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    Ha un senso per i giovani la morte?



    Francesca Veronese

    (NPG 1975-04-65)

    Il significato della morte va ricercato a partire dalla vita. Questa proprio sembra essere la conclusione «maggiore» di una ricerca condotta recentemente tra giovani studenti italiani che si proponeva di interrogarli sulle loro reazioni e convinzioni a proposito del tema della morte.
    Non si tratta qui adesso di presentare e commentare in dettaglio le caratteristiche e i risultati della ricerca - essa potrà eventualmente essere direttamente consultata - quanto piuttosto di tentare, a partire proprio dalle conclusioni cui questa ricerca giunge, di individuare spunti, indicazioni, valutazioni che possano diventare criterio per una adeguata azione pastorale: per una azione pastorale cioè che non sia campata in aria, ma che intenda radicarsi su esigenze reali, su interrogativi concreti, che sappia suscitare e cogliere puntuali richieste, che intenda servire in pienezza una data realtà o situazione umana.
    L'a. prende quindi lo spunto da questa convinzione, per «rileggere» i risultati dell'inchiesta, e per interpretare le riflessioni che propone: esse avranno la sola, ma forse non trascurabile, autorità di essere fatte a partire da dati e affermazioni largamente condivise e scientificamente elaborate e documentate.

    L'INDAGINE

    Per presentare le risposte dei giovani inchiestati [1] va brevissimamente detto come esse sono state raccolte.[2] Un questionario di tipo semiproiettivo è stato inviato ad insegnanti (per la maggior parte di religione o di lettere) di scuola media superiore perché essi lo proponessero alle loro classi. Il questionario presentava nove diverse «situazioni di morte» (la morte di una persona amata - la morte di una persona simbolo - la morte collettiva - la morte ingiusta - i simboli della morte - il suicidio - la morte improvvisa - la morte dopo una lunga vecchiaia - la morte «quotidiana») di fronte alle quali i giovani erano invitati a «reagire» secondo una serie di risposte preordinate o «stimoli» («si pensa al valore della vita» e «si è portati a pensare al valore della vita» - «si prova un senso di ribellione» e «si rimane sconvolti dall'angoscia» - «si resta presi dall'ansia» e «si prova un senso di paura» - «si cerca di dimenticare presto» e «si cerca di non pensare») in modo da rivelare una gamma di atteggiamenti (rispettivamente: accettazione della morte come stimolo per la vita - angoscia e ribellione - paura ed ansia - fuga e disimpegno) ipotizzati dall'autore della ricerca come gli atteggiamenti più rivelatori e possibili da parte dei giovani di fronte alla realtà presa in esame.
    Concretamente la risposta consisteva in una «valutazione soggettiva della propria reazione in rapporto allo stimolo distribuita in una scala di giudizio così concepita: sono pienamente d'accordo, abbastanza d'accordo, poco d'accordo, quasi per nulla d'accordo, per nulla d'accordo».[3] Oltre a queste risposte chiuse i ragazzi avevano la possibilità di dare, per ogni «situazione di morte» delle «risposte aperte»: queste sono state piuttosto numerose;[4] mi sembra anzi si possa dire che le risposte di questo tipo, e in particolare alcune di esse, rivestono un notevole interesse per l'educatore.

    LE RISPOSTE DEI GIOVANI

    Queste risposte sono qui prese in esame «situazione» per situazione, nel modo più rapido e conciso possibile: non riporterò cioè né cifre né percentuali e nemmeno tutto quanto esse hanno rivelato circa l'«atteggiamento» che si voleva studiare; piuttosto tenterò di mettere in evidenza alcune costanti e soprattutto alcune tematiche che, tra le tante sollevate, devono particolarmente attirare l'attenzione dell'educatore. Inoltre va detto che le risposte «aperte» scelte per introdurre ognuna delle situazioni, non sono di per sé «rappresentative» nel senso più rigoroso del termine. Le ho scelte per il loro valore emblematico, per il loro interesse, perché introducono utilmente alla lettura.

    La morte di una persona amata

    Quando si vuole veramente bene ad una persona è impossibile che questo sentimento scompaia totalmente con la sua morte (f. 15a. ist. comm.).

