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    I giovani parlano delle missioni



    Franco Garelli

    (NPG 1975-7/8-11)

    SIGNIFICATO E LIMITI DELLA RICERCA

    Analizzare la valutazione che i giovani fanno della proposta missionaria cristiana, vuol dire affrontare il problema in un ampio quadro di riferimento. Non isolarlo, non chiuderlo in un circolo chiuso, non tagliare gli unici ponti che ci possono fornire adeguate interpretazioni per capire il fenomeno.
    Da una parte è quindi necessario mettersi nella prospettiva del mondo giovanile d'oggi, con le sue sensibilità e i suoi modi di porsi di fronte ai problemi. Dall'altra occorre considerare come il mondo giovanile vive il fenomeno religioso, nel quadro più ampio della crisi dell'ambito religioso in una società industriale.
    Queste due prospettive saranno le coordinate grazie alle quali tenteremo di capire come alcuni giovani d'oggi avvertano il fenomeno missionario. Che l'avvertano ci sembra un fatto scontato.
    I giovani d'oggi in genere ostentano un'idea su tutte le più importanti questioni. I mezzi di comunicazione di massa, la girandola di informazioni, il sottobosco di notizie e interpretazioni che pullulano anche con canali originali nella nostra società, pone all'attenzione dei giovani, di tutti, tanti problemi e tanti modi di analisi. Per cui un'idea sulla maggioranza dei problemi c'è, un'idea il cui grado di ripensamento può oscillare notevolmente, ma che comunque è incastonata in un preciso bagaglio culturale giovanile, inserita in un quadro di valutazione più ampio. Anche a questo livello il giovane «dice la sua». Spinto poi dall'età, vuol conoscere, vuol giudicare, vuol partecipare. Relegato dagli adulti ad un ruolo subordinato, cerca almeno a questo livello un'emancipazione.

    LA DIMENSIONE MISSIONARIA NELL'ATTUALE CRISI RELIGIOSA

    Tutte le ricerche e gli interventi che in questi anni si sono occupati dell'atteggiamento dei giovani di fronte al problema religioso,[1] hanno messo in evidenza da una parte la sfiducia verso la, religione istituzionale e dall'altra la disponibilità a considerare e a sottolineare l'aspetto umanizzante del messaggio cristiano.
    I giovani cioè rifiutano i valori religiosi tradizionali e soprattutto la forma con cui questi valori vengono espressi, dimostrandosi però consapevoli che una realizzazione storica del contenuto religioso non inficia la validità del contenuto stesso, che viene ampiamente riconosciuta almeno nel suo potere di promozione umana.
    È ipotizzabile quindi che anche nell'ambito specifico dell'indagine di cui ci occupiamo, i giovani riconoscano e sottolineino la funzione di umanizzazione. Siano cioè portati ad accettare in generale il fatto missionario a patto che questo riveli un volto di promozione umana.
    Non si tratterà comunque di una pacifica accettazione. Il rifiuto della religione di chiesa porterà i giovani ad usare la loro istanza di criticità verso le forme storiche prevalenti lungo le quali la chiesa ha condotto in tempi passati e recenti la sua «politica» di umanizzazione ed evangelizzazione. Le ricerche a cui abbiamo fatto cenno ci ricordano anche come sia presente nella media dei giovani la critica all'istituzione ecclesiale ritenuta compromessa con il potere politico ed economico, una critica che diventa più feroce là dove la chiesa sembra gestire delle funzioni che, anche perché non sono molte volte di una specifica competenza, possono diventare copertura di situazioni poco chiare e credibili.
    L'accettazione della funzione umanizzante del campo missionario sarà pertanto accompagnata da una critica alle realizzazioni storiche compiute dalla chiesa in questo campo e dalla messa in evidenza dei pericoli a cui va incontro un intervento di missione che non tenga presenti gli aspetti complessivi e articolati del problema.
    Proprio questa istanza di considerazione globale dei problemi, questa esigenza di non considerare i fenomeni e le soluzioni in modo separato, è una delle caratteristiche più significative vissute dalla maggioranza dei giovani d'oggi. È una conquista che essi hanno maturato sulla loro esperienza, che hanno filtrato dalle istanze della cultura contemporanea. Nell'affrontare i vari problemi della realtà, nell'emettere le loro opinioni, nel vivere i loro singolari atteggiamenti, i giovani riflettono il clima sociale nel quale sono costretti a vivere.

    LA DIMENSIONE MISSIONARIA NELL'ATTUALE SITUAZIONE GIOVANILE

    Nonostante il chiaro dominio di alcune agenzie, oggi i giovani si trovano a vivere in una società articolata, in cui c'è compresenza di ideologie e culture diversificate. Figli di questa situazione pluralista, i giovani, se per alcuni versi denotano un certo disorientamento dovuto alla mancanza di un adeguato quadro di riferimento in cui situare e alla cui luce vagliare tutte le esperienze, le concezioni di vita e i modelli presenti nel sociale, dall'altra hanno acquisito nelle proprie convinzioni l'accettazione di tutte le culture, la giustificazione delle forme più diversificate di comportamento, il relativismo degli usi e dei costumi, il pluralismo di esperienze e modi di vita.
    Crediamo che questa dimensione possa trovare nel modo con cui i giovani affrontano il problema dell'impegno missionario, un preciso e duplice riscontro. I giovani anzitutto, pur in un atteggiamento benevolo verso la funzione umanizzante della proposta missionaria (sulla linea dell'ipotesi anticipata) sentiranno come relativo questo sforzo, e più che valutarlo in senso assoluto, cercheranno di relegarlo sullo stesso piano di un qualsiasi tentativo di attuazione di una proposta sociale e politica alternativa. Inoltre la considerazione della validità e della diversità delle culture spingerà i giovani, oltre che a collocare l'azione missionaria in un quadro globale di valutazione, a tracciarne i confini della validità. Nel richiamo al pericolo di travasare, mescolato ad un contenuto di messaggio di liberazione, anche il modello di un sistema economico-politico. Nel timore di non rispettare e di contaminare mondi e modi di vita diversi dal nostro.

