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    Struttura e persona per un progetto-uomo che salvi libertà e creatività



    Pio Scilligo

    (NPG 1974-04-24)

    Nella presentazione dei temi e delle proposte ci piace muoverci con un ritmo pendolare. I lettori affezionati se ne saranno già accorti.
    Ci sono delle intuizioni educative su cui ci soffermiamo. Le lanciamo alla riflessione degli operatori, per raccogliere il contrappeso della loro esperienza pratica. Lentamente maturano in una chiara visione di sintesi. A questo punto iniziamo l'inversione di rotta, preoccupati di rileggere in termini precisi, quasi tecnici, alcuni dei punti di maggior importanza.
    Facciamo un esempio, in tema nello studio che presentiamo.
    Abbiamo spesso parlato della necessità di educare a definire un chiaro progetto di sé. «Progettarsi» significa un sacco di cose: tener conto di una definizione di uomo in cui riconoscersi, analizzare in una certa luce i rapporti interpersonali, verificare il peso dell'ambiente circostante, trovare uno standard maturo di azione. E, per il cristiano, in modo tale che la fede c'entri; e non di striscio. Di tutte queste cose abbiamo parlato molte volte, in molti contesti, dando spesso per scontato aspetti e problemi particolari, per non sfuocare l'insieme. Su qualche argomento si è fatto invece uno studio approfondito.
    Le pagine che presentiamo sono esattamente a questo livello. Non mirano alla sintesi delle suggestioni educative e pastorali, ma conducono ad analizzare in chiave tecnica un aspetto, fra i tanti nei quali si caratterizza il problema della progettazione di sé. Hanno il pregio importante della precisione e dell'approfondimento e quindi, per riflesso, il limite della parzialità di visione. Infatti analizzano il problema sotto la prospettiva psicologica, evitando, per correttezza professionale, di addentrarsi nelle problematiche immediatamente educative e direttamente pastorali (lo schema cioè e applicabile a tutti i contesti di «maturità» personale, proprio perché non è esplicita la preoccupazione di riflettere sulla maturità di un giovane «cristiano»).
    Ma proprio per questo hanno la funzione di premesse per un serio discorso educativo e pastorale, che voglia evitare lo scoglio di fare un bellissimo e affascinante cammino, dando però tristemente per scontata la piattaforma «umana» su cui costruire.
    Come sempre in casi del genere, lo studio è tutto per l'educatore, per la «sua» informazione, per favorire in lui una buona chiarezza metodologica di base, onde facilitargli il faticoso compito di diventare animatore «in un certo modo» della maturità dei suoi giovani.
    Quali sono le proposte contenute nell'articolo che presentiamo?
    Basta farne un elenco affrettato per avvertire come i temi siano particolarmente caldi.
    L'a. parte da una affermazione importante: la definizione di uomo in cui ci si riconosce non è neutrale nel processo educativo di sé e degli altri).
    Qual è quindi questa «definizione d'uomo» in cui riconoscersi?
    Ne vengono esaminate tre, tra le più correnti, con una buona dose di informazione critica, pur nei necessari limiti di semplificazione dovuta alla ristrettezza di spazio.
    A queste tre ne contrappone una quarta, definita come «l'uomo della libertà e della creatività». E di quest'uomo viene prospettato un ciclo evolutivo ottimale, attraverso la rassegna di alcuni punti nodali di sviluppo.
    Quest'uomo... non vive in astratto. È continuamente all'interno di organizzazioni, istituzioni e strutture.
    Che farne? Come valutare la loro «maturità» (se è possibile parlare di maturità)? Come lavorare per modificarle, nei termini in cui sono avvertite non rispondenti alla maturazione delle persone?
    Come si vede, ritornano i vecchi discorsi, nel cui impatto i giovani più sensibili si accendono immediatamente.
    A questo punto il discorso si fa davvero serio, perché non è possibile (e l'a. lo rifiuta senza mezzi termini) camminare sulle ali dell'entusiasmo emotivo o del pressapochismo.
    Anche solo da questi brevi accenni emerge la ricchezza del materiale che lo studio offre. Una adeguata utilizzazione richiede però la mediazione accorta dell'operatore pastorale, chiamato a rileggere in filigrana i problemi che gli stanno a cuore, per crearsi un «suo» stile di intervento.

    UN PROBLEMA DI FONDO: È DIFFICILE CAPIRSI...

