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    Quale antropologia nella pastorale?



    Andrea Brien

    (NPG 1974-11-02)

    Per la chiesa italiana, la «svolta antropologica» nella pastorale è stata segnata, con una certa ufficialità, dal «documento di base».
    Purtroppo, però, non mancano gli equivoci, sia nel momento della comprensione del suo senso oggettivo, sia soprattutto nel momento della utilizzazione.
    Brien, in questo articolo, fa un discorso importante ed estremamente urgente. Molti educatori della fede e molti giovani si sono buttati a capofitto nell'antropologia, trascinati spesso dall'entusiasmo dell'«ultimo ponte» per l'integrazione tra fede e vita. Quante volte, invece, ci si accorge di non riuscire a far procedere il discorso: la dimensione umana blocca e non permette di raggiungere una attenzione trascendente.
    Perché?
    Le difficoltà sono molte. E non tutte dipendono dalle cose in sé. Spesso gioca un ruolo negativo il cattivo uso che se ne fa: l'imprecisione e l'improvvisazione dell'operatore pastorale.
    Abbiamo però una convinzione: nessuno «strumento» è neutrale. Anche l'antropologia è «strumento», quindi richiede una sua collocazione pastorale precisa, prima di una sua utilizzazione indiscriminata. Se vogliamo raggiungere l'integrazione tra fede e vita, è indispensabile che gli aspetti da «integrare» (fede e vita) si presentino all'incontro in forma corretta. Una visione della vita (un'antropologia, cioè) chiusa, bloccata, carica di prospettive solo immanenti, non potrà mai permettere un'integrazione con la fede. Quell'antropologia non può avere spazio nella pastorale, perché allontana dall'incontro con la fede, invece di favorirlo.
    Come si vede, è un discorso davvero importante.
    La lettura attenta di questo studio può risultare illuminante anche nel contesto più vasto delle «scelte» pastorali che la rivista da tempo persegue.
    Per noi, quindi, questo articolo è un po' paradigmatico. Destinato a chiarire pericolosi equivoci e a motivare, con categorie scientifiche, le riflessioni che caratterizzano una delle nostre linee qualificanti.

    L'antropologia ha finalmente conquistato il suo posto d'onore nella catechesi. Nessuno specialista dell'insegnamento religioso oserebbe ormai negare la sua importanza. Le opere, gli articoli, i documenti di lavoro che appaiono nel campo catechistico si sforzano, quasi tutti, di tener ben conto di ciò che essi pensano siano le sue esigenze.
    Siamo oramai lontani dall'epoca in cui i catechismi si accontentavano di enunciare delle affermazioni dogmatiche, dei comandamenti o delle prescrizioni rituali senza cercare di sapere chi era l'uomo ai quali essi venivano proposti. E tuttavia quest'epoca non risale a più di una ventina di anni fa. Quale progresso decisivo è stato compiuto in un periodo così breve!
    Ma si deve gioire, senza alcuna preoccupazione, di questa conversione tardiva? Io, che sono un appassionato di antropologia cristiana da lungo tempo, non oserei affermarlo. La mia gioia di vedere finalmente l'interesse dell'uomo penetrare la catechesi e, al di là di essa, la pastorale, è, in effetti, turbata da un oscuro presentimento. Non si è forse troppo in fretta dato il buon nome di antropologia cristiana a un'analisi dell'esistenza umana condotta secondo forme costrette, in ragione stessa del loro metodo, a riportare ciò che l'esperienza religiosa dell'uomo ha di unico e di irriducibile a dei principi di spiegazione che gli sono esteriori? In altri termini, non si è forse tentato di applicare all'opera catechetica delle antropologie kantiane, hegeliane, freudiane, nietzsciane o marxiste che non possono toccare la testimonianza personale di Gesù Cristo? Non si è forse, di conseguenza, resi coloro ai quali si voleva presentare questa testimonianza giustamente incapaci di riceverla?
    Preoccupati di fare antropologia, non si è forse trascurato la via di ricerca che dovrebbe occupare il primo posto per un catecheta o per un teologo, cioè quella proposta dalla antropologia del Nuovo Testamento? Perché c'è un'antropologia evangelica! Una delle mancanze più grosse della teologia degli ultimi tre secoli è probabilmente quella di averla misconosciuta rendendo intrasmissibile la forza del messaggio del Cristo.
    Non ci si può accontentare di mezze misure in questo campo. Se si vuol fare dell'antropologia - cosa molto auspicabile - bisogna andare a fondo e darsi la briga di riscoprire quella del Vangelo. Se no il rimedio è peggiore del male e l'antropologia che si applica alla catechesi, lungi dal renderla espressiva, la soffoca più ancora dei metodi dogmatici che si vorrebbe abbandonare. Questa è la mia convinzione a cui vorrei che aderissero coloro che avranno il coraggio di leggere questo breve articolo!