    Per «persona amata» si intende una persona a cui si è legati da vincoli di parentela o di amicizia» era spiegato nel questionario. Le risposte, globalmente prese, indicano come atteggiamento predominante dei giovani l'amore alla vita. E questa risposta sembra possa essere assunta come particolarmente significativa in quanto è chiaro che nessun'altra esperienza fa toccare con mano il limite, il problema, l'interrogativo, della morte quanto la morte di una persona amata. Anzi se è umanamente possibile una «esperienza di morte» prima della morte, lo è quasi solamente in tale occasione. «È come se morisse una parte di noi» è un'espressione che ricorre nelle risposte aperte: un'espressione abusata, forse, ma che fa toccare con mano come e quanto l'esperienza che della morte si fa in tali circostanze sia in prima persona, passi sulla pelle di «chi resta». Questo spiega probabilmente anche il perché dell'atteggiamento di «ribellione e angoscia» che segue immediatamente quello prevalente; mentre l'inchiesta verifica uno scarto più notevole con gli atteggiamenti di «paura e ansia» e di «fuga e disimpegno». Questa «scala» può per alcuni aspetti rivelarsi scontata, è vero, ma data la varietà e la vastità del campione inchiestato, a me sembra che l'importanza di queste risposte, sia pure solo a livello di verifica di intuizioni precedenti, non vada affatto sottovalutata. E che il disaccordo manifestato a proposito degli atteggiamenti di fuga e di disimpegno conferma in modo tutto particolare l'intensità con cui è fatta la scelta del valore della vita. Voglio dire che non dovrebbe sfuggire l'importanza di questo rifiuto e disinteresse per la «non reale presa di coscienza», la non responsabilità, l'evasione, il non pensare, il dimenticare di fronte ad una data realtà; essi infatti equivalgono a dire: la morte di una persona amata è un fatto importante per noi, non si può accettare che ci passi solamente accanto, non si può evitare di confrontarsi con essa, questo momento è momento forse di ripensamenti, di scelte, di crisi, comunque non è indifferente o qualunque. A chi voglia approfondire questo spunto non mancano nella ricerca elementi validi: si veda ad esempio l'analisi delle risposte in rapporto a variabili quali l'età, il sesso, il tipo di scuola frequentata, l'appartenenza a gruppi,[5] ecc., o alcune risposte aperte che dicono come i giovani siano capaci di vivere a fondo certe esperienze, come il desiderio forte di una continuità all'amore faccia sorgere l'ipotesi di un possibile al di là, come il senso dell'esistenza sia inevitabilmente legato ai rapporti - in particolare a quelli d'elezione - che durante la vita si stabiliscono con gli altri, come la fede non possa non fare i conti con le esperienze più frequenti della vita, come il binomio amore-morte esprima in definitiva, e per molti aspetti, una unica realtà.

    La morte di una persona-simbolo

    Questi nostri «santi» che hanno dato la vita per la liberazione dell'uomo dalle più cupe oppressioni se ne vanno con la morte, ma restiamo qui noi a lottare al loro posto (f. 16a. l. cl.).

    Prendiamo ora in esame la seconda «situazione», quella riferita alla morte di una «persona-simbolo» intesa come persona che rappresenta o incarna un simbolo o un ideale per la vita.
    La risposta più frequente è, anche qui, «si pensa al valore della vita». Questa scelta è peraltro immediatamente seguita da quella dell'atteggiamento di angoscia e ribellione con una netta prevalenza per quest'ultima, fatto «plausibile e carico di positività se si identifica la persona-simbolo con l'ideale concreto la cui incidenza storica, sociale o amicale ha le caratteristiche dell'attualità».[6] Da segnalare ancora l'indicazione riguardante un atteggiamento di ansia, il cui valore risulta simile a quello dell'angoscia.
    Già su questi elementi - paragonandoli anche alle risposte date per la prima situazione - è legittimo basare alcune considerazioni: l'analogia con gli atteggiamenti riscontrati di fronte alla morte di una «persona amata» stanno ad avvalorare l'ipotesi che l'adolescenza è l'età in cui «l'identificazione a forti modelli e ad autentiche personalità diviene struttura. È la persona vera che in quest'età si ama, e non il personaggio».[7] (Questa affermazione trova una ulteriore controprova nelle risposte aperte: solo 46 su 546 parlano della «persona simbolo» come di una realtà lontana che non si conosce, che non incide molto nella vita).
    - L'insicurezza e la conflittualità caratteristiche degli stati d'animo dell'adolescenza, si manifestano con chiarezza in sentimenti di ansia e di angoscia di fronte alla «scomparsa di un appoggio ideale».
    - Il forte atteggiamento di ribellione non fa altro che sottolineare il forte atteggiamento di attaccamento alla vita o almeno alla «persona che incarna un ideale o una ragione per una vita che sia degna di essere vissuta».
    - Il rapporto esistente tra la ribellione e l'angoscia e la religiosità dei soggetti inchiestati fa porre un altro interrogativo che cito direttamente dalla ricerca: «i credenti si dimostrano più moderati degli altri a questo proposito: è questo un sintomo di maturità cristiana emergente da una autentica pazienza o presenza storica o indice di poca sensibilità verso persone che rappresentano un ideale per la vita dell'uomo, per la «causa» del quale donano la propria vita?».[8]
    - Il modo stesso di concepire un «modello di vita» da parte dei giovani, di quali siano i loro modelli attuali, i loro santi, è descritto con sufficiente articolazione, anche nelle risposte aperte, e questo «modo» non deve sfuggire a nessun educatore attento.

    La morte collettiva

    La morte collettiva fa paura a tutti e suscita un senso di ribellione perché nessuno fa nulla per evitarla (m. 18a. ist. tecn.).

