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    Linee per una pastorale dei giovani operai



    Editoriale

    (NPG 1974-05-02)


    «Linee per una pastorale dei giovani operai»: un tema molto impegnativo. Perché, se vuol raggiungere veramente una integrazione tra fede e vita, tira necessariamente in ballo una teologia, una visione della «maturità» dell'uomo e un'analisi della società, nei suoi rapporti più profondi.
    Trattarne su una rivista significa esporsi facilmente al malinteso. Su una rivista se ne parla a puntate, senza un ordine logico nella successione degli interventi, senza la completezza che sta a cuore a chi misura le informazioni a suon di «vero-falso». È importante perciò indicare il quadro d'insieme.
    In questa prospettiva assumono rilievo i particolari e si mettono a fuoco i singoli parziali studi.
    Lo facciamo con un doppio movimento: con un prospetto di massima degli studi che ci pare opportuno prendere in considerazione ed offrendo un primo contributo di sintesi a carattere discorsivo.
    Il primo non è l'indice del secondo né tanto meno il rigido sommario degli articoli che seguiranno. È un abbozzo d'insieme, entro cui situare l'editoriale e gli articoli che dai prossimi numeri offriremo all'attenzione dei lettori e i molti già apparsi sulle pagine della rivista.

    1 Analisi della situazione attuale

    1.1 La condizione giovanile nella società industriale
    ricerca sulla nuova situazione culturale indotta dall'industrializzazione, soprattutto in riferimento alla situazione giovanile

    1.2 Il mondo del lavoro oggi
    analisi della distribuzione del lavoro per settori economici, in vista della dinamica della società industriale
    1.2.1 analisi in dimensione strutturale (dequalificazione professionale nei confronti del posto-lavoro; distribuzione dei settori economici; uso della manodopera nell'industria; affezione e disaffezione al lavoro)
    1.2.2 mondo del lavoro e movimento operaio (il tema è già stato trattato in NPG 1972/6-7, pag.6-29)

    1.3 Il giovane operaio in fabbrica
    analisi delle situazioni e degli atteggiamenti tipici dei giovani operai al loro primo impatto con il mondo del lavoro (il tema è stato già trattato in NPG 1972/6-7, pag. 30-51)

    1.4 Movimenti giovanili ecclesiali e giovani operai
    analisi dei movimenti giovanili ecclesiali «proposti u ai giovani operai, come ricerca della spiritualità offerta e del rapporto chiesa-mondo sotteso (qualche cosa è già stato trattato in NPG 1972/6-7, pag. 77-104 e 1972/11, pag. 57-96)

    1.5 Motivazioni e attese dei giovani che scelgono i centri di formazione professionale
    analisi dei motivi culturali e strutturali che orientano i giovani verso i centri di formazione professionale

    2 La formazione professionale oggi

    2.1 Esiste ancora un apprendistato professionale? analisi del dato di diritto (legislazione corrente) e del dato di fatto
    2.2 Educatori e strutture educative nei centri di formazione professionale
    2.2.1 analisi della mentalità corrente e dell'influsso che questa mentalità esercita nel momento educativo
    2.2.2 il progetto di «uomo-cristiano» maturo che viene perseguito nei modelli educativi correnti
    2.2.3 essere educatore comporta la consapevolezza riflessa dei condizionamenti culturali e strutturali di cui si soffre
    2.2.4 strutture educative in rapporto alle industrie che «assumono» i giovani preparati nei centri

    2.3 I centri di orientamento professionale
    analisi del servizio di appoggio e sulla mentalità dominante

    2.4 La famiglia e la formazione professionale il peso della famiglia nella elaborazione delle motivazioni e delle attese verso il lavoro (il tema è stato trattato in parte in NPG 1973/8-9)

    3 Contenuti e metodi di un progetto educativo

    3.1 Lavoro e realizzazione di sé
    ricerca sul significato della realizzazione di sé nel momento professionale
    (il tema è allo studio su NPG: cf 1973/10, pag. 2-18, 1973/11, pag. 16-26, 1974/1, pag. 2-9)

    3.2 La solidarietà come scoperta della realtà
    ricerca sul significato di una solidarietà come «comunione reale» con il movimento operaio, in prospettiva educativa ed ecclesiale

    3.3 Il lavoro come «sofferenza»
    verso una teologia del lavoro in chiave di liberazione
    (il tema ha già avuto una prima analisi in 1974/1, pag. 2-9)

    3.4 Evangelizzazione dei giovani operai
    3.3.1 contenuti per una proposta di fede ai giovani operai
    3.3.2 metodi per una proposta di fede
    3.3.3 «luoghi» e momenti per una proposta di fede (molto è già stato scritto in NPG: cf 1974/3, pag. 18-30; 1972/6-7, pag. 53-76)
    3.3.4 atteggiamenti per una educazione alla fede integrata nella vita per i giovani operai

    3.5 La gestione sociale come momento educativo
    significato, problematiche, esperienze, proposte

    3.6 Problemi di formazione professionale della donna
    3.6.1 analisi dei condizionamenti esistenti
    3.6.2 proposte di formazione professionale
    3.6.3 la donna e il lavoro

    IL SIGNIFICATO DI UN PROGETTO REDAZIONALE

    Non è la prima volta che affrontiamo il tema della pastorale dei giovani operai. Il piano redazionale 1974 ne prevede uno sviluppo articolato, sia a livello di studio che di esperienze e sussidi. Ed è quanto desideriamo iniziare a realizzare con queste pagine.

