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    Pastorale giovanile aperta all'animazione vocazionale: quale prete?



    Giorgio Gozzelino

    (NPG 1974-12-02)

    Note di Pastorale Giovanile crede profondamente alla necessità di inserire la dimensione vocazionale, come «momento di verità» di ogni progetto di pastorale giovanile. Sia per lo stretto rapporto che esiste tra educazione e orientamento. Sia perché la proposta di fede comporta, oggettivamente, la capacità di assumere in proprio la «missione della Chiesa» (RdC 43).
    Per questo facciamo nostre le «raccomandazioni» del «documento finale del Congresso Internazionale indetto dalla Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica» (cf «L'Osservatore Romano», 24 luglio 1974):
    «La pastorale della gioventù ha come scopo di risvegliare la coscienza dei giovani, affinché essi assumano sempre di più la loro parte di responsabilità nella missione dell'intera comunità cristiana. Per questo, essa deve incontrare i giovani dove si trovano e aiutarli a scoprire che l'attuazione del disegno di Dio su di essi favorirà lo sviluppo della loro personalità umana e cristiana, e il renderà idonei a rispondere ai bisogni della Chiesa e del mondo d'oggi.
    La presentazione coraggiosa del messaggio evangelico nella sua totalità, incentrato nella persona di Cristo morto e risorto, li porterà a comprendere più profondamente il ruolo che ciascuno può svolgere, in nome della missione della Chiesa, in tutte le sfere della realtà contemporanea. Saranno così aiutati a scoprire gradualmente il senso cristiano della liberazione integrale dell'uomo.
    Ai giovani si deve offrire l'occasione di vedere una Chiesa viva e di partecipare alla sua vita, particolarmente alla sua vita liturgica. Bisogna invitarli, secondo l'età, ad impegnarsi nell'azione apostolica della loro parrocchia o della loro comunità di fede.
    Vi sono gruppi di giovani che rivelano una maggiore apertura spirituale. Sarebbe utile ad essi partecipare qualche volta alla vita di preghiera e di apostolato di comunità veramente evangeliche: ecclesiastiche, religiose o laiche. È probabile che non siano soltanto i giovani a trarre vantaggio dall'incontro».
    In questa prospettiva. diventa immediatamente rilevante il problema della «meta»: quale prete in un mondo nuovo?
    Ogni corretto progetto educativo deve «anticipare» l'immagine di «uomo maturo» verso cui tendere, per misurare su questo obiettivo ogni intervento e soprattutto la proposta di «atteggiamenti».
    Senza una chiarezza sulla meta, l'educazione diventa tragica improvvisazione o frettoloso vivere alla giornata. Il giovane in crescita ne farà le spese: oggi per domani.
    L'animazione vocazionale deve perciò «anticipare» una immagine di sacerdote, sulla cui falsariga impiantare l'insieme degli interventi educativi. Quale prete? Ci vuol poco a costatare come sia difficile oggi dare una risposta univoca. La staticità che descriveva il tipo ideale di prete di un tempo è fortemente in crisi. I giovani stentano a riconoscersi. La conflittualità attraversa anche l'esperienza di molti sacerdoti.
    Abbiamo però chiara la percezione di non poterci affidare al caso, all'intuito, alla moda, per definire l'identità del prete. Dobbiamo reinterpretare il passato alla luce di alcuni criteri oggettivi.
    L'autore, in uno stimolante intervento a livello teologico, ci guida in questo difficile cammino di identificazione dell'immagine corretta di prete, per questo nostro momento storico.
    Alla luce di queste indicazioni, gli operatori pastorali possono ritagliare i caratteri dello «spirito» vocazionale di ogni pastorale giovanile. E possono ripensare alla «propria» vocazione, per poter essere modello significativo, credibile e corretto. Nella nostra vita, per esserlo poi con le parole che quotidianamente pronunciamo.

    Premesse

    Le nostre riflessioni intendono rispondere a domande che si sono fatte particolarmente insistenti dopo il concilio e non cessano di agitare le coscienze anche dopo l'intervento qualificato del sinodo dei vescovi del 1971 col documento sul sacerdozio ministeriale, ossia alle domande sulla identità del prete della seconda metà del secolo. Quale sacerdote, oggi? In questo contesto di cambiamenti tanto rapidi e radicali da potere essere denominato mondo della rapidazione o della accelerazione della storia, quale posto compete al prete? Innanzitutto, c'è ancora spazio per lui? Se tale spazio esiste, quali sono la sua funzione, il suo senso, la sua identità nell'oggi della storia di cui egli pure è attore?
    Questa ricerca è fatta non per amore di scienza ma per amore della vita. Ci poniamo quelle domande ad un duplice scopo: al fine di aiutare nei preti una comprensione più viva e riflessa di se stessi e del modo di presenza al mondo che oggi la fedeltà alla storia impone loro; ed al fine di dare qualche orientamento concreto alla preparazione dei futuri preti delle prossime generazioni. Dati questi intenti, considereremo dapprima i problemi specifici che oggi si impongono ai preti (I), per essere in grado in un secondo momento di leggere le scritture (II) e gli sviluppi delle scritture propri della ricerca teologica (III) in stretta correlazione con quei problemi stessi, e così giungere a conclusioni (IV) veramente concrete perché realmente aderenti alle domande che urgono nel momento presente.
    Al suo stesso aprirsi, il discorso odierno sul prete si trova confrontato con un problema di parole immediatamente rivelativo di tutto il lungo travaglio teologico che lo ha preceduto nei tempi passati. Noi non intendiamo parlare del vescovo o del diacono ma specificamente del prete. Ora, il prete può essere chiamato «sacerdote»: ma questo significa privilegiare la sua dimensione cultuale e favorire una tradizione interpretativa che, dopo un dominio di secoli, è stata rovesciata dal Vaticano II. Può essere chiamato «ministro»: ma il termine rimanda spontaneamente ai pastori evangelici ed occulta la differenza del prete dal vescovo e dal diacono anch'essi membri del ministero. Oggi, anzi, l'ambiguità del termine si è ampliata con l'introduzione della distinzione tra ministeri ordinati e ministeri istituiti (lettorato ed accolitato). Il prete infine può essere detto «presbitero», termine che risulta tra tutti il più distintivo e circoscritto, però è una traduzione letterale di un vocabolo greco il cui equivalente italiano è appunto il sostantivo «prete». Quest'ultimo appare compromesso da un uso polemico che gli ha conferito una connotazione tendenzialmente dispregiativa. Ma forse può ancora essere ricuperato da un uso corrente in senso contrario. Ci serviremo allora di questo termine, e parleremo di «ministri» per indicare l'unità dei tre gradi della gerarchia, e di «vescovi, preti e diaconi» per connotarne viceversa la distinzione.

    1. I PROBLEMI DEI PRETI DI OGGI

    Le questioni che pesano sul quotidiano dei preti di oggi nascono dall'interno di un doppio rapporto che qualifica specificamente la loro collocazione nella vita. Ciascuno di loro è assieme ed indissolubilmente cittadino di questo mondo e membro della Chiesa con un posto specifico in essa. Ciascuno di loro ha una relazione costitutiva con il mondo da una parte, e con la Chiesa dall'altra. Conseguentemente il prete è toccato in profondità da una parte, in rapporto al mondo, dalla evoluzione del mondo; e dall'altra, in rapporto alla Chiesa, da quella della Chiesa. Non solo. Le mutazioni in un rapporto lo toccano anche nel riferimento del secondo rapporto. Come membro qualificato della Chiesa, ad esempio, la sua situazione rispetto al mondo incorpora il contraccolpo della mutazione della situazione della Chiesa rispetto al mondo. Altrettanto avviene per la sua dimensione di cittadino del mondo nel cambiamento del rapporto del mondo con la Chiesa. I suoi problemi, cioè, si fondano su questo incastro. Considereremo allora dapprima le difficoltà che provengono dalla parte del mondo, e poi quelle suscitate dalla parte della Chiesa: non soffermandoci però sulle questioni che competono al prete come cittadino in ciò che hanno di comune con quelle di qualunque altro cittadino, ma solo in ciò che lo riguardano nella sua specificità di prete.