    Per morte collettiva si intendeva nel questionario «tutto ciò che è l'effetto delle catastrofi naturali: terremoto, cicloni, eruzioni vulcaniche..., una morte cioè in cui non è implicata direttamente la responsabilità dell'uomo».
    Nettissima è di nuovo la scelta, con una incidenza piuttosto alta del valore della vita anche se in questo caso essa può sembrare abbastanza normale dato che la «situazione di morte» proposta mette in gioco reazioni di autodifesa e autoconservazione. Altri atteggiamenti però hanno quasi la stessa rilevanza: sono - in ordine decrescente - l'angoscia, la paura, la ribellione e caratterizzano l'insieme delle risposte, che, come si vede, sono articolate e plurivalenti. Una sottolineatura particolare all'atteggiamento di angoscia e di ribellione è data dalle domande aperte: sono molto numerose quelle che li sottolineano in vario modo, in particolare prendendo a motivo della ribellione l'amore alla vita e a volte come suo oggetto Dio stesso «che si dice che esista e che non dà certo prova di giustizia e di umanità se permette la morte di centinaia e di migliaia di innocenti» (m. 16 a., liceo cl.).
    A questo proposito è citato nell'inchiesta J. Alfaro che parla del duplice volto della giustizia divina: o come «chiusura-nella-provvisorietà» o come «apertura-all'infinità».[9]
    È ancora da ricordare l'accenno alla responsabilità umana ricorrente nelle risposte dei giovani, anche qui dove questa idea era volutamente esclusa; e l'emergere della idea della morte-necessità, come esperienza cioè della «disarmante e scoraggiante finitezza e dell'inanità dell'esistenza umana».[10]

    La morte ingiusta

    A costo di lasciarci la pelle bisogna cercare di scoprire l'ingiustizia che ha portato a ciò (f. 17a. ist. prof.).

    Proponendo ai giovani questa situazione - la morte ingiusta -, si intendeva parlare della «morte provocata da guerre, lotte razziali, genocidi, fame, morte cioè in cui è implicata direttamente la responsabilità dello uomo».
    Si metteva quindi volutamente alla prova la responsabilità e la coscienza sociale che dovrebbe nell'età della giovinezza essere particolarmente vivace. Le cifre infatti sembrano «parlare» in questo senso: due di esse, le medie corrispondenti agli atteggiamenti di ribellione e al si cerca di non pensare sono rispettivamente la più alta e la più bassa riscontrabili in tutta la ricerca! A questo va aggiunto che - a fattori unificati - l'atteggiamento prescelto è quello di angoscia-ribellione e che si mantiene a livelli molto alti anche la scelta del valore della vita.
    Bastano in sostanza queste quattro indicazioni per descrivere globalmente la «risposta», la reazione, di fronte alla situazione proposta: essa sembra indicare sete di giustizia, volontà di «cogestione» dei destini dell'uomo e del mondo, l'esigenza di liberarsi e di liberare da tutto ciò che - a causa di un male inteso senso di responsabilità - limita, opprime, aliena l'uomo, la sua coscienza, la sua situazione di vita. Esse sono d'altra parte fortemente avvalorate da un gran numero di risposte aperte (un terzo di quelle date in corrispondenza di questa situazione) che parlano ancora delle responsabilità collettive ed individuali legate alla morte «ingiusta». L'autore della ricerca nota anche - e questa annotazione mi pare estremamente interessante - la discrepanza esistente tra il valore dell'item «si pensa al valore della vita» e quello dell'item «si è portati a pensare ad un'altra vita dopo la morte» cui è legato un valore basso, quasi che questo atteggiamento rappresenti «agli occhi dei giovani una specie di alibi non molto apprezzabile quando si tratta di fatti così concreti e dallo spessore storico così atroce come la guerra, le lotte razziali o le morti collettive causa la fame».[11]

    I simboli della morte

    La società moderna lascia sempre meno spazio alla morte, quindi anche i simboli lasciano completamente indifferenti (m. 18a. ist. tecn.).

    Questa annotazione fatta a proposito dei simboli della morte va anche al di là della proposta del questionario, ma dice molto sulla mancanza di incidenza dei così detti «simboli della morte» sulla sensibilità giovanile e spinge eventualmente gli educatori a ripensare tutta una «pedagogia dei segni» e perfino a reinventare dei segni - e il loro uso - che siano significanti per l'uomo di oggi e accettabili dalla sua cultura e dal suo modo di vivere.
    Ma veniamo alle risposte al questionario: anche se le scelte non sono - quanto al loro valore - estremamente differenziate tra loro, sono ancora l'«item» «si pensa al valore della vita» e l'atteggiamento globale di accettazione della morte come stimolo per la vita ad essere prescelti. Una forte critica emerge, dalle domande aperte, alle modalità - a volte rappresentate appunto da quelli che sono stati chiamati i simboli della morte: una croce, un cimitero, un funerale - con le quali si ha ancora l'abitudine di celebrare la morte: «Siccome ai funerali molti vanno per un atto di presenza ipocrita, è doveroso dimenticare questo tipo di simbolo» dice un ragazzo di sedici anni, e una ragazza di diciassette «a volte davanti a certi funerali mi viene da ridere, tanto trovo buffo quel modo esteriore di celebrare la scomparsa di una persona cara»; tale critica sta a significare l'esigenza di una fede più purificata, anche nelle sue forme esteriori e insinua il sospetto che se alla comprensione delle realtà più grandi che ci è dato vivere - la nascita, l'amore, la morte appunto - non facesse a volte velo la «messa in scena» (mi si perdoni l'espressione!) di certe celebrazioni liturgiche, il loro profondo significato umano sarebbe più limpido e la fede vi si potrebbe radicare e, nutrire con maggiore passione e profondità.