    Uno studio in armonia con le linee della rivista

    Sulla rivista è già comparso qualcosa: uno studio monografico sui problemi del mondo del lavoro e sulle scelte con cui caratterizzarne una pastorale adeguata (monografia, 1972/6-7); esperienze di presenza pastorale tra i giovani operai (gruppi torinesi, 1972/6-7; la GiOC di Rimini, 1972/11); una proposta contenutistica per l'evangelizzazione e la liberazione del mondo operaio (1974/3). Il filone sulla professione e realizzazione di sé, in fase di avanzato sviluppo, contiene indicazioni interessanti e concrete, anche se largamente finalizzate alla sensibilità e alle problematiche dei giovani studenti (cf l'editoriale di presentazione del progetto redazionale, 1973/10; e i vari articoli successivi). Soprattutto le linee di pastorale giovanile, elaborate per creare le premesse ad un incontro tra «Dio, che si rivela e l'uomo, che lo va cercando per varie strade» (RdC, 198), all'operatore attento e riflessivo offrono una piattaforma stimolante su cui costruire anche una pastorale specifica per i giovani operai. Basta elencare qualche dimensione caratteristica, anche solo a titolo di esempio: la necessità di prendere le mosse dal concreto quotidiano, riletto in termini di profondità; la necessità di educare ad una fede impegnata nella storia che spinga a prendere sulle spalle la liberazione del proprio ambiente; il rifiuto di una gestione di fede legata al tempo libero; il lungo e importante discorso sugli atteggiamenti, come disponibilità alla integrazione tra fede e vita; la comprensione rivelata di fatti e avvenimenti, in una lettura di fede resa possibile della Parola di Dio; l'esigenza del gruppo come momento di sostegno. Un elenco di battute, significative per coloro che hanno fatto strada con noi, in questi difficili anni di rinnovamento pastorale, destinate tutte a fornire indicazioni concrete anche nei confronti di una saggia pastorale giovanile nel mondo del lavoro.
    Materiale in cantiere ce n'è tanto.
    Spesso però è affastellato a caso. Richiede troppo lavoro di traduzione... per essere pronto all'uso. E gli operatori pastorali di tempo ne hanno sempre poco.
    E, inoltre, c'è il grosso rischio del genericismo. Di elaborare cioè un piano pastorale così raffinato da essere pronto a tutti gli usi; ma proprio per questo terribilmente qualunquista. Nel momento della mediazione operativa, gli ingranaggi si grippano; o peggio, si addomesticano le esigenze dei soggetti, per farle rientrare a viva forza nelle catalogazioni generali.
    Per tutti questi motivi abbiamo avvertito, in redazione, la necessità di ripercorrere il cammino vissuto assieme sulle pagine della rivista, per offrire un progetto pastorale tagliato apposta sulla misura dei giovani operai.
    Ne abbiamo parlato a lungo, anche attraverso la consultazione di amici con le mani in pasta. Il materiale emerso è stato verificato poi in un contatto tra operatori diretti.
    Dal lavoro prendono corpo queste «linee». Hanno lo scopo di fornire un quadro d'insieme: il fondale su cui inserire i vari interventi di approfondimento. Un angolo prospettico, da cui assumono significato alcuni studi già comparsi sulle pagine della rivista. Una piattaforma ove è ritrovabile completezza e armonia per gli articoli che compariranno nei prossimi numeri.
    Queste pagine, insomma, vorrebbero essere una via di mezzo tra l'indice ragionato e lo sviluppo dettagliato. Tratteggiano i problemi che meritano di essere presi in considerazione. E offrono già parziali soluzioni. Indicano alcuni temi da privilegiare ed elaborano contenuti con cui dare ad essi spessore operativo.
    Non sono però «la» trattazione ultima.
    Molti argomenti saranno necessariamente ripresi e sviluppati con una preoccupazione di più specifica competenza e di maggior globalità. Hanno, queste pagine, una sola pretesa: indicare all'operatore pastorale un quadro d'insieme, capace di raccogliere i fili dei vari discorsi. Ogni educatore, nel concreto della sua situazione, troverà materiale per sviluppare quegli argomenti che reputerà di volta in volta più pressanti. Per la rivista, faremo proposte che rispettino la media delle attese.
    Su molti temi, abbiamo già espresso il nostro parere.
    Su altri, che per limiti di spazio o di competenza non prenderemo in considerazione, indicheremo riferimenti bibliografici.
    Il tutto però non a sussulti frammentari ma, grazie a queste pagine, in una visione di sintesi sufficientemente organica.

    I destinatari del progetto

    Come sempre, nostri interlocutori sono gli operatori pastorali. Alle loro mani affidiamo ogni pagina scritta, perché solo attraverso la loro indispensabile mediazione essa possa diventare terreno di confronto e di dialogo, contenuto da proporre, stile di azione, bagaglio di mentalità sulla cui falsariga elaborare strumenti di lavoro.
    Questa volta, però, non operatori pastorali «generici». Tentiamo un dialogo qualificato con quanti sono impegnati con giovani che si preparano ad una qualifica professionale, soprattutto dei «centri di formazione professionale».
    Questi educatori sentono che non è più possibile separare il momento tecnico-professionale da quello strettamente destinato alla educazione alla fede.
    D'altra parte hanno chiara la consapevolezza di non poter strumentalizzare l'aspetto tecnico in vista della missione evangelizzatrice.
    L'integrazione tra fede e vita, meta di un sano processo educativo «cri stiano», chiede di vivere in pienezza la dimensione tecnica-professionale, dando ad essa uno spessore «umano» di impegno, di responsabilità, di apertura sociale; perché sia possibile integrare in esso, con continuità reale, l'annuncio della radicale novità dell'amore del Padre.
    Ed è proprio in questo impegno di integrazione tra fede e vita, che la realtà quotidiana li provoca: che significa, si chiedono, umanizzare il lavoro; quale livello di impegno sociale va assunto, anche in vista di una matura esperienza di fede; come innestare la proposta di fede in discorsi estremamente tecnici, come quelli che si fanno tra torni e stampatrici? Destinatari del nostro progetto sono anche tutti quegli operatori pastorali che vivono a contatto con giovani operai.
    La brusca immissione nell'ambiente di lavoro butta spesso per aria una visione disancorata della vita e della fede o rimette in primo piano grosse problematiche personali che erano state rimosse nel momento di una educazione «alla svelta».
    Una terza categoria di educatori forma il presunto partner del nostro dialogo: tutti coloro che s'accorgono di non riuscire a imbastire un discorso serio con i giovani operai. Si parlano lingue diverse. O ci si incontra solo sulle cose futili. Dove sbattere la testa per iniziare una pastorale costruttiva anche con essi?
    A chi si pone problemi del genere. Le pagine che seguiranno possono dire qualcosa.
    Coloro che invece avvertono come non autentici (o inutili) gli interrogativi avanzati, si troveranno spesso a disagio. Perché faremo un discorso sugli aspetti professionali in termini molto parziali, tali cioè da non interessare chi sa già tutto del proprio settore tecnico e non è affatto preoccupato di conciliare quella competenza professionale che già possiede con un ruolo successivo di educatore della fede. E perché parleremo della proposta di fede tenendo stretto conto del contesto in cui dovrà essere vissuta (il mondo della fabbrica considerato come il punto nodale di un processo di più vasta alienazione), scontentando chi invece preferisce conservare la fede «pulita» dalle incrostazioni sociali e politiche che un simile discorso comporta.
    Ma non possiamo tirarci indietro. Abbiamo la consapevolezza che questo nostro modo di fare non solo salva l'autenticità della fede (se è vero che è estremamente alienante una fede non coinvolta a pieno titolo nel profano), ma anche l'autenticità dell'impegno Professionale (se è vero che è disumanizzante ogni preoccupazione tecnica che non approdi all'«uomo» che ne è sempre protagonista). L'integrazione tra fede e vita, insomma, è, secondo il nostro punto di vista, la salvezza, l'autenticazione, sia della fede che della vita. Su questa lunghezza d'onda intessiamo la riflessione sulla pastorale dei giovani operai.