    IL CAMPIONE E LA RICERCA

    Questi da un lato sono i tratti di ipotesi e dall'altro i problemi che ci interessa verificare nella nostra breve ricerca. Nel concettualizzarli abbiamo tenuto conto, del tipo di giovani che volevamo intervistare. Il taglio del discorso, la sottile problematica disegnata dalle ipotesi, la peculiarità dell'argomento e gli interessi di questo studio ci hanno indirizzato verso un tipo di giovane appartenente per lo più a gruppi ecclesiali, sufficientemente informato dell'articolazione del problema oggetto di studio, se non altro perché la sua militanza lo porta a confrontarsi con i problemi connessi con la testimonianza della propria fede e con proposte di evangelizzazione e di umanizzazione.
    Nel cercare questo tipo di giovane non siamo però calati nel tepore di uno o più gruppi giovanili. Abbiamo scelto una scuola media superiore di Torino, un istituto tecnico, dove tra i giovani del triennio abbiamo intervistato circa 40 appartenenti o simpatizzanti di gruppi giovanili ecclesiali sugli aspetti principali che questa introduzione lascia intravvedere.[2]
    Tentiamo ora di analizzare le risposte, Per ogni dimensione che ci pare importante evidenziare riprodurremo non tanto le risposte più singolari, più liriche o eclatanti, quanto gli interventi che meglio rispecchiano la media delle opinioni dei giovani intervistati.
    Qualsiasi considerazioni sui risultati e sulla credibilità di questa mini-ricerca, di questa indagine-pilota, deve essere riportata nei limiti di questo «campione». Che se non ha ovviamente nessuna pretesa di rappresentatività, può però fornirci alcune precise indicazioni circa l'immagine e la valutazione dell'azione missionaria da parte dei giovani appartenenti a gruppi ecclesiali. Un'indicazione che sommandosi alle intuizioni dei vari operatori pastorali o di ricercatori può contribuire a far luce su un fenomeno che tocca da vicino tutti i gruppi impegnati in un'attività che ha il terzo mondo come riferimento e più in generale i gruppi che si pongono domande sul senso della loro azione di evangelizzazione o sullo specifico cristiano.

    L'IMMAGINE Dl MISSIONE

    Il primo intervento vuol essere una domanda-sonda. Per costatare i problemi che i giovani avvertono nell'immagine di «missione», per evidenziare il grado di approfondimento di questo fenomeno. Nella dinamica dell'intervista questa è una introduzione preliminare al problema. Passiamo all'analisi delle risposte che meglio riflettono la media degli interventi registrati a questo livello.

    Per me attraverso le missioni bisognerebbe portare solo l'aiuto materiale. Non cercare di cambiare l'idea di quella gente.
    Credo che nel mondo ci siano popoli e tribù che vivono come si dovrebbe vivere. Una società semplice... Ove i valori umani sono di tutti i giorni...
    Fuori da ogni schema imposto, conformista...

    Penso che la vera missione sia dare una mano per un aiuto materiale a queste persone. L'aiuto spirituale è fuori luogo in una missione. Anche il popolo indigeno ha una religione, Perché quindi noi andiamo a rompere loro le scatole, a inquadrarli in un certo tipo di idee, di fede?
    La loro religione può in effetti essere molto migliore della nostra.
    Sono d'accordo quindi che venga portato un aiuto materiale nella missione.

    Io apprezzo moltissimo veder gente partire, con tutta la buona volontà, gente che ci crede, che paga di persona, che per un ideale rinuncia a tutto e va in un'altra società.
    Di fronte a persone che credono in qualcosa si sta a bocca aperta. Questa non è gente che chiacchiera.
    Il missionario è soprattutto quello che fa. Molto spesso in politica si parla solo. Nel caso del missionario invece oltre che annunciare il vangelo c'è anche la testimonianza. È un modo di vivere.

    Vivo in un paese in cui la dimensione missionaria è molto sentita perché abbiamo un missionario compaesano che vive da 40 anni in Africa. Lo aiutiamo, gli stiamo vicini, lui è in contatto con noi.
    La missione è un preciso dovere dei cristiani. Cristo nel vangelo l'ha detto: «andate e predicate il vangelo a tutti...
    Quindi queste persone che vanno sono da ammirare. Poi io non li farei a tutti i costi degli sprovveduti: loro sono coscienti del pericolo di portare là la civiltà occidentale, di sradicare la cultura locale.
    La prima cosa che fanno è di dare da mangiare, di aiutare a migliorare la situazione igienica... Un tempo anche battezzavano subito le persone, Ora non più. Battezzano i bambini solo in punto di morte. Altrimenti fanno un catecumenato di cinque anni, assai severo...
    È cambiata anche la mentalità. Prima c'era il gran padre bianco, con la barba, che dirigeva tutto. Invece adesso quasi tutto è in mano al clero locale, i vescovi sono quasi tutti indigeni.

    Il missionario dovrebbe essere uno che andando nei paesi del sottosviluppo deve mettere questa gente di fronte alla realtà d'oggi, di fronte al resto del mondo. Perché altrimenti sarebbe un aiuto ad isolare, a segregare, a mantenere le situazioni standard...
    Sarebbe una presa in giro andare a predicare certe idee in presenza di una situazione di sfruttamento.
    Il missionario cristiano lo vedo allo stesso livello di uno che ha un'altra ideologia e va in questi paesi per offrirla loro, per aiutarli a capire di più la realtà sociale, la loro condizione di vita...
    Il missionario deve sì promuovere l'uomo, cercare che le strutture economiche e politiche migliorino, adoperarsi in ciò, Però deve anche portare avanti la testimonianza di quello che è il messaggio cristiano, che dà un segno di speranza alla vita. Io posso dargli da mangiare a questa persona; se però non gli do anche un significato, per la vita, magari vegeta, ma come uomo non esiste, è morto.