    L'INVASIONE DELL'ANTROPOLOGIA NELLA PASTORALE

    L'ingresso dell'antropologia nella catechesi si è verificato per tappe successive. La prima presa di coscienza della sua necessità è venuta da una riflessione sui metodi dell'insegnamento catechistico. Dal momento in cui si è rinunciato a fare di una lezione di catechismo una semplice spiegazione di domande e risposte da manuale, ci si è posti il problema del «metodo di esposizione». Come proporre a giovani le verità della fede in una maniera che li tocchi? Questo interrogativo ha condotto a riflettere su ciò che dovrebbe essere un metodo di esposizione ideale. E così si è notato che esso dovrebbe incominciare con l'«attirare» l'attenzione degli uditori, evocando fatti o situazioni capaci di raggiungere immediatamente la loro esperienza.
    Ma non era sufficiente «attirare» l'attenzione, bisognava poi indirizzarli verso il contenuto dogmatico, morale o sacramentale che si voleva trattare. Disgraziatamente non sempre si seguiva la via che era stata aperta. Il tempo maggiore veniva sprecato nel cammino e così di tutto l'incontro, al giovane non restava che un vago ricordo di ciò che aveva «attirato» la sua attenzione e null'altro: quindi ben poco!
    Questa costatazione ha aperto la via a un'analisi dei diversi condizionamenti dell'attenzione. Si è giunti così a riconoscere il ruolo che gioca nella comunicazione non tanto il linguaggio ufficiale insegnato dalle grammatiche, ma il linguaggio concreto parlato effettivamente dalla gente. Ci si è quindi attenuti alle strutture di questo linguaggio e ai suoi radicamenti nei diversi gradi della rappresentazione. E così si è scoperto un fatto elementare, ma troppo spesso dimenticato: cioè che non si può parlare il linguaggio di qualcuno sino a quando non si è entrati con lui nel suo mondo. Questa presa di coscienza doveva condurre a invertire il senso della catechesi. Ormai non ci potevano più essere un maestro e degli allievi, un catechista e dei catechizzati, ma tutti dovevano divenire, nello stesso tempo, maestri e discepoli, perché solo coloro che dovevano essere ammaestrati potevano fornire al maestro la chiave dell'universo che era il loro e dunque del linguaggio che lo qualificava. Non era ormai più questione di «metodo di esposizione» e neppure, forse, di programma perché il rapporto catechistico doveva essere fondato sullo scambio, sul dialogo costante.
    Diveniva allora necessario interrogare di nuovo l'antropologia per domandarle il segreto di una buona comunicazione. Come impostare una riunione dove ciascuno possa esprimersi liberamente, dove ogni formalismo sterilizzante sia bandito, dove le aggressività che sonnecchiano in ciascuno possano essere superate?
    Ma questa tappa ne richiamava un'altra che fu, essa pure, spesso raggiunta. Quando giovani e adulti ebbero ritrovato una possibilità di espressione sincera e poterono dire ciò che loro stava più a cuore, si impose una costatazione: quella dei condizionamenti psicologici o sociologici che essi avevano subito. Li si riuniva per annunciare loro la salvezza, cioè la liberazione portata da Gesù Cristo. Ma apparivano segnati da costrizioni esterne ed interne che impedivano loro di essere se stessi. Il compito più urgente della catechesi non era allora quello di liberarli da queste alienazioni perché potessero ricevere il Vangelo?
    Anche qui l'apporto dell'antropologia doveva essere decisivo: grazie alla psicologia del profondo, alla sociologia o alle scienze economiche essa era in grado di permettere ai catechisti di diagnosticare i sentimenti di frustrazione, di colpevolezza o di angoscia che così sovente intaccano la coscienza religiosa e di scoprirne le cause. Così il maestro non può solo insegnare, ma, ancora, liberare coloro che gli sono affidati da ciò che li rende non idonei a vivere da cristiani.
