alienante. Quindi non c'è bisogno, si conclude, di «penitenza»: basta la «giustizia», la responsabilità sociale. Qualche volta è messa invece sotto discussione l'espressione storica e collettiva della fede: la «religione». Si accettano i collegamenti trascendenti, inerenti ad ogni gesto umano, ma sono rifiutati (o problematizzati) i canali normali (il sacramento della penitenza, per esempio) che dovrebbero esprimerli. La «crisi del sacro» diventa crisi dell'istituzione attraverso cui il sacro tradizionalmente passa. Un altro aspetto di questo problema merita l'attenzione degli educatori. La nostra è una società permissiva: lo si ripete in tanti contesti. Ed è molto vero. Respirandone i condizionamenti, abbiamo assunto la permissività come un fatto di maturità che si traduce nel non voler giudicare il comportamento degli altri, nel trovare sempre mille scuse per «capirlo», nel potenziare tutti gli aspetti che giustificano anche i comportamenti apparentemente scorretti. A queste condizioni, ci si sente «buoni», rispettosi, fraterni. Con questi aggettivi diventa facile «qualificare» il Padre: lentamente ci si costruisce un'immagine di Dio, ritagliata sul clima di permissività morale che si respira. Ci si fa un idolo che lascia correre tutto, che non s'impiccia negli affari privati. Il Dio di Gesù Cristo non è un dio bonaccione. La sua «misericordia» non è chiudere un occhio sul male, giustificandolo sull'onda di motivi più o meno corretti. È ben diversa l'immagine di Dio che la Bibbia ci offre. Un Padre che ama, perché interpella, inquieta, «contesta». Che «perdona», con un rapporto tra adulti, tra gente che sa assumersi fino in fondo le proprie personali responsabilità.   La ricerca di autenticità e di verità   Anche il sacramento della penitenza, come molte altre istituzioni, è passato al vaglio dell'autenticità, che per molti giovani è oggi un criterio «irrinunciabile». Si vogliono cose «vere»: strumenti che esprimano oggettivamente ciò che intendono comunicare. Il tutto con un pizzico di integrismo e con la mentalità adolescenziale del «perfetto a tutti i costi». Il rito sacramentale della penitenza appare poco eloquente, non sufficientemente autentico. Quindi poco credibile. La consequenzialità, per troppi giovani, è immediata, irruente: dunque va abbandonato, si dice. La caduta della prassi penitenziale, è riconducibile, in misura variabile, anche a questa istanza, di autenticità e di verità.   Carenze nella prassi penitenziale   Tra i fattori determinanti la crisi penitenziale attuale, bisogna indicare anche il modo con cui si sviluppa di fatto il sacramento della penitenza. È una sottolineatura importante. Che deve farci pensare. Troppe volte, infatti, nelle nostre diagnosi, ci collochiamo con i piedi al sicuro, misurando solo ciò che gli altri fanno. Se molti giovani oggi sono in disagio nell'accettazione della penitenza come sacramento, la responsabilità non è anche nostra? Di noi «confessori». Il rito e ancora troppo povero. Anche le modifiche portate dall'ultima riforma e lo spazio offerto alla creatività delle comunità locali sono rimaste lettera morta. La realtà continua ad essere poco «eloquente». Il segno non esprime ciò che significa; spesso lo stempera fino a svuotarlo. Troppi confessori confessano «male». Con prevalenza di atteggiamenti non adulti (pignoleria, faciloneria, moralismo, rigidità, astoricità...); in forme molto individualistiche. La funzione di «giudice», legata alla cultura del passato, stenta a lasciare il posto alla mentalità di «fratello», che si sente coinvolto nella stessa identità di peccatore, anche se ha il compito di «aiutare» il pentimento e di testimoniare l'amore prioritario del Padre che chiama alla conversione. A fatica si fa strada una reale «omogeneità» ecclesiale (di valutazioni, di scelte, di progetti): la dimensione comunitaria è assente non solo nelle strutture della penitenza, ma anche nella «dottrina» pastorale che viene utilizzata nel rito. Queste responsabilità non possono essere sottaciute. Una diagnosi oggettiva deve, necessariamente, prenderle in considerazione. In questo contesto non possiamo farlo che per approssimazioni. Nelle singole comunità pastorali, la rassegna dei fattori negativi andrà vissuta in termini realistici e concreti.   PROSPETTIVE DI EDUCAZIONE ALLA PENITENZA   Abbiamo tratteggiato il quadro degli aspetti che oggi rendono problematica, per molti giovani, la prassi penitenziale. Educare alla penitenza significa, in questo contesto, progettare interventi che riprendano questi «nodi» per superarli, autenticando le intuizioni positive e correggendo le distorsioni. Purtroppo non esistono formule. Non basta applicare questo o quel rimedio, per far ritornare tutto apposto, come una volta. Anche perché, nella nostra ricerca, abbiamo più volte sottolineato l'ambivalenza della attuale situazione: gli aspetti negativi si intersecano con quelli positivi. Tentiamo un percorso diverso; più rispettoso, ci pare, della crescita del giovane. Per una educazione alla penitenza oggi, la pastorale giovanile è chiamata a progettare il recupero di alcuni atteggiamenti fondamentali, da convogliare verso una consapevolezza precisa della specificità cristiana. In questo nuovo tessuto umano-cristiano, potrà fiorire la matura riscoperta del sacramento della penitenza, soprattutto se esso viene vissuto in esperienze veramente significative.   