    L'uomo è influenzato dal concetto che ha di sé

    Marcel dice che l'uomo è influenzato in modo importante dal concetto che egli ha di se stesso e non è possibile indebolire l'idea di sé senza degradare contemporaneamente l'uomo stesso. Questo significa che tra le teorie che l'uomo ha di se stesso e il comportamento dell'uomo esiste uno stretto legame. Noi non siamo come i pianeti del cielo, che rimangono quello che sono a prescindere dalle teorie che gli uomini qui sulla terra si costruiscono nei loro riguardi: i pianeti non sono influenzati né dalla teoria eliocentrica né da quella geocentrica; sono indifferenti di fronte alle nostre teorie astronomiche qui sulla terra. Non è così per l'uomo: quello che pensiamo della natura dell'uomo ha conseguenze sociali importanti. D'altra parte, nessuna teoria scientifica o dottrina psicologica può presentare delle prove convincenti sulla propria veridicità. In altre parole non abbiamo delle ragioni solidamente fondate per accettare senza molte riserve le premesse e le conclusioni derivanti da modelli attraenti e popolari come quelli degli etologi, dei behavioristi o degli psicoanalisti.
    È ancora Marcel ad affermare che una riforma radicale delle condizioni sociali e istituzionali da se stessa non riesce a risolvere i nostri problemi; è importante la frase «da se stessa», per evitare l'impressione che Marcel abbia voluto indicare una accettazione dello status quo. Sono noti i facili eccessi degli entusiasmi umani: che tutto deve rimanere come è sempre stato, o che tutti i mali dell'uomo sono sanabili attraverso una ristrutturazione socioeconomica, cambiamenti politici, o progresso tecnologico, o una combinazione dei tre. Marcel ritiene che il problema dell'uomo e della sua condizione di vita è prima di tutto un problema di comprensione metafisica: è impossibile un discorso sull'uomo e la società senza alcune premesse sulla concezione dell'uomo.

    Le difficoltà che provengono dal linguaggio ambiguo

    Una seconda difficoltà nel proporre qualsiasi punto di vista e spiegazione della situazione umana viene dal linguaggio. Le parole sono una spada a doppio taglio, possono informare, chiarire, istruire, ma possono anche falsificare, annebbiare, e bloccare la comprensione. Le parole sono, come dice Hobbes, la cassa dei saggi e il denaro degli sprovveduti.
    Anche le parole più note possono acquistare significati simbolici per associazione in modo da distorcere o anche capovolgere il senso dei fatti che dovrebbero descrivere. Vediamo particolari associazioni simboliche nell'uso delle metafore, delle analogie e dei modelli concettuali. Anche il pensiero scientifico è pervaso da metafore ed analogie. Caratteristico è il cosiddetto modello ottico della mente, che è il fondamento della nostra oggettività: le parole «teoria» e «idea» originariamente nel greco avevano forte associazione con la percezione visiva; parliamo di pensiero chiaro e oscuro, parliamo di perspicacia. Troviamo altre metafore e analogie anche nel campo scientifico: parlando di elettricità introduciamo le parole corrente e flusso, che ovviamente inizialmente erano estensioni metaforiche di parole usate per descrivere altri fenomeni. Questi pochi esempi ci dicono che la nostra attività di pensiero è metaforica, con tutti i rischi che ciò comporta: ad esempio il rischio di presupporre una identità essenziale sulla base di similitudine accidentale. La nostra tendenza di continuamente estendere il senso delle parole crea difficoltà di chiarezza, ma è contemporaneamente uno dei pregi del nostro discorso.