    La sottolineatura dell'aspetto della «testimonianza» è assai presente in queste interviste. Il missionario è «testimone» di una convinzione. di una fede, di una scelta radicale che lo spinge a buttarsi per gli altri. Viene qui evidenziata una convinzione cara a molti gruppi ecclesiali: che sia ora di «fare», di prendersi ognuno in concreto le proprie responsabilità, di «pagare di persona»... Ma la sottolineatura di questa dimensione di testimonianza concreta, sembra, nelle interviste, andare aldilà di questo cliché proprio dei gruppi cattolici. Sembra essere una riscoperta più in generale dell'autentico valore della credibilità personale, del rischio vissuto, in un mondo in cui circolano sino alla svalutazione slogans e programmi.
    La caratteristica che però più risulta dall'analisi delle interviste è il consenso generale sulla funzione di umanizzazione propria di un intervento missionario. Promuovere l'uomo, cercare di rivoltare le situazioni di ingiustizia, spendere la vita per la riabilitazione dei popoli oppressi, sembra ai giovani intervistati lo specifico di un impegno missionario. Uno specifico a cui non esitano a sacrificare la missione spirituale.
    Le due dimensioni (spirituale e materiale) risultano in luce diversa nell'immagine dei giovani. Mentre l'aiuto materiale sembra non presupporre attacchi o alterazioni al modo di vita dei popoli sottosviluppati, ma riveste il colore di un aiuto possibile a farsi nel rispetto della cultura locale, quello spirituale sembra comportare in sé uno sradicamento della cultura e delle tradizioni e un'imposizione di nuove concezioni e stili di vita.
    Non sfuggirà neppure che nell'ammonire al pericolo di travaso della cultura o della fede occidentale in una società ritenuta diversa e autonoma, i giovani inchiestati rivelano un'immagine negativa della nostra società. Una società che fra le righe è descritta come complicata, non soddisfacente, frutto di una logica poco rispettosa delle persone, facile allo sfruttamento. E la stessa immagine negativa sembra essere riservata a un certo tipo di religione. Che non deve essere travasata in altri popoli, poiché può in effetti soffocare valori presenti nelle loro concezioni di vita, nelle loro credenze.
    Come si pensava la figura e l'azione del missionario vengono viste in un quadro globale. Il gesto di un uomo, di tanti uomini, può mortificarsi in uno sterile agitare di braccia o svilirsi in mantenimento di situazioni di sfruttamento, se l'impegno di umanizzazione non sfocia in una sensibilizzazione ai problemi dei popoli cui ci si rivolge, ai problemi che essi vivono nella loro condizione. Una presa di coscienza che è una dimensione necessaria per la liberazione umana.
    L'aver intravisto questi filoni di intervento presenti nelle interviste riportate, non ci giustifica dal trarre conclusioni troppo affrettate sul parere dei giovani. Occorrono delle conferme più precise, degli approfondimenti sui problemi specifici, occorre verificare le intuizioni fin qui intraviste. È quello che ci accingiamo a fare, riproducendo il proseguo delle interviste e rifacendo il più fedelmente possibile il cammino effettuato nel discorso con i giovani.

    PROMOZIONE UMANA O EVANGELIZZAZIONE?

    Cerchiamo anzitutto di mettere in risalto che cos'è questa «missione» per i giovani. Il missionario ha qualcosa di specifico da portare ai popoli che ancora non conoscono il vangelo? Oppure la sua azione non si scosta da un intervento puramente umano? È necessaria la «missione» evangelizzatrice?
    In altri termini si tratta di valutare il confine tra promozione umana ed evangelizzazione: sono, nell'immagine dei giovani, due aspetti analoghi oppure aspetti complementari di una prospettiva di liberazione? C'è tra essi stacco e superamento o semplice analogia?

    Promozione umana ed evangelizzazione. Sono due cose uniche. Non si può fare prima l'una e poi l'altra. Il cristiano porta un messaggio di speranza della vita e questa speranza nella vita si ha solo quando la vita ha un senso.
    Perché il vivere così semplicemente, il vegetare, non ha nessun senso.
    I giovani vanno incontro alla crisi esistenziale perché non sanno dare un senso al ciclo della loro vita, alla nascita, alle tappe della vita, alla morte. Il cristianesimo dà un significato alla vita.

    La fede cristiana, si dice, è in crisi.
    Ma oggi è in crisi la struttura religiosa, la chiesa. Non è detto che anche il contenuto sia in crisi.
    In giro si fanno tanti bei discorsi, tante belle parole, che poi si possono benissimo tutte quante ridurre al messaggio evangelico.
    Il contenuto della religione cristiana è sempre attuale, sempre d'avanguardia. Se siamo coerenti col vangelo cambiamo qualcosa in noi e portiamo avanti un discorso politico avanzato. Il compito del cristiano non è stare tutto il giorno in ginocchio a pregare. Ciò non serve a nulla. Serve solo se dalla preghiera io metto in pratica le cose. Non c'è solo il filo diretto uomo-Dio. È un discorso più ampio, che abbraccia tutti gli uomini, e naturalmente anche Dio.

    Un cristiano che voglia portare ad altri la propria fede, non deve aver nulla in cambio. Semmai avrà qualcosa dopo in cambio, non adesso. Adesso bisogna darsi completamente. E ciò vuol dire partire senza la speranza di ricevere niente, o almeno non subito.

    Per me il missionario non è quello che va a evangelizzare la gente nell'Africa. È uno che porta la luce di un qualcosa. Essenzialmente non è il vangelo. Ma la speranza nella vita. È missionario chi fa qualcosa per i drogati, chi aiuta gli emarginati, chi condivide le situazioni più dure, chi capisce i problemi dei giovani d'oggi... Chi ci dà una speranza...

    Io vado giù per dare qualcosa a loro, ma anche per capirli.

    La missione è importante anche qua, dovunque c'è necessità di una speranza, ovunque c'è una situazione di ingiustizia, di inferiorità.
    Prima occorre dare un aiuto materiale alla gente, a chi sta peggio di noi.
    E poi naturalmente portare il discorso di amicizia, di amore, che abbiamo ricevuto.
    Darlo ai fratelli che ci chiedono «da chi avete ricevuto questo discorso, questo progetto di vita per il quale ci aiutate».
    L'aiuto materiale, concreto, qualifica l'annuncio della fede. La rende credibile. A fianco di un annuncio di fede, a fianco di un tentativo di aiutare le persone, occorre promuovere un discorso politico. Altrimenti porti un aiuto materiale destinato a non trasformare nulla, a lasciare tutte le cose come stavano prima. Non basta guarire dalla lebbra un lebbroso. Occorre tirarlo fuori dall'emarginazione, abbattere alle radici le cause della sua segregazione...

    Il missionario lavora, si guadagna da vivere... Cerca di tirare su gli indigeni, di non sostituirsi ad essi. Abitua la gente a staccarsi dall'idea che il prete debba essere bianco e venire dall'estero. Cerca di rendere partecipe la chiesa locale.
    Il missionario va a portare un messaggio cristiano, un determinato tipo di vita. Però non vanno per fare solo adepti.
    Invece credo che un attivista politico, oltre che portare l'ideologia, cerchi anche di fare degli adepti.

    Oggi è indispensabile un annuncio missionario. Soprattutto ora che siamo in una società materialista, che rifiuta i veri valori. Ormai si è tutti legati a cose che ci sono e non ci sono, effimere... Quindi bisogna giungere a questa riscoperta dei valori, che nella religione cristiana sono presenti.
    Quest'opera di missione è quindi essenziale. È un'opera più di fatti che di parole. Ad un cristiano che si mette in missione non gli interessa tanto fare del proselitismo, quanto portare delle idee, dei fatti. Dimostrare quello che crede con l 'azione.
    Quindi partire decisi. Fare la scelta di vita. Se si crede in certi valori significa lasciare alle spalle tutti gli altri e insistere in quelli in cui si crede.
    Cercare di fare una vita coerente. E ciò non è facile. Occorre anche avere fede.
    La fede è la parte più difficile di questa missione. Non è che la si trovi sotto le pietre, per aria... Bisogna quindi soprattutto fare un lavoro di ricerca, di confronto, prima di poter effettivamente partire con un lavoro di missione.