    PARTIRE DAI FATTI

    Il significato definitivo del nostro progetto è dunque «pastorale». Non abbiamo né competenza né intenzione di far altro.
    Ma se fare pastorale significa giungere alla integrazione tra fede e vita, non possiamo disinteressarci della vita, elaborando un bagaglio di riflessioni sulla fede da «manuale».
    Per fedeltà alla «fede», dobbiamo lasciarci interpellare a fondo dalla «vita». Per una proposta pastorale seria e costruttiva, dobbiamo interrogare con precisione le situazioni di vita.
    Lo facciamo non per creare una testa di ponte ai nostri discorsi né tanto meno come tattica cattivante. Non è questione di metodo, ma di fedeltà ai contenuti. «Non si tratta di una semplice preoccupazione didattica o pedagogica. Si tratta invece di una esigenza di incarnazione, essenziale al cristianesimo» (RdC, 96).
    Difficilmente però si capisce la realtà con il solo aiuto di un buon paio di occhi. La comprensione della situazione legata alla sola esperienza personale, è tanto spesso una comprensione parziale e distorta. Quindi inadeguata per un sano processo pastorale.
    È esigenza di fede utilizzare tutti gli strumenti funzionali ad una comprensione oggettiva della realtà.
    Ci mettiamo quindi in ascolto della realtà, per fedeltà alla nostra vocazione di educatori della fede, utilizzando quella ricca strumentazione che le analisi tecniche ci offrono oggi, anche se permane viva la coscienza della provvisorietà, della impossibile neutralità, della fragilità di ogni strumento.

    L'apprendistato oggi

    Esiste oggi l'apprendistato? Come i giovani operai imparano il loro mestiere? Come avviene l'adattamento con il mondo della fabbrica? È indispensabile avere il polso preciso della situazione.
    Una batteria di leggi codificano la fase di «preparazione» all'immissione nel mondo del lavoro, sia a proposito della formazione gestita dai Centri professionali sia per quella gestita dalle industrie stesse.
    I fatti però hanno ormai sconfessato la attuale legislazione. E questo, al di là di singole personali responsabilità, come rimbalzo della fase di avanzata industrializzazione in cui ci troviamo.
    Da molte parti si afferma ormai che l'apprendistato, così come tradizionalmente era inteso, è oggi scomparso o è in via di completo annullamento. Non esiste più la figura del giovane che «impara» un mestiere accanto al vecchio operaio. C'è tutto un modo diverso di fare l'apprendistato.

    - Le grandi industrie tendono ad organizzare proprie scuole di formazione professionale.
    Il fenomeno aveva una sua rilevanza soprattutto alcuni anni fa. Ora questa «scuola» tende ad essere sostituita con un periodo più breve ma più intenso di qualificazione e di specializzazione. All'interno di queste scuole avviene il processo di apprendimento: esse sono come un filtro, un passaggio obbligatorio, in vista dell'inserimento nella struttura produttiva.
    Queste scuole hanno lo scopo di veicolare informazioni tecniche, proporzionate ai compiti che il giovane dovrà svolgere nell'industria.
    La perfezione degli apparati produttivi dei grossi complessi industriali richiede normalmente una specializzazione così attenta che difficilmente può essere delegata ad altre strutture.
    Ma non è solo la preparazione tecnica che sta a cuore all'industria. La formazione batte anche la strada dell'educazione ai valori. Un modo di concepire la vita, i rapporti lavoro-produzione, la realizzazione di sé, insomma un chiaro progetto di sé, viene normalmente acquisito all'interno della struttura formativa. Si esce con un mestiere sicuro in mano e con un modo di guardarsi intorno.
    Evidentemente sia l'uno che l'altro, alle dirette dipendenze del complesso industriale. Tanto alle dirette dipendenze che spesso la sicurezza del lavoro è legata alla permanenza in quella industria, perché la preparazione fortemente specializzata é risultata facilmente univoca (e così, qualche volta, si riprendono i corsi serali per tentare inserimenti diversi...). L'apprendistato ha solo cambiato volto. Spesso ha guadagnato in profondità di incidenza. La ricerca del posto e l'incentivo allo studio per assicurarselo, hanno creato un tipo d'uomo ben confezionato sulla lunghezza del sistema produttivo.

    - Nelle piccole industrie, prive di questo apparato formativo autonomo, il giovane è immediatamente immesso nella fase produttiva.
    La ripetizione meccanica di pochi gesti in macchinari di alta automazione, riduce al minimo la fase destinata ad apprendere. In breve tempo, nel normale dei casi, il giovane è già in grado di produrre a pieno ritmo.
    I drammi di adattamento non sono al livello tecnico ma a quello umano. Il giovane si trova di colpo in un mondo diverso, che gli preme attorno. Nessuna struttura gli addolcisce l'impatto: il salto è brusco e repentino. Spesso il giovane operaio è fatto oggetto di esperienze crude e traumatizzanti, che gli acuiscono il senso della sua inferiorità.
    Cresce spontaneamente in lui la consapevolezza di far parte di una minoranza, di fatto emarginata e destinata ad ulteriore marginalità.
    Il confronto con gli amici di un tempo, che hanno la «fortuna» di proseguire negli studi, aumenta questo senso di sfiducia.
    La busta-paga, momento della prima indipendenza, può diventare la compensazione, lo strumento che gli facilita il bisogno di rifarsi.
    Il clima che respira, la spinta al consumismo legata alla nostra cultura, il profondo desiderio di ritornare ad essere «qualcuno», importante e considerato, incentivano il meccanismo del disimpegno e del recupero (ballo, ragazza, moto e macchine rombanti...).
    L'apprendistato, in questi casi, è stato facile e veloce per quanto riguarda l'acquisizione di una mansione, traumatizzante e sconvolgente di un normale ritmo di vita, per quanto riguarda invece il progetto di sé.

    - Un discorso a parte va fatto per i Centri di formazione professionale.
    Essi offrono un certo modello di «apprendistato», che può avere qualcosa in comune con quello gestito dalle grandi industrie. Esistono però caratteristiche specifiche che richiedono un'attenzione tutta particolare.
    Soprattutto ci pare importante prendere atto di «differenze» notevoli dei giovani che frequentano questi Centri, nei confronti dei loro amici e coetanei ancora «studenti». A due livelli si situa la «differenza» ipotizzata e quindi la ricerca.
    Questi giovani hanno un «mondo» interiore «diverso» da quello dei loro coetanei.
    L'elemento discriminante è dato proprio dalla immediata vicinanza con un lavoro a carattere esecutivo e dipendente e dalla assenza di un titolo di studio. Teoricamente essi vivono gli stessi problemi dei giovani studenti, con un anticipo di qualche anno: ricerca affannosa di un posto dovuta alla dequalificazione del titolo di studio, ingresso in un ambiente di lavoro alienante, occupazione sproporzionata alla preparazione acquisita... Sul piano concreto però non gioca un peso rilevante solo l'anticipazione di problemi gravi in una età ancora adolescenziale, con relativa incapacità di una matura sopportazione. Ma soprattutto incide la consapevolezza di una più larga emarginazione che il giovane operaio è costretto a sopportare a causa della stratificazione sociale (che dà ancora prestigio, anche se retorico, al titolato), della divisione del lavoro (che relega il giovane operaio a ruoli puramente esecutivi). Il tutto è reso acuto dalla sensazione che gli sarà impossibile «redimersi», perché da questa situazione non si esce.
    La seconda linea discriminante è sulle motivazioni spesso inconsapevoli e sulle attese spontanee che hanno spinto questi giovani a frequentare i Centri.
    C'è da verificare con attenzione se la scelta del Centro professionale non sia frutto di una emarginazione avvenuta a livello di scuola dell'obbligo. Di fatto molti giovani fanno questa scelta perché la scuola li ha valutati «incapaci» a proseguire in un curricolo formativo di ordine culturale. Si è così discriminata la persona sul filo della sua capacità logico-formale, in vista di una cultura di tipo umanistico; ponendo le premesse a quel processo di divisione del lavoro in speculativo-programmativo e manuale-operativo che è nella logica del nostro sistema produttivo, e che tanto spazio ha avuto negli anni cinquanta-sessanta, nella nota polemica delle «due culture».
    Per altri giovani la scelta del Centro professionale può essere legata alla ricerca di una qualificazione professionale spicciola, che loro permetta un inserimento di lavoro, veloce e ben remunerato.
    Ricerca spontanea, qualche volta purtroppo approfondita e motivata dai modelli ideologici forniti dall'ambiente educativo. L'accento posto su una facile promozione individuale, basata sulla qualifica raggiunta, sulla retribuzione assicurata, sulla proposta di uno studio... per cambiar mestiere, ha in sé il rischio, grave, di una fuga dalla condizione operaia invece di impegnare qualificazione e realizzazione di sé nel miglioramento dell'ambiente in cui si è chiamati a vivere.
    Sono due esempi, tra i tanti che potrebbero essere fatti. Uno studio riflesso, nella situazione reale dei giovani, diventa urgente, per evitare di costruire sulla sabbia. E gli strumenti tecnici che lo favoriscono sono quindi preziosi.