    Il linguaggio come manipolazione

    Il linguaggio diventa ancora più problematico per un'altra ragione: assistiamo oggi a un vero macello nella lingua che usiamo; ne sono responsabili soprattutto i mezzi di comunicazione di massa. Basti esaminare brevemente il «carosello» e le altre comunicazioni che mirano prima di tutto a persuadere immediatamente larghe frange della popolazione. Si fa uso degli slogan: essi arrestano l'attenzione, fanno apparire semplici le situazioni complesse, inibiscono la riflessione critica, e mirano a far emettere una risposta che poi difficilmente possa essere intaccata da altre informazioni. Anche aspri critici del fenomeno diventano vittime del processo ed usano poi la stessa tecnica.
    Siamo in un'età nella quale conta di più la scatola che il contenuto se siamo coerenti nell'accettare la propaganda, non importa attraverso quale canale sia presentata. Le parole scientifico, ricerca, gruppo, calcolatore ed altre ancora, tendono ad avere su di noi l'effetto che ha la frusta del domatore sull'animale del circo. Siamo di fronte al problema che Marcuse affronta nel suo noto libro «l'uomo unidimensionale». È da notare però che questa unidimensionalità ha permeato profondamente anche chi crede di attaccare questo modo di pensare: infatti Marcuse mentre attacca i clichés, procede a cavallo di clichés per cui gli argomenti che usa contro un estremismo di destra possono essere usati nello stesso modo contro il suo estremismo di sinistra. Però sono argomenti fondati prevalentemente sulle parole, come dice Marcuse stesso: egli si fonda in modo importante «su proposizioni autovalidanti ed analitiche che funzionano come formule rituali magiche». «Tali formule», continua Marcuse «quando sono martellate ripetutamente nella mente di chi le riceve, producono l'effetto di circoscrivere (la mente) in un circolo di condizioni prescritte dalla formula». Un esempio è l'affermazione che «mai nel passato c'è stata una generazione di giovani così plasmata e controllata dalla struttura del potere», come giustificazione che uno studio storico non ha rilevanza (nel caso degli estremisti che rifiutano globalmente il passato). Marcuse, come la psicanalisi sotto molti rispetti, usa un'argomentazione che è sempre giusta, ad imitazione del cancelliere Morton ai tempi di Enrico VII: «Se un uomo vive sontuosamente, ciò è prova sufficiente che è abbastanza ricco per pagare forti tasse; se vive poveramente, ciò è una prova che ammucchia beni perciò può pagare forti tasse». Insomma l'argomento è che se la monetina segna croce vinco io, e se segna testa perdi tu. Ma questo è giocare con le parole, non ricercare la condizione profonda dell'uomo. Secondo Marcuse, se non c'è libertà di critica abbiamo una prova che la situazione è monolitica e oppressiva; se c'è libertà di critica, la situazione è ancora monolitica e oppressiva, perché la tolleranza è solo una tecnica per cavare i denti all'avversario, in modo che non possa più mordere.
    In parte la difficoltà della chiarezza del linguaggio può essere superata esplicitando i presupposti di fondo sulla concezione dell'uomo e permettendo un autentico dialogo tra le persone.

    Conseguenze della mancata chiarezza dei concetti di fondo

    La chiarezza del linguaggio non può essere sottovalutata, soprattutto in un periodo di crisi, quale è il nostro. Non è sufficiente rammaricarsi della mancata chiarezza, e non è neppure una soluzione sostenere che ciò che oggi conta sia sentirsi impegnati, quando per impegno in molte situazioni si intende quasi esclusivamente sentire forti emozioni. È più importante saper chiaro in che cosa siamo impegnati. La mancanza di chiarezza porta all'uso indiscriminato di parole che assumono sensi opposti per diversi interlocutori, come le parole «violenza», «alienazione», «rilevanza».
    Camus dice che l'ambiguità nel linguaggio porta al monologo e alla morte, proprio come succede agli eroi nelle tragedie.
    Un buon livello di chiarezza può essere introdotto non tanto da una sempre più chiara definizione dei termini, perché ciò può portare a ridurre i problemi vitali a giochi di definizioni, ma dalla esplicitazione dei presupposti di fondo sulla natura dell'uomo quando si adotta un certo modello esplicativo, e dalla disponibilità di comunicare in termini semplici e non misteriosi.

    LE CONCEZIONI D'UOMO OGGI PIÙ IN VOGA

    È probabile che il credente abbia una concezione abbastanza chiara della natura dell'uomo, ma non per questo comprende meglio degli altri il modo di operare dell'uomo. Il problema da affrontare è il dialogo, in una società dove la concezione teologica dell'uomo è una astrazione che ha perso il suo significato. È necessario trovare un terreno comune sul quale costruire insieme, per giungere ad una più ricca comprensione dell'uomo. Possiamo chiamare terreno comune una concezione che lasci spazio ai modelli esistenti, per un dialogo che possa condurre a delle sintesi che permettano una crescente intesa tra le diverse concezioni.
    Accennerò a tre concezioni dell'uomo e propongo una concezione che può aprire la strada ad un autentico dialogo tra persone e società.
    Vedremo:
    * l'uomo come organismo spinto ad istinti e pulsioni necessari,
    * l'uomo come risultato della stimolazione ambientale,
    * l'uomo come produttore di beni,
    * l'uomo come creatore del proprio ambiente e della propria vita.
    Non accenno al modello di Rousseau, dell'individuo buono e della società cattiva, perché è noto e se ne conoscono bene le ambiguità: quando la natura è ostile ripiega sulla convenzione umana per protezione e quando la convenzione umana sembra ostile, ripiega sulla natura per protezione. E poi se l'uomo per natura fosse buono, non si vede perché debba sempre produrre società cattive. Sembra più costruttivo guardare all'uomo e alla società come elementi di un processo transazionale.