    Il ruolo della pastorale catechistica si allarga quindi considerevolmente; da una attività di insegnamento religioso essa diviene una scuola di libertà spirituale, di accesso alla autonomia.
    Grazie ad essa i cristiani possono assumere liberamente il proprio destino, dargli un orientamento proprio. Non è forse questo tipo di catechesi molto di più dell'«insegnamento religioso» tradizionale e non è questo che attendono i giovani? Sofferenti per l'anonimato del mondo tecnico, per la durezza della lotta per la vita e per i contrasti imposti dalla ricerca del rendimento, essi aspirano, forse più ancora dei giovani delle società che ci hanno preceduto, ad essere riconosciuti e stimolati ad affermarsi, cioè a situarsi personalmente nel mondo che li circonda.
    Ma l'antropologia influenza ancora la catechesi in un'altra maniera, più direttamente sociologica. La società moderna, infatti, è profondamente contrassegnata dall'esistenza di classi sociali. Queste rappresentano il quadro della vita normale della più parte dei nostri contemporanei. La catechesi ha considerato suo compito sensibilizzare i cristiani all'esistenza di queste diverse «classi» e di far loro scoprire i doveri imposti da questa solidarietà collettiva. Il realismo cristiano non implica forse che uno abbandoni una certa rappresentazione individualista della salvezza e che scopra che si avvicina al Signore ogni volta che accetta di divenire solidale con i fratelli?
    E così l'antropologia ha condotto la catechesi ad altre scoperte. Essa ha condotto a riflettere sulla situazione psicologica dell'educatore, sia esso prete o laico. Essa ha dimostrato che per esercitare un'azione liberatrice, bisogna essere, personalmente, liberi psicologicamente. Come può un educatore, gravato da grosse frustrazioni psicologiche o da modi di pensare troppo dipendenti dall'ambiente collettivo alienante, divenire un testimone della vita fraterna alla quale Gesù Cristo chiama gli uomini? Questa constatazione conduceva a considerare la formazione degli educatori in una maniera tutta nuova. Non si trattava più solo di comunicare loro delle conoscenze teologiche o pedagogiche; era necessario anche metterli in stato di libertà spirituale. Bisognava dunque aiutarli a prendere coscienza dei diversi fattori che avevano potuto agire sulla loro vita e condurli a una percezione diversa del senso della esistenza o dei rapporti tra gli uomini. Bisognava metterli in grado di liberarsi dai sentimenti di frustrazione o di colpevolezza che potevano marcare il loro subcosciente e rivelarsi nel loro comportamento con delle manifestazioni più o meno irrazionali di aggressività.
    E infine la nostra civiltà ha cessato di essere un «mondo delle parole» per divenire un «mondo dell'audio-visivo». La pastorale catechistica non doveva essa pure prenderne atto e domandare alla antropologia di farle riscoprire la potenza espressiva che possiedono i gesti, i ritmi, le immagini e soprattutto i simboli?
    Non bisognava forse che la paralisi di tutte le forme di manifestazione di sé e di comunicazione che l'intellettualismo degli ultimi secoli aveva imposto, fosse sanato perché la vitalità umana e cristiana potesse di nuovo affermarsi senza contrasti?
    Si può dunque dire che l'azione della antropologia sulla pastorale catechistica è stata multiforme: essa ha obbligato a rimettere in questione tutti i modelli tradizionali dell'insegnamento religioso. Il movimento è irreversibile; gli interrogativi che pone non possono essere elusi. Bisogna rallegrarsene perché era paradossale annunciare la Salvezza e la Vita a uomini di cui non si conoscevano neppure i modi di vivere.