    I problemi del rapporto con il mondo

    Distinguiamo una questione globale e questioni più particolari.
    Globalmente, la difficoltà di fondo del rapporto del prete con il mondo (inteso come la comunità umana nel suo insieme in quanto tesa alla promozione ed allo sviluppo dei valori profani) riguarda il cambiamento radicale di mentalità determinato ed esigito dall'imporsi del fenomeno della secolarizzazione in quel suo senso distintivo che è il riconoscimento della autenticità e della consistenza dei valori profani. Prima dell'affermarsi di questo riconoscimento, il rapporto del ministro (e quindi del prete) con il mondo consisteva nella compresenza, in equilibrio instabile, di un rifiuto ascetico del mondo, fondato sulla convinzione antisecolare della sua irrilevanza, con una esigenza di prestigio e di potere su di esso che si fondava sulla convinzione della sua strumentalità rispetto al regno di Dio. Oggi non v'è più spazio né per il rifiuto né per il potere, ma solo per la valorizzazione ed il servizio. L'atteggiamento tradizionale è messo interamente in crisi e si impone un nuovo equilibrio: fatto, naturalmente, di elementi inediti.
    Da questo mutamento radicale del posto del mondo nella considerazione dell'uomo, nascono per il prete molti problemi particolari. Il primo, e per il momento uno tra i più cocenti, riguarda il suo impegno nel profano. Quale posto deve avere nella vita del prete il contributo alla costruzione di un mondo più giusto? Se anche scartiamo, come è giusto e necessario fare, l'estremismo di chi sostiene che solo l'impegno nel profano è rilevante ed il resto è una alienazione, ci troviamo di fronte alla domanda: in che modo il prete deve impegnarsi nel profano? Come chiunque altro od in modo differente? Esiste uno specifico del prete in tale impegno? Se esiste, quale è?
    Domande di questo genere non possono essere formulate ed accettate lealmente senza sconvolgere tutto un tessuto di relazioni stabilite, con conseguente introduzione di una serie di altri problemi, come in una reazione a catena. Questo spiega le contestazioni rivolte alla figura tradizionale del ministro della Chiesa e la proliferazione delle proposte pratiche provenienti dalla abbondantissima letteratura degli ultimi anni su questo tema. Come ha fatto risaltare il sinodo del 1971, la base di questa reazione consiste in uno stato generale di disagio che qui, rispetto al punto che stiamo considerando, si traduce in due atteggiamenti: un senso di estraneità rispetto al mondo, con un derivato e connesso senso di inferiorità rispetto al laico; e la coscienza di una specie di colpevole disimpegno del prete rispetto alla vita politica ed alla azione rivoluzionaria. Giuocando su questi due diffusi stati d'animo, al prete si sono rivolte e si rivolgono tuttora delle accuse che sono diventate per lui altrettanti punti di messa in questione di se stesso.
    [Al prete] si rimprovera il celibato, come strumento di isolamento dal mondo, ed insieme gli si contesta qualsiasi ricerca di prestigio e di potere, come un elemento che unito al primo lo chiude nella casta clericale. Gli si chiede un impegno politico, ovviamente rivoluzionario, perché egli deve guidare la Chiesa nella lotta contro il sistema e per la liberazione dell'uomo. Passando poi dal campo sociologico a quello teologico, si va alla ricerca della sorgente della situazione che si critica e la si individua nell'aspetto sacrale del ministero, in quanto determinato soprattutto dal potere sacerdotale sulla eucaristia e sui sacramenti. Su questa linea viene individuato un altro imputato: il carattere sacerdotale, espressione di un clericalismo metafisico da cui nasce il clericalismo operativo.[1]
    Si fa giustamente osservare che questi giudizi sono inficiati da un estremismo e da una radicalizzazione delle situazioni francamente inaccettabili, ma nessuno può negare che essi esasperano difficoltà che sono reali e che vanno accettate lealmente.
    Sempre per l'influsso del cambiamento del mondo, inoltre, il prete si sente messo in questione nel compito della evangelizzazione e correlativamente della attività cultuale e pastorale. Tali compiti infatti esigono una incarnazione nella cultura del tempo, sotto pena di non riuscire in alcun modo a raggiungere i propri destinatari, che di questa cultura sono imbevuti e quindi a stento, e forse per nulla affatto, riescono ad intendere un altro linguaggio. Come nella esperienza spirituale matrice della Pentecoste, ogni prete è chiamato a parlare alle diverse genti, ed in verità anche ed innanzitutto a se stesso, nella loro lingua propria: una lingua che non è diversa soltanto perché formata da vocaboli diversi ma perché costituita da sensibilità, da modi di guardare al reale, e da prospettive molto diverse. Nascono e proliferano allora una molteplicità di forme espressive dottrinali, cultuali e pastorali, che impongono al prete l'impegno di un aggiornamento permanente e non conformista nella fedeltà alla tradizione; e quello forse non meno arduo di una costante consapevolezza della limitatezza delle proprie ottiche, ossia della legittimità di quelle diverse dalle sue, e perciò del pluralismo.

    I problemi del rapporto con la chiesa

    Chi si rivolge d'altro canto al riferimento del prete alla Chiesa, lo trova altrettanto carico di difficoltà inedite, maturate dal clima che ha portato al rilevante mutamento nella autocomprensione ed autogestione della Chiesa stessa proprio dei nostri tempi.
    Alla base del disagio del prete derivato da questo fronte sta una questione che tocca non solo il prete ma il ministero in quanto tale, quindi anche i vescovi ed i diaconi, e cioè la legittimità del ministero stesso.
    - La «Lumen Gentium» dichiara autoritativamente che «il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico differiscono essenzialmente, e non solo di grado» (n. 10). Ora, in che cosa consiste veramente questa differenza essenziale? E come può esserci, senza ledere per ciò stesso il senso e la dignità del sacerdozio comune, per risolversi così in una specie di totalitarismo clericale? La distinzione reale sembra generare ineluttabilmente il clericalismo; l'assorbimento reciproco, oltre a contraddire la tradizione della Chiesa, distrugge la consistenza del ministero stesso. Non è facile uscirne.
    - Domande parallele sulla autenticità e legittimità del ministero ordinato sono sollevate con intensità ancora più radicale dal clima generale di secolarismo e di eclissi del sacro in cui la comprensione secolare del mondo è andata di fatto ad insabbiarsi. A giudizio della mentalità ormai corrente secondo la quale il solo orizzonte umano che veramente conta è quello terreno dell'immediato, la fede può essere soltanto una opzione profondamente inutile ed insignificante, quando anzi non alienante. Il prete sa di essere l'uomo della fede, il rappresentante qualificato di questo mondo messo in soffitta come arcaico e mistificante. Evidentemente, il contraccolpo a cui tale stato di cose lo sottopone è estremamente grave. Come minimo, esso suscita l'esigenza di una chiarificazione completa e riflessa del rapporto della fede con la profanità. Ma questa chiarificazione per tante parti è ancora da fare, e così l'intera questione rimane senza una risposta adeguata. La difficoltà, anzi, è aggravata dal persistere di una mentalità integrista che secoli di predominio incontrastato della prospettiva sacrale ha ormai incarnato fin nel midollo delle ossa sia degli uomini di cultura in genere sia in particolare dei preti stessi. Per quanto la secolarizzazione valuti la realtà dei fini relativi, ribadendo (e questa appunto è una delle sue caratteristiche maggiori) che sono veri fini anche se relativi e sono relativi anche se veri fini, permane nel fondo delle mentalità l'idea fissa, magari inconscia ma effettiva, che un fine non assoluto non può essere vero fine. Allora, chi è sensibile ai fini profani imbocca la strada del secolarismo, assolutizza il mondo terreno e (dato che due assoluti sono incompatibili) divora quello della fede. Viceversa, chi è sensibile ai fini trascendenti della fede, riesuma la sacralizzazione, torna alla accoppiata disprezzo del mondo e fame di potere, e si trova fuori della storia in stato di continua frustrazione. Chi poi ha la disgrazia (che è poi una fortuna ed una grazia) di essere sensibile ad entrambi, tenta per lo più l'avventura, comune a tanta parte della letteratura teologica contemporanea, di una sacralizzazione ibrida consistente nella asserzione esasperata della unità fede e profanità a scapito della loro distinzione, considerata scandalosa e tale da spaccare l'uomo in due: come se distinzione e separazione fossero la stessa cosa; come se il progresso del profano fosse automaticamente progresso del regno di Dio o viceversa; e come se i due progressi non si rifacessero a metodologie completamente diverse. E questo non è tutto.
    - Sempre in tema di legittimità del ministero ordinato, fa problema la peculiarità del suo fondamento biblico. Nel Nuovo Testamento una configurazione del ministero completa nei suoi compiti e nei suoi gradi uguale a quella riconosciuta oggi, non si trova. Lo sviluppo delle scienze bibliche ha mostrato che l'interpretazione delle scritture su questo punto, come su tanti altri, è ben più' complessa di quanto si poteva pensare in passato. Come vedremo meglio nella seconda parte, ciò causa interpretazioni del ministero assai diverse, che naturalmente suscitano nei ministri altrettanti punti di interrogazione su se stessi.
    Le precedenti considerazioni riguardavano il prete come ministro. Ma la sua identificazione esige una precisazione del suo posto specifico all'interno del ministero nella distinzione che lo qualifica in rapporto al vescovo ed al diacono.
    - Qui i problemi toccano il Vaticano II stesso, accusato di aver quasi soppresso, nella sua valutazione dell'episcopato e del diaconato, lo spazio vitale necessario al presbiterato. Effettivamente, il riassestamento di equilibri che si è prodotto nella teologia della Chiesa e del ministero degli ultimi trent'anni e poi si è riflesso nei testi del concilio, ha messo la concezione tradizionale del prete alle corde. Nella teologia del presbiterato prima di quegli anni il prete costituiva il centro delle prospettive e dei contenuti sia del ministero sia del laicato. Da una parte si poneva come punto di partenza, angolo visuale privilegiato e criterio di verifica della specificità dell'episcopato e di quella del sacerdozio comune. Dall'altra li sovrastava entrambi. Il prete sovrastava l'episcopato perché la concentrazione della essenza ministeriale nella dimensione cultuale riduceva gli elementi di primato dei vescovi a puri dati di giurisdizione, considerati staccati dal cosiddetto potere d'ordine (o potere derivato dal sacramento dell'ordine), al cui vertice infatti veniva collocato il presbiterato: tipica di questa squalificazione era la tesi della non sacramentalità della ordinazione episcopale. Dal canto suo, il mancato completamento della dottrina del Vaticano Primo sulla infallibilità e sul primato del papa con una adeguata teologia sul senso e sulla funzione dei vescovi, contribuiva a debilitare la consistenza dell'episcopato anche all'interno del potere di giurisdizione. Il prete sovrastava il sacerdozio comune perché la teologia del laicato era tanto debole da portarlo a riservare a sé funzioni e compiti propri di quest'ultimo. Il prete infine sovrastava il diaconato per la ragione che questo viveva da secoli in tale atrofia da ridursi ad essere l'ultimo gradino della scala d'accesso al sacerdozio presbiterale. Così, il presbiterato dominava entro e fuori il ministero. Con i nuovi sviluppi teologici e con il concilio che li ha incorporati, questa situazione è stata semplicemente rovesciata. La rivalutazione dell'episcopato e la ripresa della prospettiva episcopale come chiave di interpretazione del ministero hanno tolto al prete il primato di cui godeva entro il ministero; con in più il notevole aggravio del decisivo rilancio realizzato con la ricostituzione del diaconato permanente. E la rivalutazione del laicato gli ha tolto il primato che possedeva fuori del ministero. Trovandosi delimitato, all'interno, dal rapporto con gli altri due livelli, e trovandosi costretto, all'esterno, a spartire quello che prima era soltanto suo, il prete si è chiesto con smarrimento che cosa gli rimanesse di proprio. Di qui un'altra grave fonte di crisi.
    - Una crisi che si è riflessa necessariamente dal piano della interpretazione teologica a quello, che le è inscindibilmente connesso, della progettazione morale, ossia della spiritualità. Per il prete il presbiterato rappresenta la situazione concreta che conferisce le modalità di fondo alla sua opzione fondamentale di discepolato del Cristo. Quando tali modalità non siano chiare, nessun progetto concreto di maturazione nello Spirito può esserlo. Il prete si vede impegnato a chiedersi quali siano veramente i tratti distintivi della sua spiritualità, che cosa sia importante e che cosa non lo sia, se e quale posto abbiano nell'itinerario di personalizzazione della propria missione, in cui consiste la specificità della sua santità, il celibato, la povertà, l'obbedienza alle autorità ecclesiastiche, e così via. Con lui e forse anche più di lui si interroga chi ha il compito della formazione (remota e prossima) dei preti: giacché non si possono né programmare né realizzare progetti quando non esiste una chiara idea delle finalità da raggiungere.