    L'uomo di Freud: l'uomo guidato dall'istinto

    Freud e la psicoanalisi, pur non ignorando gli effetti delle forze ambientali, ritengono che gli elementi più importanti nell'uomo sono la struttura psichica e le motivazioni inconscie.
    L'uomo non fa più da propulsore, ma è spinto, anche se esiste il paradosso, difficile da spiegare peraltro, che la terapia psicoanalitica mira a dare un certo livello di autodeterminazione alla persona, un certo controllo dell'io sull'es (della persona sulle sue pulsioni). A parte le possibili sfumature, rimane evidente il concetto di fondo che l'uomo è determinato da forze propulsori che stanno dentro di lui. Questa concezione stava alla radice del movimento educativo dell'adattamento, assai esteso negli anni cinquanta nel mondo anglosassone; esso supponeva un processo di compromesso e adeguamento alla situazione nel conflitto necessario tra l'individuo e la società. Neppure l'attività intellettuale è concepita libera, ma come una forma di attività secondaria, destinata ad assorbire le tensioni della libido e dell'aggressività.

    L'uomo di Skinner: l'uomo condizionato dall'ambiente

    Una concezione in un certo senso parallela a quella freudiana è quella sostenuta da uno dei più noti metodologi del behaviorismo del nostro tempo, B.F. Skinner. L'uomo non ha libertà, ma è estremamente malleabile sotto l'effetto della stimolazione esterna. Invece di essere determinato da forze che sono dentro se stesso, egli è determinato da forze nell'ambiente. L'attività dell'uomo è riducibile ad un processo che si fonda sugli stimoli, le reazioni e i rinforzi. Mediante una appropriata manipolazione della situazione, è possibile costruire la società ideale. Non viene lasciato spazio alla creatività della persona; scrivere una poesia non è diverso da altre attività per nulla creative come partorire un bambino per una donna o deporre un uovo per una gallina. In contrapposizione a Freud, l'uomo non ha una struttura determinata: risponde semplicemente agli stimoli dell'ambiente secondo leggi che si possono scoprire. L'educazione diventa in ultima analisi un gioco ingegneristico, sia pure scientifico. Skinner rimane strenuo oppositore di qualsiasi punizione, perché l'uomo è condizionabile attraverso adeguati rinforzi positivi, ad esclusione della punizione, che può condurre alla nevrosi. Quello che è in gioco non è il controllo o il non-controllo dell'uomo, ma una scelta tra controllo scientifico o controllo lasciato al caso. Il concetto di libertà porterebbe solo ad ammettere la responsabilità dell'uomo per gli atti negativi e ciò avrebbe come unica conseguenza la punizione.
    Skinner viene a trovarsi agli antipodi degli esistenzialisti estremi.
    Skinner incontra grosse difficoltà. Chomsky giustamente si domanda se l'uomo risponde a uno stimolo in una data situazione o piuttosto ad uno degli stimoli al quale l'organismo reagisce; e inoltre si domanda se qualsiasi parte del comportamento deve essere chiamata una reazione, o piuttosto una risposta che è connessa con lo stimolo in modo legittimo. In tutti e due i casi ci troviamo di fronte a un dilemma: se qualsiasi stimolo che arriva sull'organismo è considerato stimolo e qualsiasi parte di comportamento è una reazione, allora il comportamento non è governato da una legge. Se si accetta la definizione più stretta, allora il comportamento è legittimo per definizione, un fatto però di scarsa rilevanza dal momento che quasi tutto quello che un animale fa semplicemente non sarà considerato comportamento. Skinner non ha risposto adeguatamente a questa obiezione.
    L'uomo rimane senza intenzione e scopi, poiché esistono solo conseguenze. Questo implica la impossibilità di fare delle scelte preferenziali, ma Skinner sostiene che il suo modello è da preferirsi agli altri. Perché? Perché ritiene che la società può essere pianificata dagli ingegneri skinneriani; se i loro piani sono attuati, saranno superiori ad altri piani.