    LA PASTORALE SOFFOCATA DALLA ANTROPOLOGIA

    Bisogna comunque domandarsi se questo affermarsi della antropologia rappresenti solo un beneficio per la pastorale. Non rischia forse di soffocare, in ciò che ha di specifico, l'annuncio del messaggio evangelico? Sembra infatti che la serva sia diventata la padrona; l'antropologia, considerata come un mezzo per ridare vita alla catechesi, non ha talvolta invaso tutto e scacciato quella di cui soleva essere il sostegno?

    Un interesse ai valori umani che blocca

    Ho l'impressione che molto spesso il richiamo dei principi, creduti caratteristici del cristianesimo, non è che l'occasione di una pedagogia della maturazione personale, dell'impegno sociale o politico o della comunicazione, che potrebbe svilupparsi senza riferimento alla fede.
    La scoperta dell'umano doveva condurre ad accogliere pienamente il dono di Dio; non tende sovente a svilupparsi in una maniera tale che il richiamo della Rivelazione cristiana le diviene praticamente un corpo estraneo e, di conseguenza, inutile?
    È ben vero, e nessuno lo nega, che il cristianesimo è la libertà, il dialogo, la valorizzazione dell'uomo nella sua esistenza terrena, la giustizia e la carità. Dunque, risvegliando questi «valori umani», si avvia l'«ideale cristiano». Ma andrebbe dimostrato che il cristianesimo non è che un ideale che si potrebbe perseguire al di fuori di ogni rapporto personale con il Cristo!
    In altri termini, perché richiamarsi a Dio, al Cristo, alla Chiesa e ai sacramenti per proporre un ideale che potrebbe essere proposto più direttamente, facendo semplicemente appello alla coscienza che l'uomo ha della sua grandezza e del suo compito nella costruzione del mondo? Non si tratta di tempo perduto? Senza dubbio, la maggior parte di coloro che orientano la pastorale in questo senso non ne prendono coscienza perché essi hanno sofferto un insegnamento cristiano eccessivamente dogmatico, ritualista e giuridico che sembrava non raggiungere mai le condizioni della vita concreta degli uomini. Supponendo che ciò che essi hanno così penosamente immagazzinato nella loro giovinezza impregni tutti i cristiani, sia giovani che adulti, a loro sembra che un solo imperativo si imponga attualmente alla pastorale: liberare i «valori umani» supposti dalla Fede. Tutto il resto verrà come soprappiù.
    I giovani che ricevono questa proposta pastorale non vivono le cose nella stessa maniera. Molto sensibili ai «valori umani» che vengono loro proposti e che sono soggiacenti alla cultura contemporanea, essi non vedono perché debbono venire accompagnati da affermazioni sull'esistenza di un mondo soprannaturale, da inviti alla pratica sacramentale e all'inserzione nella Chiesa e da interdizioni morali che sembrano non avere niente a che fare con questi valori. Hanno l'impressione che vi sia in un tale insegnamento una mancanza di coerenza e che questo insegnamento sarebbe più semplice e più convincente, se fosse libero da ciò che non gli è veramente necessario...
    E così essi che hanno in se un'attesa religiosa che non arriva ad esplicitarsi, provano un sentimento oscuro di frustrazione di fronte a una formazione che non sembra toccare mai tale attesa. Trovano questi «valori umani» ben poca cosa confrontati con la presenza di amore che essi speravano di trovare. In un caso come nell'altro, essi non possono, presto o tardi, non sentirsi infastiditi di un insegnamento così deludente.
    Bisogna dunque ammettere, una volta per tutte, che l'umano non può mai incontrare il divino e che l'immenso slancio antropologico intrapreso dalla pastorale catechistica contemporanea non può riuscire a situare il mistero cristiano nell'esperienza umana, come non riuscivano a farlo un tempo coloro che fedeli al «metodo dell'esposizione» non giungevano mai ad «agganciare» le verità dogmatiche, che essi volevano proporre, alle situazioni di vita da cui partivano?
    Tirare una simile conclusione da questi insuccessi sarebbe dimenticare che l'esistenza dell'uomo affonda nel mistero di Dio e che il dono del Regno ne adempie l'attesa profonda.
    Il discorso su Dio e il discorso sull'uomo non si escludono a vicenda, ma è certo che qualsiasi antropologia non può servire da fondamento alla catechesi. Il grado scientifico che lo sviluppo delle scienze umane ha dato a certi settori della antropologia non deve farci illusioni al riguardo. La riflessione sull'uomo è così complessa e ha degli aspetti così diversi, che non la si può ridurre, senza vizio di metodo, a qualche affermazione semplicistica che la volgarizzazione moderna prende in prestito da Hegel, da Marx, da Freud da Nietzsche o da Rogers.