    I giovani, come già avevamo intuito, rivelano un concetto molto ampio di «missione». Per essi «missione» non indica la funzione di annuncio del vangelo a popoli che ancora non lo conoscono. Né la semplice opera di aiuto a chi di fatto è indigente.
    «Missione» è anzitutto portare una speranza. La speranza della liberazione, di nuovi valori, di un respiro più ampio degli affanni di tutti i giorni, la luce che illumina un quadro che nella sua globalità permette di trovare o capire il senso di tanti particolari prima in ombra.
    Per molti il vangelo è questa speranza.
    L'accento sullo stile di vita, sul progetto di vita del cristiano, sulla radicalità delle scelte controcorrente, sulla necessità di incidere socialmente, fanno intuire come i giovani intervistati sottolineino essenzialmente il nuovo quadro di valori che il cristianesimo può portare in questo tipo di società. Sia a livello di motivazioni, dando la spinta per operare una scelta radicale nei confronti degli altri, una spinta che permette di dedicarsi completamente alla promozione umana e sociale dei più deboli. Sia a livello di aiuto e comprensione della realtà, di luce che illumina il proprio e l'altrui cammino.
    In questo quadro si fa più articolata e riceve una nuova conferma la critica al tipo di società nella quale siamo immersi. I valori cristiani vengono recepiti innovativi proprio rispetto alla logica di questa società e alle conseguenze sociali del processo produttivo in cui siamo inseriti.
    Quanto è stato fin qui osservato fonda la difficoltà di trovare, nel pensiero dei giovani, il confine tra promozione umana ed evangelizzazione. Sembra infatti che gli intervistati rivelino una grande attesa verso i valori del vangelo o verso la funzione di umanizzazione senza però spingersi in un discorso di superamento dell'umano che costituisce proprio la novità delle situazioni di ingiustizia e di miseria, fa forse pendere la bilancia dell'impegno a favore dell'urgenza e dell'esigenza di una soddisfazione dei bisogni primari dell'uomo.
    D'altra parte non ci si può nascondere che il vangelo così ridotto appare assai vicino ad una ideologia. C'è il pericolo che, maturando negli anni, e incontrando movimenti che incarnano prevalentemente delle ideologie, i giovani si precludano in questa ottica di cogliere la novità e la complessità del messaggio evangelico. E lo riducano di fatto.
    Un altro aspetto evidente da quanto abbiamo fin qui osservato è che l'attesa missionaria dei giovani non riguarda solo i paesi sottosviluppati o i popoli che ancora non conoscono il messaggio cristiano. Investe anche la nostra società.
    Viene introdotto quindi nella riflessione un nuovo e interessante aspetto: essere missionari qui o essere missionari nei paesi del terzo o del quarto mondo? Alcune riflessioni dei giovani nell'arco dell'intervista ci permetteranno più avanti di approfondire anche questo aspetto così come si configura nel loro pensiero.

    UN'OTTICA ESSENZIALE NEL VALUTARE LA «MISSIONE»: IL QUADRO POLITICO ED ECONOMICO

    I giovani, nelle loro esperienze, si incontrano col problema dell'impegno politico. È una dimensione nuova che sovente fa esplodere modi di condurre esperienze precedenti. Un nuovo tipo di occhiali che si inforcano per leggere la realtà. Un nuovo tipo di sensibilità.
    Da quanto si è già intravvisto anche nel valutare il fenomeno «missionario» i giovani intervistati tengono presente questa ottica. Cerchiamo di metterla in evidenza cogliendo ]e principali sue articolazioni.

    Secondo me nessuno dà qualcosa per non ricavarne nulla. La missione la vedo come andare in paesi sottosviluppati per colonizzarli e portare le nostre idee e la nostra cultura che non ha nulla a che vedere con la loro.
    Si fanno dei prestiti a paesi sottosviluppati, da parte di paesi sviluppati per aumentare il sottosviluppo. Non vengono dati per risollevare questi paesi, ma per assogettarli di più alle dipendenze dei paesi occidentali.
    Anche la missione è in quest'ottica. Se le altre iniziative sono a livello economico, questa è a livello culturale, ideologico.

    Secondo me le missioni sono negative: prima perché distruggono la cultura di un popolo portando altre tradizioni, una falsa cultura, false religioni; inoltre perché non appena questi missionari hanno fatto un lavoro di civilizzazione arriva l'inglese e l'americano e sfruttano queste situazioni. Quindi c'è la copertura allo sfruttamento e al mantenimento del sottosviluppo.
    Molte volte lo sviluppo della fede cristiana è accompagnato allo sviluppo del capitalismo.

    Per me evangelizzazione è fare promozione umana. Il cristiano deve tener conto della persona che ha di fronte. Molte volte la chiesa ha fatto opera di colonizzazione nelle situazioni in cui ha vissuto, non tenendo conto della tradizione, dei modi di pensare diversi. Il terzo mondo stesso, perché si chiama tale?
    L'impatto atroce che ha avuto con i paesi capitalistici, che li hanno schiacciati e hanno imposto loro un certo tipo di cultura.

    Non sono state proposte a queste persone delle alternative. Ma sono sempre state imposte delle situazioni.
    Questa a mio avviso è la pecca maggiore dei cristiani.
    Se non si tiene conto dei termini economici e politici che investono anche il terzo mondo, o le missioni stesse, non si coglie il cuore del problema. È inutile fare proclami che il cristiano è colui che deve andare a portare il vangelo. È vero. Ma se non hai i mezzi perché questa gente faccia la scelta del vangelo, se non metti in atto meccanismi per cui essi non siano succubi di condizionamenti... Se io ho avuto i mezzi, la possibilità di capire che cos'era il vangelo, di confrontarlo, anche loro devono avere la possibilità di arrivare a maturare una scelta. Senza imposizione.
    Fare la missione oggi è essenzialmente promozione umana.
    Non astrattamente andare lì e portare una luce. Ma che cosa porti? Non porti nulla. Se questa gente è sottosviluppata rimarrà sempre sottosviluppata. Così invece se le dai i termini per capire perché è sottosviluppata, se ci sono manovre politiche ed economiche dietro.
    I cristiani a livello mondiale detengono le strutture economiche: c'è quasi da chiedersi che cosa è servito il vangelo fino ad adesso.
    L'Italia ha il 6° posto nei paesi che esportano armi al terzo mondo... Queste cose sono da capire. Perché altrimenti si dice, si etichetta che l'Italia non è razzista, ma di fatto non è niente vero. La realtà economica è un'altra. Ed è questa che conta.