    Educatori e strutture educative

    Gli educatori e le varie strutture educative che operano nei Centri professionali hanno il compito di mediare, ai giovani che si preparano ad entrare nel mondo del lavoro, una «proposta» di presenza matura e realizzante nella fabbrica. Altri educatori ricevono, dai giovani operai alle prime esperienze nel mondo del lavoro, l' «onda di ritorno». Ad essi questi giovani, cresciuti in gruppi vicini alle normali strutture pastorali, spesso si rivolgono alla ricerca di una proposta di sostegno.
    Gli uni e gli altri sono «mediatori» di un progetto.
    Il fatto pone un grosso problema educativo.
    La persona non è mai neutrale. Possiede una sua cultura, una sua visione della vita e della storia, capace di operare un filtro sui contenuti di ogni proposta. Vengono amplificati quelli che corrispondono alla personale visione delle cose; e depauperati quelli che ne sono in contrasto.
    Il processo avviene senza previa cattiva o buona volontà. È un fatto largamente «strutturale». Prezioso, perché mette in gioco la «testimonianza» personale per dar peso alle singole proposte; ma ambiguo per il condizionamento che la testimonianza reca alla proposta.
    Se poi l'educatore possiede una mentalità teologica sorpassata, una visione della realtà povera di letture anche strutturali, largamente depoliticizzata, progetti pastorali - come quello che stiamo elaborando - che invece cercano «una fede impegnata nella storia», vengono troppo facilmente svuotati.
    È perciò indispensabile «misurare» la cultura degli educatori e delle relative strutture educative, per dare agli uni e alle altre la consapevolezza riflessa dei propri - irrinunciabili - condizionamenti. Da questa coscienza riflessa nasce la possibilità di una informazione la meno distorta possibile.
    Non è certo questo il contesto ove operare la «misurazione». Va compiuta in loco: con quella disponibilità alla libertà e con quella percentuale di amore che rendono storico (e non retorico) ogni impegno di servizio educativo.
    L'analisi va condotta sia a livello strutturale che personale.
    Per verificare, nel primo caso, il tasso reale di conoscenza «incondizionata» del clima che si respira abitualmente nella fabbrica. E, nel secondo, la sensibilità su alcuni atteggiamenti e valori che oggi sono ritenuti fondamentali per un educatore: la capacità di adattamento e di cambio, la concezione di realizzazione di sé nella disponibilità al servizio sociale, la visione globale e concreta degli avvenimenti, l'accettazione della nuova mentalità corrente legata all'industrializzazione e alle sue conseguenze nel mondo del lavoro, la conoscenza culturalmente precisa dei problemi del lavoro, del movimento operaio, della giustizia sociale, il livello di soddisfacimento legato al proprio ruolo professionale e, infine, una buona integrazione tra fede e vita a livello personale in vista di una retta educazione alla fede nel profano.
    Proprio in questo contesto va analizzato con attenzione il rapporto di dipendenza che potrebbe sussistere tra l'istituzione educativa destinata alla formazione professionale e l'azienda che si presenta come sbocco normale per i giovani operai.
    Troppo spesso, al di là della personale buona volontà degli educatori, un certo collegamento «stretto» tra istituzione e azienda riproduce, anche se in misura ridotta, il rapporto di cui si è parlato tra scuole aziendali e azienda. Potrebbe cioè esistere un clima educativo strettamente finalizzato alla gerarchia dei valori che l'azienda riconosce. E questo sia nel tipo di «uomo» che viene proposto sia nella «spiritualità cristiana» che viene indicata come ottimale.
    L'accusa che talvolta circola di preparare coloro che domani saranno pronti all'integrazione nel mondo chiuso e consumista della fabbrica, giovani largamente depoliticizzati e privi di ogni dimensione di solidarietà con gli altri operai... deve far riflettere i responsabili dell'istituzione educativa, per verificare se innegabili vantaggi non corrono il rischio di essere pagati a un prezzo educativo così alto che, tra il resto, riduce alla retoricità anche l'esperienza di fede.
    Una riflessione importante, proprio su questo taglio, va fatta a proposito dei «centri di orientamento professionale» che spesso lavorano in appoggio ai centri di formazione professionale, per verificarne la mentalità dominante, in vista di un serio e oggettivo lavoro di supporto formativo.