    Antropologie che chiudono nell'esperienza umana

    Vi è una dimensione religiosa dell'attesa umana che la maggior parte delle analisi antropologiche recenti hanno trascurato. È in questa attesa profonda che si innesta la parola di Gesù Cristo. Appoggiarsi su una antropologia che non la includesse per fondare la catechesi, significa mettersi dall'inizio, nella incapacità di stabilire un legame vivente tra le speranze dell'uomo e ciò che effettivamente è il Regno di Dio.
    È un grave abuso sottomettere la pedagogia catechetica a categorie interpretative del fatto umano che non tengono giusto conto del rapporto attuale dell'uomo con Dio! Non si tratta quindi di un eccesso, ma di un difetto di antropologia che soffre la pastorale attuale, al pari di certe elaborazioni teologiche recenti.
    Due dominanti, d'altronde poco compatibili tra esse, comandano le antropologie sulle quali si appoggiano, senza averne il più delle volte coscienza, la maggior parte degli educatori. L'ispirazione della prima è kantiana, quella della seconda hegeliana e freudiana; ma né l'una né l'altra sono propriamente evangeliche.
    Nel primo caso si riduce la fede alla scoperta e al rispetto di «valori umani»; si è allora più vicini all'imperativo categorico che all'annuncio della Vita nuova. Nel secondo caso, si considera come Assoluto la liberazione dalle alienazioni subite dagli individui o dalle comunità; ma che cosa ci sta a fare in un simile quadro il dono di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente?
    Comunque esiste tra queste due «antropologie» un tratto comune: esse lasciano l'uomo di fronte a se stesso. Esse gli ricordano ciò che deve fare per «servire i valori umani» o per liberarsi, come i suoi fratelli, dalle frustrazioni alienanti. Esse non gli dicono affatto ciò che Dio è per lui e come il Cristo rinnovi la sua esistenza. Per questo ogni sforzo tentato per fondare un annuncio della Rivelazione su tali fondamenti andrà sempre incontro al fallimento.
    Fin quando la antropologia si fermerà a ciò che significa per l'uomo il mistero della Creazione, essa non potrà condurre che alla disintegrazione della fede. La Rivelazione cristiana non acquisterà il suo senso se non è sorretta da una antropologia che raggiunga e approfondisca l'esperienza religiosa dell'uomo.
    Ora il Nuovo Testamento ci delinea le grandi direttrici di questa antropologia: un educatore deve saperle riconoscere e tradurle in pratica attraverso la sua pedagogia.

    PER UNA ANTROPOLOGIA DEL RAPPORTO CON DIO

    La preoccupazione di obiettivismo dogmatico e morale e l'atomismo psicologico che hanno dominato la teologia dal 17° secolo, hanno progressivamente reso insensibili ad ogni antropologia concreta. Solo la «teologia spirituale» ne conservava alcune tracce. È dunque urgente rendere alla teologia - e alla pastorale - questa dimensione perduta e rimettersi quindi alla scuola del Nuovo Testamento.