    Una prima conclusione importante

    Da questo insieme di domande e di difficoltà emerge in prima approssimazione almeno una certezza: la questione del prete nuovo per il mondo diverso in cui viviamo è una questione reale. Nessun supposto appello alla fedeltà alle tradizioni del passato ed alla parola di Dio può lasciare in ombra o velare questi problemi. In nessun caso si può vivere come se nulla fosse accaduto, né si può sperare che il travaglio di oggi sia un grosso temporale destinato a sparire per lasciare più chiaro e terso il cielo di prima e di sempre. Se le nuvole dovessero davvero dissolversi, sarebbe solo per lasciare scoperto un cielo nuovo. E questo cielo ci potrà essere soltanto se i responsabili di oggi assumeranno lealmente i propri compiti, il primo dei quali consiste nel rendersi conto che questi problemi sono seri e non posseggono alcuna soluzione automatica.

    2. PROBLEMI E INDICAZIONI DEL NUOVO TESTAMENTO

    La parola fondamentale sulla Chiesa e quindi anche sulla identità ultima dei suoi ministri e del prete è sempre quella del Nuovo Testamento, in cui l'esperienza rivelativa del Cristo si è fatta, nella comprensione autentica della comunità nata da Lui, messaggio scritto. Il punto di partenza della nostra ricerca di risposte si situa quindi nella considerazione della interpretazione del ministero data da questa fonte primaria e normativa. Secondo quanto abbiamo accennato, però, la ricerca esegetica su questi temi è in notevole fermento. A proposito del ministero, nel Nuovo Testamento non è dato trovare solo degli orientamenti ma anche numerosi problemi. Da tale fatto non è lecito prescindere. Accenneremo dunque anzitutto a questi problemi, completando così il precedente quadro delle difficoltà del prete. Poi presenteremo le indicazioni che paiono sicure; per chiudere questa sezione con una conclusione operativa.

    I problemi della ricerca neotestamentaria sui ministeri

    L'esegesi contemporanea concorda in modo quasi unanime nel riconoscere che il Nuovo Testamento non offre un quadro unico dei ministeri ma almeno due diversi filoni di interpretazione, legati a due diverse ecclesiologie. La prima ecclesiologia sarebbe quella sostenuta dalla 1 Cor, che sembra concepire una chiesa priva di ministero istituzionale e garantita soltanto dalla forza dello Spirito animatore dei carismi, peraltro accompagnata alla supervisione dell'Apostolo itinerante. La seconda ecclesiologia si rifarebbe invece alle lettere pastorali, agli Atti ed all'Apocalisse, che vedono la chiesa sorretta dal ministero istituzionale secondo uno schema di tipo collegiale od episcopale monarchico. Così, si parla correntemente di una tradizione di organizzazione delle chiese di tipo paolino, e di un'altra di tipo giovanneo: giustificate peraltro su ragioni diverse. Eccone un saggio.
    Paolo nell'organizzare le chiese da lui fondate rivela la preoccupazione di sottolineare l'universalità e l'unità del Corpo di Cristo. Infatti anziché organizzare le comunità nella forma dell'episcopato monarchico residenziale preferisce che molte chiese particolari siano, con i loro collegi presbiterali, sottomesse all'unico Apostolo itinerante. Paolo vuole togliere ogni tentazione di particolarismo alle chiese locali: le varie comunità sono unite nell'unico Corpo di cui Cristo è l'unico Capo. Invece, nelle chiese di tradizione giovannea ci si è ben presto orientati nella forma dell'episcopato monarchico residenziale. Questa tradizione - la sua concezione affonda le radici nel quarto vangelo, si manifesta nell'Apocalisse e continua in Ignazio - preferiva che ogni chiesa avesse il suo proprio vescovo, cioè un Cristo visibile, incarnato, attorno a cui i fedeli devono unirsi.[2]
    Nella ammissione della esistenza di questo doppio schema esiste, dicevamo, una diffusa concordanza. Non esiste concordia invece nel valutarne il significato. Agli estremi stanno due posizioni radicali, l'una tipica di una certa esegesi cattolica, l'altra caratteristica di un certo modo di accostarsi alle scritture proprio della sponda protestante. La prima ritiene che le due tradizioni siano i due tempi di una evoluzione dall'imperfetto al perfetto consistente appunto nel passaggio dallo stile carismatico della chiesa di Corinto a quello istituzionale delle chiese con episcopato monarchico. La seconda concorda con la prima nella idea della evoluzione, ma le conferisce il senso opposto di una degenerazione. Secondo questa interpretazione, il momento giovanneo del ministero sarebbe l'inizio di quella deformazione «cattolica» del vangelo che consiste nel pretendere di aggiogare lo Spirito al carro della istituzione e del giuridismo. Conseguentemente essa parla di «protocattolicesimo» delle pastorali e degli Atti, e si appella, per giustificare l'idea di una deviazione incorporata dalle scritture, alla dottrina del «canone nel canone», ossia alla tesi secondo cui l'ultima norma della fede non è la scrittura canonica nel suo insieme ma il suo nucleo originario autentico (ricostruito, naturalmente, nei modi più diversi), il solo che possa chiamarsi «vangelo» in senso proprio.[3] A questi due estremi si connettono in forma e misura distinte diverse altre interpretazioni che si differenziano a vicenda per la loro gravitazione nel senso valutativo del primo od in quello deprezzativo del secondo. Per alcuni esegeti i due schemi ecclesiologici sono irriducibili l'uno all'altro, però sono entrambi legittimi, vantaggiosi, ed anzi necessari. È giusto che ci siano chiese col ministero e chiese senza ministero. Correlativamente, i ministri debbono avere coscienza di essere necessari ed utili ma non indispensabili in senso assoluto. Allora la questione ecumenica dei ministeri cade da sé, per la costatazione che le diverse forme di struttura delle diverse chiese non fanno che riprodurre la diversità già testificata, e perciò giustificata, dal Nuovo Testamento.
    Per altri questo irenismo, che si riporta alla classica dottrina anglicana dei diversi «rami della chiesa», è ragionevole ma va completato e temperato dal riconoscimento che si impone una scelta prioritaria: se entrambi gli schemi sono importanti, quello paolino è da preferirsi, e quindi da collocarsi a punto di arrivo, perché più in consonanza con il vangelo dello Spirito. Il ministro ha il diritto di considerare legittima la propria funzione ecclesiale ma non di giudicarla conveniente, utile, e necessaria alla Chiesa quanto i carismi.
    Un numero crescente di esegeti, anche protestanti, si orienta però su posizioni meno radicali e più rispettose della globalità dei dati. Intanto, si escludono sia l'idea della evoluzione perfettiva sia quella della degenerazione «protocattolica». Gli ultimi scritti del Nuovo Testamento, si precisa, sono legati alla necessità di tenere testa ad una tendenza in senso spiritualista ed individualista che veniva emergendo nelle chiese per effetto della considerazione in cui erano tenuti i carismatici; in tali scritti la struttura ministeriale acquista una posizione di rilievo non a modo di evoluzione sostanziale o di involuzione giuridica ma come richiamo a valori ecclesiali originari prima pacificamente riconosciuti e poi in pericolo di essere dimenticati. Certo, le forme, i gradi, i modi di esercizio del ministero nella Chiesa primitiva variano da posto a posto. Ma è chiaro che la posizione di una chiesa come quella di Corinto che fa capo direttamente all'Apostolo itinerante, e quella delle chiese delle lettere pastorali scritte nella prospettiva della assenza degli Apostoli, sono molto diverse. In ogni caso a Corinto come altrove i carismi sono verificati da un ministero, che qui è appunto quello dell'Apostolo e dei suoi collaboratori, mentre là è quello degli «episcopi-presbiteri». Dunque il ministero del Nuovo Testamento esiste veramente, è necessario, è insostituibile. Se si esprime in quelle due forme, lo si deve non ad una supposta possibilità di fare a meno di esso, bensì alla differenza decisiva tra presenza ed assenza degli Apostoli.