    Il mondo del lavoro

    Non basta analizzare attese e realizzazioni che definiscono oggi l' «apprendista» di un tempo. Un serio progetto pastorale deve tener conto anche del luogo in cui il giovane è costretto a vivere.
    Molti motivi suffragano l'affermazione. Ne richiamiamo alcuni:
    * È oggi in tutti chiara la percezione di condizionamento che ci proviene dalle strutture in cui siamo inseriti. Chiudere gli occhi a questa realtà significa condannarsi con le proprie mani all'inefficacia. L'identità e la libertà personale non solo hanno la capacità di modificare l'ambiente in cui si esprimono, ma di fatto ne sono continuamente modificate. La nostra è una libertà «solidale».
    La strada verso la liberazione passa necessariamente attraverso una conoscenza attenta, meditata, dei condizionamenti strutturali che descrivono l'esercizio quotidiano della propria libertà.
    * Se questo è vero, l'educazione non è proposta in vista di un generico adattamento ad un astratto ambiente o sistema di valori.
    Per essere vera e concreta, è indispensabile che il termine di raffronto della persona in fase di maturazione sia quello in cui essa è chiamata ad inserirsi. Educare ad una visione di sé e degli altri senza tener conto delle caratteristiche oggettive di cui «gli altri» sono rivestiti, significa frustrare e svuotare qualsiasi impegno educativo. Se il giovane operaio «dovrà» passare molto del suo tempo nella fabbrica, educarlo significa anche offrirgli una conoscenza precisa, oggettiva di questo mondo.
    * Crediamo alla realizzazione della persona nei termini in cui essa sa prendersi carico dell'ambiente in cui vive, per farne un luogo di liberazione. È in questo concreto ambiente quotidiano che essa gioca la sua identità. La fuga dal quotidiano, per ricercare una realizzazione personale più sulla lunghezza d'onda dello spontaneo o del «tempo libero», comporta, nel nostro progetto, la dequalificazione della realizzazione personale. E questo in chiara prospettiva di fede.
    È quindi indispensabile studiare a fondo il «luogo» del proprio inserimento tecnico, per maturare la capacità di giocare, in questo concreto reale, la propria identità.
    La conoscenza del mondo del lavoro, per un giovane operaio, fa parte dei «contenuti della sua fede»: in presa con essa, la Parola di Dio è proposta di salvezza.
    La conoscenza del mondo del lavoro va condotta lungo le direttrici di un discorso serio e qualificante. Non può essere lasciata alla improvvisazione o al pressapochismo.
    Ci pare quindi importante proporre uno studio capace di comprendere:
    * una precisa descrizione della situazione culturale e strutturale del giovane operaio in fabbrica;
    * una retta analisi strutturale dei problemi del lavoro oggi, tenendo conto, in vista dell'obiettivo della nostra ricerca, di questi dati concreti:
    - dequalificazione professionale nei confronti del posto-lavoro
    - distribuzione dei settori economici
    - uso della manodopera nell'industria (grande e piccola)
    - motivi strutturali per la disaffezione al lavoro
    il tutto in un quadro di analisi globale sulla situazione di divisione del lavoro e relativa parcellizzazione delle mansioni;
    * una descrizione concreta del mondo del lavoro e del movimento operaio, per evidenziare la sensibilità e i valori più ricorrenti, gli aspetti positivi e quelli negativi, le proposte e gli scacchi.

    DAI FATTI AD UN PROGETTO SUI FATTI: LA NOSTRA PROPOSTA

    Un sano progetto educativo e pastorale ha bisogno, per la sua verità, di prendere le mosse dal concreto dei fatti. Su questa realtà, compresa e analizzata nella profondità di cui ogni avvenimento è carico, si innesta la «novità» educativa e pastorale.
    La loro comprensione piena è già un grosso gesto educativo: dare al giovane operaio la capacità di leggere quanto sta vivendo superficialmente significa renderlo persona, «capace di dare un nome alle cose». La comprensione dei fatti è una vocazione all'impegno.
    Agire significa scegliere. Nessun gesto è neutrale: ogni azione è una presa di posizione, in una direzione o nell'opposta. Per raggiungere la gioia di sentirsi responsabile dei gesti compiuti, è necessario far maturare ciascuno di essi nel confronto con un più vasto «progetto di sé», quello spazio interiore in cui ogni persona matura ha iscritto la risposta agli interrogativi più gravi: chi sono - chi voglio essere - che significa per me essere realizzato - che senso ha la mia esistenza?
    In questo «progetto di sé», entra la proposta di fede, come motivo che dà significato radicalmente nuovo ad ogni definizione elaborata. Che rimette quotidianamente in crisi ogni conquista, verso quella definizione di sé-riuscito che combacia con la disponibilità a dare la propria vita per amore, con Cristo e in Cristo.
    Con veloci battute (ripetendo un discorso già scontato per i lettori affezionati), abbiamo indicato i tre momenti di una proposta educativa e pastorale, finalizzata all'integrazione tra fede e vita:
    - lo stimolo ad una lettura attenta e profonda delle proprie esperienze
    - l'elaborazione di un progetto di sé, capace di definire la propria realizzazione
    - la «novità» radicale della fede, all'interno di questa matura visione di sé.
    Sono i tre aspetti che prendiamo in considerazione, per enucleare un progetto pastorale per i giovani operai.
    Dei tanti argomenti che ciascuno apre, sottolineiamo solo quegli aspetti che ci sembrano particolarmente rilevanti in sintonia con l'obiettivo. Per evitare affermazioni parziali è indispensabile che ogni operatore pastorale ed ogni educatore collochi queste analisi nell'insieme dei normali contenuti che caratterizzano ogni progetto educativo e pastorale.

    Una consapevole «coscienza della realtà»

    Tra gli aspetti importanti verso cui convogliare la scoperta della realtà, per i giovani operai, pare indispensabile porre la coscienza della «solidarietà».
    Essa è un fatto, a prescindere dalla sua percezione riflessa. Scoprirla significa «convertirsi» alla verità delle cose.
    «Se va male, va male anche per te. Se si ottiene un buon contratto, se va bene, va bene per tutti: e quindi anche per te!».
    La consapevolezza del fatto impone la voglia di viverlo in modo pieno e responsabile: la solidarietà diventa coscienza di «classe».
    Da questa scoperta nasce l'impegno ad «amare» realisticamente: lottando con gli operai per migliorare la loro sorte e particolarmente quella dei più sfortunati. La comunione reale alla «lotta operaia» è elemento costitutivo dell'educazione nei giovani operai, anche in vista di una loro educazione alla fede.
    Quando invece si giunge, sul fronte dell'educazione, ad una visione moralistica della solidarietà, interpretata come astratta «bontà», «generosità», «disponibilità», la novità della fede non trova spazio, come non ne trova un preciso intervento sulla realtà, in vista della liberazione.
    Dalla riscoperta della solidarietà come «fatto», nasce la disponibilità storica al «sacrificio», alla sofferenza. Chi vuole lavorare per la liberazione, deve pagar di persona: quindi soffrire.
    D'accordo: il lavoro è duro e pesante e ci riporta di getto a riscoprire il senso della croce nell'esperienza quotidiana.
    Ma la riflessione non può terminare così. C'è il rischio di fare discorsi ambigui, strumentalizzando la «teologia della croce» per una passività alienante.
    Il lavoro non è prima di tutto la produzione di pezzi o la ripetizione meccanica di gesti. «Lavorare» è creare spazi di liberazione, in attesa e come premessa alla liberazione definitiva. È quindi l'impegno per rendere il lavoro e l'ambiente della fabbrica meno alienante che diventa indice di sofferenza, perché ci si scontra con la rigidità della ingiustizia e del «peccato».
    La sofferenza «autentica» il lavoro, perché lo fa scoprire nella sua verità-realtà: non più questo o quel gesto meccanico e ripetitivo, ma l'impegno a modificare la condizione in cui si vive, attraverso l'insieme strumentale dei gesti che si compiono e attraverso un impegno più vasto di coscienza globale.
    Il giovane operaio spesso non riesce a cogliere riflessivamente queste istanze. La vita quotidiana, nella sua corsa affannosa, lo cattura. Tocca all'educatore guidarlo a «scendere nel profondo». I «fatti» sono il terreno e il contenuto dell'impegno educativo. Essi diventano «vocazione all'impegno», una volta compresi in tutta la densità di cui sono carichi. Diventa spontaneo - o almeno più facile - interpellare la propria fede, per capire i fatti là dove la ricerca umana resta bloccata nella chiusa spirale di una vuota sufficienza; coinvolgere la propria fede, nell'impegno di far spazio alla liberazione del proprio ambiente; avvertire l'urgenza di un appello filiale all'amore del Padre, sotto il peso della propria fragilità.
    E questo permette un'ulteriore scoperta, ancora verso la verità, anche se ad un livello molto profondo: Dio è padre.
    Troppi giovani operai sono legati ad una catechesi distorta che presenta Dio vicino, come mentalità e come prassi, ai loro «padroni».
    La conseguenza è di far d'ogni erba un fascio, nelle lotte di liberazione: si rifiuta la fede per contestare la dipendenza alienante.
    Un Dio padre, invece, lo sentono più autentico, più «vicino»: la Persona capace di comprenderli, per cui essi sono immensamente importanti. Una persona che non li emargina, mai.