    Il modello di Marx: l'uomo come produttore

    Secondo Marx ed Engels «gli uomini si distinguono dagli animali non appena essi cominciano a produrre i mezzi per la vita... Nel produrre i mezzi della vita, gli uomini indirettamente producono la loro vita materiale». Per raggiungere la situazione ideale di produzione, è necessario ristrutturare il sistema produttivo. Sono concetti fondamentali la sopravvivenza dell'uomo e il suo benessere materiale. Questa concezione si riallaccia facilmente con la teoria dell'evoluzione biologica e la sopravvivenza della specie. In questa concezione riesce difficile trovare un posto logico per la religione, il mito, l'arte, i giochi, poiché non si vede come questi elementi abbiano valore di sopravvivenza. Queste rimangono attività periferiche, o addirittura evasioni dai problemi reali della vita. Il passo è anche facile ad un modello economico che considera l'abbondanza materiale come il bene supremo dell'uomo e quindi suggerisce che la funzione più importante dell'uomo sia quella di produrre e consumare la più grande quantità di beni possibile.
    I tre modelli d'uomo che abbiamo presentato partono da presupposti diversi e giungono a conclusioni diverse, spesso contraddittorie; prendono in considerazione aspetti parziali ma importanti dell'uomo e tendono ad assolutizzarli.

    Un modello dell'uomo che salvi libertà e creatività

    Un modello che può permettere una notevole apertura per tutti gli orientamenti ai quali abbiamo accennato e può lasciare spazio anche al modello intellettuale della filosofia classica, meno evidente oggi, attribuisce all'uomo soprattutto la capacità di creare liberamente. Se il punto essenziale nell'uomo è che egli vive libero ed è capace di creare il suo destino, emergono delle conseguenze di grande importanza: l'uomo non è più dominato da forze inconscie al di là del suo controllo e neppure è il prodotto degli stimoli esterni, non importa quale sia la loro natura, ma è il capolavoro di se stesso, capace di prendere atto di forze che esistono nella sua natura biologica, capace di prendere atto delle forze che esistono nell'ambiente, e capace di usare tutte queste forze al servizio della propria libertà, libertà intesa come spazio d'azione in un ambito che ha la sua regolarità, le sue leggi. In questa concezione l'uomo è capace di creare delle sintesi che non sono semplicemente somma di stimoli interni o esterni, è capace di simboleggiare, in modo che può rappresentare la sua esperienza a se stesso e qualificarla a prescindere dalla situazione concreta del momento, forse oppressiva; è capace di esplorare la situazione e non rimane passivo di fronte alla stimolazione ambientale o psichica. È indispensabile avere una concezione non a compartimenti-stagno della realtà psichica: ha importanza non il fatto obiettivo, ma i fatti in quanto sono relazionati tra loro; non più distacco dalla realtà umana, ma coinvolgimento; non più analisi e investigazione senza valori, ma analisi carica di valori.
    Alla stregua di questa concezione i modelli che abbiamo presentato diventano insufficienti, in quanto non tengono conto delle capacità di sintesi, di simbolizzazione e di esplorazione dell'uomo. Neppure i modelli più comuni e più complessi di quelli di Skinner riescono a rendere giustizia all'uomo, perché tendono a ridurre la reazione umana ad un fenomeno prevedibile sulla base di un numero relativamente limitato di condizioni di stimolo, come le caratteristiche di personalità, l'intelligenza, l'estrazione socio-culturale o altre variabili viste come intermediarie tra lo stimolo e la risposta. Questo modo di guardare all'uomo ha i suoi vantaggi, perché permette una certa previsione dell'attività umana a livello di gruppo, ma implica gravi rischi di autoprofetismo, se si perde di vista la parzialità e fragilità del modello stesso, sia esso psicoanalitico o behavorista e economico.

    L'UOMO ESISTE IN RELAZIONE AGLI ALTRI

    La libertà e la creatività dell'uomo non sono un fatto isolato, ma suppongono un impegno costante nell'ambiente umano. La comunicazione con gli altri è una fonte di arricchimento per l'attività creatrice della persona. Nel suo dialogo con la realtà la persona che vive la sua libertà percorre un ciclo evolutivo con punti nodali intimamente interconnessi.