    Le indicazioni del nuovo testamento

    In questo quadro composito, il Nuovo Testamento lascia emergere tratti che sono altrettante indicazioni sulla fisionomia che stiamo cercando. Abbiamo detto che il Nuovo Testamento conosce due ministeri, quello itinerante degli Apostoli e di certi loro collaboratori, e quello locale nella forma collegiale degli «episcopi-presbiteri» ed in quella episcopale monarchica (di Giacomo di Gerusalemme, ad esempio, e degli «angeli» delle chiese dell'Apocalisse). Le forme sono diverse. Ma il compito è identico: sostentare e verificare la fedeltà al vangelo. L'animatore della Chiesa è sempre e soltanto lo Spirito di Gesù. Ma le forme che nascono da tale animazione vanno sottoposte a verifica, perché non tutto ciò che appare come manifestazione dello Spirito procede veramente da Lui. E poi lo Spirito è dato alla Chiesa, ossia nessuno può arrogarsene individualmente il possesso. Allora lo sviluppo «spirituale» delle chiese deve essere sottoposto ad una istanza superiore, che per Paolo consiste nel confronto con il vangelo apostolico tramandato ai credenti (1 Cor 12,3; 14,36; 15; Gal 1,8; 2,2) e nel criterio della autentica promozione del bene comune, ossia della edificazione della comunità (1 Cor 14). Al servizio di questa istanza superiore si pone l'autorità dell'Apostolo e del ministero. I ministri sono dunque anzitutto i fedeli custodi del vangelo per la costruzione autentica della Chiesa, non in sostituzione dello Spirito ma a garanzia della apertura alla Sua azione e del rifiuto di ogni contraffazione. Essi hanno un compito pastorale che consiste nella guida e nella custodia delle chiese secondo tre direzioni essenziali: la missione della estensione della salvezza nel mondo; la comunione delle chiese tra di loro; le relazioni all'interno delle singole comunità. Essi adempiono questo compito mediante due grandi funzioni: il servizio della Parola ed il servizio della comunione fraterna.[4]
    Chi cercasse in questo insieme neotestamentario una indicazione diretta della funzione strettamente sacerdotale, ossia cultuale, del ministero, resterebbe deluso. Il termine «iereus» (sacerdote) è applicato a Gesù (e questo solo nella lettera agli Ebrei) ed alla Chiesa nel suo insieme, mai al ministero. Manca inoltre un riferimento esplicito del ministero alla eucaristia. Tuttavia il Nuovo Testamento interpreta l'eucaristia come centro della unità della Chiesa, ed il ministero come verifica della ortodossia e della conseguente comunione ecclesiale, che infatti è sempre una comunione «nella verità». Quindi il loro congiungimento, che avverrà già all'inizio del II secolo con le lettere di Ignazio, non sarà che una naturale applicazione di questi principi neotestamentari. Un ragionamento simile si applica anche alla distinzione del ministero nei suoi tre gradi. Per cui dobbiamo dire che rispetto al NT la tradizione cattolica viene a precisare che quel ministero, voluto dagli Apostoli, consacrato dalla imposizione delle mani, destinato alla custodia del vangelo autentico ed alla cura pastorale della Chiesa, è anche un ministero sacerdotale, dotato del potere di consacrare l'eucaristia, e viene esercitato in tre gradi distinti, quello dei diaconi, dei preti, e dei vescovi. Per la fede cattolica queste precisazioni, legate ad una tradizione così antica e così profonda, fanno parte del patrimonio essenziale delle cose da credere.[5]
    Alla radice della interpretazione neotestamentaria dei ministeri sta sempre il riferimento allo Spirito e quindi il riferimento a Gesù, che dello Spirito è il datore permanente. La verifica della fedeltà al vangelo, la custodia e la trasmissione del «deposito» ossia della tradizione, non sono affidate ad uno strumento puramente giuridico. L'imposizione delle mani garantisce che nel ministero non vi è una semplice investitura burocratica, ma appunto il dono dello Spirito. Questo significa che le funzioni ministeriali sono ultimamente le funzioni di Gesù stesso: e cioè, la parola del Signore, la vita della comunità del Signore, la comunione col Signore sono garantite e sorrette ultimamente dal Signore in persona. Il Nuovo Testamento ripete instancabilmente che gli Apostoli, i quali sono il tipo del ministero, agiscono in rappresentanza del Cristo, come suoi ambasciatori qualificati, nel suo «nome» ossia nella sua realtà. Orbene, tale rappresentanza non ha nulla in comune con quelle del mondo politico profano. Essa non consiste affatto in un sostituirsi al Cristo, in un rimpiazzare in qualche modo una sua supposta assenza, ma al contrario in un essere con lui in modo affine a quello in cui il Cristo è col Padre.
    Come le parole rivolte da Gesù a Filippo: «Chi ha veduto me, ha veduto il Padre» (Gv 14,9), sintetizzano il suo mistero e la sua missione, così quelle rivolte ai discepoli la sera della risurrezione: «come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi., (Gv 20,21) sintetizzano il loro mistero e la loro missione. Gesù non è venuto a sostituire un assente, ma a dare al Padre una pienezza di presenza tra gli uomini, facendolo totalmente Jahvè (Dio con gli uomini); allo stesso modo gli Apostoli sono mandati non per rimpiazzare il Cristo ma per consentire la pienezza della sua azione personale, unica ed insostituibile.[6]

    Una seconda conclusione direttiva

    È lecito concludere dunque che l'identità del prete si definisce sulla base di due riferimenti: il riferimento allo Spirito santificatore e dunque alla sua fonte, il Cristo Signore; ed il riferimento alla Chiesa, nella sua vita esterna ed interna, e sempre secondo le modalità storiche concrete che possiede (si pensi alle due forme di ministero stabilite sulla modalità della presenza od assenza degli Apostoli). Se chiamiamo dimensione cristologico-pneumatica il primo, e dimensione ecclesiologica il secondo, riconosceremo che nel Nuovo Testamento il ministero ha una struttura fondamentale costituita da tali dimensioni, che sono assieme la sua sostanza e la sua chiave di interpretazione.

    3. GLI ORIENTAMENTI DELLA RICERCA TEOLOGICA

    Le difficoltà dell'oggi unite ai problemi ed alle indicazioni emergenti dallo studio del Nuovo Testamento urgono la ricerca di quella qualificazione di fondo della identità del prete a cui mira tutto il discorso fatto finora. Un tale principio di identità esiste realmente? Se esiste, quale è? La risposta è lasciata alla riflessione teologica, che interpreta il materiale finora esaminato, s'appoggia su tutto il seguito della tradizione della Chiesa da Ignazio di Antiochia al Vaticano II ed al postconcilio, e conclude con una gamma piuttosto vasta di soluzioni diverse. Per garantire l'oggettività della nostra analisi, presenteremo sinteticamente e criticamente le proposte che si mostrano più significative. Poi trarremo le nostre conclusioni in favore di una di esse, che situeremo in rapporto ai dati avanzati dalle altre.