L'educazione alla penitenza in coerenza con le scelte pastorali   Il sacramento della penitenza è un gesto esplicitamente cristiano, coinvolge a pieno titolo la totalità della propria fede. La riscoperta del valore, nella vita, della «riconciliazione», muove perciò necessariamente i suoi passi dal confronto dell'evento che fonda la fede cristiana: l'annuncio della risurrezione. Cristo Risorto è il «fatto nuovo» che cambia totalmente la prospettiva da cui giudicare la propria esperienza e immette in una definitività di significati in cui trovano collocazione i gesti del quotidiano. Convertirsi significa trasportare nella vita la logica della risurrezione, modificando il personale ordine di valori e l'interesse che si dà alle cose. Il peccato è perciò rifiuto di questa logica, è ritornare al «vecchio uomo», dimenticando la novità della risurrezione. Per il cristiano pentimento, salvezza e conversione (di cui il peccato è la faccia in negativo) sono in una prospettiva di dono gratuito (e di rifiuto della gratuità del dono): gli aspetti psicologici e collettivi sono, ontologicamente, successivi. Questo è il progetto contenutistico, irrinunciabile per non svuotare lo specifico della «penitenza» cristiana. Sul piano metodologico, è possibile, come sempre, scegliere un processo discendente (che parta dall'evento della risurrezione per raggiungere l'esperienza personale) o ascendente (che parta, cioè, dalla quotidiana esperienza di «peccato», per coglierne il suo significato rivelato). L'educazione alla penitenza è un aspetto di tutto il piano di educazione alla fede; deve perciò operare scelte ad esso coerenti, per ricostruire un'armonia di crescita, veramente rispettosa della persona. Se abbiamo scelto un progetto che parta dalle attese spontanee giovanili, per farle camminare in avanti, questo ha conseguenze interessanti anche nel tema specifico della penitenza. Un maturo senso del peccato, il desiderio di una conversione permanente, la dimensione trascendente della riconciliazione con Dio e con i fratelli; il valore della penitenza, in una parola, i giovani d'oggi possono ricuperarlo all'interno della loro quotidiana esperienza. La loro sensibilità è «importante»: non come testa di ponte dei nostri interventi, ma come spazio di un iniziale approccio di fede. Gli aspetti già positivi (la visione globale della vita che supera il frammentarismo degli «elenchi» di peccati, la responsabilità personale in quella strutturale, il bisogno di scoprire la riconciliazione nella liberazione, gli atteggiamenti quotidiani di perdono...) vanno assunti e autentificati. Quelli «negativi» (la deresponsabilizzazione motivata dal peso dei condizionamenti psicologici e strutturali, lo spazio puramente umano dato al pentimento, il rifiuto della mediazione sacramentale per una ricerca di segni autentici di riconciliazione...) possono ricondurre a dimensioni positive, proprio nella scoperta degli aspetti seri di cui essi sono deviazione. In una parola, la riscoperta di una autentica prassi penitenziale, per i giovani d'oggi, può nascere induttivamente: da una lettura profonda della loro quotidiana esperienza. Molti livelli di questa coscienza sono illuminati dalle scienze dell'uomo, interessanti per dare una misura adeguata del «peccato». Gli spazi ultimi sono invece comprensibili solo alla luce della fede. A questo livello il peccato è, in verità, rifiuto di Dio: rifiuto del suo amore e della responsabilità a cui il suo amore ci chiama. La riconciliazione con Lui passa nella vita, anche se non si esaurisce nei rapporti quotidiani, sia interpersonali che strutturali.   Quale uomo   Quale uomo? Dobbiamo proprio partire di qui, anche se può sembrare una partenza troppo alla lontana. Per rispondere dobbiamo prendere posizione su due livelli, da ricostruire, con meditata riflessione, nel quadro dei valori di troppi giovani.   * L'uomo è radicalmente sano o ha bisogno «dentro» di essere «salvato»? I mali che ci affliggono hanno alla radice solamente rapporti strutturali sbagliati, tanto che basta lottare per modificare le strutture ingiuste ed oppressive; oppure «dentro», nel profondo della personale quotidiana esperienza, c'è «qualcosa che non funziona»? Il peccato, il male, è soltanto la storica conseguenza di errori umani, o esso fluisce da un «peccato d'origine», che inquina tutti gli uomini? Le domande mettono a fuoco la radicalità della salvezza e quindi la dimensione esplicitamente cristiana della conversione. Conversione e salvezza sono un fatto puramente immanente, di cui ogni uomo può diventare protagonista? O sono invece «dono» dell'amore preveniente dal Padre nel Cristo? È necessario un Salvatore-dono o l'uomo è salvatore a se stesso? Su questi problemi ci si deve necessariamente pronunciare. Non vogliamo, di certo, tornare al vecchio moralismo che incolpava l'egoismo umano di tutti i mali, con un collegamento così poco «storico» da giustificare di fatto l'ingiustizia e l'oppressione. Ma vogliamo mettere il dito nella radice ultima del male storico.   * In secondo luogo, dobbiamo pronunciarci sulla specificità cristiana dell'amore e quindi del peccato che ne è la negazione radicale. Si può parlare di «sacramento della penitenza» solo quando si avverte che il male personale coinvolge l'amore trascendente di Dio, mentre chiama in causa un modo di gestire i rapporti interpersonali e sociali. Che cosa fa crescere l'uomo e costruisce la storia? L'amore o l'odio? L'amore e l'odio assieme? Se la costruzione personale e storica passa attraverso l'odio, se l'altro (a tutti i livelli) è un «nemico» da sopprimere o un ostacolo da annullare, non c'è spazio per nessuna riconciliazione. «Peccato» è non portare avanti, con ogni mezzo, la storia. La «sopraffazione» non è «peccato»; essa è la necessaria dialettica per il progresso della storia, per la sua liberazione. In questa prospettiva, evidentemente, non c'è posto per Dio. Quindi non c'è spazio per una concezione «cristiana» del peccato e del pentimento. Se invece l'uomo e la storia sono «frutto» dell'amore, il problema si ripropone secondo nuove angolature. L'uomo è capace di realizzare l'amore autonomamente? O l'esigenza dell'amore rimanda ad un amore fondante, costitutivo e normativo dell'amore umano?   