    I «nodi» di un ciclo evolutivo maturo

    - La persona percepisce liberamente,cioè sceglie come recepire la situazione e chi recepire. È capace di guardare in faccia la realtà senza essere resa insensibile dal ripetersi degli orrori, o dalla noia del benessere. È capace di vedere l'assurdità della guerra, la stupidità dei manipolatori consumistici, il vuoto dell'etichetta scientifica, il verbalismo pretenzioso dello sfruttatore. È capace di mantenere nella sua mente idee opposte senza perdere la capacità di agire coerentemente; può rendersi conto che la situazione è disperata ma rimane decisa a fare qualche cosa.
    - La persona libera ha un forte senso di identità personale, per cui è capace di tollerare che tutto svanisca di fronte a lei, di rimanere anche sola, ma convinta di una certezza: la continuità di se stessa, capace di dialogo senza confini e presa di coscienza senza ostacoli.
    - Sulla base di questa capacità percettiva e forte senso di identità la persona è capace di proiettarsi in avanti, di avere grandi desideri con elevato senso di anticipata competenza personale.
    - Le attese costruttive e positive che la persona ha di sé le permettono di impegnarsi intensamente nella situazione umana. Sente l'urgenza di agire, spinta da un forte senso morale. Non è però l'attivismo compulsivo stereotipo e freddo, é un coinvolgersi con profonda convinzione derivante dalla coscienza dei diritti autentici delle persone.
    - È attraverso questo impegno intenso che la persona si trova nella necessità di dover sospendere il proprio modo di concepire la realtà,e prendere il rischio di vedere con gli occhi dell'altro la realtà che fino ad ora ha visto con i suoi occhi; avviene una specie di disintegrazione della propria struttura conoscitiva per aprirsi all'altro:
    - A questo processo di sospensione segue un tentativo di raccorciare le distanze verso l'altro, la persona profondamente diversa da sé; avviene l'incontro con chi sembrava distaccato da un abisso invalicabile.
    - È a questo punto che la persona libera cerca di imprimere sull'altro la propria sintesi e vederla così verificata anche al di fuori di sé. Però non si tratta di imposizione sugli altri, o di possesso degli altri ma di partecipazione.
    - La partecipazione non si attua se non attraverso un intenso dialogo, perché le sintesi di due persone non coincidono necessariamente; non un dialogo che porta al compromesso, ma un dialogo che porta a una visione nuova per tutti e due.
    - È in questa visione nuova che la persona riesce a ristrutturare la realtà in modo che gli opposti si incontrano ed emerge una nuova sintesi nella persona, nuova matrice una più ricca percezione ed approfondita identità. Il processo di ricreazione di sé continua in questo ciclo.
    I diversi nodi, che per necessità sono presentati distintamente, sono intimamente connessi tra di loro, in modo che carenze profonde ad uno qualsiasi di essi, atrofizzano tutto il processo di sviluppo umano. La persona libera agisce come un tutt'uno in questa evoluzione verso livelli superiori di sintesi e integrazione personale; è la persona non libera che si blocca in un punto o nell'altro del ciclo.

    L'interdipendenza dinamica dei gruppi

    Se ora immaginiamo la realtà concreta sappiamo che le persone non si incontrano solo a due a due, ma anche a gruppi e quindi nella vita di gruppo il dialogo diventa una rete fitta e piuttosto intricata di interazioni tra molte persone; il dialogo diventa assai complesso perché ciascuna persona con i suoi punti nodali del ciclo evolutivo deve far contatto con più persone, ciascuna secondo il suo modo e il suo livello di evoluzione. Non solo la persona non può considerarsi arbitra assoluta e individuale della situazione, ma deve prendere in considerazione gli altri e dialogare con loro secondo la loro particolare capacità di dialogo. Il dialogo deve aiutare a creare sintesi più complesse, percezioni più ampie e identità più profonde.
    Il ciclo evolutivo presentato con un certo dettaglio per l'individuo può essere esteso anche al piccolo e al grande gruppo quando come unità si incontrano con altri gruppi. Ogni gruppo ha il suo modo di recepire e ha una sua caratteristica identità, derivanti in buona parte, ma forse non in modo totale, dal modo di recepire e dalla identità dei componenti del gruppo. I gruppi differiscono nel modo nel quale riescono a proiettarsi in avanti con il loro senso di competenza, coinvolgersi nella realtà o isolarsi da essa, sospendere il loro modo caratteristico di strutturare le conoscenze, e rischiare se stessi; anche i gruppi riescono ad avvicinarsi ad altri gruppi profondamente diversi da loro, rendersi ad essi presenti con la propria visione e istituire una dialettica che trasforma i due gruppi e li fa emergere con orizzonti nuovi, nuove capacità di percepire e di essere gruppo.
    Il modo di organizzarsi del gruppo dipende fondamentalmente dal livello di sviluppo esistenziale raggiunto dalle persone che lo compongono, salvo condizionamenti fondati sulla forza, capaci di imporre strutture che mortificano la persona.