    Il suicidio

    Una persona che si suicida non ha capito il significato della vita quindi l'unica cosa che le resta da fare è morire (f. 18a. ist. mag).

    Le risposte alla sesta situazione presa in esame dalla ricerca - il suicidio - sono in qualche modo tutte riassunte in questa affermazione: il valore della vita resta il «criterio-numero-uno» con il quale i giovani si pongono di fronte alle realtà della morte, qualunque aspetto essa assuma, qualunque motivazione essa abbia.
    È seguito nell'ordine degli «atteggiamenti unificati» di angoscia-ribellione, paura-ansia, fuga-disimpegno, «itinerario» questo abbastanza costante e fedele a se stesso nel corso dell'indagine.
    Le risposte aperte sono notevolmente numerose e molto articolate; un gruppo nutrito fa allusione alla «vigliaccheria» di chi si toglie la vita mettendo questo atteggiamento in parallelo con la sfiducia, il non saper accettare la vita, il non aver capito quanto essa vale (ancora una volta!) la paura di vivere, ma altre si riferiscono anche alle responsabilità sociali, alle cause che provocano la decisione del suicidio, il che può essere significativo trattandosi qui, a prima vista, di un problema di interesse immediatamente personale; un altro gruppo si esprime per la sospensione del giudizio di fronte ad un caso tanto «incomprensibile» (è ancora l'amore alla vita che gioca in questo senso?).

    La morte improvvisa

    Se penso di dover morire improvvisamente mi assale un infinito senso di paura che sento camminare perfino sulla pelle (f. 15a. ist. mag.).

    In queste risposte si parla di «paura»: è l'atteggiamento che segue immediatamente, in ordine decrescente, la scelta del «valore della vita» di fronte alla ipotesi della morte improvvisa: questi valori così ravvicinati ancora una volta «mettono in evidenza la contemporaneità e complementarietà di due tipici stati d'animo conflittuali dei giovani»;[12] breve è anche lo scarto che separa il «valore» attribuito agli altri atteggiamenti di angoscia-ribellione e fuga-disimpegno.
    Questa maggiore uniformità nelle reazioni dei giovani può far porre delle domande di vario tipo: in realtà la morte è così spesso improvvisa che questa può anche non essere considerata una situazione «a parte»; e al contrario forse è proprio quella che nel questionario è stata definita come la morte improvvisa, la situazione più frequente e quotidiana, quella cioè più atta a mettere alla prova le reazioni e i sentimenti umani, la più sconcertante, fra tutte le situazioni sconcertanti di morte: da qui la molteplicità «confusa» delle risposte e la loro, sia pure parziale e relativa, equivalenza. Le risposte aperte non farebbero che confermare questa ipotesi: esse infatti ripropongono praticamente gli atteggiamenti già previsti dal questionario, sottolineando ora l'uno ora l'altro, - l'angoscia, la paura, la ribellione, il ripensare alla propria vita, la rassegnazione, la fede, l'indifferenza - quasi non ci fossero altre reazioni e comportamenti possibili.
    Emerge l'idea del bisogno di prepararsi alla morte essa infatti, - dice una ragazza di 16 anni - «è vocazione, perciò dovremmo sempre essere preparati dinanzi ad essa».

    La morte dopo una lunga vecchiaia

    «Se uno ha dato un vero significato alla sua vita, allora saprà accettare serenamente la morte in vecchiaia, altrimenti ne soffrirà molto» (m. 18a. ist. tecn.).

    L'ottava situazione di morte presentata dal questionario è quella della morte dopo una lunga vecchiaia, intesa - la vecchiaia - nel significato più normale e quotidiano del termine. Le risposte dei giovani sono ordinate secondo le seguenti «preferenze»: accettazione della morte come stimolo per la vita, in primo luogo; seguono poi nell'ordine: fuga e disimpegno; paura ed ansia; angoscia e ribellione. «La condizione umana della vecchiaia è così il luogo in cui, anche per i giovani, si associano con più facilità il pensiero dell'aldilà e la riflessione sul valore della vita presente».[13] Alla luce delle risposte aperte questo «risultato» assume - come abbiamo già visto in altri casi - sfumature particolari: infatti l'idea-problema di vivere una lunga vecchiaia è da molti rifiutata o volutamente elusa, o sembra per alcuni accrescere l'ansia del «dover morire»; per altri invece questa idea è familiare e serena, la lunga vecchiaia sembra quasi offrire più possibilità di vita. Globalmente affiora però con molta evidenza l'idea che questa «lunga vecchiaia», cioè in qualche modo questa... «attesa istituzionalizzata della morte» è un test di grande importanza: è anche lì che si gioca il proprio rapporto alla morte e al suo mistero, è lì che si scioglie il nodo tra la vita e la non-vita, è quello il momento dei bilanci: insomma questa stagione della vita appare paradigmatica e il modo con cui essa è vissuta è in qualche modo indicativo e rivelatore di come sono vissute tutte le età precedenti: o per lo meno così essa è percepita dai giovani.