    Le proposte

    Diciamo subito che vi sono autori[7] per i quali lo studio globale della tradizione della Chiesa sul ministero porta a concludere che le domande sulla essenza, e quindi sulla supposta identità ultima, dei preti sono prive di consistenza. Chiedersi che cosa sia il ministero è inutile. Importa sapere piuttosto a che cosa serve. Il ministero è una funzione che va giudicata, come tutte le funzioni, non su presunti caratteri ontologici ma sul servizio effettivo che compie. Il suo servizio consiste nel permettere alla Chiesa di avere un principio di convergenza atto a sostentare e garantire la propria unità sociale nell'incontro dei molteplici carismi che la caratterizzano. Null'altro. Quando si vedano le cose in questo modo, non si avrà difficoltà ad ammettere un ministero «ad tempus», assunto cioè solo per un certo periodo, con possibilità di una recessione completa ed un perfetto rientro in altre funzioni quando lo si voglia; si godrà del vantaggio inestimabile di potere conferire liberamente al ministero la più grande varietà di forme in aderenza alle esigenze del momento e senza le remore del dovere della fedeltà a modelli atrofizzati; e si supererà una volta per sempre il rischio dell'autoritarismo clericale, quale si esprime nella ontologizzazione sacrale delle funzioni.
    Tutti aspetti a prima vista positivi, ma che sono in realtà la conseguenza di una risposta decapitata. Se viene detto infatti che il ministro è principio di unità, non si dà affatto ragione né del come lo possa essere né del che cosa gli permetta di essere tale. Simili interpretazioni defluiscono da una carenza ecclesiologica di portata maggiore: tendono ad equiparare il tipo di unità proprio della Chiesa con quello di qualunque altra società, assolutizzando così l'istituzionale a danno dello spirituale. Se è necessario riconoscere la funzione, non è lecito fermarsi ad essa. Nulla sarebbe più falso del negare l'oggettivo in nome del funzionale: in realtà se il funzionale del ministero è autentico, lo deve proprio all'oggettivo che contiene. Tra le proposte che ritengono, viceversa, che la ricerca del principio di qualificazione del ministero sia perfettamente legittima ed anzi necessaria, fa spicco per il peso che ha avuto nella storia quella, direttamente sacerdotale o cultuale, secondo cui la ragione ultima del ministero sta nel garantire alla Chiesa il vertice della redenzione soggettiva, individuato nel sacrificio eucaristico e nell'insieme delle attività sacramentali che ad esso fanno capo, specialmente a quella penitenziale. In questa prospettiva il prete è radicalmente l'uomo dell'altare (e del confessionale). Non che si neghi il resto, come la predicazione e la cura pastorale: ma non s'ammette che siano elementi definienti od ultimi.
    È abbastanza evidente che si tratta di un approccio in possesso di vantaggi autentici. Se così non fosse, non si spiegherebbe il prestigio di cui ha goduto per secoli, dovuto certo anche a ragioni storiche contingenti (tipico è il caso del concilio di Trento) ma assieme ad un suo valore effettivo. La distinzione preti e vescovi da una parte e laici dall'altra è assicurata al di là di ogni dubbio. L'attività ministeriale è definita su ciò che costituisce il vertice della vita della Chiesa. Il prete sa di essere l'uomo del sacrificio di Cristo, è cosciente di servire a qualcosa di decisivo per la Chiesa e per il mondo, ed ha una base sicura per la sua spiritualità.
    Ma si tratta ancora di una risposta parziale. Confonde la punta con il tutto; si fonda su di un metodo riduttivo che trascura l'unico punto di partenza legittimo, ossia l'esperienza globale del ministero nella Chiesa a partire dal Nuovo Testamento, per considerare solo i suoi aspetti più vistosi; si distanzia nettamente dalla prospettiva neotestamentaria; comporta una grave svalutazione del servizio della Parola e della reggenza; e mortifica la distinzione preti e vescovi. Non fa quindi meraviglia che il Vaticano II le abbia preferito l'approccio molto diverso della missione e della rappresentanza.
    Un'altra interpretazione, molto qualificata ma ulteriormente diversificata in se stessa, si rifà direttamente alla base neotestamentaria per concludere che il punto originario e distintivo del ministero si trova nella missione, ossia nell'essere mandati dal Cristo tra gli uomini, nel senso delle parole già citate che si leggono in Gv 20,21.[8] Sulla linea della asserzione paolina che non esiste fede senza ascolto del messaggio e non esiste predicazione senza missione (Rom 10,15), questo invio efficace viene inteso per lo più come investitura autentica ed ufficiale di un servizio di annuncio della Parola. Si indica il punto focale della identità ministeriale nella predicazione, e si ricuperano e valorizzano gli altri due aspetti specifici della sua attività, la cura pastorale autorevole ed il servizio sacerdotale, a partire da essa. Così K. Rahner ad esempio scrive:
    Possiamo dire, anche se in un procedimento rapido ed alquanto ardito: il sacerdote è colui che per incarico della Chiesa e quindi in forma ufficiale annunzia ad una comunità, esistente almeno potenzialmente, la parola di Dio, per cui sono affidati a lui anche i sommi gradi di intensità sacramentale di questa parola. In parole del tutto semplici, egli è il predicatore del Vangelo per incarico ed in nome della Chiesa.[9]
    E Dianich S., muovendosi in un ordine di idee analogo, precisa:
    ... se il messaggio come oggetto è consegnato nelle scritture canoniche, come esperienza di Cristo che origina la fede e la Chiesa è trasmesso attraverso il rapporto interpersonale della predicazione viva dei ministri della Chiesa. In questa ultima ragione di esistenza del ministero le altre sue componenti trovano una giustificazione necessaria e sufficiente.. La cura pastorale autorevole nasce dal rapporto singolare che si crea tra il ministro e la comunità in forza della predicazione, infatti il vangelo predicato con il carisma della missione fonda la Chiesa nella sua radice apostolica e la riconduce al suo punto di generazione [ossia implica una paternità]... Da questa paternità nasce la responsabilità pastorale e da questo appello alla autenticità apostolica nasce l'autorità del ministero. La stessa cosa può essere detta per il ruolo cultuale proprio dei ministri.. il gesto rituale non ha mai senso in se stesso, ma è sempre segno e strumento di una situazione di vita. Sarà appunto una situazione di vita, cioè l'insieme dei rapporti pastorali tipici tra il ministro e la comunità, che sono nati dalla predicazione fondata sul sacramento della imposizione delle mani, a fondare i nuovi ruoli sacramentali, per cui chi è il padre, per il vangelo, di questa Chiesa che si raduna per l'eucaristia, chi ne garantisce l'autenticità apostolica, sarà colui che ne guiderà la preghiera ed al momento culminante del mistero farà la parte del Cristo che spezza il pane.[10]
    Queste impostazioni hanno il vantaggio di fondarsi realmente sui dati neotestamentari, senza riduzioni aprioristiche dei dati del ministero ad una componente od all'altra. A partire dal primato della parola esse ricuperano efficacemente tutti gli altri aspetti testificati come caratteristici della missione ministeriale e stabiliscono con buona approssimazione la differenza tra vescovi e preti collegandola, come è necessario fare, alla struttura concreta della Chiesa. Ancora il Dianich scrive:
    ... nella strutturazione della Chiesa ignaziana, fortemente centralizzata attorno alla figura del vescovo, non appare quale sia il compito proprio dei preti e dei diaconi. Solo in un secondo momento assistiamo ad una articolazione di distinte comunità, che rispondono a diverse esigenze e si pongono a diversi livelli: a questa articolazione corrisponde la distinzione dei ministeri. Così il vescovo appare il ministro tipico di una comunità che è Chiesa in senso pieno, nella quale cioè si compiono tutte le funzioni ecclesiali, compresa l'imposizione delle mani per la successione apostolica Costituendosi normalmente tali Chiese nei centri urbani ed assumendo una notevole dimensione, diventano comprensive di comunità locali più piccole: allora il prete si caratterizza come il ministro, partecipe del ministero del vescovo, per queste singole comunità locali. Esse sono Chiese non in un senso pieno, ma sì in un senso vero, perché in esse si celebra l'eucaristia.[11]
    A nostro giudizio però si tratta di risposte che sono valide senza essere complete. Non guardano, nel Nuovo Testamento, a tutti i dati che esso effettivamente propone. Si fermano, nella interpretazione del ministero, a mezza strada. Che posto ha, ad esempio, la netta asserzione neotestamentaria, ripresa poi costantemente dalla tradizione, da Ignazio al Vaticano II, secondo cui gli Apostoli sono i rappresentanti efficaci del Cristo risorto e del suo Spirito? Quanto spazio concedono queste risposte alla originalità della missione dei ministri, che non si modella su quella corrente del mondo profano, ma sul rapporto Padre e Cristo? Come e perché questa parola annunciata dai ministri è tanto efficace da prolungarsi nella cura pastorale e nella celebrazione sacramentale? Del resto, forse che la predicazione non compete a tutti i credenti? Come si differenzia la missione dei ministri da quella propria di ogni cristiano non ordinato? La lettura del Nuovo Testamento porta alla conclusione che il ministero si definisce sia in rapporto al Cristo ed allo Spirito sia in rapporto alla Chiesa: qui la dimensione ecclesiologica è valorizzata nel più soddisfacente dei modi, ma quella cristico-penumatica entra soltanto come elemento remoto, in ogni caso non distintivo.
    Un'ultima proposta, infine, è quella che è stata concretamente assunta come principio direttivo del ministero dal Vaticano Secondo e poi dal sinodo dei vescovi del 1971. Rifacendosi alla globalità dei dati del Nuovo Testamento, essa non solo non dimentica l'idea della rappresentanza autorevole, ossia efficace, del Cristo datore dello Spirito, ma la assume come qualifica prima e fondante. Il ministro ordinato, essa dice, è il rappresentante efficace, come parola viva, della azione «spirituale» del Cristo nella Chiesa. Come la Bibbia rappresenta efficacemente a modo di parola scritta, ossia come segno parola, l'esperienza spirituale globale del Cristo che egli stesso comunica alla Chiesa quale suo principio di identità, ossia è norma normante non normata, così il ministero rappresenta efficacemente a modo di parola viva, ossia segno persona, la comunicazione che il Cristo fa di tale sua esperienza, comunicazione che dunque è una norma normata sulla Scrittura. Il ministero è interamente legato alle scritture. Questo significa che la comunicazione del «deposito», ossia della esperienza salvatrice del Cristo totalizzata nella risurrezione, è fatta dal Cristo stesso (Mt 28,19-20), naturalmente mediante il suo Spirito. Il ministro è dunque il segno persona del Cristo capo, ossia del Cristo che ricorda efficacemente nello Spirito tutto ciò che ha detto (Gv 15,26); agisce nella vita terrena, perché questa è la vita che ha bisogno di segni; lo fa a servizio della Chiesa, ossia a servizio della edificazione. In lui il Cristo si fa parola vivente per donare Se stesso alla comunità.

    Giustificazione di una scelta

    Nell'arco delle quattro risposte che abbiamo presentate, l'ultima resta a nostro giudizio la più promettente. Le critiche avanzate alle restanti potrebbero già essere intese come argomenti in suo favore. Ma questo naturalmente non è sufficiente. Si impone una giustificazione ulteriore, che noi articoleremo rapidamente in due momenti: un momento positivo che mostra come essa integra effettivamente gli elementi del Nuovo Testamento e delle altre opzioni, ed un momento negativo di risposta alle critiche che talora le sono rivolte. In ogni caso, però, non si tratta, giova precisarlo, di un discorso accademico animato da volontà di polemica. Dalla scelta di una interpretazione dipende tutto un taglio di spiritualità e di programmazione vocazionale e formativa. Se ci soffermiamo sugli aspetti critici, è per assicurarci che il terreno su cui punteremo i piedi sia solido e sicuro.
    Vedere il ministro come parola viva del Cristo normata dalla parola scritta in funzione di una comunicazione dell'evento Cristo, per la vita della Chiesa, significa sintetizzare di colpo tutte le funzioni primarie attribuite dal Nuovo Testamento al ministero nelle sue due forme ivi testificate. Si capisce infatti sia il senso della custodia del vangelo (parola scritta), sia quello della garanzia della azione autentica dello Spirito (parola viva). Mediante l'idea della comunicazione, si coglie immediatamente la connessione del servizio della Parola con quello della comunione fraterna nel rapporto al mondo, tra le chiese, ed all'interno delle chiese, perché è la Parola che fa la comunione. Contemporaneamente, poiché la Parola culmina nell'evento, suo vertice, ci si apre alla dimensione sacerdotale sacramentale, posta giustamente non come punto di partenza ma come punto di arrivo. Così si raddrizza l'ottica riduzionista della proposta sacerdotale, si integrano gli aspetti rilevantissimi della proposta della missione andando fino alla radice, e si supera efficacemente l'unilateralità della proposta funzionale.
    Alla risposta che abbiamo preferita, però, si rimproverano talora due errori di metodo.[12]
    Il primo sarebbe quello del sostituire all'induzione neotestamentaria una deduzione cristologica per categorie sacramentali: invece di partire dal Nuovo Testamento e dalla prima tradizione patristica, si attribuirebbero a priori al ministero identificato come sacramento i caratteri del sacerdozio di Cristo. Il secondo consisterebbe nel dimenticare che la categoria della sacramentalità è un puro «teologumeno» ossia non un dato di fede ma solo una concettualizzazione teologica. Che cosa dire di queste critiche? A nostro giudizio non fanno veramente, giustizia a ciò che intendono criticare. Quella risposta infatti non si fonda affatto sulla deduzione ma sulla interpretazione che il Nuovo Testamento dà della attività apostolica come rappresentanza efficace del Cristo, dunque ancora sulla induzione. La deduzione potrà anche esserci, perché chiarisce molte cose, ma sempre soltanto come secondo momento, o momento discendente che suppone assodato quello ascendente. Quanto alla categoria del segno efficace, ossia della sacramentalità, essa è teologumeno non in ciò che esprime ma nel modo in cui lo esprime. Giacché si tratta di una forma espressiva del fatto fondamentale che mediante gli Apostoli ed i ministri l'attività salvifica nella Chiesa è compiuta ultimamente e fondamentalmente dal Cristo stesso e dal suo Spirito: fatto, questo, che vincola la fede. Certo, è perfettamente legittimo dire che il contenuto della categoria può essere espresso con altre categorie; ma non è lecito relativizzarne il contenuto solo perché espresso in essa.
    Alle critiche sul metodo peraltro si aggiunge che questa tesi favorisce eccessivamente una ecclesiologia esclusivamente cristologica, dove l'istanza pneumatologica di tutta la tradizione orientale resta ingnorata. Ne deriva una concezione del ministero eccessivamente verticista ed una impostazione della sua autorità potenzialmente arbitraria. Infatti in una idea del ministero così costruita su elementi formali (segno-del-capo) e dove i contenuti sembrano non determinanti, è facile pervenire alla concezione che il ministero nella Chiesa abbia una autorità illimitata, in quanto derivata dalla sua formalità sacramentale di segno del Cristo-capo e non già dai precisi e determinati contenuti della sua funzione. [13] Anche qui le critiche non sembrano essere realmente pertinenti. L'eccesso cristologico e la svalutazione pneumatologica, ove esistano, non sono affatto conseguenza della tesi bensì derivano dal dimenticare o dal lasciare troppo implicita la connessione necessaria tra Cristo e lo Spirito, che fa sì che ogni discorso sulla cristologia sia anche e necessariamente discorso sulla penumatologia e viceversa: ossia derivano da tutt'altre ragioni. Lo stesso vale per l'accusa di eccessivo verticismo, la quale in fondo non fa che ripetere per altro verso quella precedente. Effettivamente la prospettiva cristologica può favorire l'accentuazione dell'unico capo visibile della Chiesa, il papa vicario di Cristo, a danno della collegialità. Ma non è forse vero che quella penumatologica può fare l'inverso? In realtà, si tratta di capire e ribadire che nessuna delle due prospettive è realmente se stessa senza l'altra; e che la tesi del segno di Cristo suppone l'integra valutazione della unità di Gesù Signore con lo Spirito. Quanto poi alla prevalenza delle formalità sui contenuti ed al conseguente rischio di un autoritarismo illimitato, si potrà e dovrà ricordare con frutto il significato della categoria «capo» applicato al Cristo e quello affine della categoria «autorità», per rendersi conto agevolmente che è vero l'inverso. Cristo «capo» vuol dire Cristo vivo che sostenta, vivifica, verifica e promuove attraverso il dono permanente del suo Spirito la Chiesa. Egli è il Cristo «servo», venuto non per essere servito ma per servire. La sua azione si commisura perfettamente alla struttura ed ai bisogni concreti della Chiesa momento per momento, la sua autorità non è dominio ma promozione concreta. Non dunque la formalità categoriale di «capo» determina i contenuti; al contrario li determinano i bisogni precisi e concreti della Chiesa; ed i contenuti determinano le formalità. Questo vale, dal momento che il ministero è lo strumento della autorità di Cristo, anche per l'autorità del ministero: sarebbe illimitata se fosse dominio; ma è servizio, ed il servizio si proporziona intrinsecamente alle esigenze dei destinatari. In fondo quelle obbiezioni sembrano supporre che un qualsiasi riferimento alla dimensione cristologica sia necessariamente un attentato alla dimensione ecclesiologica. Mentre viceversa il Nuovo Testamento le sostiene entrambe. Anche qui però il nodo del problema si trova più a monte. Non sta in questa o quella concezione del ministero ma in una cristologia, e conseguentemente in una ecclesiologia, che attenuano o dissolvono ciò che viceversa va mantenuto ben fermo, e cioè l'indissolubilità del rapporto Cristo e Chiesa. La funzione del ministro è di essere lo strumento del servizio di Gesù alla Chiesa: in quanto si tratta del servizio di Gesù si scavalca ogni mero funzionalismo socio-ecclesiale; in quanto si tratta di un servizio, si abolisce ogni autoritarismo.