    Una antropologia della conoscenza

    La caratteristica più saliente della antropologia neo-testamentaria è, mi sembra, il primato che essa dà alla conoscenza. Per l'uomo vivere è anzitutto conoscere. Il cammino verso la Verità si identifica con il cammino verso la Vita. Ora ricordare ciò, è situarsi in disaccordo con le antropologie di origine kantiana, hegeliana e anche freudiana sulle quali si fonda sovente l'azione pastorale contemporanea.
    L'evangelizzazione deve condurre gli uomini non solamente a riconoscere dei «valori umani» o a lottare contro le alienazioni, ma a percepire il significato dei segni attraverso i quali Dio si manifesta e innanzitutto del principale di tali segni: Gesù Cristo. Il mondo dei Vangeli e delle Lettere si presenta come un campo continuo di comunicazioni e di scambi. Ogni uomo vi è sollecitato dai gesti o dalle parole che gli rivolgono direttamente coloro con i quali vive e, indirettamente, attraverso la natura, gli avvenimenti o le persone, il Dio vivente.
    Questi segni velano e nello stesso tempo svelano ciò che è nascosto, inaccessibile in coloro che li proferiscono. Non sono delle cose, sono degli appelli. Essi invitano colui che li accoglie ad andare oltre le loro apparenze e a penetrare con loro nel segreto del cuore che li ha proferiti.
    Il problema è allora il seguente: saranno accolti e colui che li esprime sarà riconosciuto, ascoltato, seguito, oppure saranno rifiutati? Nel secondo caso la comunicazione non si stabilirà, non vi sarà fede.
    È necessario dunque sapere ciò che rende l'uomo attento o, al contrario, insensibile alle testimonianze di Dio o dei suoi fratelli. È ciò che Cristo ci insegna ricordandoci in maniera concreta, attraverso le parabole o i diversi incontri della sua vita, come l'uomo si situi di fronte agli altri e come le posizioni che egli prende comandino la sua facoltà di conoscere, cioè la sua chiaroveggenza o il suo acciecamento.
    I Vangeli ci mostrano uomini il cui cuore è aperto, che percepiscono il senso di ciò che Dio loro dice attraverso i loro fratelli, e uomini il cui cuore è chiuso, indurito, che restano insensibili a tutto ciò che potrebbe farli uscire da loro stessi, ossia ad ogni novità.
    I primi sono pronti a partire, a tutto ricominciare volendo ciò che loro rivelano dalla parte di Dio coloro che essi incontrano e innanzitutto Gesù Cristo; i secondi rifiutano di ricercare altra cosa diversa da ciò che ritengono fino a quel momento il loro interesse.
    Nulla di più concreto di questa pedagogia evangelica, niente di più semplice e che nello stesso tempo penetri più profondamente nel cuore dell'uomo. Gli educatori che ne percepiscono la forza e vi si sottomettono sanno trovarvi le applicazioni alla vita quotidiana e preparare i loro discepoli ad accogliere il richiamo del Regno.