    La morte continua

    «Per me è la morte più scocciante e più dura, insopportabile» (m. 17a. ist. tecn.).

    Ecco infine una «situazione di morte» difficile da presentare ai giovani: la «morte quotidiana». Con questa definizione si volevano intendere «le delusioni, scacchi e insuccessi che si possono incontrare nelle normali relazioni umane: nell'amore, nello studio, nel lavoro, in famiglia, nell'amicizia»... Sembra quasi impossibile che anche in questo caso, dove emotività e reattività erano particolarmente chiamate in causa e dove i giovani erano direttamente sollecitati ad una riflessione introspettiva e personale, l'atteggiamento prescelto sia quello della «accettazione della morte come stimolo per la vita»; gli altri atteggiamenti che riscuotono praticamente tutti lo stesso «indice di gradimento» (la domanda non è forse stata esattamente capita?) sono prima quello dell'angoscia-ribellione e poi - con lo stesso valore - quelli di paura ed ansia e di fuga e disimpegno. Data questa differenziazione così poco significativa vale la pena di prendere un attimo in esame le risposte ottenute per i singoli items; si scoprirà così - e la cosa sembra non essere priva di significato - che scomponendo il valore attribuito all'atteggiamento n. 4 (accettazione della morte come stimolo per la vita) si ottengono due valori molto diversi per ciascuno dei due items «si pensa al valore della vita» e «si è portati a pensare ad un'altra vita dopo la morte», valori che sono rispettivamente il più alto e il più basso riscontrati nelle risposte a questa «situazione»; inoltre hanno valore identico - o quasi - tra loro il «si pensa al valore della vita» e il «si prova un senso di ribellione»; il «si cerca di dimenticare presto» e il «si resta presi dall'ansia»; il «si rimane sconvolti dalla angoscia» e il «si cerca di non pensare» e infine il «si prova un senso di paura» e il «si è portati a pensare ad un'altra vita dopo la morte». Senza scendere a commenti troppo dettagliati - che forse meriterebbero anche documentazione supplementare - questi dati sembrano già indicativi se non altro della complessità delle sfumature con le quali la situazione proposta è percepita.
    Ma non basta; accanto a numerose risposte aperte che parlano della necessità di continuare a vivere e di trovare la forza per «tenere duro», altre sottolineano atteggiamenti propri dell'adolescenza che sono l'incertezza, lo scoraggiamento, la solitudine, il desiderio di comprensione; altre ancora parlano di questa morte quotidiana come di parte essenziale della vita, anzi, dice un ragazzo di 18 anni, «morire in questo senso è vivere». Sembra dunque che questa dimensione del vivere che è stata chiamata morte quotidiana possa essere un luogo privilegiato per qualunque azione educativa fedele alla storia e agli uomini.
    Altre indicazioni ,altro «materiale» di lavoro, potrebbe essere tratto, lo abbiamo forse già detto, dalla lettura diretta dei risultati dell'inchiesta: in modo particolare per quanto riguarda l'oscillare del valore attribuito ad alcune variabili quali il sesso dei ragazzi che rispondono, la loro religiosità, la classe sociale cui appartengono o il tipo di scuola da essi frequentata. A seconda degli interessi dei singoli educatori od operatori pastorali, questi saranno elementi da non trascurare, anzi che possono ulteriormente aiutare a puntualizzare interventi appropriati ed efficaci. Diverso sarà infatti, ad esempio, - ce lo dicono le risposte esaminate - parlare della morte - e della vita! - a ragazze di famiglia borghesi che frequentano il liceo classico o a ragazzi di famiglie non abbienti che studiano in istituto tecnico!

    QUALI SCELTE PASTORALI?