    La singolarità del ministero del prete

    Le osservazioni precedenti delineano il principio di identità non solo del ministro in genere, ma anche del prete in quanto prete. La distinzione prete e vescovo non ha nel Nuovo Testamento i caratteri che possiede oggi. Ma se il Nuovo Testamento non presenta tali caratteri, offre le ragioni per le quali essi nasceranno: che sono poi, in concreto, precisamente le motivazioni del servizio ecclesiale, ossia delle necessità della Chiesa determinanti i contenuti del ministero. Così, l'antichissima tradizione sui tre gradi del ministero, che risale già alle generazioni cristiane del II secolo, non è che il naturale esplicitarsi dei principi direttivi della generazione apostolica. Ove la Chiesa si pluralizza in comunità particolari non costitutive in sé di una Chiesa locale e tuttavia in possesso di una propria fisionomia ecclesiale autentica, la dialettica dell'unità di tali comunità con la Chiesa da una parte e della loro originalità dall'altra è sostentata dal ministero mediante la distinzione vescovo-preti. Il prete, insegna una tradizione ecclesiale non sempre in evidenza ma costante e completamente rivalutata dal concilio, è vero ministro come collaboratore e prolungamento del vescovo.[14] Egli, in dipendenza dal vescovo, è tutto ciò che è il vescovo in relazione alle comunità particolari. Egli è l'uomo delle comunità particolari nell'unica Chiesa; il segno persona del Cristo capo nella vita terrena al loro servizio; il missionario che verifica e regge la loro vita «nel nome del Signore» mediante il servizio della parola e quello conseguente della comunione fraterna realizzata in rapporto alle altre comunità, alla chiesa locale, alle altre chiese, al mondo intero, ed in rapporto alla loro vita interna, sempre in dipendenza dal vescovo.
    Non tutti i ministri sono vescovi, ma esistono anche i presbiteri. Le particolarità delle chiese locali, consistenti ovviamente nelle particolarità dei gruppi che le costituiscono, sono raggiunte dal Cristo nel pieno rispetto della unità della Chiesa proprio mediante il segno del presbiterato. Così si spiega che la posizione dei presbiteri nel ministero sia parallela a quella di tali particolarità nella Chiesa. Il prete è diverso dal vescovo ed ha una sua consistenza rispetto al vescovo tanto quanto le comunità particolari sono diverse dalla chiesa locale (fino a potersi benissimo realizzare nell'ambito di diverse chiese locali) ed hanno una loro reale consistenza rispetto ad essa Ma il prete è subordinato, ed interno, diremmo, al vescovo tanto quanto e perché le comunità particolari sono subordinate ed interne alla unità della chiesa locale e della Chiesa universale. Il prete ha una funzione di consiglio e di collaborazione del vescovo come e perché la chiesa locale vive della vita delle sue comunità. E rappresenta il vescovo, ossia proclama con questa stessa sua funzione il primato dell'episcopato, per la ragione che sul terreno concreto della costruzione della Chiesa mentre le particolarità sono il punto di partenza, l'unità è il punto di arrivo, ossia è l'ideale supremo a cui tutto si orienta. Una unità, peraltro, che non livella le particolarità, ma le armonizza. Così come il presbitero non si riduce ad una immagine sbiadita del vescovo ma ha una originalità. Il prete dunque fa parte di un presbyterium che ha come capo il vescovo non per mancanza di un valore proprio ma perché le particolarità della Chiesa esigono una integrazione reciproca (significata efficacemente dal presbyterium) che dia loro l'unità della Chiesa (significata efficacemente dal vescovo).[15]
    Il vescovo a sua volta, col rimando determinato dalla collegialità episcopale retta dal papa agli altri vescovi ed al papa, è segno efficace dell'unità costituita dalla presenza della Chiesa universale in ogni chiesa locale. Così si saldano unità e diversità, e si vede come i contenuti del ministero sono determinati in successione logica non dall'alto, ossia da formalità a priori, ma dal basso, ossia dalle esigenze concrete della comunità ecclesiale. Una parola in particolare sembra essere richiesta dalla situazione propria dei preti religiosi. Nel loro caso come si configura la particolarità del prete rispetto al vescovo? La cosiddetta «esenzione» non è una smentita alla interpretazione del prete qui offerta? Concediamo senza esitazioni che il punto della «esenzione» comporta una problematica teologica estremamente delicata ed ancora lontana da soluzioni veramente soddisfacenti. È sicuro però che essa non consiste in uno svincolamento del prete dal vescovo bensì nel mantenimento di un legame di dipendenza più universale, costituito dal fare capo direttamente, anziché al vescovo individuale, al corpo episcopale come tale, in vista di un servizio appunto più universale.[16] Le comunità particolari non si differenziano necessariamente per spazi interni ad una chiesa locale. Si determinano anche secondo coordinate che travalicano una chiesa singola per estendersi ad altre chiesi locali. I carismi di una congregazione religiosa, ad esempio, suscitano comunità particolari che vivono ed agiscono nelle chiese locali senza mutuare la loro particolarità specifica da esse, ma appunto da tali carismi. Dato il necessario inserimento di tali comunità in una chiesa locale, qualunque prete può essere il loro sostentatore efficace nel nome del Signore. Ma indubbiamente la presenza di preti che vivono dello stesso carisma esprime e salvaguardia la loro originalità assai meglio. A sua volta qualunque prete religioso può essere il prete di una comunità particolare direttamente locale, ad esempio di una parrocchia. In questo caso però il carisma della sua congregazione non qualifica direttamente il suo essere ministeriale (giacché egli è e resta il prete di una comunità che non è una comunità religiosa), ma soltanto le modalità del suo agire cristiano. Detto più chiaramente: la dimensione ministeriale e quella religiosa non sono dimensioni correlative,[17] però possono avere un rapporto diretto ed uno indiretto. Nel caso del prete religioso reggitore di una comunità religiosa sembrano incontrarsi direttamente. Negli altri casi solo indirettamente.
    Non va dimenticato infine che nella peculiarità del prete entra, oltre al rapporto col laicato e con l'episcopato, anche quello con il diaconato. Ciò comporta un problema difficile, anzi inedito perché la figura del diacono permanente è riapparsa solo dopo secoli di silenzio e quindi ha caratteri ancora molto vaghi e mal definiti. Ma pure va affrontato. Diciamo allora che oggi fanno spicco due linee di interpretazione. Secondo la prima la specificità del diacono si qualifica anch'essa in riferimento alle comunità particolari: il diacono, quale ministro non sacerdote, è il ministro di una comunità che non è in grado di celebrare l'eucaristia, come sarebbe ad esempio una comunità di catecumeni, oppure una qualche particolare comunità settoriale od ancora una comunità molto piccola. Mediante il diacono queste comunità convergono nella comunità presbiteriale, dove si ritrovano veramente come chiese e dove celebrano l'eucaristia. Si tratta di una conversione analoga a quella che avviene da parte delle singole chiese locali nella superiore chiesa del vescovo.[18] Secondo l'altra invece il diacono si caratterizza per lo specifico del riferimento alla compaginazione delle comunità con i preti ed i vescovi. A giudizio del Rahner ad esempio, il diacono ha una funzione analoga a quella dell'ufficiale subordinato che lega la truppa agli ufficiali superiori. Un altro autore scrive:
    ausiliare del vescovo e del sacerdote per dei ministeri propri, consacrato col sacramento dell'ordine gerarchico nel suo grado inferiore, il diacono rappresenta l'indispensabile anello di congiunzione tra il laicato ed il sacerdozio nell'opera comune della edificazione del Corpo di Cristo.[19]
    Forse le due posizioni non sono molto distanti: entrambe danno rilievo anche se solo la seconda lo pone in primo piano, al compito del legame. Per entrambe il prete trova nel diacono il suo primo collaboratore.