In Gesù Cristo l'amore si fa persona   Non basta aver scelto una definizione di uomo, connotata esplicitamente dall'amore. Che cosa è amore? Nella risposta entra una gamma di atteggiamenti fondamentali attraverso i quali si opera, nel concreto, la promozione totale di ogni uomo. L'amore sicuramente non è la canonizzazione dell'oppressione e la rassegnazione di fronte all'ingiustizia. L'amore è «critico» e dialettico. Come? Fino a che punto? Per un cristiano, il significato pieno di amore emerge dalla vita di Cristo. Lui è l'amore. Le cose che ha detto per definire l'amore sono l'espressione verbale di una vita vissuta. Amare è quindi tentare di ripetere, nella propria esperienza quotidiana, quello che è Cristo. Davvero è una cosa impossibile. Tanto «trascendente» i limiti della nostra umana esistenza, che l'uomo può solo «accettare l'amore»: non sognare di costruirlo dall'interno del suo impegno. Nel confronto con il Cristo, ritroviamo la nostra povertà. Nessun gesto di amore adegua le infinite esigenze che lo caratterizzano. Ci sentiamo «peccatori», proprio perché travolti da un progetto di amore (con cui dobbiamo regolare i rapporti interpersonali) che supera ogni timido tentativo di realizzazione. D'altra parte sentiamo di non essere chiamati verso l'impossibile o l'assurdo, perché nel Cristo l'amore è un fatto, una persona. Nel Cristo, per il dono dello Spirito, le esigenze dell'amore sono alla nostra portata, anche se contestano e rendono precarie le parziali realizzazioni di ogni giorno. In questa prospettiva, che rilancia verso il trascendente senza allontanare dalla storia, riusciamo a cogliere con verità il significato del nostro essere «peccatori», bisognosi di salvezza e, nello stesso tempo, scopriamo che l'unico «nome» in cui c'è salvezza, è il Signore Gesù Cristo. Perché nessuna ideologia, nessuna umana realizzazione, possono «salvare» le esigenze dell'amore, anche se offrono materiale importante per la costruzione di rapporti storici d'amore.   Riconciliazione per la liberazione   Provocati dalla radicalità dell'amore, sentiamo il bisogno di «riconciliarci», tra noi e con Dio coinvolto personalmente come fonte necessaria in ogni gesto d'amore. La riconciliazione del cristiano è «liberazione»: lavorare per «rimettere le cose apposto», a tutti i livelli. Nel Cristo che liberandoci fa di noi dei liberatori. Il tema è importante, perché si inserisce in una sensibilità viva oggi e nello stesso tempo ricostruisce il tessuto di atteggiamenti che la ricorrente deresponsabilizzazione può mettere in secondo piano.   * La riconciliazione: un dono del Padre in Cristo Abbiamo tutti, nel sangue, la tentazione di giocare la parte dell'offeso nel rapporto con gli altri. Anche, magari, quando ci sentiamo addosso gravare il peso di molte responsabilità. Come in tutte le cose, non manca, in questo modo di fare, un pizzico di verità. Quando i rapporti sono sbagliati, quando ci si abbuffa l'uno contro l'altro, è complicato decidere a chi attribuire «tutta» la colpa. Sotto sotto, però, serpeggia una tendenza profondamente pericolosa: la voglia di essere a posto, la coscienza di aver fatto tutto il proprio dovere. E cioè la riduzione dell'amore, che è la verità del rapporto interpersonale, al rango restrittivo... della giustizia distributiva. Invece di inventare, con la creatività dell'amore, «cosa» di nuovo fare per un dialogo più vero, ci si accontenta di fotocopiare passivamente ciò che è stabilito, programmato, meccanicamente legato alle convenzioni sociali del proprio ruolo. Questo guazzabuglio di sentimenti e atteggiamenti ce lo trasciniamo dietro, anche nei nostri rapporti con Dio. C'è proprio da capovolgere tutto. Per cominciare ad amare, nella verità di ciò che io, gli altri e Dio siamo. Un dialogo interpersonale è vero, se è sempre intessuto di «riconciliazione». Se è denso dello sforzo di riallacciare i ponti, ritessendo faticosamente la trama dell'amore. Riconciliarsi vuol dire «convertirsi ,.: sentirsi dalla parte del colpevole, in verità, per prendere l'iniziativa del pentimento. Tutto, però, non finisce così. C'è un ulteriore capovolgimento di prospettive da mettere in cantiere. Convertirsi è un «dono». Convertirsi è il dono del Padre in Cristo. È veramente duro affermarlo, per noi uomini sicuri, carichi della boria della nostra autonomia e potenza... Si mette il dito nella piaga. Convertirsi significa dichiararsi peccatori e aver voglia di cambiar vita. Significa scoprire che la radice di tutti i mali è il peccato, il rifiuto dell'amore del Padre, che diventa rottura interiore e con gli altri. Per questo, riconciliazione è conversione. E conversione è mettersi in ascolto dello amore del Padre che in Cristo ha preso l'iniziativa di perdonarci. Il fratello che mi permette di convertirmi-riconciliarmi con lui, lo può solo in Cristo, dono di riconciliazione del Padre. È un dono che già ci avvolge tutti. Un nuovo clima di amore, diffuso nella morte e risurrezione di Cristo, che ci ha fatto uomini nuovi, capaci di conversione e di riconciliazione. Inseriti in questo clima, la quotidiana fatica di rinnovare il rapporto con il Padre e tra di noi ha la gioiosa speranza dello sbocco sicuro. Siamo uomini di riconciliazione, solo perché il Padre ci ha amato, riconciliati a sé, radicalmente convertiti, nel Cristo.   * La riconciliazione: un dono che impegna Nell'economia dell'amore del Padre nessun dono è un privilegio da consumare al chiuso della propria stanza, tra pochi intimi. Ogni dono è un impegno. Tanto «impegno» che lo spessore del dono ne viene radicalmente condizionato. Se la riconciliazione e la conversione sono dono del Padre in Cristo, lo spazio del quotidiano è il luogo di attuazione. Chi ha la grazia di questa nuova coscienza, è decisamente chiamato a giocarsela nelle cose di tutti i giorni. Lì essa diventa «fatto» concreto, verificabile. Lì è «testimonianza», cioè modo diverso di vivere le cose comuni; tanto diverso da costringere gli altri ad interrogarsi sul significato d'una vita così «strana». È davvero importante proiettare in questo spazio «normale», la consapevolezza dell'essere stati afferrati dall'amore di un Padre che ci chiama e ci permette di convertirci.   * Riconciliazione e giustizia: lavorare per la liberazione Riconciliazione è fare la giustizia. Diventare costruttori di giustizia. Zaccheo è il segno della conversione. Scopre Cristo, il dono della riconciliazione. Cambia interiormente: si vede in modo nuovo. E conclude in una scelta di restituzione, secondo i parametri dell'amore. La riconciliazione è un vuoto gioco di parole se non approda alla «ricostruzione». Un mondo «giusto» - un mondo «più giusto», nell'attesa dei cieli nuovi e terre nuove, dove regnerà la giustizia - è lo sbocco esterno del processo di riconciliazione. Ma, proprio a questo livello, il discorso va condotto in termini seri. Cosa significa «ricostruire»? È sufficiente rimettere le cose apposto, magari con un pizzico di generosità in più, come testimonianza di una inversione di marcia nella spirale dell'egoismo? Se la logica dominante fosse segnata da larghi criteri di giustizia, basterebbe rimettere le cose al proprio posto. Non è impresa facile. Ma, tutto sommato, sarebbe segnata da una strada abbastanza precisa. Le cose, però, non stanno così. Abbiamo tutti molto chiara oggi la consapevolezza che viviamo in un ordine veramente prossimo al «disordine costituito». Rimettere le cose a posto significa quindi lavorare per modificarle. Significa «cambiare» l'ordine ingiusto, i rapporti falsi e alienanti, superando la facile tentazione di creare interventi secondo la logica dominante. Riconciliazione è quindi sinonimo di lotta per la giustizia, di impegno per un ordine nuovo, ricostruito sulla falsariga della Pasqua di Cristo, di cui è segno e anticipazione nel tempo. La comunità è il luogo primo di questo impegno di giustizia. Dalla comunità, aperta sulla storia, l'impegno trasborda all'esterno, con un raggio di presa sempre più vasto. Il discorso si fa concreto se lo si riempie dei connotati quotidiani. La riconciliazione è possibile se ogni persona «fa la giustizia», nel tessuto profondo della propria personalità, vivendo i doni di cui ciascuno è ricco per un servizio più pieno, e potenziandoli in vista di una disponibilità più seria.   Atteggiamenti di riconciliazione per la liberazione   L'educazione alla penitenza chiama in causa immediatamente la necessità di abilitare a modi di fare (che chiamiamo, tecnicamente, «atteggiamenti») che siano la traduzione quotidiana delle istanze di riconciliazione e di liberazione che abbiamo ricordato. Quali atteggiamenti sono da promuovere, nel ritmo ordinario della giornata, per permettere un esercizio integrato di questa virtù? Il luogo della riconciliazione è il quotidiano. D'accordo. Ma che significa? Per evitare l'alibi di scelte parziali ed esclusive, è importante ricordare esplicitamente i due «spazi» ove operare la riconciliazione.   * Prima di tutto a livello di rapporti primari: la «comunità» nel senso più ampio del termine è il luogo primo della riconciliazione. Comunità significa gruppo amicale, famiglia, rapporti interpersonali, convivenza educativa, parrocchia.   * Non basta una riconciliazione a questo livello. Se il luogo normale è il quotidiano, è davvero in un impegno a raggio largo (magari a cerchi concentrici: dai rapporti primari a quelli secondari...) che va operata la riconciliazione. Il discorso va concretizzato: e quindi riprodotto con le caratteristiche della località. Basta quindi qualche battuta. Riconciliazione nella famiglia (superando i conflitti di generazione e gli arroccamenti sulle posizioni rigide del conformismo e dell'anticonformismo), nella scuola (scoprendo che lo scontro è sui progetti d'uomo che si contrappongono), nell'ambiente di lavoro (eliminando le cause strutturali della disumanizzazione o del rivendicazionismo ad oltranza), tra culture e provenienze sociali (si pensi al problema dell'immigrazione), tra razze e popoli (guerre e razzismo), tra confessioni e religioni (ecumenismo), tra esperienze e coscienze diverse (superando, in una convergenza verso la verità più grande di ogni conquista personale, la pericolosa dialettica tra chi rallenta e chi imprime brusche accelerazioni...). È quindi riconciliazione, nel senso più impegnativo del termine, la scoperta che la realizzazione di sé sta nella capacità di decentrarsi: un quotidiano morire per far vivere, in una qualificazione professionale che non gioca all'arrivismo ma si pone come strumento efficace di liberazione globale. All'interno di questa prospettiva, riconciliazione, nel servizio educativo, significa un modo «nuovo» (più giusto: più rispondente alla ricchezza di ogni persona) di gestire l'educazione; nei rapporti interpersonali significa eliminare la logica del potere-forza, per far spazio veramente all'amore; nei rapporti istituzionali significa eliminare le cause strutturali delle perenni emarginazioni; nell'indispensabile esercizio dell'autorità significa smascherare il personaggio-ruolo per una piena prospettiva di servizio. Questo lungo discorso sugli atteggiamenti in vista della educazione alla penitenza potrebbe essere riassunto nella formulazione del Padre nostro: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Per chiedere con verità perdono a Dio, dobbiamo diventare capaci di perdonare ai fratelli; capaci di riconciliarci tra di noi, a tutti i livelli, per poter godere del dono di riconciliazione del Padre. Un «perdono» come gesto d'amore. Che coinvolge veramente tutti e a titolo gratuito, cercando fino in fondo la crescita reale dell'altro. Un amore come quello che ci è donato: gratuito, universale, sostentativo della nostra maturità e responsabilità.   