    Molte volte nelle missioni si agisce con amo e lenza. C'è sempre un'esca; io ti do la caramella e poi tu agisci come voglio io Mi vendi il cervello. Adegui la tua filosofia della vita alla mia.
    Non dobbiamo pensare che quelli da «salvare» siano i classici mao-mao dell'Africa, gente da civilizzare a tutti i costi. Andiamo a scoprire i loro valori, senza partire dal presupposto di andare ad inculcare a tutti i costi loro il vangelo.
    Il vangelo sarà anche una bella cosa. Ma loro possono anche non accettarlo. Loro possono avere dei valori magari molto più grandi del vangelo, o al limite possono vivere dei valori che sono già di per sé in sintonia col vangelo. La loro cultura può essere molto più della nostra vicina allo spirito del vangelo.
    E allora che si fa? Si va a rovinare questo loro patrimonio di regole, di modelli di comportamento per sostituirlo con il nostro? Non siamo abbastanza consci di quale guazzabuglio e di quali contraddizioni è piena la nostra cultura, il nostro modo di vivere?

    La valutazione politico-economica del fenomeno missionario appare assai precisa e diversificata. Prima di tentare di descriverla in modo adeguato cerchiamo di mettere in risalto il quadro di riferimento globale col quale i giovani setacciano anche questo fenomeno.
    L'aspetto missionario appare anzitutto come un fenomeno storico, uno, tanti fatti che costituiscono un modo con cui la chiesa interviene in determinati paesi con lo scopo di umanizzazione ed evangelizzazione. I giovani non considerano tanto «l'idea» missionaria in questo caso. Non si fermano cioè alle intenzioni, a ciò che si vorrebbe realizzare, alla buona fede che può costituire il supporto di queste iniziative. Per essi una qualsiasi azione missionaria ha uno spessore storico, è situata in un determinato contesto, usufruisce per scorrere di precisi canali, vende un progetto di uomo sia come tentativo di umanizzazione che di evangelizzazione, viene fatta in un certo modo... Si tratta di tanti aspetti che contribuiscono nel pensiero dei giovani a non rendere «neutra» la missione. Come qualsiasi altro fenomeno infatti, l'aspetto missionario ha una coloritura politica. Ed è proprio alla luce di queste considerazioni che i giovani valutano il fenomeno.
    Così ci si ferma poco o per nulla sulla necessità di un intervento missionario, sulle motivazioni dell'intervento. Queste in gran parte sono già state enunciate in precedenza e possono essere riassunte nella necessità di umanizzazione, sulla urgenza di portare a tutti il senso della storia, della vita.
    Qui si va più in là. Ci si può trovare di fronte anche a motivazioni valide, però di fatto molte volte nella realtà la loro validità cade per lasciare il posto a situazioni di compromesso, di intorbidimento, di scadimento. Sono questi i punti di denuncia dei giovani. Ciò che viene essenzialmente denunziata è l'astrattezza con cui in genere viene portata avanti la proposta cristiana, troppe volte ridotta a pura intenzione, senza preoccuparsi dei risvolti concreti e storici che la realizzazione di questa intenzione comporta. Non è pertanto possibile secondo questi giovani voler promuovere a tutti i costi «l'uomo» in generale, l'uomo indifferenziato.[3] Mettersi in questa ottica significa isolare qualsiasi intervento umano dal contesto concreto in cui deve operare. Significa promuovere un progetto che non ha riscontro nella realtà.
    L'ottica che i giovani privilegiano è quella di un uomo concreto, di una società fatta di conflitti, di classi sociali in lotta tra di loro, di pluralismo di culture e di proposte ideologiche... Ed è in questa società che deve essere calata la proposta missionaria. Una proposta che se non vuol essere alienante, deve sapere con chi ha a che fare, deve essere preparata su misura, non deve atteggiarsi a proposta sopra le parti, né pensare di poter essere continuamente «vergine».

    Crediamo che quest'ottica di fondo lungo la quale si muove il pensiero del giovani sia alla radice delle loro denunce circa la compromissione della chiesa col potere politico-economico anche a livello missionario: che ancora una volta cioè la chiesa faccia da supporto ad un sistema sociale dominante ritenuto corrotto e senza scrupoli, che ancora una volta la chiesa si serva di una sua struttura (in questo caso la missione) per coprire la logica di sviluppo di un sistema economico che appare un controsenso del vangelo.
    Con queste denunce i giovani richiamano la chiesa o quanti sono coinvolti nel fenomeno missionario ad operare scelte coerenti. Da un lato sulla necessità di non preoccuparsi solo della validità del messaggio umano o evangelico ma di considerare e qualificare il modo e il contesto in cui questo «progetto» diventa storico. D'altro lato sull'importanza che il fenomeno missionario non diventi momento di strumentalizzazione da parte di interessi di pochi e perda quel valore innovativo che costituisce la sua proposta. In altri termini che non acquisti il sapore del controsenso, del messaggio pur valido e che nonostante le possibili buone intenzioni può venire avariato dal contesto sociale in cui è inserito, o dal modo con cui viene presentato, o dalla funzione di copertura a cui tentano di relegarlo forze interessate.

    ESSERE MISSIONARI QUI O ESSERE MISSIONARI «LÀ»?

    In alcune riflessioni precedenti già avevamo espresso la necessità di verificare se i giovani inchiestati ritenevano più urgente un impegno missionario nel terzo mondo oppure qui, nel nostro paese o comunque nel nostro contesto culturale. All'importanza di questa specificazione si giunge costatando da un lato la possibile riduzione del fatto missionario ad un progetto di promozione umana, dall'altro lato il grande accento messo dai giovani sul quadro politico ed economico in cui il fenomeno missionario deve essere valutato e progettato.
    Se in effetti si perde la specificità dell'annuncio evangelico a popoli che ancora non ne sono a conoscenza ci si può legittimamente chiedere quali motivi siano alla base della necessità di un impegno missionario nel terzo mondo. Si tratta di motivi legati all'urgenza di quelle situazioni? Oppure ogni situazione ha una «sua» urgenza che diventa prioritaria per chi vive direttamente quella situazione, la conosce da tempo, e quindi può operare con maggior cognizione di causa?
    Analogamente la sottolineatura del quadro politico-economico di riferimento porta a vedere nell'occidente, quindi anche nella nostra cultura, le cause di situazioni di sottosviluppo. Non è quindi, in coerenza con quanto i giovani asseriscono, più importante impegnarsi per estirpare le cause di giustizia là dove esse si annidano, piuttosto che fare un'azione di tamponamento delle conseguenze?