    Lavoro e realizzazione di sé

    Per creare una attesa matura e critica del proprio domani professionale, in rapporto alla realizzazione e al progetto di sé, è importante definire il significato del proprio lavoro.
    Una sensibilità, ancora diffusa in molti ambienti educativi, lega la realizzazione di sé a forme di promozione molto individualistica o la promette solo a livello di tempo libero:
    * in una falsa gerarchia di valori che presenta come persone realizzate soprattutto coloro che si sono fatti strada o occupano posizioni prestigiose;
    * in un verbalismo che pecca di grandi parole utopiche, senza una attenta analisi della situazione sociale nelle sue contraddizioni strutturali;
    * in una proposta pericolosamente evasiva che privilegia alcune professioni su altre o rimanda la realizzazione di sé nel tempo libero o in impegni opzionali;
    * in una riflessione teologica sul significato del lavoro, legata a teologie non rispettose della consistenza del profano o cariche di motivi borghesi e qualunquisti;
    * in una concezione della dimensione etica del lavoro che perde di vista il suo peso sociale per ascrivere la sua moralità alla sola sfera della competenza o della intenzione.
    Sgombrato il campo da alcune concezioni distorte, inizia l'opera importante della costruzione di un corretto rapporto tra lavoro e realizzazione di sé.
    Non è certo un discorso facile, perché entrano in campo problemi enormi, sul fondale di un «tipo» di società che si ipotizza e degli strumenti adeguati per realizzarla.
    Ne abbiamo parlato già a lungo sulla rivista.
    Rimandiamo quindi agli studi fatti, soprattutto nel contesto del «piano
    redazionale», riportato in 1973/10. Sono in cantiere «interviste» a chi sta pagando di persona, in settori diversi, per dare un taglio non utopico al tutto.

    L'annuncio della fede

    Molto di quanto è stato precedentemente ricordato è sulla sponda dell'umano, o, se si preferisce, dell'implicitamente cristiano. Era indispensabile preparare il terreno e progettare un nuovo modo di essere che permetta alla fede di integrarsi nella vita.
    Anche i giovani operai hanno però «diritto» ad un annuncio esplicito, per ritrovare in esso la consapevolezza che la loro esperienza di impegno storico è di fatto «esperienza di Dio»: vita di fede.
    Il momento dell'annuncio esplicito è di importanza notevole, non solo per i contenuti che devono essere privilegiati, ma per il metodo pastorale con cui essi sono posti in circolazione.
    Anche su questo tema, sulla rivista è già stato scritto molto, e con taglio preciso (soprattutto nella parte più strettamente pastorale della monografia 1972/6-7 e della proposta di Mons. Ancel, 1974/3).
    Su questa falsariga può essere adeguatamente ritagliato ogni impegno esplicitamente pastorale, con i giovani operai.
    Per quanto riguarda invece il metodo, ci pare significativo riproporre a pieno titolo il metodo della GiOC che, tra l'altro, ripercorre le linee della «revisione di vita», sul cui stile anche la rivista ha impostato ogni proposta di pastorale giovanile (sulla rivista ne abbiamo parlato soprattutto in 1972/6-7 e 1972/11).

    I PUNTI-FORZA PER LA REALIZZAZIONE DEL PROGETTO

    Una preoccupazione conclusiva, certo non irrilevante.
    Quali sono i punti-forza da privilegiare per realizzare il progetto educativo e pastorale che abbiamo elaborato?
    Non potevamo dare risposte, solo sull'onda delle intuizioni. C'era rischio di fare un discorso astratto e irrealizzabile, proprio quando tutta la preoccupazione è verso il concreto.
    Per questo abbiamo preferito metterci in ascolto di esperienze.
    In questa fase di sintesi ne facciamo solo un veloce elenco, con la speranza di riprendere le affermazioni attraverso la presentazione, sulle pagine della rivista, di «materiale» già sperimentato.

    Contatti operativi con le forze presenti nel mondo del lavoro

    L'educatore, nonostante la gran buona volontà di cui è dotato e lo sforzo di attenzione e di aggiornamento che gli sta a cuore, è generalmente «tagliato fuori» nei confronti della realtà del mondo del lavoro. L'ambiente in cui vive, la sua preparazione professionale, le sue normali attività, non favoriscono certo un contatto reale con la fabbrica.
    L'ambiente educativo stesso è ben lontano da riprodurre la condizione del mondo del lavoro. E non sono certo sufficienti alcuni interessanti accorgimenti: libretto di lavoro, cartellino da timbrare...
    Che nel Centro professionale non ci sia il clima della fabbrica non è un male. Anzi. Ma c'è il rischio di un'educazione in vitro, priva di un reale contatto.
    Sia per gli educatori che per i giovani in fase di educazione, diventa quindi indispensabile progettare contatti «operativi» con persone provenienti «realmente» dall'ambiente di lavoro.
    Inizialmente possono essere utili incontri e dibattiti con operai (sindacalisti e politici). Curare una retta informazione sindacale e politica. «Visitare» criticamente luoghi di lavoro.
    Un contatto vero lo si realizza però soltanto quando l'ambiente educativo assume una precisa «collocazione storica», individuando la non neutralità degli strumenti educativi utilizzati, creando una valutazione sui valori che tenga conto esplicitamente di scelte globali fatte a monte (scelte per-con i poveri, per esempio), controllando i modelli che riscuotono approvazione sociale all'interno dell'istituzione e i vari atteggiamenti a cui spinge l'educazione indiretta, determinata dal clima che si respira. A questo livello di reale «compromissione» il contatto è non retorico e quindi capace di veicolare quei contenuti educativi e pastorali di cui si è parlato in precedenza.

    Collegamento con movimenti impegnati

    Per la maggior parte dei giovani sarà sufficiente mettere in cantiere un piano educativo «minimo», destinato ad una iniziale presa di consapevolezza della dimensione «umanizzante» dell'educazione e della fede, in reciproca integrazione.
    Coloro che hanno più sensibilità e maggior disponibilità vanno «trattati» con una proposta educativa e pastorale più ampia, capace di coinvolgerli in un servizio di liberazione, per gli altri e per il proprio ambiente.
    Tutto questo non può essere fatto con le sole parole.
    Sono le esperienze («guidate», evidentemente) che permettono una circolazione significativa di valori.
    Per coerenza a quanto espresso ci pare utile ipotizzare due livelli esperienze cui partecipare:
    * un livello operativo-tecnico (attraverso la partecipazione a iniziative sindacali e politiche), per raggiungere una collocazione tecnica;
    * un livello di sensibilizzazione di fede (attraverso la partecipazione a movimenti specializzati: si pensi, per esempio, alla forza di proposta della GiOC, e con la frequente utilizzazione del metodo della «revisione di vita», per incontri, riunioni di riflessione e di progettazione) per qualificazione cristiana.