    L'interrogativo sembra ancora troppo vasto e prematuro: perché resta ancora da aggiungere agli elementi raccolti e che possono avere il carattere della generalità - il carattere della «media statistica» - la vitalità particolare di ogni singola realtà educativa, la cui pienezza è costituita non solo dalle esigenze dei così detti soggetti - che in questo caso un'indagine ha tentato di puntualizzare - ma anche dal dato esistenziale e dalla situazione dell'educatore.
    Questi elementi fra l'altro determineranno una data richiesta nei riguardi di un problema da affrontare: voglio dire che l'approccio necessario al problema della morte, ad esempio, sarà determinato in gran parte dal vissuto di quello che ho chiamato realtà educativa - oltre che dall'età dei giovani, dalla loro situazione socioculturale, dalle dinamiche stabilite nei rapporti con l'educatore, dal linguaggio usato, ecc. - e cioè da perché e come il problema si è posto a quel determinato giovane o in quel determinato gruppo e dal «dove», «come» e «quando» esso viene affrontato. E perché la realtà giovanile è in definitiva così complessa, mutevole, varia, forse anche imprevedibile e «inafferrabile» che parlare di giovani resta pur sempre un'astrazione - cui le «medie» e le indagini non riescono sempre a dare un volto concreto - e che quindi bisognerà in ogni occasione e in ogni modo pensare anche che ci si vuole rivolgere a - o che si vuole lavorare con - quel determinato gruppo, quel tale ragazzo, quella data ragazza.
    Significa tutto questo che l'interrogativo iniziale non ha risposta? significa secondo me che - con l'aiuto in questo caso dei risultati dell'inchiesta - si può tentare la scelta di alcuni criteri cui un'azione educativa e pastorale potrà rifarsi, criteri che dovranno essere ulteriormente sviluppati, interpretati e tradotti da chi voglia comunque «utilizzarli».

    La necessità di forti esperienze di vita

    Sembra quasi lapalissiana questa affermazione: se infatti il significato della morte è davvero strettamente legato al significato che si è dato o che si vuole dare alla propria vita, viene spontaneo il pensare che da questo significato della vita, dalle esperienze che lo costruiscono e ne intessono il contenuto, molte cose possono dipendere. Eppure non è così scontato che questo sia un criterio pastorale evidente e largamente assunto come tale. Al di là anche di quelle situazioni, oggi forse più rare ed abnormi, in cui una certa «paura» della vita è criterio informatore di scelte e di decisioni all'interno della chiesa (scelte e decisioni che risultano così limitanti, costringenti ed estremamente riduttive) difficilmente chi, educatori, «pastori», laici, sacerdoti, è in qualche modo responsabile, a vari livelli e con varie modalità - che si tratti di piani generali o di iniziative singole e locali - dell'agire della Chiesa, difficilmente, dicevo, sceglie, per le sue azioni, il partire dalla vita, da forti e vere esperienze di vita, testimonianze di vita, come principio fondamentale e irrinunciabile.
    Che cosa può significare questo in concreto e in particolare per la pastorale giovanile? La risposta è abbastanza semplice: significherà soprattutto essere disposti a correre dei rischi - purché siano dei rischi «vissuti» - , significherà non bloccare progetti ed iniziative per timore di «quello che può succedere», significherà piuttosto spingere all'azione, ad assumere responsabilità, educare ed incoraggiare al cambiamento; alla novità, ai tentativi anche se informi e provvisori. Significherà anche prevedere le valutazioni necessarie e le riflessioni adatte a giudicare le azioni compiute, le imprese avviate, perché esse possano essere di stimolo ad altre azioni e ad altre rinnovate esperienze. Significherà calcolare i limiti e le «perdite» con generoso disinteresse e con la convinzione che vale sempre la pena di fallire, piuttosto che di non fare, di perdere, piuttosto che di avere timore, di rischiare la delusione piuttosto che scegliere le sicurezze del previsto, del calcolato, di ciò che è vecchio, conosciuto e certo.

    La vita come criterio primo di scelta

    Se questa è una nuova indicazione, è pure la logica conseguenza della precedente. Se si educano i giovani ad amare la vita si otterrà che essi non solo lottino per difendere e, per così dire, conquistare la propria esistenza, ma che siano pronti a lottare anche per conquistare la vita agli altri, anche contro la morte. E se per morte si intende tutto quello che non è pienezza di vita (non sto facendo un gioco di parole!) ecco che si spiega l'entusiasmo giovanile per tutto ciò che è proposta a «giocare la propria vita» in modo diretto od indiretto: che si tratti della azione contro la fame o per lo sviluppo dei popoli; di tutto quanto riguarda - a livello di maturazione di idee o di azione concreta - la contestazione alla vita militare, agli eserciti, alla guerra, alla corsa agli armamenti; del dibattito, oggi così vivo, intorno alla problematica relativa all'aborto-rispetto della vita; della rivolta contro l'oppressione dei poveri e degli emarginati; della ricerca scientifica; dell'impegno per l'ecologia; dell'amore per tutto ciò che è nuovo, che apre delle strade, che offre delle possibilità, che trasforma o rivoluziona uno stato di cose precedente e già consumato, destinato a degenerare, a morire e a far morire.
    E se poi le scelte in questa direzione non fossero sempre così facili e immediate nei giovani, ci sarebbe allora da dirsi che un problema esiste, e che la strada della «novità» va urgentemente ritrovata, riaperta e ripercorsa. La direzione da seguire sarà sempre quella che va dal non-essere, all'essere, al «più essere»; e non si tratta di una «direzione» da affermare a livello intellettuale o a livello di principio, sarà proprio una strada che si percorrerà e si sceglierà di percorrere nella misura in cui si avrà la possibilità concreta di intraprendere opere che siano nel senso e nel segno della vita.