    Secondo me occorre essere soprattutto missionari qui. Perché nel terzo mondo ora c'è gente che ha coscienza, ha gli strumenti per poter essere missionari in questi posti.
    Attualmente c'è la tendenza che ogni popolo nella propria nazione cerca di portare avanti una lotta di liberazione, di umanizzazione. E il livello attuale è tale per cui in effetti germi di liberazione esistono dappertutto.
    Ora dato che noi non siamo perfetti, non possiamo cioè esportare con facilità un ideale di umanizzazione e di liberazione, è qui che soprattutto dobbiamo impegnarci.
    I problemi che abbiamo qui sono enormi; ci sono dappertutto. I problemi dei trasporti, della mensa, della prostituzione, della droga, famiglie che lavorano in condizioni disastrose...
    In questi campi, qui nel nostro ambiente, dobbiamo lavorare per testimoniare quelli che sono i valori cristiani. Tra chi ha più bisogno.

    Penso che la missione si possa dividere in due parti. Quella che uno può fare qui e quella che si può fare nel terzo mondo.
    Quella nel terzo mondo si nota di più perché le persone che vengono informate dal vangelo di Cristo lo trovano una cosa nuova. Per noi invece è già qualcosa di risaputo. Qui pertanto si crea una situazione di missione, perché la gente diserta sempre più le parrocchie... E i preti si sentono messi in discussione, si sentono in crisi.

    Anche qui abbiamo il terzo mondo, anche qui i nostri problemi che non sono da meno di quelli laggiù.
    Quindi annunciare il vangelo, umanizzare nel terzo mondo, va bene. Però occorre soprattutto darsi da fare nella propria cultura. Cercare di lavorare nei luoghi in cui si vive.

    È giusto far missione in un certo modo. Il cristiano che parte con l'idea di dare un certo tipo di messaggio, deve chiedersi: perché vado lì e non sto qui?
    Non si può fare distinzione tra emarginazione qui ed emarginazione là. È un concetto errato.
    Il cristiano deve andare ovunque c'è bisogno. È il vangelo stesso che chiama ad una fratellanza universale.
    Operando qui per cambiare la struttura capitalistica cambierà per riflesso anche la situazione nel terzo mondo.
    Scegliere qui o scegliere là è solo un problema di analisi e di campo di intervento che si vuole privilegiare.
    Il messaggio evangelico è un messaggio all'uomo e quindi non astratto.
    Nella misura in cui accetti il vangelo devi cambiare qualcosa in te stesso anzitutto e poi in quello che ti circonda.

    È stupido che noi occidentali andiamo ad aiutare il terzo mondo lasciando di risolvere i problemi che ci sono qui. È più logico che noi occidentali risolviamo i problemi della nostra società, mentre il terzo mondo con la sua coscienza e i suoi costumi si risolva i problemi propri.
    Non è però una questione di compartimenti stagni: risolvere i problemi propri con la coscienza che ci sono problemi da altre parti, magari anche con scambio culturale, confronto.

    Dall'analisi di questi brani di intervista appare come i giovani siano assai riluttanti nell'affermare la necessità di operare un impegno missionario nel terzo mondo piuttosto che qui, nel nostro contesto culturale.
    Ma vediamo anzitutto i punti fermi del loro discorso:
    - i giovani considerano i popoli del terzo mondo «adulti», cioè capaci di poter gestire i germi di rinnovamento ritenuti ampiamente presenti nella loro situazione; si tratta cioè, per i giovani, di popoli «emancipati»;
    - anche la società nella quale viviamo è terzo mondo, per i giovani; le conseguenze sociali negative sembrano di gran lunga predominare nel giudizio dei giovani sugli aspetti positivi di questo processo di sviluppo economico;
    - le situazioni di ingiustizia presenti nel terzo mondo e nella nostra società hanno una stessa matrice di emarginazione e nascono da una stessa logica di sfruttamento.
    Con queste premesse di analisi risulta chiaro che i giovani si trovino in imbarazzo nel definire quale campo possa essere oggetto di priorità di intervento.
    Pur nella difficoltà di trovare indicazioni precise possiamo affermare che i giovani più lucidi, tra le interviste riportate, offrano le seguenti indicazioni:
    1) L'impegno missionario si deve effettuare anzitutto qui, nella nostra società. È una considerazione che consegue logicamente ai punti fermi enunciati in precedenza. Prima di pensare di portare un discorso umano altrove è necessario che i popoli che vivono nel loro interno situazioni di sfruttamento cerchino di impegnarsi per la loro soluzione. Anche perché immergersi in altre culture impone, a chi opera la scelta, un atteggiamento di cauta attesa e un'azione molte volte di scarsa efficacia.
    2) Scegliere qui o là, per l'impegno missionario, è frutto dei parametri con cui si analizza la realtà sociale e della strategia di intervento che si vuole privilegiare. A seconda che si metta l'accento su alcune dimensioni piuttosto che su altre scaturisce la importanza di impegnarsi nel terzo mondo piuttosto che nella nostra società.
    In tutto questo discorso la riduzione della proposta missionaria ad un impegno di umanizzazione sembra accentuarsi, tanto da risultare tra le righe del discorso una conferma quasi scontata. Stiamo costatando, in altre parole, la crisi di «evangelizzazione» che minaccia molto spesso l'educazione dei giovani alla fede.

    NEL SUO AMBIENTE? UN GIOVANE CRISTIANO DEVE ESSERE «MISSIONARIO»

    Un'ultima domanda abbiamo rivolto ai giovani: il giovane cristiano deve essere missionario nell'ambiente in cui vive, verso i propri amici, nel quotidiano?
    Anzitutto ci interessava analizzare se i giovani inchiestati sentivano loro l'atteggiamento «missionario», sentivano cioè la necessità di vivere in prima persona questa «idea» così come l'avevano descritta. Inoltre volevamo evidenziare il modo con cui essi pensavano di poter vivere l'atteggiamento missionario nel nostro contesto.
    Si tratta di intenti conclusivi del discorso. Per valutare se il fenomeno missionario sul quale i giovani si sono espressi in questa intervista tocca la loro vita. Per valutare nel loro atteggiamento che può filtrare dalle dichiarazioni, il grado di secolarizzazione già intravisto in precedenza.

    Il giovane cristiano può essere missionario nei suoi contatti con gli altri, nell'amicizia, in quelli che incontra... Quindi solo a livello umano.