Dagli atteggiamenti al sacramento della penitenza   Gli impegni umani di riconciliazione e di promozione di una vera liberazione, sono momenti importanti per la scoperta della dimensione trascendente nella penitenza. Almeno radicalmente essi appellano all'amore del Padre, proprio perché ne sono una realizzazione parziale e provvisoria. Il riferimento al sacramento della penitenza passa attraverso questo rapporto di continuità-discontinuità: ci si accorge quanto gli atteggiamenti umani siano importanti, mentre ci si rende conto che sono insufficienti. Dobbiamo spiegarci: siamo di fronte ad un punto nodale di tutto il nostro discorso pastorale.   * Nella riconciliazione umana c'è un frammento dell'amore del Padre che ci perdona. In ogni esperienza di riconciliazione-liberazione umana è già all'opera l'azione del Cristo, la sua pasqua ha già segnato di sé ogni avventura dell'uomo. Si tratta quindi di un fatto importante, qualificante. Senza questa realtà «umana» il sacramento della riconciliazione diventa un gesto vuoto, retorico: un appello al trascendente che si scolla dalla esperienza reale di vita. I giovani che sentono di essere avvolti dal male e vogliono liberarsene, quelli che lottano per modificare i rapporti di ingiustizia, coloro che sanno «perdonare», sono già dentro il mistero dell'amore del Padre; anche se non hanno la coscienza riflessa che in ciò che stanno vivendo, è presente il volto di Gesù Cristo, il Salvatore. Per essi, la strada della riscoperta della penitenza passa, necessariamente, da questo oscuro sentimento di colpa e da questa iniziale intuizione di perdono e di amore. Essi vivono un valore penitenziale; non ancora pienamente, senza saperne il significato più radicale. Sono però in una realtà seria, costitutiva ontologicamente di ogni penitenza cristiana.   * La verità della riconciliazione coinvolge sempre l'amore del Padre. La riconciliazione cristiana non coincide però con questi frammenti. Non basta riconciliarsi tra uomini, per realizzare l'amore. Le esigenze dello amore sono così radicali e inaudite che solo «con Dio dentro» diventano possibili. L'appello al trascendente non è sul piano delle formule. Esso sta invece nella coscienza riflessa che solo in Cristo possiamo instaurare con i fratelli quel «nuovo» rapporto d'amore a cui siamo chiamati. Il dono dell'amore si fa quindi «autocritica» (critica dall'interno) di ogni nostra intuizione di amore e di perdono, per spingerci a procedere oltre, verso quell'obiettivo che ci affascina da lontano. Che non è folle pretesa, perché è una persona: il Cristo. In questa consapevolezza avviene il salto qualitativo dall'umano al divino. L'esperienza di riconciliazione che abbiamo vissuto (proprio perché seria, nostra, importante), ci «misura», facendoci scoprire la sua precarietà e provvisorietà. Da superare e inverare nel mistero dell'amore del Padre che nel Cristo ci investe e ci provoca. Il cammino quindi verso una matura prassi penitenziale ripercorre, ancora una volta, le direttrici del più generale progetto di pastorale giovanile: - una esperienza umana impegnativa (l'educatore ha il compito di guidare verso l'autenticità umana); - la scoperta della sua provvisorietà e quindi l'appello ad una «salvezza» definitiva (l'educatore ha il compito di guidare verso la coscienza del provvisorio e di annunciare a chiari termini il definitivo); - l'accettazione gioiosa della dinamica storica della salvezza, nella universale sacramentalità cristiana (il Cristo, la Chiesa, i Sacramenti, il quotidiano).   DALLA RISCOPERTA DELLA PENITENZA AL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE   Le molte cose dette finora sono finalizzate a creare la «disposizione» al sacramento della penitenza, per favorirne una recezione matura; di fede per la salvezza. Molti giovani sono già d'accordo con queste istanze generali. Per essi, il problema è solo sul «sacramento». Che bisogno c'è di un «sacramento», per realizzare atteggiamenti penitenziali, che possono essere recuperati anche in altre forme?   Per chiedere al sacramento ciò che esso oggettivamente è   Un fatto innegabile; nel corso del cammino storico di molte comunità ecclesiali si è «gonfiato» il significato del sacramento della penitenza, a scapito di altri momenti «formativi». Valori richiesti normalmente al sacramento possono essere ritrovati, spesso con maggior efficacia, in altri gesti. Si pensi, per esemplificare, al valore di conversione permanente a cui appella la celebrazione eucaristica, allo stimolo a revisionare la propria vita insito nell'ascolto della Parola di Dio, all'aiuto per la crescita personale legato alla direzione spirituale. La scoperta del significato del sacramento nel cammino di conversione personale e comunitario, va legato alla sottolineatura del suo «specifico» di fede. È un processo corretto, corrispondente alla sensibilità teologica a cui il Concilio ci richiama.   * Il sacramento della penitenza è oggettivamente «relativo» alla situazione, non augurabile nella vita del cristiano, di «peccato grave». Il sacramento segna la riconciliazione di colui che, per scelta libera e consapevole, si è «tagliato» dalla comunione, con Dio, con la Chiesa e i fratelli, a causa del peccato grave commesso. Le altre funzioni, normalmente richieste al sacramento, non sono proprie del sacramento stesso e sono di fatto presenti in molti altri gesti della esperienza cristiana.   * Nello stesso tempo, proprio il carattere di «sacramentalità» dice la sua funzione celebrativa di un atteggiamento di conversione permanente, presente e da sottolineare nella vita quotidiana. Il cristiano è chiamato ad una conversione continua, per adeguare la sua vita alla proposta del Vangelo nell'annuncio di novità della risurrezione. Questo atteggiamento è di fondo. Ed è l'aspetto di «verità» della personale professione di fede. Questo livello esistenziale di pentimento-conversione va «autentificato», attraverso una «celebrazione» storica, concreta. Noi siamo fatti così: la visibilità dei nostri gesti è garanzia della loro autenticità. Non basta il gesto esterno, certamente. Ma il gesto esterno è importante, come rivelazione delle scelte interiori. Anche nella prassi penitenziale la visibilità nel sacramento è per «misurare» l'autenticità del pentimento interiore. Abbiamo bisogno di chiamare i nostri peccati con il loro nome, a voce alta, di fronte ad altri. Per convincerci di essere «peccatori» Abbiamo bisogno di impegnarci ufficialmente a rimettere le cose apposto, nella «soddisfazione». Per sentirci seriamente impegnati. Questi gesti diventano gesti di fede: nel confronto con le regole di un amore «trascendente», si avvertono i propri «limiti». Il gesto celebrativo (nel nostro caso l'autentificazione del personale impegno di conversione permanente nel sacramento) ha bisogno di trovare un ritmo adeguato, proporzionato cioè al movimento interiore di ogni persona e all'oggettività di una celebrazione (per il suo carattere di «festa» non può certamente essere ripetuta con una frequenza esagerata...).   * Il sacramento aiuta a recuperare un aspetto importante: la gratuità del perdono, legato alla gratuità della risurrezione di Cristo. La risurrezione, principio definitivo della nostra salvezza, è un intervento di Dio «tipico», ciò trascendente ogni umana aspettativa. La gratuità del dono è significata dalla gratuità del rito: le cose che si fanno, le parole che si pronunciano, non sono certamente «proporzionate» al perdono che si riceve. Lo sforzo di rendere «eloquente» il rito (cosa a cui i giovani oggi sono molto sensibili) va vissuta perciò all'interno di questo quadro di riferimento. Nessun gesto potrà esprimere adeguatamente il «dono» del perdono, proprio perché esso è dono che supera ogni umana aspettativa. Come sempre, nel mistero dell'amore del Padre che salva, ogni dono è impegnativo: richiede cioè una verifica nella vita. Ritorna il discorso fatto poco sopra: il livello esistenziale di conversione «celebrato» (e capito nella sua totalità) nel sacramento della riconciliazione.   * In questa prospettiva (celebrazione di un fatto legato alla vita) trovano adeguata collocazione le due forme attuali: quella strettamente personale e quella personale-comunitaria. La prima mette l'accento sul «dono» che investe ogni persona, a risposta della «crisi» personale, superata nella conversione strettamente personale. E potrà perciò essere utilizzata in occasioni particolari: giornate di ritiro e di esercizi spirituali, momenti di particolare bisogno personale. Per il suo carattere «personale», il sacramento potrà essere accompagnato da un lungo dialogo, di revisione e di sostegno. La seconda mette l'accento sul dono del perdono che raggiunge la persona nella e attraverso la comunità ecclesiale, nei termini in cui essa sa pentirsi in quanto comunità, vivere un atteggiamento di reale riconciliazione interpersonale, e accettare il dono gratuito del perdono di Dio. Questo modo di celebrare il sacramento mette l'accento sugli aspetti essenziali: l'ascolto della Parola di Dio, la conversione nella comunità, il perdono di Dio. La celebrazione insisterà perciò sugli aspetti più comunitari, lasciando il dialogo strettamente interpersonale ad un altro contesto.   Gli «atti» fondamentali per la celebrazione del sacramento   Oggi preferiamo parlare di sacramento della penitenza-riconciliazione (piuttosto che di «confessione») per superare l'aspetto giuridico-meccanico del sacramento stesso. La riscoperta del sacramento e la sua celebrazione chiedono perciò un cambio di mentalità. È un modo nuovo di prepararsi, di vivere e di celebrare il sacramento che permette di far passare, nella esperienza quotidiana, le annotazioni programmatiche trascritte nelle pagine precedenti. Tentiamo una riformulazione dei tradizionali «atti» necessari per la «buona confessione», in un quadro teologico coerente.   * L'esame di coscienza è ascoltare la Parola di Dio Il primo atto che il penitente deve compiere è aprirsi con docilità e «insieme» ad ascoltare Dio che per Cristo nella Chiesa gli parla. L'agire morale del cristiano non è monologo ma dialogo. La coscienza del cristiano è modellata dalla Parola di Dio. Il vangelo è il «prontuario» dell'esame di coscienza per il cristiano. La parola di Dio è perciò il «testo base» con cui confrontarsi. Il primo atto del penitente è quindi ascoltare. Ascoltare «insieme», perché la parola di Dio è donata alla comunità, alla chiesa. Nel sacramento della penitenza compare, come in tutti gli altri sacramenti, la struttura dialogica e la struttura comunitaria. Il giovane che si prepara alla confessione, si prepara con la bibbia, con il vangelo, tra le mani.   * L'annuncio di un amore più grande del tradimento Alla luce della parola, ci scopriamo «peccatori». La parola di Dio è giudizio sull'uomo. Ci contesta profondamente. Basta leggere i profeti: «Un bue riconosce il suo padrone. Israele non mi riconosce!»; o il Vangelo: «Razza di vipere...». La parola di Dio è sempre giudizio. E il cristiano si lascia giudicare dalla parola. La parola di Dio è anche consolazione. Il Dio della Bibbia è un Dio che ama appassionatamente l'uomo. Un Dio che vuole perdonare a tutti i costi. «Che è più grande del nostro cuore, anche quando il nostro cuore ci rimprovera!». Un Dio che ci ricorda sempre che «se anche i nostri peccati fossero scarlatto, lui li rende bianchi come la neve!». Dio ci giudica; ma non ci condanna. Dio ci rivela sempre il suo amore, anche nel giudizio il più spietato. L'ascolto della parola, per la sua verità, deve essere condotto secondo le due direzioni: parole di giudizio e parole di consolazione.   * «lo sono peccatore» La comunità e il singolo penitente che ha ascoltato la parola di Dio, sono stati giudicati ed hanno ricevuto l'annuncio di un amore più grande di tutti i peccati. Ora rispondono riconoscendo la verità della propria situazione di peccatori: «Signore, ho peccato. Credo al tuo amore». Il figlio pentito manifesta il suo peccato alla Chiesa che incontra nel sacerdote. Dio Padre lo perdona. La voce del sacerdote è l'eco terrestre della voce del Padre che nel seno della Trinità perdona al figlio. L'uomo pentito si confessa e chiede perdono. La sua richiesta di perdono è tanto lontana dalla possibilità di raggiungere Iddio. Cristo si identifica con il peccatore. Lui prende la richiesta di perdono e la presenta al Padre. Cristo a nome del peccatore e al suo posto chiede perdono al Padre. Il Padre e il Figlio mandano lo Spirito Santo il quale rinnova e trasforma «il cuore di sasso in un cuore di carne».   * Il ringraziamento e la festa Avviene un grande miracolo. Il peccatore è trasformato, radicalmente. Rifatto nuovo. Non può non sgorgare il ringraziamento. L'ultimo atto del penitente è il ringraziamento: ringraziare per il dono ricevuto. Ringraziare assieme: nella comunità e nella Chiesa. «E fecero gran festa». Nel Vangelo, tutte le conversioni terminano con la grande gioia della festa. L'eucaristia è la conseguenza logica, inevitabile, della penitenza. Assieme, in Cristo, il fratello che ci ha ottenuto la conversione, si fa festa.   Il problema della frequenza   Le molte pagine precedenti possono offrire «materiale» utile ad ogni educatore per decidere lo spinoso problema della frequenza. Crediamo che non possa esistere una formula risolutiva, né nel senso tradizionale né tanto meno in un senso di maggior liberalizzazione. I documenti del Magistero, anche recenti, sottolineano la necessità di non prendere posizioni arbitrarie e rinnovano la normativa tradizionale: fiducia nella confessione di devozione, necessità di premettere la confessione alla comunione quando si ha coscienza di colpa grave, confessione «almeno una volta all'anno», in stato di peccato grave. La prassi pastorale ha spazio ampio, per interventi educativi, all'interno di questi ambiti. La decisione non può che nascere nel rispetto delle sensibilità di ogni persona e in vista della sua maturità oggettiva. Possiamo indicare alcuni elementi, da tenere in attenzione per mediare una decisione qui-ora.   - Il sacramento è gesto di fede. L'impegno pastorale è centrato prima di tutto alla riscoperta della fede, che non può essere data come scontata. Non quindi prima di tutto alla moltiplicazione dei sacramenti ma alla crescita nella fede, attraverso una corretta opera evangelizzatrice. Evidentemente, quando parliamo di maturità di fede per il sacramento, facciamo una sottolineatura «relativa»: la maturità non è un fatto assoluto, ma va misurata in riferimento alla concreta persona (secondo le caratteristiche dell'età psicologica, della maturità umana, della cultura, dell'esperienza...). - Il sacramento della penitenza esige una vita in atteggiamento di conversione permanente, nell'accettazione del Cristo Risorto e nell'ascolto delle esigenze del Vangelo. Di questo livello esistenziale di conversione, il sacramento è «celebrazione». Lo spazio d'intervento educativo è quindi, ancora una volta, la costruzione di atteggiamenti di conversione, nella vita quotidiana, da cui potrà scaturire la verità dei momenti celebrativi-sacramentali. - Molti gesti ecclesiali possono aiutare la crescita nello spirito penitenziale con maggior efficacia del sacramento stesso (per la particolare adattabilità): ascolto della Parola, celebrazioni penitenziali, esperienze eucaristiche... - Potrà, inoltre, essere utile «sganciare» la direzione spirituale (nel senso ampio del termine: a livello personale e come «revisione comunitaria») dal sacramento stesso, per intensificare la prima senza necessariamente dover moltiplicare il secondo. - Da tutto ciò non si può però concludere troppo frettolosamente. Il sacramento ha una forza intrinseca (dona oggettivamente lo Spirito Santo che salva e converte) irrinunciabile. Da questa grazia nasce un modo diverso di vivere la vita, e di assumere lo stile penitenziale nella vita. Sul fronte educativo, la frequenza del sacramento permette un sostegno che solo teoricamente potrebbe esser ritrovato «fuori». Per molti giovani l'abbandono o la rarefazione del sacramento coincide con un calo pauroso di fede e di vita cristiana. È importante rendersene conto, per evitare ogni faciloneria, soprattutto quando in oggetto sono ragazzi e giovani, persone cioè in fase di crescita esistenziale e quindi bisognose di cure tutte particolari. - La costruzione di una nuova mentalità deve iniziare molto presto e con ricercata coerenza. Quando si procede a sussulti, con troppa disomogeneità, con permissivismo da una parte e rigidità dall'altra, la persona che cresce è rotta dentro, si sviluppa con troppa conflittualità e molto facilmente sarà spinta a rifiutare i valori che le sono proposti, nello stile rinnovato.   Un sacramento a misura d'uomo?   