    La capacità di sperare un futuro diverso

    Parlo di questa capacità come criterio ispiratore di azione pastorale, perché penso che essa vada acquisita e conquistata e che bisogna lavorare per tale conquista. Essa, la capacità di impegnarsi per il domani, per qualcosa di migliore e di nuovo, per un modo di vita alternativo, sembra essere la radice necessaria di una speranza che non sia desiderio di evasione, ma fede nella convinzione che questo domani diverso ci sarà: cioè della speranza cristiana.
    Una, o più, preziose indicazioni nell'ambito di questa tematica possono essere ancora ricavate dall'inchiesta, là dove si parla della «morte quotidiana». Dalle reazioni dei giovani a questa sollecitazione viene infatti in evidenza - lo ho già accennato - come sia problematico il loro rapporto a questa forma così poco «gloriosa» del morire, come essa scateni situazioni di rifiuto-accettazione, di ribellione-responsabilità, di insuccesso-riuscita, di insicurezza-accettazione di sé, di scoraggiamento-coraggio, di disperazione-speranza, insomma di - è troppo dire? - morte-risurrezione.
    Perché dunque non assumere il fluire di queste contraddizioni, che è proprio non solo di un certo modo adolescenziale di percepire le vicende umane, ma della vicenda umana stessa - là dove la gioia e il dolore sono presenti, la stanchezza e la forza, i limiti individuali e la tendenza a superarli, il peccato e la grazia - come oggetto, soggetto, motivo, luogo stesso di una azione che mira ad incamminare verso la salvezza, sperimentando e prendendo coscienza delle possibili salvezze quotidiane che si realizzano ogni volta che si è capaci individualmente e collettivamente di accettare e di andare al di là della morte intesa come passaggio obbligato, come pietra miliare di una via che abbia il significato dell'alterità e la direzione dell'assoluto: cioè intesa come fine-pienezza della vita, come vera nascita dell'uomo, come risurrezione in cui il vero uomo «avviene»?[14]
    Mi sembra legittimo sottolineare qui che questo «cambiamento di segno» della speranza, non è automatico e non è quindi da considerare scontato. Parlare di speranza umana e di speranza cristiana in alternativa non mi piace: esse sono davvero in logica continuità; sperare nel domani dello uomo è già un primo sperare nelle promesse di Dio, ma la speranza nella vita non è, di per sé, speranza piena nella «salvezza» e nella «risurrezione»: la prima non va quindi strumentalizzata e mortificata in funzione della seconda. Certo è che il «salto» - se così posso dire - sarà tanto più possibile quanto più la speranza nell'uomo e nella vita sarà radicata e avrà bisogno di ritrovare le proprie profonde radici, la propria sorgente, la propria ragione anche al di là delle ragioni.
    Tutto questo non è certo nuovo per nessun educatore della fede e per nessun «pastore»: tanto che mi sento quasi in imbarazzo per avere sentito il bisogno di ridirlo qui. Quello che però è in qualche modo nuovo è il come questa convinzione venga riproposta e raffermata dall'inchiesta. Anche se non mi sono attardata su molti dettagli penso sia già emerso il pensiero di un'altra vita dopo la morte non sia stato necessariamente dominante pur tra persone che in tutti i modi (per ogni «situazione di morte» cioè) e con molte sfumature (nelle risposte «chiuse» e nelle risposte «aperte») hanno affermato, e direi quasi proclamato, il loro attaccamento, la loro «fede» nella vita. Qualcuno potrà leggere questi risultati come segno di poca fede, di non educazione cristiana, di secolarizzazione dominante. E sia. Ma si potrebbe discuterne. Quello che comunque va «letto» è che l'amore per la vita è un dato di fatto, una realtà, e che questo «dato» deve essere il punto di partenza di ulteriori sviluppi; ma soprattutto che lo scegliere la vita con tutte le sue vicende così polivalenti e mutevoli, e lo sceglierla a partire dalla morte, può realmente essere un modo di annunciare e testimoniare il proprio credere nell'aldilà della morte, ed è comunque una scelta carica di significato e di forza.

    I dinamismi dell'«attività crescente», dell'«appropriazione crescente», della «relazione crescente»