    Una antropologia della interiorità

    Nella antropologia evangelica vi è una seconda istanza, quella della interiorità: «Quando tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina sia fatta nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà» (Mt 6,3-4). Dio non si trova solo al di fuori dell'uomo, come uno che comandi, che domini e che sia pronto a punire. Non è solamente il signore delle forze della natura, delle strutture della società o del termine della storia. Egli è presente nell'uomo, nel più profondo, nel segreto. Trovarlo, significa per l'uomo trovare se stesso, scoprire la sorgente ultima dei suoi impulsi e del suo desiderio di infinito. Dio agisce all'interno del cuore dell'uomo, lo illumina con il suo Spirito Santo. Questa azione non è una costrizione, una determinazione meccanica; essa è, nello stesso tempo, una attesa e una luce interiore. Ma l'uomo può sempre rifiutarla, erigersi contro di essa, peccare contro lo Spirito: egli entra allora nella notte, nel non-senso. Perché la antropologia del Nuovo Testamento è fondata su una corrispondenza: quella dell'attesa e del compimento. A questa ricerca di pienezza che Dio infonde nel cuore dell'uomo, Dio offre un compimento con un dono gratuito, quello del Regno.
    La via umana si presenta così come un moto da Dio a Dio: dal Dio immanente, presente nel segreto del cuore, al Dio che attraverso Gesù Cristo viene incontro alla attesa dell'uomo. Ricevere la testimonianza di Cristo, entrare nel Regno attraverso la fede, la speranza e l'amore, è dunque accedere alla piena verità di Dio e di se stesso, è cominciare a vivere un'esistenza che la morte non può troncare.
    Che cosa v'è di più bello per un educatore dell'introdurre a poco a poco i giovani o gli adulti in questa antropologia? Come deve procedere? Come Gesù Cristo ha fatto, specialmente nel Discorso della Montagna: cioè per tappe, ma senza mai allontanarsi dal contesto dell'incontro. Il Cristo annuncia prima di tutto che il Regno dei cieli sta per incominciare, poi prepara gli uomini a riceverlo facendo loro prendere coscienza della loro ricerca profonda e della insufficienza dei beni in cui cercano la soddisfazione. Egli mostra loro che il desiderio che essi portano nel cuore va al di là di ciò che li seduce immediatamente o che li attira. Egli vuole renderli così liberi per il Regno.
    Poi va più lontano: egli fa loro riconoscere che è proprio Dio, con la sua infinità, che essi portano in se stessi e che cercano di riconoscere. Ed è allora che egli rivela il Regno con la sua novità, cioè con ciò che supera la banalità quotidiana e invita l'uomo a tendere verso un'esistenza dove sarà ricreato, trasfigurato.
    Tutto ciò può essere mostrato dalla pastorale in termini concreti, facendo riferimento alle esperienze della vita di ciascuno. È necessario, perciò, ricordare agli uditori le situazioni che hanno vissuto, le posizioni che hanno preso e far loro scoprire dove esse affondino le loro radici. Così si attualizza la pedagogia dell'apertura del cuore manifestata dalle parabole o dagli incontri evangelici.
    Nel compiere questo lavoro, bisogna stare attenti per evitare due insufficienze di senso opposto. La prima è molto frequente: essa misconosce il fatto che la situazione cristiana è, sin dall'inizio, una situazione di scambio tra Dio giunto sino all'uomo e l'individuo invitato a ricevere il suo dono. Essa pensa che si possa procedere per tappe successive; una tappa detta «antropologica», dove ci si sforzerà di far risvegliare, a volte per più di un trimestre, dei «valori umani», e una tappa teologica che verrà in seguito e durante la quale si presenterà la Rivelazione.
    Questo procedimento non ha via d'uscita, perché se il fatto della prossimità del Cristo che dà inizio al Regno non viene presentato sin dagli inizi, non potrà più essere introdotto «esistenzialmente» in seguito e la pastorale non giungerà mai alla scoperta del suo significato.
    Il secondo difetto va in senso contrario. Non tiene conto della complessità dei desideri dell'uomo, pensando che ciascuno sia in attesa esplicita del Regno di Dio.
    Ora, la realtà è tutt'altra: la maggior parte degli uomini della nostra epoca ignora sia chi è Dio sia chi essi sono e solo attraverso una lenta pedagogia si potrà far loro riconoscere vitalmente ciò che cercano e il senso che deve avere per essi il dono del Cristo.

    Una antropologia dell'amore

    Un'altra dimensione dell'antropologia evangelica è quella dell'Agape, cioè del dono di sé che compie fino alla fine il compito a cui è stato chiamato. È una prospettiva unica, veramente propria del cristianesimo. E questa prospettiva non è presentata attraverso parole, sebbene siano numerose nel Vangelo quelle che la evocano, ma attraverso la testimonianza stessa di Gesù Cristo. La antropologia dell'esistenza terrena di Gesù Cristo è qui insostituibile. È attraverso il modo con cui Egli ha condotto la sua vita che noi possiamo apprendere ciò che dona all'azione dell'uomo la sua efficienza ultima. Solo la potenza dell'amore ha creato la novità che Gesù Cristo ha introdotto nel mondo e che coloro che credono in lui non cessano di introdurre, sul suo esempio.
    Il carattere paradossale, sconcertante, di questo messaggio è di tutti i tempi, perché in tutte le epoche gli uomini sono tentati di credere che la violenza, la furbizia, l'organizzazione, l'esercizio del potere sono, essi solo, capaci di agire sul corso degli avvenimenti e di dare un altro senso alla storia.
    I nostri contemporanei, abituati all'analisi scientifica e alla pianificazione tecnologica, stentano più ancora degli uomini delle altre generazioni ad ammettere la potenza di rinnovamento che possiede l'amore.
    Siamo sempre tentati di considerarla come una debolezza o, se ne sentiamo la seduzione, come un effetto supremo, ma inefficace dell'Arte. È dunque di estrema importanza per l'educatore far scoprire vitalmente ai suoi discepoli la potenza dell'amore.
    Egli deve fare come ha fatto Gesù, cioè attraverso due vie congiunte: innanzitutto facendo appello all'esperienza vissuta da ciascuno («vi è più gioia nel dare che nel ricevere»), e poi facendo appello alla lettura di quel segno assoluto che è stata la vita di Cristo stesso.
    Questa seconda via pone un problema fondamentale che, mi sembra, è stato trascurato nella maggior parte delle ricerche «antropologiche» della catechesi attuale: quello di una scoperta «esistenziale» di Gesù Cristo. Per molti giovani formati dalle catechesi recenti, Gesù Cristo non significa nulla o, al più, evoca una serie di immagini così lontane dalla vita tanto che essi non vedono come potrebbero illuminare la loro esistenza.