    4. VERSO UNA FISIONOMIA CONCRETA DEL PRETE DI OGGI

    Tutto questo lungo discorso approda ad alcuni punti fermi che danno un abbozzo di risposta agli scopi di autointerpretazione e direttiva formativa che ci eravamo proposti. Li condensiamo in tre principi globali suddistinti in una pluralità di orientamenti subordinati.

    1) Il prete è, in un senso specifico del tutto originale, un uomo essenzialmente relativo agli uomini ed allo Spirito di Cristo.
    Se avessimo voluto usare le parole di Fulton Sheen, avremmo detto: il prete non si appartiene.[20] Questo però è già vero di ogni cristiano, perciò abbiamo aggiunto che si tratta di una non appartenenza del tutto originale. Precisiamo tale originalità considerandola dapprima in rapporto agli uomini e poi in rapporto allo Spirito.
    Orizzontalmente, ossia sul piano del rapporto con gli uomini, il prete è relativo da una parte al vescovo, al collegio episcopale col papa, al presbyterium ed al diacono; e dall'altra alla sua comunità concreta. Rispetto ai primi tre, tale sua relatività ha una connotazione prevalentemente recettiva: il prete dialoga con essi e partecipa del loro ministero ma sempre in situazione di subordinazione e quindi di dipendenza. Rispetto al presbyterium la situazione è paritaria e complementare: il prete integra la propria esperienza, legata alla comunità particolare di cui è ministro, con quella degli altri preti tanto quanto e perché la sua comunità deve integrare le proprie esperienze di crescita nello Spirito con quelle delle altre comunità. Invece, nel caso del rapporto coi diaconi si dà una contemperanza di complementarietà e di forme direttive: attraverso il diacono, il prete raggiunge le entità minori della sua comunità ed assicura il realismo del proprio legame di servizio ad essa; il diacono peraltro è al servizio del prete. Rispetto alla sua comunità concreta infine il rapporto per sé è direttivo. Ma solo nell'ambito specifico della verifica e del sostentamento della appartenenza ecclesiale; e nel senso di una azione che non soppianta ma sostenta, che non dispensa od esautora dai compiti richiesti dalla fede ma invece li urge ed abilita a compierli, che non domina ma serve. Quindi in uno stile costante di dialogo, che non annega la differenza tra l'animatore ed i suoi interlocutori e neppure ignora che il movimento dal ministero al laicato si contempera con un movimento dal laicato al ministero.[21] Sempre nel rispetto puntuale e preciso delle esigenze storiche concrete di tale comunità. Questi rilievi divengono altrettante indicazioni per la formazione. Il prete deve essere un uomo conscio della comunità e della collegialità: può essere tutto fuorché un individualista abituato ad ascoltare soltanto se stesso. Gli occorre il senso della comunione con il magistero episcopale e papale e con il vescovo, e quello del confronto permanente nel dialogo con i propri confratelli del presbyterium. Necessità di una mentalità di servizio gratuito che non commisura il proprio impegno sui risultati che ottiene, ma sa accettare che alcuni seminino ed altri raccolgano; né pretende che la vita sia fatta solo di progressi e non anche di sacche di involuzione; né si lascia inebriare dalla sottile sete del potere perché comprende che il suo dare è anche un ricevere e non può avere altro scopo che quello di promuovere. Soprattutto deve acquisire una viva percezione della pluralità e diversità delle persone, degli eventi, delle situazioni, in una parola delle particolarità, legate ai più diversi fattori, non ultimo quello storico; perché egli è il ministro delle comunità particolari. Allora non si riterrà l'uomo delle soluzioni immediate per ogni problema, ma solo il punto di riferimento e di forza per la loro ricerca in comune. Verticalmente, ossia sul piano del rapporto con il trascendente, il prete è relativo al Cristo datore del Padre ed al suo Spirito operatore della salvezza; anche qui, dato che tale riferimento è di tutti i cristiani, in modo originale. Egli si connette al Cristo in quanto egli è l'uomo in cui il Cristo raggiunge la comunità. Questa situazione è oggettiva, è un dato di fatto stabilita dal sacramento dell'ordine, e non un «come se» supposto dal ministro stesso, o dalla comunità: tradizionalmente si chiama «carattere». Come situazione oggettiva comporta un carico di promesse di vita: il carattere, cioè, esige e significa la grazia. Ma tali promesse sono fatte ad una libertà, quindi si compiono solo mediante l'appropriazione personale dell'oggettivo su cui si radicano: il carattere disgraziatamente può trovarsi disgiunto dalla grazia. Il prete perciò deve radicare in sé la consapevolezza profonda e permanente della propria dipendenza radicale dal Cristo, ed avere come progetto globale l'essere il più possibile la trasparenza di Lui. Ciò costituisce, come vedremo, la modalità concreta della sua opzione fondamentale. Non solo. Il prete rappresenta il Cristo come suo segno efficace non a modo di elemento a se stante ma a modo di tassello di un mosaico comprendente molti altri tasselli o segni essenziali, quali le scritture, i sacramenti, gli altri ministri, la comunità stessa. Il suo riferimento verticale non lo isola dagli altri, come potrebbe far supporre una malintesa idea di sacralità, ma esige, come base della propria effettività, che egli sia con essi. Allora, siccome l'operatore di questa unità è lo Spirito, egli deve imparare a vivere il suo rapporto col Cristo a modo di rapporto con lo Spirito, cioè non isolatamente ma comunitariamente; nel rispetto e nella integrazione di tutte le componenti della azione salvifica «spirituale» di Gesù; in una parola, anche da questo punto di vista nel dialogo.

    2) Il prete è l'uomo in cui Cristo si fa parola vivente alle comunità particolari.
    Il distintivo del prete, abbiamo detto e ripetuto, consiste ultimamente nel suo essere ministro delle comunità particolari, cioè la loro parola vivente (o segno persona). Si tratta della sua situazione specifica di prete. Tale situazione è totalizzante, è permanente, è specialistica. Essa, come vedremo in un terzo principio, non appartiene alla dimensione profana dell'uomo ma a quella religiosa. Vediamo dunque questi aspetti per parte. La situazione del prete è una situazione totalizzante. Questo significa che il suo essere per il Cristo in favore della comunità non può essere interpretato come una mera funzione aggiunta che non interessa il livello profondo delle scelte della sua vita. Se la dottrina dell'oggettivo del ministero, ossia del carattere, vuol dire qualcosa (ed è pur sempre una dottrina che vincola la fede), significa proprio questo. Essa esclude un «come se» convenzionale puramente funzionale in favore di un autentico nuovo modo di essere nella Chiesa a favore della comunità e tale da rendere ragione del suo servizio alla comunità. Questo nuovo modo di essere è veramente «nuovo» ed è veramente modo di «essere». Per gli Apostoli il ministero significò seguire Gesù «abbandonando tutto»: il loro lavoro, le loro famiglie, il loro stile di vita, persino la loro mentalità. L'ordinazione diversifica il prete da quel che era prima, e lo pone tra gli altri come chi è distinto dagli altri. Di conseguenza impegna le scelte di fondo della vita fino al livello della opzione fondamentale, ossia fa sì che tutte le scelte della sua esistenza siano coordinate e subordinate a questa sua determinazione di base consistente nella disponibilità radicale allo Spirito di Cristo per la Chiesa e per il Regno. Dunque il prete deve avere la capacità intrinseca di una vera opzione fondamentale; ed anzi di questa opzione fondamentale. Non può assumere la separabilità tra santità e ministero come un alibi. Se non impara a gettare il tutto di se stesso nel proprio impegno specifico, è un prete fallito. Se crede che questo impegno sia soltanto un compito accanto ad altri, uno tra i tanti, rompe la propria unità personale perché vive ai margini della propria identità.
    Qui si manifesta il senso del celibato ministeriale. Alla sua base sta una domanda precisa: l'opzione fondamentale del ministero deve rendersi palese solo attraverso l'impegno personale di dedizione del ministro della Chiesa, oppure deve trovare espressioni di carattere pubblico, visibile, in un certo modo ufficiale ed istituzionalizzato?.[22] La risposta, costantemente confermata, della Chiesa è che l'opzione fondamentale del ministero deve avere una testimonianza istituzionalizzata, e questa deve essere proprio il celibato. Ma qui il celibato non è innanzitutto una rinuncia ascetica (che infatti, lasciata a se stessa, diviene inesorabilmente un «essere di meno») bensì è una tensione ad amare la propria comunità cristiana con assoluta ed esclusiva passione, con tutta la capacità affettiva e sentimentale di cui si è capaci. È cioè l'espressione del fatto che per i preti il servizio della Chiesa costituisce l'interesse fondamentale di tutta la loro vita, e dunque un «essere di più» nella dedizione alla costruzione della Chiesa.
    In questo totalizzante, la situazione del prete è necessariamente permanente. La totalità infatti include anche il tempo, che non entra nelle situazioni umane quale elemento sopraggiunto accidentale ma quale dato costitutivo. Il nuovo modo di essere introdotto dalla ordinazione non è «ad tempus», ossia provvisorio né dalla parte della sua oggettività, legata al Cristo, né da quella della sua appropriazione personale, legata al ministro. Il rapporto al Cristo infatti è concepito dal Cristo come qualcosa di definitivo: lo dice la dottrina di fede della indelebilità del carattere. E l'appropriazione comporta un impegno che giunge fino al livello della opzione fondamentale, la quale non è mai una opzione provvisoria. Si ritorna allora per quest'altra via alla costatazione della necessità di educare il prete ad una vera opzione fondamentale che sia quella opzione fondamentale, senza surrogati o palliativi.
    In ogni caso, il prete si caratterizza per il rapporto alle comunità particolari. Le particolarità non si sostentano se non nella promozione della loro originalità. Dunque il suo è un compito specialistico. Da questo punto di vista si può dire che non esiste una figura tipo di sacerdote ma che esistono vocazioni diverse all'interno dell'unica vocazione ad un servizio qualificato ed adeguato delle diverse comunità ecclesiali. Così il principio di identità del prete ne determina i caratteri essenziali ma non affatto le modalità espressive e realizzative concrete, che invece sono lasciate, in forza del principio stesso, all'incontro delle attitudini e dei carismi del soggetto con le necessità pratiche della comunità da servire. Questo implica nel prete la capacità di discernere tali necessità, quella di adattarvi le proprie qualità, e l'abitudine al rinnovamento e ad un minimo di fantasia creatrice per i molti casi inediti a cui andrà incontro. Se può dire in ogni momento di sapere che cosa egli sia come prete, non può sapere mai una volta per tutte come egli debba esserlo nel compito storico che persegue. Non solo: è chiaro che il prete, pur restando l'uomo di tutti, dovrà essere sempre meno un generico incaricato di tutto e di tutti. Si impongono anche per lui, come per gli esperti del mondo profano, delle specializzazioni che lo rendano capace, senza isolarlo dagli altri settori, di una parola e di una presenza veramente efficace in e presso comunità, gruppi, livelli sociali, categorie di persone, distinti e ben specificati. Ci sarà e ci dovrà essere sempre più il prete degli operai ed il prete degli intellettuali, il prete dei giovani ed il prete degli anziani, il prete dei baraccati ed il prete delle classi più abbienti. Ciascuno di questi livelli e di queste situazioni infatti ha un suo linguaggio e tutti senza alcuna esclusione debbono essere raggiunti dalla presenza salvatrice del Cristo.[23]
    Qui prendono tutto il loro risalto la coordinazione dei preti tra di loro e quella dei preti con il vescovo. Per quanto indispensabile, nel pluralismo delle comunità particolari è insito il pericolo gravissimo della settorialità chiusa, dell'esclusivismo e delle rotture. Chi o che cosa potranno evitare questi scogli? Lo potrà fare la comunione reciproca effettiva dei presbiteri tra di loro e col vescovo, perché il loro incontro continuo è necessariamente un confronto ed una verifica. Là ove tale incontro esiste veramente nella critica sincera, leale e fraterna quanto concretamente possibile, ogni prete è richiamato da una parte alla propria fisionomia distintiva e dall'altra alla complementazione con il settore e la esperienza degli altri. Il senso dell'«essere con» è essenziale al prete anche da questo punto di vista. Come lo è da un altro, quello delle attitudini individuali. Giacché tra i ministri ci saranno sempre temperamenti dinamici e fattivi più portati alla evangelizzazione che alla contemplazione, e temperamenti viceversa più connaturati alla adorazione ed al culto: ove questo non nuoccia alle esigenze effettive del servizio sacerdotale, ciascuno potrà esercitare il proprio ministero nel contesto più confacente alla propria singolarità, e la totalità della collegialità ministeriale farà, su scala più vasta e profonda, quella sintesi dei tre elementi (parola, culto e reggenza) che già deve esserci, pur nel diverso dosaggio, nella vita di ciascuno.[24]