Per i ragazzi e i giovani, soprattutto, il sacramento della penitenza riveste una funzione «terapeutica» importante. Attraverso il contatto personale con il sacerdote, sono aiutati a formarsi una coscienza matura, superando sensi di colpa di natura psicologica per crescere in una visione oggettiva di peccato e salvezza, scaricano tensioni emotive in un colloquio pacato. Bisogna eliminare queste funzioni «umane» del sacramento, per evidenziarne il carattere specifico? Abbiamo l'impressione che sia difficile e pericolosa la posizione radicale, sia come affermazione che come negazione. Eppure dalla scelta, nascono interventi pratici molto diversi. Si pensi, per esempio, al tema della frequenza. Se il sacramento è ridotto alla sua essenzialità, può essere celebrato con una certa rarefazione, purché il giovane abbia spazi affermati e frequenti di dialogo interpersonale. Se invece si preferisce tenere congiunte le due funzioni, la rarefazione del sacramento cade a discapito di una matura crescita, umana e cristiana. Che fare? Una risposta equilibrata può essere costruita attraverso la convergenza di istanze complementari. Le ricordiamo a tratti veloci. - È importante non svuotare lo specifico del sacramento, riducendolo ad una semplice pratica psicanalitica. Ne scapita il significato della penitenza e, alla fine, si ritorce in un suo rifiuto, superate le ansie che ne chiedevano una frequenza particolarmente alta. - D'altra parte, il sacramento è un gesto umano: quindi carico di dimensioni psicologiche e interventi salvifici. La distinzione fredda è possibile solo a tavolino. La persona è un'unità, spesso inscindibile. Tentare di «purificare» troppo il sacramento significa, alla radice, disumanizzarlo. - Molti gesti propedeutici al sacramento, possono, lentamente, essere vissuti fuori, in contesti diversi, sia educativi che ecclesiali. Per esempio attraverso la direzione spirituale, il gruppo, l'ascolto della Parola di Dio. Se il gruppo è abituato a frequenti «revisioni di vita», a carattere anche penitenziale e di riconciliazione, e se il gruppo riesce a vivere in dimensione di fede reale questo quotidiano pentimento, il sacramento diventa il momento celebrativo di un atteggiamento esistenziale, disciolto e disseminato nella vita. Se il giovane è stato abituato ad un dialogo aperto con un adulto, per far quadrare i conti della propria esperienza, in chiave di crescita umana e cristiana, la rarefazione del sacramento non potrà inquietare l'educatore: in questo caso, è indice di una maturità di fede. Come sempre, non ci sono formule da applicare indiscriminatamente a tutte le situazioni. Non sono adatte quelle tradizionali come non lo sono quelle elaborate solo nella affannosa ricerca della novità. Ogni comunità e ogni persona hanno bisogno di un dialogo specifico, capace di rispondere alle particolari movenze in cui esse sono di fatto situate. C'è uno stile di fondo: un clima della comunità in cui cresce l'atteggiamento penitenziale del singolo. Questo è da ricercare e creare, con ogni sforzo educativo, per raggiungere una reale compenetrazione di crescita anche nella fede. All'interno di questo clima, andranno situati i momenti celebrativi, con un ritmo consono alla irrepetibile particolarità di ciascuno. L'impegno educativo è connotato di rispetto per ogni giovane e per i tempi della sua evoluzione umana; di piccoli interventi che fanno un clima penitenziale nella comunità; di riflessione attenta per dare significati maturi a quello che si sta vivendo. E del coraggio di «creare» ogni giorno lo spazio adeguato all'irruenza del dono dello Spirito Santo che salva (all'interno ma con radicale novità) di ogni intervento educativo umano.   IL SENSO CRISTIANO DI TUTTA LA VITA   La riscoperta del senso cristiano della penitenza è legata strettamente ad una coscienza profondamente cristiana di tutta la vita. Si è perso il senso del peccato ed è entrata in crisi la pratica penitenziale, perché a monte è povera, scarsa, la dimensione di fede della vita quotidiana. La conclusione rilancia il discorso da capo. È il ritmo ordinario del nostro esistere storico che lo richiede. L'affermazione apre un lungo discorso. Non lo facciamo. Ci basta indicare le piste che dovrebbero caratterizzare questa «riscoperta». Sono i capitoli di una riflessione urgente. Non mancano oggi gli strumenti culturali per farla; sono purtroppo scarse le «esperienze» affascinanti.   * Un maturo senso di Dio Dobbiamo riscoprire il Dio di Gesù Cristo, perdendo per strada quelle immagini distorte di Dio che ci siamo trascinati dietro per troppo tempo. Il Padre non è un nostro pericoloso concorrente, da eliminare o a cui lasciare il minimo indispensabile di spazio operativo. Egli ci promuove e ci sostenta, nei termini in cui il suo amore è prioritario e costitutivo del nostro esistere. Egli è un Padre che genera dei figli (non degli automi, passivi recettori), è un Creatore che chiama nuovi creatori. La libera risposta dell'uomo è il primo frutto del suo amore.   * Un maturo senso della «morale» cristiana La vita quotidiana è il luogo storico dove ci giochiamo il dono della salvezza. Non può diventare una ragnatela di leggi, assurde o costellate di proibizioni. L'unica legge per il cristiano è l'amore. Esso ci trascina nel dinamismo della pasqua: la morte per la vita. Nel Cristo che è la risposta più piena al nostro tentativo di «capirci» ed è la forza dirompente per la nostra realizzazione.   * La scoperta del rapporto «sacramenti e storia», «fede e vita» I sacramenti sono nella vita e per la vita. Proprio perché sono la salvezza che si realizza nella vita. Essi autentificano il nostro quotidiano esistere e ci chiamano a quelle modalità di definitività che caratterizzano la serietà e consistenza delle nostre esperienze di vita. Alla luce di queste prospettive, da approfondire in una circolarità in cui la comprensione si fa vita e la vita ulteriore ricerca di comprensione, possiamo davvero scoprirci «peccatori», bisognosi di salvezza, investiti e ricolmi della forza dell'amore del Padre che nel Cristo ogni giorno ci salva. 


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    p a g i n A


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