    Non parlerei di un cristiano che deve sentirsi missionario. Ma più che altro di un cristiano che è un testimone, testimone di un messaggio.
    Se io alla luce del vangelo sono arrivato ad una determinata fede, nella misura in cui mi sento incarnato in un certo tipo di fede non lontana dalla realtà ma dentro al quotidiano... Secondo me il cristiano è colui che porta una determinata testimonianza e non può aver la pretesa di avere delle soluzioni in tasca lui personalmente... Nella misura in cui porta un certo tipo di messaggio, la buona novella, deve portare una alternativa a un certo tipo di vita.

    La fede è qualcosa da verificare sempre. Come capisci di aver «raggiunto la fede»? Come la misuri? La si verifica continuamente.

    La fede può essere una realtà per me, ma per un altro no. Quindi non devo far credere gli altri a tutti i costi, non devo riversare sugli altri la mia spiritualità.

    Come occidentale, come vado nei paesi del terzo mondo a parlare di fede e di amore? Se la mia società, quella in cui io vivo, sfrutta queste persone?
    Li fa vivere in condizioni disagiate, non umane?
    Con quale diritto? È anche falso andare a parlare di amore mentre il loro sottosviluppo dipende non da me singolo ma dalla società, dalla famiglia di cui io faccio parte.
    Quindi anzitutto risolvere politicamente certe contraddizioni, certe situazioni di sfruttamento, e poi dopo ci fai il discorso di amore...
    Ma se vogliamo il discorso di amore è un discorso politico. Vivere secondo un progetto cristiano è un discorso politico. Perché amare, vuol dire scendere in piazza con gli operai e assumerci la nostra realtà, vuol dire portare avanti certe rivendicazioni sociali. Non è qualcosa di distaccato. Vivere con amore non è contemplare la natura e stop. È qualcosa di più ampio. Vuol dire far sì che tutte le persone vivano nella maniera migliore possibile. Cercare che tutte le situazioni siano risolte.
    Se si vuole può essere un progetto, un ideale utopistico... Però è una mèta a cui dobbiamo tendere, occorre partecipare a fianco di tutte le persone che lottano...

    Un giovane cristiano dando agli altri diventa uomo. Ma va bene anche se si toglie il «cristiano». Un giovane missionario, dandosi, diventa uomo. Credo che un giovane si caratterizzi dal momento stesso in cui dà qualcosa agli altri. Se riesce a portare il discorso di amicizia, a vivere la solidarietà, la condivisione...

    A noi giovani manca un po' il coraggio di essere cristiani... Oggi è di moda essere anarchici, maoisti... Per cui manca quella spinta che deriva dal clima sociale...

    Un giovane prima di tutto deve avere una missione dentro di sé; deve essere missionario con se stesso.
    Quando l'adolescente, il giovane, con questa formazione, è diventato uomo, può aprirsi agli altri, sia in senso spirituale che politico e materiale. Prima una maturazione interna, poi una partecipazione agli altri.

    Trovo sbagliato il trasmettere il proprio modo di vivere ad un'altra persona. Tu puoi fare una scelta. Però trasmettere un modo di vita ad un'altra civiltà, è sbagliato, Lì c'è già un modo di vivere. Perché dobbiamo andare là ed imporre il nostro modo di vita?
    Quello che ha fatto la chiesa finora. Quindi la missione come estensione spirituale mi sembra un qualcosa buttato in aria.

    Se c'è uno scambio culturale va bene. Se si cerca di imporre alcune soluzioni, no. È bene quando c'è confronto, quando si danno in mano più strumenti per essere critici ed operare una scelta.

    Coerenti con quanto enunciato in precedenza i giovani inchiestati, anche a questo livello mettono l'accento sulla «testimonianza», sul «fare», sull'impegno sociale e politico.
    Essere missionari, per loro, vuol dire anzitutto vivere il proprio impegno, testimoniare ciò che si crede, mettere in atto le proprie concezioni di vita. Il vivere queste dimensioni non crea per i giovani alcun dubbio. Fa parte della vita, è nel gioco delle cose che un uomo sia a contatto con altri uomini, che abbia un progetto, che crei uno scambio di valori, un flusso di esperienza. Ma tutto ciò avviene per necessità, per conseguenza. L'importante è che ognuno viva in coerenza, viva il suo impegno, senza essere troppo preoccupato di trasmettere agli altri le proprie convinzioni, senza voler fare degli adepti.
    L'attenzione a privilegiare l'impegno diventa preoccupazione quando si fa scoperto il discorso sulla fede cristiana. Questa sembra essere una dimensione che si accetta anche di vivere, ma perlopiù nel proprio orizzonte di scelta, attenti a non metterla sul piedistallo, a non esporla troppo alla altrui attenzione, dal momento che è frutto di scelte personali. La fede, al limite, è da vedersi attraverso i frutti che può recare.
    Questo modo riservato di vivere la fede è il risvolto della medaglia dell'attenzione a viverla incarnata, non separata dalla vita, in un atteggiamento coerente.
    Se da un lato pertanto i giovani dimostrano una concezione di fede molto precisa (legata alle opere, non fatta di chiacchiere, che non si perde nelle enunciazioni), dall'altra rivelano il pericolo di non andare aldilà della funzione umanizzante del messaggio evangelico. Che questa dimensione sia un passo avanti verso un cristianesimo adulto e incarnato, è vero. Però non ci si può nascondere il rischio a cui si va incontro e che peraltro è presente qua e là nelle interviste. Il messaggio cristiano viene visto come un'ideologia.
    In questa ottica risulta chiaro come per i giovani si sia tutti missionari, dal momento che tutti siamo a contatto con altri, che tutti viviamo la storia, che tutti abbiamo dei valori che cerchiamo di realizzare. Se questa è «missione», se è «missione» quest'opera di testimonianza e di impegno, allora siamo tutti missionari.
    Si è pertanto anche in questo caso di fronte a un concetto di missione molto ampio, poco differenziato. È lo stesso risvolto del discorso sulla fede: da una parte viene privilegiato un modo umanamente valido e coerente di essere missionari; dall'altra si riduce tutto ad una missione. E quindi di conseguenza si finisce per ridurre anche l'importanza della missione cristiana.