    3) Il prete è l'uomo del trascendente e del definitivo.
    La situazione totalizzante del prete, infine, non appartiene specificamente alla dimensione profana dell'uomo ma alla sua dimensione religiosa. Certo il prete è un cittadino di questo mondo quanto chiunque altro. Ma la parola viva che egli porta non è la parola della inventiva umana che promuove lo sviluppo della città terrestre, bensì quella della permanente iniziativa dello Spirito di Cristo che sostenta e verifica la progressiva costruzione del Regno escatologico trascendente. Il prete non vive nella sua comunità particolare per incrementare in essa i valori della cultura, dell'arte, della scienza, della tecnica, della economia, della politica o della letteratura, ma per farla crescere in quel valore che con la morte non soltanto non sparisce ma si totalizza, e cioè l'amore gratuito ed universale, in cui consiste lo stile di vita del Padre (Mt 5,44-48). La sua esistenza è specificata fino in fondo da questo suo modo di essere nella Chiesa per la Chiesa. Di conseguenza esiste in lui una concentrazione sul «religioso» che fa di lui l'uomo del trascendente e del definitivo con correlativa attenuazione del suo rapporto con il profano. Diverso dai membri laici della comunità in relazione alla situazione di Chiesa, lo è pure consecutivamente in relazione alla situazione di mondo. Come loro, deve preoccuparsi dell'apprendimento del linguaggio culturale del proprio ambiente; ma, diversamente da loro, non come fine, sia pure relativo, a sé stante, bensì come necessario mezzo espressivo della fede. Come loro è rimandato dalla propria fede all'impegno. nel profano, giacché la fede vincola ad un amore integrale per tutte le dimensioni umane, anche a quelle profane, ad una lotta integrale contro tutte le forme di peccato, anche quelle strutturali, ed alla accettazione concreta della propria realtà di creatura a due dimensioni. Però, diversamente da loro, questo suo impegno potrà essere diretto solo in situazioni di supplenza ed a condizioni ben precise, tali da non compromettere la visibilizzazione della sua identità di uomo del trascendente.[25] Mentre il laico arriva al profano sia per la porta della fede sia direttamente per quella del profano stesso, il prete vi giunge, in circostanze normali, solo per la via della trascendenza che è la sua specificità. Egli anima la comunità anche a questi compiti mostrandoli esigiti dalla fede; non mutua dalla fede programmi concreti bensì una critica permanente a tutto ciò che in tali programmi, elaborati per la via propria delle analisi scientifiche, si oppone alla effettiva maturazione dell'uomo; e relativizza i messianismi terrestri, anche quelli legittimi, mostrandoli inseriti nel più vasto ed universale messianismo trascendente di cui egli è l'annunciatore autentico. In questo senso è chiamato l'uomo della «riserva escatologica»: né uomo della piazza né uomo della sacrestia, ma ministro di un compito che trascende l'una e l'altra in una dimensione che le include entrambi. Tutto questo esige nel prete altri sostanziali abiti mentali, quali l'apprezzamento effettivo della consistenza del profano ed il senso della sua subordinazione al definitivo, mai concepita però in termini di pura strumentalità; il senso del necessario riflusso della fede sulla profanità; ed infine il senso della originalità ed essenzialità del proprio contributo di prete a tale profano. Quando egli comprenda che l'avvenire della città terrestre, esattamente come quello del Regno, si giuoca ultimamente, ben più e prima che nelle strutture e nelle tecniche, nel cuore degli uomini, sarà consapevole di dare, con la sua lotta diretta contro il peccato e contro l'egoismo, un apporto indiretto al profano più importante ed efficace di tutti quelli diretti. E non consentirà più a dirsi estraneo alla vita od in stato di inferiorità rispetto ai laici.


    NOTE

    [1] DIANICH S., Nuove prospettive nella teologia del ministero, in Correnti teologiche postconciliari (ed. A. Marranzini), Roma, Città Nuova, 1974, pp. 171-190: qui p. 174.
    [2] MAGGIONI B., Il sacerdozio nel Nuovo Testamento, in Riv. Lit. 56 (1969) 68-69.
    [3] Cf MUSSNER F., Vangelo e «centro del vangelo», in Orizzonti attuali della teologia, Ed. Paoline, Roma, 1966, vol. I, pp. 475-509.
    [4] Cf BONY P., COTHENET E., DELORME J..., Le ministère et les ministères selon le Nouveau Testament, Ed. du Seuil, Paris, 1974.
    [5] DIANICH S., Ministero, in Diz. Encicl. di Teologia Morale, Ed. Paoline, Roma, 1973, p. 609.
    [6] FAVALE A. - GOZZELINO G., Il ministero presbiterale, LDC, Torino-Leumann, 1972, p. 61.
    [7] Così soprattutto KÜNG H., Preti perché? Un aiuto, Anteo, Bologna, 1971. E, tendenzialmente, KASPER W., Nuovi accenti nella concezione dogmatica del ministero sacerdotale, in Concilium 3 (1969) 45-46.
    [8] Così RATZINGER J., Il senso del ministero sacerdotale, Pubblicazioni Religiose, Trento, 1970.
    [9] RAHNER K., L'aggancio teologico per la determinazione della essenza del sacerdozio gerarchico, in Concilium 3 (1969) 111-112.
    [10] DIANICH S., Nuove prospettive nella teologia del ministero, in op. cit., pp. 183-184.
    [11] DIANICH S., Ministero, in op. cit., p. 617.
    [12] Per tutte queste critiche cf DIANICH S., Nuove prospettive nella teologia del ministero, in op. cit., pp. 179.180.181-182.
    [13] DIANICH S., Nuove prospettive nella teologia del ministero, in op. cit., pp. 181-182.
    [14] Cf Lumen Gentium n. 28, Presbyterorum Ordinis n. 5. Per un richiamo storico di questa traduzione cf FAVALE A. - GOZZELINO G., op. cit., pp. 133-142.
    [15] FAVALE A. - GOZZELINO G., op. cit., pp. 143-144.
    [16] Cf SCHILLEBEECKX E., Les religieux et l'épiscopat, in La vie consacré 2 ( 1966) 85-87.
    [17] Lumen Gentium, n. 44.
    [18] DIANICH S., Ministero, in op. cit., p. 618.
    [19] WINNINGER P., I ministeri dei diaconi nella Chiesa di oggi del Vaticano Secondo, Vallecchi, Firenze, 1965, p. 955.
    [20] SHEEN F., Il prete non si appartiene, Direz. Naz. Sac. Ador., Torino, 1963.
    [21] Cf CONGAR Y., Ministeri e comunione ecclesiale, Ed. Dehoniane, Bologna, 1973, PP. 18-19.36-37.
    [22] Su questo tema si vedano le ottime osservazioni di DIANICH S., Ministero, op. cit., pp. 618-620 ed il recente documento della congregazione per la educazione cattolica Orientamenti per la formazione al celibato sacerdotale, in Il Regno documenti, n. 292, 19 (1974) 400-420.
    [23] FAVALE A. - GOZZELINO G., op. cit., p. 163.
    [24] FAVALE A. - GOZZELINO G., op. cit., p. 100.
    [25] Cf Documento del sinodo dei vescovi del 1971: Il sacerdozio ministeriale, parte seconda. I, n. 2: Attività profane e politiche.


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