    La cultura come riflessione critica

    Uno spazio educativo davvero privilegiato è quello della «scuola di educazione civica», prevista nei programmi formativi dei Centri professionali.
    I programmi ministeriali non danno norme istituzionali: c'è la possibili di un largo movimento spontaneo.
    Questi incontri possono quindi diventare un momento importante p guidare ad assumere criticamente il contesto culturale e sociale in c si vive, utilizzando lo spazio e la struttura scolastica per uno sguardo d'insieme più ampio (analisi storica e geografica, per esempio).
    Molti nuovi contratti di lavoro prevedono un «tempo retribuito» destinato alla riqualificazione. Sono in fase di elaborazione presso le centrali sindacali contenuti interessanti, per una prima utilizzazione della conquista. Un raccordo, di informazione e di prassi, si pone come davvero arricchente.
    Quando la cultura è gestita in pieno servizio di umanizzazione diventa facile l'integrazione con la fede, come «risposta rivelata» ai molti problemi aperti.
    Un discorso simile, ma tuttora aperto per la carenza di esperienze stimolanti, è quello relativo alla dimensione formativa della «tecnica». Rifiutare la sua neutralità significa, tra l'altro, preoccuparsi di una sua funzionalizzazione educativa, pur nel pieno irrinunciabile rispetto della sua autonomia e consistenza. E questo è proprio... tutto (o in parte) c inventare.

    Globalità ma in un sano realismo di crescita

    Un'ultima istanza ci pare importante ricordare, per stimolare gli educatori a farla oggetto di riflessione e di studio.
    Soprattutto il giovane operaio, ha un gran bisogno di essere educato ad una visione globale: dei problemi e degli interventi con cui intende risolverli. Il frammentarismo educativo è un grosso disastro, perché prepara a viaggiare unicamente sulle ali dell'emotività, spostando bandiera ad ogni soffio di vento.
    La dimensione di globalità non può però risultare sempre evidente nel momento della crescita del giovane. La sua maturazione non è fatta, normalmente, in una direzione unica. È spesso un crescere a sbalzi, a zig-zag, passando da entusiasmi fortissimi a momenti di abbandono, da impegni che sembravano cristallizzare tutta la persona a improvvisi cambi di rotta, da corsi e ricorsi frequenti.
    La globalità deve diventare respiro normale dell'educatore: in lui la visione sull'insieme non può essere sfumata o fatta di pressapochismi. Soprattutto deve diventare respiro della «comunità educativa», per permettere il reale arricchimento che le proviene dai singoli educatori e dai singoli giovani, i quali, a titoli diversi, vivranno sempre alcuni aspetti dell'unico grande progetto educativo, in forma privilegiata.
    L'istanza di globalità, corretta da quel sano realismo di crescita di cui si è parlato, è la definizione più attenta di educazione: l'assunzione a pieno titolo dello spontaneo movimento giovanile, per favorire lo sviluppo degli aspetti carenti, il confronto di quelli invece emergenti, attraverso la preoccupazione costante di integrare gli uni e gli altri in un quadro d'insieme preciso e organico.
    Questo vale a proposito di:
    - integrazione tra fede e vita, nel progetto educativo;
    - presentazione delle mete educative: mete ultime e a lunga gittata, accanto a mete intermedie, di facile raggiungimento;
    - complessità dei fattori educativi da tenere in evidenza, pur nella inderogabile urgenza di decidere qui-ora che fare in concreto;
    - rapporto operativo tra azione e riflessione, tra attività e momenti di ripensamento.
    Dal punto di vista dei contenuti, ci pare importante indicare alcuni aspetti che riteniamo centrali, nell'educazione del giovane operaio, proprio in vista della «globalità» matura della sua crescita.
    - L'attenzione educativa va centrata sull'uomo-che-lavora:
    sulla persona, cioè, e non solo sul «lavoratore», una persona però «situata» storicamente e quindi che-lavora, qui-ora.
    Questo significa evitare il rischio o di sottovalutare l'ambiente di lavoro, in cui il giovane sarà inserito, i condizionamenti che da esso provengono, creando una proposta educativa astorica e priva di ogni mordente concreto; oppure il rischio di dimenticare per strada la persona, capace di realizzazione anche all'interno di grossi condizionamenti, per giungere solo alla sua strumentalizzazione in vista del «riscatto sociale».
    L'accento sulla persona è esigenza di realismo, se questo accento continuamente si accompagna alla consapevolezza dell'influsso che gli deriva dall'ambiente ove vive e lavora.
    È un discorso davvero importante, quello cui abbiamo accennato.
    Molta dell'educazione vissuta un tempo era tanto impersonale e stemperata, da non prendere in seria considerazione il peso del clima che si era poi costretti a respirare quotidianamente. Si formava... l'uomo «metafisico», sconfessato dal primo impatto concreto.
    Oggi la tentazione è sulla sponda opposta. La consapevolezza del peso dei condizionamenti e la sensibilità alla liberazione, possono condurre a dimenticare la centralità della persona, per ridurla a «massa da manovra», a deterrente sociale, bloccando la crescita degli interessi ai soli legati al mondo della fabbrica.
    - A questo proposito, ci pare di notevole peso educativo guidare il giovane operaio a cogliere l'esistenza di interessi e di collegamenti più vasti di quelli vissuti nell'ambiente di lavoro, proprio perché sono spesso questi «più vasti» che condizionano gli altri. Si pensi, solo per esemplificare, alla spirale del consumismo, vissuta fuori dalla fabbrica, ma determinante freneticamente il ritmo del lavoro.
    Da questa nuova coscienza più globale potrà nascere una matura opzione politica (nel senso più ampio del termine), decisa ad intervenire sui punti nodali per una inversione di marcia del sistema.
    In questa mentalità nuova, potrà nascere la «vocazione» ad un servizio nell'educazione dei piccoli, avvertito come spazio politico, non in alternativa al duro mondo del lavoro.
    E, se non altro, cesserà la triste usanza di «scomunicare» coloro che compiono gesti di servizio diversi da quelli che uno ha programmato come «sua scelta».
    - Diventa educazione alla globalità anche la preoccupazione di armonizzare
    (sia nel momento strettamente educativo che nel resto del tempo vissuto) le varie «istituzioni» in cui ciascuno è inserito e da cui, negativamente e positivamente, si è condizionati.
    Si pensi, per esempio, al «peso» della famiglia, alla partecipazione ai gruppi giovanili d'impegno, al servizio in strutture ecclesiali, sindacali o politiche.
    Educazione alla globalità significa ricerca continua e matura di una armonia interna di partecipazione, evitando la totalizzazione di una esperienza a scapito del resto (un pansindacalismo può svuotare la responsabilità familiare; troppi impegni in gruppi spontanei privano della possibilità di una presenza significativa in quelli necessari; un affanno di impegni toglie la possibilità della qualificazione permanente; la riduzione della famiglia a «oasi verde» svuota ogni serio impegno alternativo...). L'educazione a questa reciproca armonizzazione non può essere fatta in termini retorici. Nel momento del cammino educativo queste «componenti» devono avere uno spazio adeguato. Si tratta di un collegamento a livello di valori, che sul piano strutturale diventa, nel Centro professionale, la «gestione sociale».