    CONCLUSIONE: RELATIVISMO CULTURALE E SECOLARIZZAZIONE

    In fase conclusiva tentiamo di tirare le fila dell'immagine che i giovani rivelano di «missione».
    Cercando di stare al «tema», di non addentrarci ancora in una sintesi della valutazione del giudizio dei giovani, possiamo così descrivere il loro pensiero:
    * accettazione in generale della «missione» cristiana se questa persegue un ideale e un progetto di umanizzazione; nella realtà sociale vi sono tanti campi che giustificano la necessità di questo impegno di umanizzazione che deve essere prioritario per un «missionario» di matrice cristiana;
    * sono valide tutte le missioni, non solo pertanto quella che nasce da un ambito religioso, ma tutte quelle che scaturiscono da ideologie;
    * perché le missioni siano valide, perché siano «umanizzanti», vi sono alcune precise condizioni, descritte dai giovani, che disegnano il profilo con cui si deve condurre la «missione»:
    - una missione nel pieno rispetto della cultura dei popoli in cui si inserisce (non una vendita della propria cultura);
    - un intervento missionario che consideri i problemi a livello globale, in una valutazione complessiva degli aspetti politico-economici della realtà in cui anche i problemi parziali della «missione» o dell'intervento missionario sono collocati;
    - una missione che non si faccia copertura (magari con buone intenzioni) di una strumentalizzazione politica;
    - una missione da portar avanti nel pieno confronto con altre missioni e con altre «ideologie»;
    - una missione che aiuti quanti vivono situazioni di sfruttamento a prendere coscienza della loro condizione ed a estirpare le cause della discriminazione sociale.

    I GIOVANI CREDONO ANCORA ALLA MISSIONE?

    Tentando di passare da un livello descrittivo a quello esplicativo, cerchiamo di operare la sintesi dei tentativi di interpretazione del parere dei giovani.
    Come mai i giovani inchiestati, per la maggioranza, appartenenti a gruppi ecclesiali rivelano questa immagine di missione? Ci riferiamo in particolare alla presunta riduzione della fede cristiana ad ideologia da un lato; e dall'altro al coraggio che essi dimostrano nel vivere il loro impegno sociale e politico che sembra affievolirsi quando si tratta di considerare la propria posizione di credenti: i giovani inchiestati sono molto più pronti nel fare emergere la loro collocazione e ideologia politica che non a sottolineare e a mettere alla luce del sole la loro convinzione e collocazione cristiana.
    Per tentare questa interpretazione occorre richiamare esplicitamente quelle coordinate di analisi della realtà che avevamo enunciato nell'introduzione al discorso e che a livello implicito avevamo usato qua e là a mano a mano che si valutavano le risposte dei giovani.
    Emerge dalle interviste come i giovani guardino al fenomeno missionario cristiano con un senso acuto del relativismo. È una proposta, un modo di essere impegnati socialmente e politicamente. Ma soprattutto è «un modo». A fianco di tanti altri, con i suoi valori e i suoi limiti. E tutta la carrellata di attenzioni che viene introdotta nel modo di fare «missione» è una conferma di questo carattere relativo con cui essi leggono la proposta missionaria.

    Crediamo che la matrice di questo relativismo abbia tre fonti:
    - La prima è la società nella quale viviamo, una società pluralista, che evidenzia tanti e contrastanti tentativi di soluzione, da far apparire più il limite delle soluzioni intraviste che il loro aspetto positivo. A livello culturale ciò significa che non c'è una cultura, un popolo che prevale. Ci sono tanti popoli che tentano in modo differente di adeguarsi alla vita.
    - La seconda matrice di relativismo nasce da un certo modo di vivere la scoperta dell'impegno politico e dall'importanza dell'analisi e strategia di intervento sociale a cui ricondurre qualsiasi iniziativa. È una scoperta molte volte totalizzante, che mette anche in ombra valori autentici che una concezione di vita e di impegno possono avere.
    - La terza matrice consiste nel modo con cui questi giovani che per lo più appartengono a gruppi ecclesiali vivono la loro fede e la loro comunità. Un modo estremamente secolarizzato, talmente attento a mettere in risalto la sostanza etica del messaggio cristiano fino quasi a perderne la specificità, fino quasi a ridurlo a semplice speranza umana. L'attenzione a sconfiggere il modo formale con cui si può vivere il cristianesimo e fare missione, l'attenzione a non creare controsensi nella azione missionaria e quindi a mantenere «umana ,. la proposta, sembra prevalere nell'ottica dei giovani, tanto da lasciare ai margini il senso specifico di un progetto cristiano.

    Nel tentativo di evidenziare aspetti contrastanti della immagine dei giovani non vorremmo aver calcato troppo la mano sulle possibilità di riduzione della novità cristiana, tinteggiando di scuro tutto il pensiero dei giovani. Se ci siamo a lungo soffermati sui rischi (che ci sembrano più dovuti al clima culturale in cui i giovani vivono che è più forte dei ripensamenti di piccoli gruppi o personali) abbiamo anche messo in evidenza quanto sia concreto il modo con cui i giovani pensano al messaggio cristiano. Una speranza, un modo di vivere, che deve mordere nella realtà, che deve essere incarnato nel quotidiano, che deve essere in continuità con l'impegno politico e sociale.


    NOTE

    [1] Citiamo, tra le tante, alcuni contributi che mettono in maggior evidenza gli aspetti che qui vogliamo richiamare: G. E. RUSCONI, Giovani e secolarizzazione, Vallecchi, 1969; C. T. ALTAN, I valori difficili, Bompiani, 1974, pp. 39-43; BUSSETTI-CORBETTA-RICARDI, Religione alla periferia, Il Mulino, 1974; F. GARELLI, Questa è l'immagine che i giovani hanno della chiesa, in NPG, 1/1974; G. MILANESI, I giovani di oggi di fronte al sacro: un tentativo di tipologia religiosa, in NPG, 7-8/1974. Parliamo in generale di «giovani», tenendo conto dell'immagine media che emerge da queste ricerche. Siamo convinti che esistono frange interessanti di giovani che stanno recuperando un'ampia attenzione ai valori religiosi ed una forte accettazione dell'istituzione ecclesiale. Il loro peso è... statisticamente poco rilevante. Questa necessaria generalizzazione forma sempre il limite delle ricerche.
    [2] Non abbiamo voluto indagare sulla entità reale di «gruppi ecclesiali» in un senso pieno. Ci è bastata l'affermazione fatta dai giovani, Basta uno sguardo alle risposte per cogliere tra gli intervistati la presenza di giovani fortemente impegnati in campo apostolico, accanto ai più di «normale» appartenenza ecclesiale.
    [3] Questa stessa problematica viene affrontata partendo da altre prospettive e con un taglio di intervento molto più articolato ed approfondito in un saggio di GUIZZARDI, «Secolarizzazione: alcuni nodi essenziali», facente parte di un'antologia a cura di S. S. ACQUAVIVA e G. GUIZZARDI, La secolarizzazione, Il Mulino, 1973.


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