    Nella necessità di seguire questi dinamismi, cioè di passare dallo stato della passività, ad una attività sempre più intensa; da una prima nudità ad una ricchezza esistenziale sempre più estesa; da una solitudine iniziale ad una comunione più profonda ed esistenziale, C. Bucciarelli individua le conclusioni della sua ricerca.[15] In realtà questa affermazione mi sembra in sintonia piena con quanto detto fin qui: essere disposti a seguire la cadenza di questi movimenti non è altro che seguire la cadenza del crescere e del divenire di ogni uomo, del suo crescere fisico, biologico, psichico, sociale, esistenziale; sarebbe come dire dalla nascita alla morte, dall'infanzia all'età adulta, dalla vita umana alla vita umanizzata, dalla incoscienza alla coscienza di sé e del mondo, dalla dipendenza alla autonomia, dall'essere oggetto al divenire soggetto, dalla eterodirezione all'autodeterminazione, dall'essere generato al generare, dall'assimilazione alla creazione, dall'incomunicabilità alla comunicazione, dall'individualità alla comunione.
    «Ma tutto ciò invita a pensare - cito testualmente - che la morte e la sua anticipazione, la vecchiaia, non spiegano, per sé, il movimento interno della vita. Infatti la morte appare come passività, restringimento finale, rottura di legami, assenza.
    (...) Dunque, se vogliamo attribuire alla morte un significato tratto dalla vita, occorre sapere a che punto della curva dinamica dobbiamo prolungare quelle istanze evidenziate all'interno dello stesso movimento della vita. Dal punto che manifesta il più alto tasso di attività, di ricchezza esistenziale, di comunione. Ma questa è l"'età del cuore": e come rispondere, allora, all"'età delle arterie"? Se consideriamo il dinamismo dello spirito si può forse tentare un'interpretazione logica: il significato della morte sarebbe un compimento, il perfezionamento ultimo di questa vitalità umana; sotto l'apparenza di una distruzione dissimulerebbe la continuazione del significato immerso nella vita. Se consideriamo, invece, la curva biologica la morte deve essere interpretata come un disgregamento e un annientamento».[16]

    Resta il mistero della morte

    Resta, e forse deve restare. Resta ed è legittimo l'interrogativo sul suo significato. Occorre vivere per farvi luce, per diminuirne l'angosciosa insistenza, per afferrarne tutte le dimensioni, per prepararsi ad accettarne la realtà, per avvicinarsi ad una comprensione. Come infatti desiderare insieme l'incontro, la comunione, la pienezza, e la prospettiva di un cessare delle comunicazioni, la prospettiva dell'abbandono, della «fine»? «Ogni volta che mi avviene di pensare alla morte di tanta gente bistrattata, alla morte di gente conosciuta, alla mia eventuale morte, vicina o lontana che sia, sento istintivamente irrompere in me il desiderio di vivere e di gridare in faccia a tutti e a Dio che non è possibile morire quando si ha una voglia matta di novità come ho io», dice una ragazza di 18 anni.
    A tutti questi interrogativi scienziati, filosofi, medici, teologici, antropologi, uomini di cultura hanno tentato di dare una risposta, anzi bisogna dire degli elementi di risposta: e di tutti questi, bisogna servirsi, oltre che dell'esperienza umana globalmente intesa, per proporre ai giovani prima di tutto di prendere in mano l'interrogativo, l'ambiguità, il mistero nella loro interezza, per far nascere il desiderio di superarli, e poi tentare una risposta che sarà forse - ma solo allora - la risposta che domandiamo alla fede.


    NOTE

    [1] C. BUCCIARELLI, I giovani e la morte. Indagine sui loro atteggiamenti attraverso un campione di studenti italiani, «Quaderni di Orientamenti pedagogici» 23, Zurich, Pas-Verlag, 1974, pp. 125.
    [2] Si tratta di un campione di 2721 unità (il 52,77% di ragazze il 46,60% di ragazzi) scelto in 12 diverse regioni italiane (per il Nord: Lombardia, Veneto, Trentino, Emilia Romagna; per il Centro: Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo; per il Sud: Puglia, Sicilia, Sardegna). La loro età media è risultata essere di 17 anni e due mesi (dai 15 anni e meno ai 20 anni e più). Per maggiori dettagli su questo campione: tipo di scuola, professione paterna, appartenenza a gruppi, atteggiamento di fronte al problema religioso, ecc., cf C. BUCCIARELLI, op. cit., pp. 39 e ss.
    [3] C. BUCCIARELLI, op. cit., p. 36.
    [4] A titolo di curiosità, ma anche di documentazione, ne riportiamo la «quantità» per ogni situazione di morte proposta dal questionario: 1 - 648 (23,81%); 2 - 546 (20,06%); 3 - 487 (17,89%); 4 - 516 (18,96%); 5 - 435 (15,98%); 6 - 602 (22,12%); 7 - 382 (14,03%); 8 - 426 (15,65°/ó); 9 - 325 (11,87%).
    [5] C. BUCCIARELLI, op. cit., p. 48.
    [6] Ibidem, p. 52.
    [7] Ibidem, p. 51.
    [8] Ibidem, p. 53.
    [9] Ibidem, p. 58.
    [10] Ibidem, p. 58.
    [11] Ibidem, p. 60.
    [12] Ibidem, p. 69.
    [13] Ibidem, p. 73.
    [14] Cf C. BUCCIARELLI, I giovani di fronte alla morte, in «La famiglia», settembre-ottobre 1974, pp. 413-414.
    [15] C. BUCCIARELLI, I giovani di fronte alla morte. Un'indagine sui loro atteggiamenti attraverso un campione di studenti italiani, Zurich, Pas-Verlag, 1974, pp. 79 e ss.
    [16] Ibidem, p. 84.


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