    Oggi per domani: gli atteggiamenti

    Una attenzione tutta particolare va portata al grosso fatto educativo degli «atteggiamenti». Non vogliamo ripetere in questo contesto un discorso già fatto diffusamente altrove (cf 1973/8-9: «atteggiamenti per un'educazione all'amore integrata nella vita»).
    Se è vero però che «il domani si prepara nell'oggi o, meglio, si vive nell'oggi», e gli atteggiamenti descrivono le tonalità di questo quotidiano «oggi», il tema è di importanza capitale.
    Si tratta di impiantare il clima educativo nel momento della formazione professionale tenendo in preciso conto lo stile verso cui tendere.
    L'insieme della proposta che abbiamo elaborato descrive una matura presenza nel mondo del lavoro, da cui è facile assumere le istanze da trasferire nell'oggi (si pensi, solo per esemplificare, alla solidarietà, alla progettazione di sé legata alla capacità di assumersi precise responsabilità nella «liberazione», alla integrazione tra fede e vita nelle piccole cose di tutti i giorni, alla capacità di assumersi precise responsabilità nella «liberazione», alla integrazione tra fede e vita nelle piccole cose di tutti i giorni, alla capacità di intessere i gesti, grandi e banali, del quotidiano di quella sensibilità che percorre il vangelo).
    L'ambito della ricerca è vasto: dal fondale di un progetto d'uomo umanamente e cristianamente «maturo» vanno derivate quelle disponibilità pratiche all'azione che permettano il raggiungimento facilitato della meta, nel qui-ora del giovane operaio.
    Si tocca, a questo livello, uno dei punti discriminanti del discorso educativo.

    DALLA PARTE DELLA DONNA

    Tutto il lungo discorso condotto fino a questo punto era decisamente indifferenziato, tanto da poter essere adeguato al mondo femminile come a quello maschile.
    Di fatto, però, i problemi relativi alla professionalizzazione sono spesso tradotti al maschile. E questo vizio di origine percorre anche le nostre pagine.
    Non possiamo concludere con questa dichiarazione di accusa.
    Per progettare un vero servizio pastorale riteniamo importante evidenziare anche i problemi che si riferiscono esplicitamente all'inserimento della donna nel mondo del lavoro e quindi alla sua formazione professionale, rimandando, qui come altrove, agli sviluppi successivi, sulle pagine della rivista.
    La donna, che faticosamente è riuscita a dimostrare di possedere capacità e attitudini non inferiori a quelle dell'uomo, dal punto di vista legislativo ha ottenuto molto e, fra l'altro, la penetrazione in campi di lavoro prima di esclusiva competenza maschile.
    Praticamente, però, non si è raggiunto sui fatti ciò che in teoria è ora pacifico. Il mondo femminile è tuttora legato e condizionato da modelli di vita ancorati al passato, che non permettono alla donna di maturare se stessa nella dimensione che la società le prospetta. Di qui la difficoltà pratica di ingresso della donna in campi teoricamente a lei aperti.
    I condizionamenti sono di tipo «culturale», legati cioè non prima di tutto al fatto «lavoro», ma alla definizione corrente di «donna». Una grossa responsabilità va riconosciuta ai modelli fatti circolare dai mezzi di informazione a largo consumo. Ma non solo. Qualche volta è l'insensibilità maschile che determina la posizione culturale femminile. Da questa immagine si ritaglia poi il rapporto donna-lavoro e la scarsa sensibilità verso impegni a carattere sociale della donna che lavora.
    Anche la formazione professionale femminile subisce questo condizionamento. Infatti si rivolge alla donna per offrirle, prevalentemente, mansioni o attività impiegatizie, e non considera tutta la gamma di impegni tecnici come altrettanti campi dai quali emergono possibili ruoli della donna. Anche le forze muscolari che fino a poco tempo fa erano elemento di discriminazione di sesso, nell'incremento della civiltà industriale non sono più fattori determinanti i ruoli di esclusivo accesso agli uomini. Questo insieme di acquisizioni dovrebbe contribuire ad eliminare ogni differenziazione fra i sessi, per quanto riguarda le mansioni, la remunerazione e, soprattutto, la promozione. La scienza e l'industrializzazione possono ormai consentire alla donna di assumere la maggior parte delle responsabilità che fino ad oggi si reputavano riservate agli uomini. Un altro problema riguarda la necessità di una impostazione dei corsi di formazione professionale femminile, che tenga conto non solo dell'addestramento tecnico, ma di una formazione completa della donna lavoratrice.
    E questo ripropone i temi formativi di cui abbiamo parlato a lungo nelle pagine che precedono.

    EDUCARE I GIOVANI OPERAI: UN IMPORTANTE IMPEGNO POLITICO

    A conclusione del lungo lavoro redazionale, è affiorata una convinzione in termini molto precisi: l'impegno educativo con i giovani operai è una importante, gioiosa, vocazione politica, per la liberazione.
    Il giovane operaio si trascina una coscienza di frustrato: si sente, anche se non sempre trova le parole adeguate per esprimerlo, un emarginato destinato ad una emarginazione crescente.
    Scegliere come servizio educativo il contatto con essi è quindi una chiara scelta di «reali» poveri. Poveri di fatto: a livello strutturale.
    Lavorare per essi è operare una precisa scelta di classe: è essere con e per i poveri. In vista della comune liberazione. Perché stare con i poveri è lavorare per la personale liberazione, proprio nei termini in cui si lotta per l'altrui.
    Liberazione del giovane operaio significa, nel contesto di questa nostra proposta, ricostruire in lui e con lui la consapevolezza della propria dignità. Non sul «mestiere» appreso bene. Non sulla possibilità di quella promozione individuale che sa tristemente di fuga dalla solidarietà operaia, di arrampicatura, per lasciare gli altri ad annaspare nei loro drammi. La dignità del giovane operaio sta nella coscienza di essere «persona»nella-condizione-operaia, chiamato ad una lotta per trasformare il proprio ambiente, per «liberare» altri. Tutti.
    Se è vero che la liberazione comincia dalla scoperta che attorno a me esistono altri più poveri di me, al cui servizio ripiegarmi, per la cui liberazione lottare. Fino alla morte, per amore.
    L'educatore del giovane operaio è il profeta di questa coscienza. L'annunciatore e il testimone di un progetto «alternativo» di realizzazione di sé. Educatore della fede nei termini in cui apre a questa responsabilità, ne rivela l'intima connessione con il mistero della Pasqua di Cristo presente nella storia, ne dà quotidianamente un rinnovato spessore di fede, «rassicurando tutti i fratelli impegnati nella lotta per la liberazione che il loro comportamento, la loro ansia è già Chiesa, perché è presenza viva di Cristo e della sua fraternità: e che allora l'amicizia che la Chiesa visibile offre è l'annuncio gioioso che Cristo è in loro» (Mons. Bettazzi).


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    p a g i n A


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