    Ciclo evolutivo e organizzazioni

    Il gruppo e qualsiasi organizzazione è in un ciclo evolutivo con punti nodali corrispondenti a quelli del ciclo evolutivo delle persone.
    L'organizzazione ha il suo modo di percepire attraverso i piani, le informazioni e le norme d'azione ufficiali.
    L'organizzazione ha la sua identità visibile nei ruoli, nelle posizioni formali, nella distribuzione dei compiti. Il nodo della competenza è espresso nello status, nei segni di privilegio, nei livelli gerarchici; il coinvolgimento si manifesta nelle attività intraprese dall'organizzazione e le sue interazioni con l'ambiente.
    Nell'organizzazione non esiste la sospensione della struttura.
    Abbiamo invece nell'organizzazione il nodo della distanza, che si manifesta nella differenziazione che emerge a causa della divisione del lavoro tra le unità che devono essere coordinate. Il nodo della trascendenza è presente nelle tecniche formali di valutazione, di riconoscimento ed integrazione. La dialettica si manifesta nel coordinamento, nei contratti collettivi, negli incontri dei comitati e le attività di collegamento a livello ufficiale. Periodici controlli e analisi delle variabilità scoperte permettono nuove integrazioni per raggiungere livelli superiori di complessità del sistema formale.

    Persona e organizzazione

    Potremmo rappresentare la struttura del ciclo evolutivo della persona e della organizzazione come due cerchi concentrici, quello interno della persona e quello esterno dell'organizzazione.
    Potremmo anche immaginare il ciclo della persona come il corpo e quello della organizzazione come la pelle, che in certi animali può essere sostituita periodicamente in modo totale. Esiste una profonda differenza tra il ciclo interno e quello esterno: il primo, è vivo il secondo è morto, il primo è in continua evoluzione, il secondo per natura sua è statico ed è mai su misura del primo, deve essere rinnovato continuamente secondo le esigenze del ciclo interno.

    LA PERSONA NELLA STRUTTURA SOCIALE

    Da quanto si è affermato si può proporre che gli ostacoli per un adeguato sviluppo psico-sociale della persona non derivano tanto dalle strutture della organizzazione, quanto dalla relazione che esiste tra il ciclo interno e quello esterno. Possono sorgere grosse difficoltà perché le strutture non si adeguano alla persona: ad esempio, la opprimono perché troppo semplici o troppo complesse. Uno squilibrio può esistere tra le esigenze della persona e la corrispondente adeguatezza dei nodi organizzativi, oppure per squilibri tra i nodi stessi della struttura, poiché la mancata armonia nella struttura, anche in un solo punto, crea disagio ad altri livelli della struttura come avviene nel ciclo evolutivo della persona.
    L'uomo cambia queste strutture in un processo di continuo riadattamento alle sue esigenze. La persona dal canto suo non si capovolge da un giorno all'altro, ma si evolve in un equilibrio dinamico: le organizzazioni devono essere continuamente rifatte, per mantenere una appropriata relazione nei riguardi della persona.
    Che i sistemi formali non siano la soluzione dei problemi umani, ma la soluzione si debba ritrovare nella relazione tra i sistemi e la persona, si può dedurre da un insieme di fatti, in parte già accennati.
    I sistemi per loro natura non sono umani e vivi, sono cose, sono morti. I sistemi non hanno la capacità di sospendere i presupposti sui quali si fondano, tale sospensione deve essere operata dalle persone. Non prevediamo neppure che dei mini-sistemi molto evoluti abbiano la capacità di autodeterminazione, proprio perché non sono in grado di sospendere i presupposti sui quali sono fondati.
    Sembra perciò rischiosa e ingiustificata la ricerca della struttura sociale ideale. Si corre sempre il rischio di imporre all'uomo vivo uno schema morto, con la conseguenza di stiracchiare e appiattire l'uomo finché entra nella struttura ideale.
    La struttura del ciclo esterno è per natura sua conservativa, perché non è orientata al futuro, elemento essenziale nella identità della persona. La struttura ovviamente può indurre un cambiamento, ma sarà sempre una struttura transitoria che è stata vivificata da persone e che deve cedere il passo ad altre strutture non appena le persone con l'aiuto delle strutture hanno raggiunto un livello evolutivo per il quale la struttura è insufficiente. Una ragione del tono conservativo delle strutture è anche il fatto che praticamente tutte le strutture sono create da forze dominanti nel gruppo umano, e le persone che si trovano nelle strutture quasi mai sono quelle che hanno partecipato alla loro creazione.

    La struttura come difesa o come crescita?