    Una antropologia della comunione

    La antropologia evangelica possiede, infine, una quarta dimensione: quella della comunità. Riprendendo le prospettive dell'Antico Testamento, essa mostra che non si può fare alleanza con Dio senza fare alleanza nello stesso tempo con i fratelli. La via che conduce verso Dio passa attraverso il riconoscimento del valore che hanno tutti gli uomini e attraverso l'accettazione di una vita comune con loro.
    L'individualismo, che per troppo tempo è apparso come la caratteristica stessa dell'esistenza cristiana, ne è in realtà la falsificazione. Gesù Cristo è venuto per riunire coloro che erano divisi. Egli ha fatto cadere il muro di separazione ed ha posto le fondamenta di una fraternità universale, cioè più forte di tutte le separazioni e di tutte le ostilità. Non vi è fede viva se non si entra in questo dinamismo di riunione e di riconciliazione.
    L'educatore deve far scoprire il senso di questa energia a coloro che vuole introdurre nella fede. Ma anche qui non deve separare le tappe, invitando giovani e adulti a lottare contro le ingiustizie, il razzismo o il disprezzo dei poveri, senza aver loro fatto sperimentare nello stesso tempo la forza che il cristiano riceve dalla potenza della comunione. Ora questa forza viene dalla coscienza di essere stati stabiliti per grazia cooperatori di Dio nell'opera della creazione e di partecipare al movimento di fraternità che Cristo ha inserito nella storia con il suo Amore liberatore. Solamente sviluppando una tale azione, l'educatore potrà far costatare a coloro che egli forma che la Chiesa non è una società chiusa, una setta che separa, ma una famiglia dove ci si ama, dove gli uomini possono trovare l'ardore che fa vincere l'odio, il disprezzo o la paura, cioè i motivi che creano tra gli uomini la divisione.

    CONCLUSIONE

    Ecco dunque tratteggiato rapidamente il dinamismo interno della antropologia del Nuovo Testamento. Naturalmente include quel senso dei valori umani e quella volontà di lotta contro le alienazioni che sono così cari agli antropologi contemporanei. Ma li prende dall'interno e dà loro vita e movimento ponendoli nel rapporto vivo tra l'uomo e Dio che Cristo ha vissuto e manifestato.
    Rimane molto da fare per tradurre in pratica, nelle modalità concrete della pastorale, questa antropologia: il rinnovamento è agli inizi. Bisogna evitare che un movimento di questo genere si insabbi o si blocchi: ne va dell'avvenire dell'annuncio di Gesù Cristo agli uomini del nostro tempo. Riconoscere l'immensità del lavoro che rimane ancora da fare non implica alcuna disistima dell'apporto che le scienze umane hanno fornito alla pastorale. È semplicemente ammettere che bisogna sottomettere ogni spiegazione della condizione umana alla saggezza di Gesù Cristo.
    Un lavoro di tale importanza non può non stimolare la volontà creatrice di tutti coloro che, contro avversità e intoppi, nutrono la passione dell'annuncio dell'amore liberatore di Dio in Cristo a tutti gli uomini.


    T e r z a
    p a g i n A


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