    La struttura organizzativa tipicamente diventa un terreno di ripiego in tutte le situazioni che implicano incertezza e rischio e per tutte le persone che non sono capaci di percorrere creativamente il ciclo evolutivo. Esempi tipici sono i divorzi, indici di un crollo della interazione esistenziale tra due persone e di ripiegamento sulla struttura della legge come passo regressivo di difesa.
    Di fronte ad un problema umano che deve essere risolto flessibilmente, spesso si ripiega su una norma, che, si dice, deve essere osservata, anche se, difensivamente, si fanno voti perché venga cambiata. Intanto si infila l'uomo dentro quella norma come in uno stampo. Le persone che vedono nella struttura la soluzione dei problemi umani, raramente hanno raggiunto un livello di moralità che superi lo stadio legalistico-contrattuale e sono incapaci di comprendere soluzioni dettate da una coscienza più evoluta, anzi interpretano tali soluzioni come condotta illegittima.
    Le persone anomiche, sono quelle bloccate in qualche punto del ciclo evolutivo della persona libera; rigettano l'ambiguità delle idee, evadono dalle responsabilità attraverso l'adesione allo status quo o il rifiuto globale dello status quo, si appoggiano al sistema formale, non importa chi lo rappresenti: il partito, la religione, la nazione.
    In casi estremi il sistema viene semplificato in modo da non lasciare alcuno spazio per la creatività della persona: si pensi alle catene di montaggio, e allo scarto tra la complessità tecnologica e la semplicità del comportamento richiesto per sostenerla.
    Chi si appoggia sulla struttura come fulcro nella soluzione dei problemi umani, accetta acriticamente la specializzazione e la tecnica. Queste persone idolatrano il loro segmento di lavoro, il loro dialogo si riduce ad un monologo manipolatorio, ben lontano da una dialettica orientata al cambiamento di tutti, e al raggiungimento di una nuova sinergia. Potrebbe nascere l'impressione che le strutture organizzate siano la negazione dell'uomo. Lo sono se si ritiene che la salvezza dell'uomo risieda nelle strutture e non piuttosto nella relazione che deve esistere tra l'uomo e le strutture.
    Data questa visione dell'uomo e dell'e strutture che egli si crea, rimane esplicitato almeno indirettamente il ruolo dell'educatore, della scuola e della società. Diventa assurda la concezione di una scuola isolata dal contesto sociale e persino isolata dalle persone che in essa vivono. La scuola è una espressione della società e delle persone che la compongono.
    Non c'è spazio, in questo modello, per la concezione di coloro che vorrebbero distruggere la scuola, per crearne una di ideale. La scuola ideale cessa di esistere nel momento stesso in cui nasce: nasce morta come ogni struttura. È necessario tener presente che non è la struttura che conta, ma la relazione tra struttura e persona. Non si può parlare neppure di distruzione della società, perché noi siamo la società, noi tutti gli uomini. La soluzione non è l'anomia come adorazione dello status quo o come distruzione dello status quo. La soluzione sta in una dialettica rinnovatrice che impedisca il compromesso e il sopruso degli estremismi di qualsiasi genere e di qualsiasi colore. Le minoranze non autentiche e manipolative come pure le maggioranze manipolative sostenute da persone costituite in autorità e preoccupate di mantenere tutto sotto controllo per timore delle innovazioni, non sono gli agenti di cambiamento. Essi rischiano di essere gli agenti della graduale sclerotizzazione delle strutture per invecchiamento o per sostituzione automatica di una nuova struttura egualmente disumanizzante.
    La soluzione sta, in primo luogo, nel dialogo tra le persone inserite nelle strutture: scuola, famiglia, chiesa, partiti, sindacati. In secondo luogo è urgente creare un dialogo autentico tra queste strutture finalizzandole alla valorizzazione di tutte le persone.
    Esistono tecniche che possono guidare ad un dialogo maturo. E vanno utilizzate.
    Anche se è vero che in molti casi strumenti di trasformazione delle strutture sono stati sfruttati per giochi di potere sia da coloro che si indicano come «innovatori» che da quelli che si chiamano «conservatori» dell'ordine e della legalità. La trasformazione dell'incontro umano in un gioco di potere, di cui la peggior manifestazione è la violenza, è la negazione alla radice del dialogo come dialettica che porta a nuove sintesi. Nel miglior dei casi con il gioco di potere si può giungere al compromesso, ma sappiamo che il compromesso è sempre una sconfitta umana e un cedimento alla struttura.


    T e r z a
    p a g i n A


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